        Erano ancora gli anni del gemellaggio, tra le tifoserie della Roma e del Napoli; quando il calendario metteva di fronte le due compagini, pi&ugrave; che trasferte andavano in scena veri e propri esodi, in su o in gi&ugrave;, lungo quei duecento chilometri d'amicizia. Preistoria, non tanto in senso cronologico quanto in rapporto a quello che &egrave; oggi il clima fortemente ostile tra i sostenitori partenopei e quelli giallorossi. L&rsquo;Olimpico e Maradona Quel 28 aprile del 1985, in particolare, allo Stadio Olimpico si verific&ograve; una sorta di epifania: per la prima volta i tifosi romanisti ebbero l'occasione per ammirare Diego Armando Maradona dal vivo. Era arrivato a Napoli nell'estate del 1984 e il rapporto, subito simbiotico, con la sua nuova tifoseria, quando il Napoli affrontava una trasferta si faceva ancora pi&ugrave; viscerale, pi&ugrave; sanguigno. Gi&agrave; da molto prima del fischio d'inizio delle 15.30, quella tipologia di amore incondizionato avevano cominciato ad ammirarla anche i tifosi romanisti padroni di casa - anche se mezzo stadio quel giorno era appannaggio dei sostenitori azzurri - e il riscaldamento di Maradona fu la prima occasione per godersi un avversario che, in ragione della propria grandezza, non sarebbe mai potuto diventare un nemico.Nonostante in quella stagione Roma e Napoli non stessero disputando un grande campionato, come alla fine testimoniarono anche i rispettivi piazzamenti, ossia settima e ottava, quel giorno l'Olimpico presentava la cornice delle grandi occasioni e un impatto cromatico che oggi sarebbe un benefit anche per Sky e DAZN. 1-1 sul campo&nbsp; La Roma di Eriksson, anche per tentare di fare un regalo alla propria tifoseria nella giornata che potremmo definire un vernissage di prestigio, profuse ogni energia utile per provare a vincere la partita: soprattutto Bruno Conti, galvanizzato dal duello tra fantasisti con Maradona, ma anche Cerezo, Giannini, Di Carlo tentarono la via della porta. Da parte sua, il Napoli di Marchesi ogni volta che riusciva a ripartire offriva a Maradona la possibilit&agrave; di una percussione che era uno spettacolo anche per i romanisti, in casa loro. Verso lo scadere del primo tempo, al minuto 40 per la precisione, Daniel Bertoni per vie centrali decise di assecondare la fuga di Maradona sulla destra, il quale premi&ograve; il connazionale con la palla dello 0 - 1. Boato per mezzo Olimpico, anche se la parte restante dello stadio dovette attendere soltanto due minuti per assistere al raggiungimento del pareggio, che la Roma trov&ograve; grazie a una sfortunata autorete di Dal Fiume.Fu cos&igrave; che and&ograve; nella prima occasione in cui Maradona e la Roma si guardarono negli occhi. &nbsp;       

Quel 28 aprile fu la prima volta in cui i tifosi romanisti videro dal vivo El Pibe de Oro. In campo fin&igrave; in parit&agrave;

Roma-Napoli 1985 : "Ho visto Maradona"

        La faccia che proprio lasciava trasudare la fatica, i chilometri corsi ogni partita alle calcagna dell'avversario pi&ugrave; pericoloso, le vittorie come giusta ricompensa: Nando De Napoli non &egrave; mai stato un calciatore appariscente, ma ovunque abbia giocato ha lasciato il segno, dalla profonda provincia del sud fino alla maglia della nazionale. &nbsp; De Napoli gambe e polmoni per Maradona  Pochi calciatori hanno rappresentato un ruolo anche col corpo, materialmente, come Nando De Napoli, uno di cui si pu&ograve; dire che davvero ce l'ha fatta, perch&eacute; da Chiusano di San Domenico, Irpinia profonda, al San Paolo di Napoli e poi ai grandi palcoscenici incluso un paio di mondiali da titolare con l'Italia, non &egrave; proprio da tutti. De Napoli che a 19 anni, nel 1983, &egrave; gi&agrave; in Serie A, con il "suo" Avellino, la squadra di casa. Se nei libri di storia del pallone nostrano esiste la "Legge del Partenio", quelle incredibili partite in cui anche le big venivano a giocare dai biancoverdi e rimediavano sconfitte anche pesanti, il merito &egrave; stato anche di quel gruppo che travolgeva chiunque per entusiasmo.    In mezzo, a remare, instancabile corridore dai piedi comunque discreti, Fernando "Nando" De Napoli. Con lui un altro grande "polmone di centrocampo" come Angelo Colombo, poi davanti ci pensa Ramon Diaz, servito magari da Franco Colomba. Arrivano le salvezze tutto sommato tranquille ma soprattutto i radar delle big, chi arriva per primo sui gioielli dell'Avellino vince: e come chilometraggio nessuno &egrave; meglio posizionato del Napoli, che sceglie Nando come gregario di lusso per la squadra dove ormai &egrave; Maradona la stella assoluta. L'estate del 1986 &egrave; doppiamente indimenticabile per De Napoli, titolare anche in nazionale nello sfortunato mondiale del 1986, l'Avellino in Messico sembra quasi uno scherzo e invece non lo &egrave;: Bulgaria, Argentina, Corea del Sud e Francia, Nando c'&egrave; sempre anche se la spedizione finisce male.&nbsp;   &nbsp; Scudetti e rimpianti  Al Napoli saranno sei anni formidabili, in cui Nando si sdoppia per Maradona ma in generale &egrave; l'anima di una squadra dalla qualit&agrave; offensiva a tratti imbarazzante, la Ma-Gi-Ca (Maradona-Giordano-Carnevale e poi Careca) e dietro quantit&agrave; e qualit&agrave; con De Napoli, Bagni e i nomi dello scudetto del 1987, il primo nella storia degli azzurri. Del resto Nando &egrave; anche "Rambo", uno di quelli disposti a tutto per aiutare le stelle della squadra, anche in nazionale, quel bellissimo gruppo che sogna in grande sia all'Europeo del 1988 che al Mondiale di casa, Italia '90, il grande rimpianto di un'intera generazione che comunque si &egrave; mantenuta in contatto nel corso degli anni. Per il commissario tecnico Azeglio Vicini tuttavia De Napoli &egrave; assolutamente intoccabile.    Meno male che nel 1990 il Napoli rivince lo scudetto, sempre con "Rambo" titolare inamovibile. L'anno precedente, poi, era arrivata anche la Coppa Uefa, tripudio anche a livello internazionale per Maradona e tutti i suoi scudieri, qualcuno davvero di lusso. Nel 1992 con il Napoli un po' in crisi a livello economico ecco la chiamata del club pi&ugrave; ricco e pi&ugrave; forte, il Milan di Silvio Berlusconi: &egrave; un'epoca quella in cui il Diavolo accatasta grandi nomi per creare una rosa gigantesca, antesignana del turnover massiccio di epoca recente. De Napoli per&ograve; si ritaglia uno spazio minimo nonostante altri due scudetti e una Coppa Campioni pur disputando scampoli di partita, due nello specifico nell'edizione trionfale 1993-94. Il chilometraggio nelle gambe a quel punto &egrave; gi&agrave; robusto, quindi &egrave; inevitabile un ritiro a un'et&agrave; che oggi rappresenta la piena maturit&agrave; di un calciatore, a 33 anni, nel 1997, con la maglia della Reggiana.&nbsp;         

Avellino e Napoli soprattutto, poi la nazionale: la carriera ricca di successi di un grande gregario del nostro calcio

Nando De Napoli, la fatica vincente del centrocampo

        &laquo;Qual &egrave; il mio primo ricordo dell&rsquo;esperienza europea al Napoli? Che abbiamo fatto molto meno di quello che potevamo fare. E questo, a distanza di anni, rappresenta per me un grandissimo rimpianto&raquo;. Massimo Mauro ha vestito la maglia azzurra dal 1989 al 1993, portando a casa uno scudetto e una Supercoppa italiana. Ha giocato al fianco di Maradona, vivendo alcuni tra gli anni pi&ugrave; belli ed esaltanti della storia del club. &laquo;In quegli anni il Napoli era una grandissima squadra, ma ha espresso la sua grandezza solo in Italia. In Europa non siamo riusciti a lasciare il segno, nonostante ne avessimo tutte le possibilit&agrave;. Sono accaduti anche tanti episodi molto particolari&raquo;. Quali ad esempio?&laquo;Ricordo la trasferta in Coppa dei Campioni contro lo Spartak Mosca. Era il secondo turno. Diego non venne con noi, arriv&ograve; in un secondo momento e and&ograve; in panchina. Non stava bene. Furono due partite molto equilibrate, terminate entrambe sullo 0-0. Il match di ritorno lo giocammo sotto la neve, in condizioni terribili. Eppure facemmo una buonissima gara&raquo;. Perch&eacute; Diego Maradona inizi&ograve; dalla panchina?&laquo;Ti racconto cosa avvenne: Diego non venne con noi, non part&igrave; con la squadra. Arriv&ograve; per i fatti suoi la notte precedente alla gara e alle quattro di mattina, con noi che non dormimmo praticamente mai. Si discusse a lungo se fosse il caso di farlo giocare, oppure no. Fu una vera sceneggiata, degna dei migliori autori cinematografici. Quell&rsquo;anno era difficile fare i professionisti fino in fondo. Ci siamo trovati spesso in situazioni di questo tipo. Moggi e Ferlaino non vollero far giocare dall&rsquo;inizio Maradona. &Egrave; stato giusto? Ognuno potr&agrave; giudicare&raquo;.    Maradona entr&ograve; nella ripresa e segn&ograve; uno dei rigori. L&rsquo;errore decisivo fu di Baroni.&laquo;Peccato. Sul campo, nonostante tutto, non meritammo di uscire. Giocammo una buonissima gara, nonostante le tante difficolt&agrave;. Come dicevo, in quegli anni in Europa non riuscimmo a ripetere gli ottimi risultati ottenuti in campionato&raquo;. La stagione precedente veniste eliminati in Coppa Uefa dal Werder Brema...&laquo;Andammo a giocare in Germania in condizioni terribili, con diversi assenti e infortunati. Io giocai con un&rsquo;infiltrazione alla caviglia. Ma alla fine, forse, fu meglio cos&igrave;: perch&eacute; quell&rsquo;anno ci concentrammo sul campionato e vincemmo lo scudetto&raquo;. Il Napoli non riusc&igrave; a ripetersi in Europa, nonostante la spinta di uno stadio che sapeva trascinare come pochi.&laquo;Non voglio sminuire il presente, perch&eacute; anche oggi il pubblico del Napoli &egrave; molto caloroso e vicino alla squadra, ma in quegli anni il San Paolo era qualcosa di unico. Mai visto un ambiente cos&igrave;: tremavano tutti quando si entrava nell&rsquo;impianto napoletano. Forse per la presenza di Maradona, ma lo stadio era sempre una bolgia. Adesso speriamo che contro il Barcellona si crei un&rsquo;atmosfera simile&raquo;. Il Napoli ha chance di passare il turno?&laquo;Giocare contro il Barcellona &egrave; una grande opportunit&agrave;. Questo turno ti pu&ograve; permettere di accantonare le difficolt&agrave; iniziali e scrivere una nuova storia. Questa &egrave; un&rsquo;occasione unica per i calciatori, che possono allontanare ci&ograve; che &egrave; successo fino a oggi e realizzare un&rsquo;impresa. Si giocher&agrave; su 180 minuti e l&rsquo;importante non &egrave; tanto battere la squadra di Xavi, ma fare due prestazioni intelligenti che consentano di passare il turno&raquo;.    Come si batte il Barcellona?&laquo;Con intelligenza, umilt&agrave; e in velocit&agrave;. Gli spagnoli giocano con la difesa alta e sar&agrave; importantissimo cercare di andare nello spazio e provare a prenderli in contropiede. Non mi stupirei se il Napoli lasciasse al Barcellona il pallino del gioco. Ma a quel punto deve essere in grado di ripartire alla grande&raquo;. Per come la sta descrivendo, sembra la partita ideale per Kvaratskhelia.&laquo;Ha velocit&agrave;, forza, intelligenza ed &egrave; bravissimo sia nei recuperi, che nell&rsquo;andare senza palla a dettare il passaggio in profondit&agrave;. Gli manca forse soltanto una cosa: capire i tempi giusti nei quali sfruttare le sue armi. Se fa questo switch mentale, diventer&agrave; ancora pi&ugrave; forte&raquo;. Vale anche per Osimhen?&laquo;Per quello che ho visto quest&rsquo;anno, Osimhen deve tornare ad essere quel professionista esemplare che era diventato con Spalletti. I leader, capiscono i momenti delle partite, evitano proteste inutili e plateali, non sbraitano quando un compagno sbaglia un cross. I leader danno il buon esempio, sono un riferimento per i compagni. Lo scorso anno &egrave; stato perfetto, ma sia l&rsquo;anno precedente al titolo, che questo, ha avuto delle battute d&rsquo;arresto. Forse avranno inciso gli infortuni, le vicende contrattuali, ma in questa stagione non si &egrave; visto il vero Osimhen. Se torna leader, &egrave; uno degli attaccanti pi&ugrave; forti al mondo&raquo;. Chiudiamo con un giochino: pi&ugrave; forte il Napoli dell&rsquo;ultimo scudetto, o il vostro, che vinse il titolo nel 1990?&laquo;Il nostro&raquo;. Quali giocatori di oggi, sarebbero stati titolari nel vostro Napoli?&laquo;Difficile dirlo: con un pizzico di presunzione sarei portato a dire nessuno. Se penso agli italiani che giocavano nella nostra squadra e agli stranieri, credo che quel gruppo fosse fortissimo. Quello era un Napoli nel quale io, Zola, Carnevale, rischiavamo di stare in panchina. Tanto &egrave; vero che ha vinto lo scudetto contro il Milan pi&ugrave; forte della storia. Di Lorenzo lo scorso anno ha fatto un campionato pazzesco, ma lo preferiresti a Ferrara? Sostituiresti Francini con Mario Rui? Forse Kim con Baroni, ma Marco fece un grande anno e segn&ograve; il gol scudetto. Anche davanti, Osimhen &egrave; fortissimo, ma noi avevamo Careca. Diciamo una cosa: auguro al Napoli di oggi di fare meglio in Europa rispetto a quanto facemmo noi. Iniziando dal Barcellona&raquo;.       

&laquo;Il Napoli giocava a Mosca in Coppa dei Campioni e Diego arriv&ograve; tutto solo all&rsquo;alba, Moggi e Ferlaino decisero di lasciarlo fuori&raquo;

Massimo Mauro: «Vi racconto quella notte di Maradona»

        Gli anni Ottanta segnarono uno spartiacque nella storia italiana del XX secolo. Furono il nuovo orizzonte a cui puntare lasciandosi alle spalle anni di contestazione e violenza armata che aveva insanguinato il Paese. Anni di proiezione verso un futuro che il sentire collettivo presagiva essere diverso, pi&ugrave; tecnologico, fondato su nuovi equilibri che anche nel mondo del calcio andavano definendosi. Gi&agrave;, perch&eacute; fu proprio all&rsquo;alba di quel decennio che ai vertici della serie A fecero capolino squadre, come Napoli e Roma, che negli anni seguenti avrebbero messo in discussione, fino ad usurparlo, il trono che le squadre del nord erano solite spartirsi tra loro. In particolare la Juventus era stata la regina quasi incontrastata degli anni Settanta e l&rsquo;esame di ammissione nell&rsquo;alta societ&agrave; del calcio italiano doveva per forza passare al suo vaglio.   &nbsp; Percorso azzurro La salita ai vertici del campionato per il Napoli cominci&ograve; nella stagione 1980-81, annata nella quale i partenopei, insieme alla Roma, misero fino all&rsquo;ultimo in discussione il ritorno al titolo dei bianconeri. Il 25 gennaio 1981 gli azzurri andarono a Torino appaiati ai torinesi in classifica al terzo posto, a due soli punti dalla vetta. Era il Napoli che Rino Marchesi guidava con saggezza sulle solide fondamenta costituite da Castellini, Bruscolotti, Ferrario e Krol in difesa. Marangon scendeva sulla sinistra, Damiani e Pellegrini concretizzavano il lavoro di Vinazzani, Guidetti e Nicolini. Gi&agrave; al 2&rsquo; Pellegrini port&ograve; in vantaggio il Napoli, che nella ripresa fu raggiunto da un gol di Tardelli al 13&rsquo;. Il duello and&ograve; avanti fino alla penultima giornata, quando proprio a Napoli la Juventus, vincendo, fece l&rsquo;allungo decisivo per vincere il suo diciannovesimo titolo. Quella squadra sembrava poter aprire un ciclo. Invece, dopo il buon quarto posto della stagione successiva, arrivarono due anni piuttosto tormentati, nei quali gli azzurri si ritrovarono spesso nei bassifondi della classifica e le trasferte a Torino si tramutarono in sconfitte indiscusse (3-0 nel 1982-83, 2-0 nel 1983-84). Anche nel primo anno dell&rsquo;era Maradona salire al Comunale non fu piacevole: Briaschi e Platini stesero i partenopei in una partita che significava poco per la classifica, con i bianconeri proiettati alle conquiste internazionali (quell&rsquo;anno vinsero Supercoppa Europea e Coppa dei Campioni) pi&ugrave; che sulle vicende del campionato, che per quell&rsquo;anno decisero di trascurare. &nbsp;   La scalata alla Serie A L&rsquo;assalto alla nobilt&agrave; che rappresentava la Vecchia Signora si fece pi&ugrave; pressante a partire dalla stagione 1985-86. Alla ventiquattresima giornata (9 marzo 1986) la Juventus &egrave; stabilmente prima ma deve guardarsi le spalle dalla prodigiosa rimonta che la Roma sta mettendo in atto. Il Napoli &egrave; terzo, con ben nove punti di distacco dai bianconeri ma una sua vittoria, oltre che consolidare la posizione di classifica, potrebbe aiutare i giallorossi ad avvicinarsi ulteriormente a Platini e compagni. Che, in effetti, passano un brutto quarto d&rsquo;ora a cavallo delle due frazioni di gioco, perch&eacute; al 34&rsquo; uno sfortunato colpo di testa di Favero su battuta di Maradona inganna Tacconi e porta il Napoli in vantaggio. Bisogna aspettare il 4&rsquo; della ripresa perch&eacute; Brio, su appoggio all&rsquo;indietro di Bonini, con un diagonale preciso sul palo alla destra di Garella, faccia passare la paura che era calata sullo stadio sabaudo. Dopo otto mesi esatti (9 novembre 1986) la sfida si ripropone. La Juventus, noblesse oblige, &egrave; sempre in vetta. Ma la distanza siderale con cui i partenopei si erano presentati a Torino la stagione precedente &egrave; scomparsa: Maradona &amp; C. sono appaiati ai bianconeri in testa alla classifica con 12 punti. La gara si presenta come una sorta di spareggio che possa dare un orientamento sul futuro della stagione. Le due squadre ci arrivano con agitazioni diverse da gestire: la Juventus &egrave; stata eliminata in settimana ai rigori dal Real Madrid in Coppa dei Campioni, il Napoli deve proteggere Maradona dalle turbolenze della sua vita privata (Cristiana Sinagra ha da poco annunciato di aver avuto un figlio da Diego). Il popolo partenopeo sogna e, con migliaia persone, inonda il Comunale. La partita si sblocca solo all&rsquo;inizio del secondo tempo: &egrave; Laudrup, al 5&rsquo;, a mettere in rete da pochi metri una ribattuta di Garella. Sembra lo svolgimento del solito copione: in realt&agrave; &egrave; solo un abbaglio. Paradossalmente lo svantaggio d&agrave; una scossa alla squadra di Ottavio Bianchi, che nell&rsquo;ultimo quarto d&rsquo;ora capovolge il risultato: Ferrario, Giordano e Volpecina regalano una vittoria che sa di scudetto che proprio l&rsquo;Avvocato Agnelli, qualche tempo prima, aveva pronosticato. Lo stadio esplode, lasciando sorpreso anche il Pibe de Oro. Nella sua autobiografia, ricordando quella partita, dir&agrave;: &ldquo;Tutti festeggiavano... ma noi non capivamo. Quando avevano segnato loro si era sentito un timido 'gol', e basta. Segniamo il secondo e di nuovo tutti a festeggiare. Il terzo, ancora di pi&ugrave;.&nbsp;Lo stadio era pieno di operai, tutti del sud! Terminarono gridando Na-po-li! Na-po-li! Fu una cosa impressionante!". &Egrave; la prima vittoria a Torino dopo ventinove anni.   Il 20 novembre 1988 arriva l&rsquo;ultima affermazione in casa juventina degli anni Ottanta. L&rsquo;anno prima il Napoli, nel pieno di quel cammino rallentato nella seconda parte di stagione che permetter&agrave; al Milan di Sacchi di scucirgli lo scudetto dalle maglie, aveva perso 3-1 (Cabrini, Rush e De Agostini per la Juventus, Careca per gli azzurri). Ma la nuova stagione porta altri entusiasmi e, soprattutto, un organico diverso. Salutati in malo modo Garella, Ferrario, Bagni e Giordano, la squadra riprende la sua marcia in Italia e in Europa. Dopo la quinta giornata di campionato le squadre, come due anni prima, sono appaiate in classifica ma al terzo posto, con 7 punti. Questa volta la partita si sblocca gi&agrave; nel primo tempo: &egrave; Napoli show con la rete di Carnevale e le due di Careca. Nella ripresa la Juve reagisce d&rsquo;orgoglio, accorcia con Galia e Zavarov prima di subire il 2-4 ancora per mano di Careca. I rigori negli ultimi minuti di De Agostini e Renica, concessi con gentilezza dall&rsquo;arbitro Lanese, ampliano il risultato che lascia sorpreso anche Henry Kissinger, spettatore d&rsquo;eccezione al fianco di Gianni Agnelli. Del resto gli anni Ottanta furono cos&igrave;: un ballo effervescente tra edonismo e vanit&agrave; che cancell&ograve; la tradizione di un campionato che un tempo viveva di punteggi risicati. &nbsp;       

Le squadre si trovarono spesso appaiate in lotta per il titolo: nel 1981 fin&igrave; 1-1, nel 1986 una storica vittoria (1-3) lanci&ograve; il Napoli verso il tricolore mentre nel 1988 gli azzurri dettero spettacolo (3-5) sotto gli occhi di Kissinger

Anni Ottanta, quando Juventus-Napoli era uno spareggio scudetto

        Chiunque abbia mai calcato un campo di calcio conosce bene quella sensazione, quel brivido di eccitazione e quell&rsquo;esplosione di gioia pura che ti monta dallo stomaco al petto, quell&rsquo;incredibile e incontenibile sussulto di autentica felicit&agrave; che si prova quando la palla rotola al di l&agrave; della linea e gonfia la rete. E a farla andare l&igrave; sei stato proprio tu. Pu&ograve; sembrare strano pensare che un gesto cos&igrave; semplice come quello di una sfera che finisce tra due pali rappresenti in s&eacute; cos&igrave; tante cose, incarni addirittura l&rsquo;essenza stessa di una gioia pura e fanciullesca, il sogno di migliaia di bambini che si risolve e allo stesso tempo si compie in una frazione di secondo. Si tratta di un concetto semplice da capire per chi fa parte della cerchia dei fanatici del football, molto meno per i profani che potrebbero addirittura definire tutto questo come &ldquo;stupido&rdquo; o &ldquo;banale&rdquo;, non potendo capire la nobilt&agrave; dello sport, Anzi, non potendo capire la nobilt&agrave; del calcio. Una nobilt&agrave; sudata e guadagnata duramente nell&rsquo;ultimo secolo e mezzo, grazie a campioni, poeti, geni e visionari della sfera di cuoio, uomini che con le loro gesta sul rettangolo verde hanno contribuito a scrivere la favola del gol, una lunga teogonia pallonara che proveremo a ricostruire oggi, in edicola con Il Corriere dello Sport-Stadio, grazie alle nostre grandi firme. Un ciclo epico che racconta i miti e le leggende del gol, non per forza quelli che ne hanno segnati di pi&ugrave;, bens&igrave; quelli che ne hanno saputo cogliere il senso pi&ugrave; profondo, trasformando il gesto meccanico in poesia, il volgare &ldquo;rincorrere una palla&rdquo; in forma d&rsquo;arte. Quelli che hanno fatto sognare milioni di bambini e di adulti, che si sono resi protagonisti della grande storia del football ammaliando con la fulgida luce di cui risplendevano sul campo da gioco. Dimostrando, una volta ancora, che non &egrave; stato, non &egrave; e non sar&agrave; mai solamente un gioco.       

Quanti fuoriclasse dagli anni &lsquo;70 alla fine dei &lsquo;90 hanno acceso la fantasia dei tifosi e dei bambini: tra di loro c&rsquo;erano anche Maradona e Platini, due grandi numeri 10. Ve li raccontiamo in edicola con lo speciale del Corriere dello Sport Stadio

La favola del gol

        Quelli che giocarono insieme a lui in quell&rsquo;Ascoli assicurano che non era un bidone. La sua intera parabola calcistica, in effetti, dice che pi&ugrave; di qualcosa di buono, distribuita dagli anni delle giovanili, anche in Nazionale, la fece. Dice altre due cose, in verit&agrave;: che se la base per la sua valutazione doveva essere il paragone con suo fratello Diego, chiunque ne sarebbe uscito con le ossa rotte; poi, che molti tendono a dimenticare il livello tecnico di &ldquo;quella&rdquo; Serie A, quella di fine anni Ottanta. Hugo Hern&aacute;n Maradona, detto &ldquo;El turco&rdquo;, il pi&ugrave; piccolo dei tre fratelli calciatori tra gli otto figli di Don Diego e Dona Dalma, dei quali Diego era il maggiore. L&rsquo;altro era Lalo.&nbsp; Fisico da brevilineo, fin troppo leggero, una certa indolenza che balugina a tratti in campo; per&ograve; un gran piede, il destro; ottimi tempi di gioco in mezzo al campo, una evidente predisposizione per l&rsquo;ultimo passaggio. &ldquo;Tra due anni mi scade il contratto con il Napoli. Potrei rinnovarlo solo se la societ&agrave; prender&agrave; mio fratello Hugo. Mi piacerebbe tanto giocare con lui&rdquo;: cos&igrave; Diego dopo il Mondiale vinto in Messico nel 1986. Hugo era reduce da ottime cose fatte vedere con l&rsquo;Argentina Under 16 e poi dalle prime esperienze con la prima squadra dell&rsquo;Argentinos Juniors.&nbsp;  Hugo e il calciomercato Hugo viene acquistato dal Napoli nell&rsquo;estate del 1987, effettivamente, ma visto che gli slot per gli stranieri sono solo due all&rsquo;epoca e il Napoli ha appena acquistato Careca, dopo la spesa di quattrocento milioni di lire bisogna dirottarlo in prestito. Dopo aver vagliato le possibilit&agrave; di mandarlo all&rsquo;Avellino, all&rsquo;Empoli, al Pescara, al Pisa, tutte trattative sfumate, Hugo alla fine va all&rsquo;Ascoli, il cui presidente &egrave; all&rsquo;epoca Costantino Rozzi, buon amico del DG partenopeo Luciano Moggi.&nbsp;Sin dall&rsquo;inizio della stagione, il ragazzo evidenzia una tecnica certamente molto raffinata, ma una scarsa voglia di soffrire e una incapacit&agrave; di adattarsi all&rsquo;agonismo asfissiante e&nbsp;al tatticismo esasperante della Serie A italiana.&nbsp;   Maradona l&rsquo;incompiuto L&rsquo;Ascoli al termine di&nbsp;quella stagione riesce a guadagnarsi la permanenza in Serie A; il giovane Maradona totalizza tredici presenze in campionato e sei in Coppa Italia. Non sono i numeri di un &ldquo;bidone&rdquo;; &egrave; pi&ugrave; che altro la statistica di un giocatore ancora incompiuto. Sar&agrave; la sua unica stagione italiana, ben sintetizzata dalle parole del tecnico dei marchigiani in quella stagione: &ldquo;Aveva una buona tecnica e dei colpi geniali.&nbsp;Certamente&nbsp;non era formato atleticamente e fisicamente, quindi faceva fatica a reggere i 90 minuti.&nbsp;Ma forse un'altra possibilit&agrave; l'avrebbe meritata&rdquo;. Ha poi giocato in Spagna, Venezuela,&nbsp;Giappone, Canada, fino all&rsquo;ultima stagione con l&rsquo;Almirante Brown in Argentina, nel 2000, Hugo Maradona detto &ldquo;El turco&rdquo;.&nbsp; Nato il 9 maggio del 1969, ha salutato il mondo improvvisamente a cinquantadue anni, nella sua casa di Monte di Procida, per un arresto cardiaco.&nbsp;        

Il Napoli lo acquista per far felice El Pibe de Oro e lo gira all&rsquo;Ascoli dove trov&ograve; Walter Casagrande&nbsp;

Hugo, piccolo Maradona, in Italia nel nome di Diego

        Gli anni di due come loro, nella stessa epoca e nel medesimo campionato, con i gesti tecnici di entrambi esibiti nei novanta minuti di una stessa partita, hanno rappresentato il meglio che la Serie A abbia potuto offrire nel corso della sua intera storia. Il bello &egrave; che non c&rsquo;erano loro due soltanto, ma coabitavano nel campionato italiano tutti i pi&ugrave; grandi, d&rsquo;Europa e del Sudamerica. Di loro due, per&ograve;, anche in ragione del colore delle maglie che indossavano, possiamo dire che oltre a essere grandi fra i grandi erano due paradigmi, non soltanto calcistici. Due modelli, due prototipi che facevano deambulare sul rettangolo verde, con velocit&agrave; e ritmi differenti, tutta una serie di contrapposizioni etniche, storiche, folcloristiche.&nbsp; Maradona, Platini e le storie musicali Cantava Antonello Venditti, in uno dei suoi pezzi pi&ugrave; datati e immeritatamente meno conosciuti, che in fondo &ldquo;Torino vuol dire Napoli che va in montagna&hellip;&rdquo;; &ldquo;Se non del tutto giusto, quasi niente sbagliato&rdquo; risponderebbe Fabrizio De Andr&eacute;, che in napoletano ha saputo cantare e che aveva le radici in Piemonte, oltre ad aver ammirato con la maglia del suo amato Gigi Meroni, prima che quest&rsquo;ultimo andasse a Torino per diventare la farfalla granata.&nbsp;Divagazioni, per le quali ci perdonerete; ghirigori dialettici come corrispettivo di quelli tecnici, espressi a un livello sublime, che in campo esibivano Michel Platini e Diego Armando Maradona, vale a dire Apollo e Dioniso, entrambi rappresentanti di un tempo in cui il campionato italiano era l&rsquo;Olimpo del football mondiale.&nbsp;  Le Roi Michel Platini, il pupillo dell'Avvocato Agnelli Arrivato in Italia per la stagione 1982-1983, Michel Platini aveva lo sguardo, il profilo, persino la pettinatura francese. S&rsquo;era fatto gi&agrave; conoscere in Europa prima con il Nancy, poi con un grande Saint-&Eacute;tienne; nel mondo con la fortissima nazionale transalpina, che probabilmente avrebbe meritato di approdare in finale al Mondiale spagnolo del 1982, della quale era gi&agrave; uno dei leader indiscussi. Torino era la citt&agrave; ideale per lui, come non lo sarebbero state n&eacute; Roma, n&eacute; Milano; forse paradossalmente sarebbe stata adatta di pi&ugrave; Napoli, che all&rsquo;occorrenza da rispolverare la sua altezzosit&agrave; culturale e il suo passato filosofico da avamposto illuminista tanto caro alla memoria dei nostalgici di Vico e Pietro Giannone.&nbsp;Ostentava, in campo, una corsa che era quasi pi&ugrave; una corsetta: apparentemente indolente, quasi rilassata diremmo. Spesso l&rsquo;istante in cui appariva pi&ugrave; avulso dal contesto dell&rsquo;azione era proprio quello in cui aveva gi&agrave; razionalizzato il modo, quasi sempre sublime, con il quale le avrebbe dato senso, o addirittura conclusione, quando se ne faceva carico. Pi&ugrave; grande della sua classe Platini ha avuto una cosa soltanto, che fungeva da moltiplicatore della classe stessa: la innata razionalit&agrave; in nome della quale metteva ogni sua giocata sopraffina al servizio dello sviluppo della manovra. Tra le sue tante definizioni, Apollo era anche il dio dell&rsquo;intelletto e della profezia: profetica sapeva essere sovente l&rsquo;intelligenza calcistica del fuoriclasse francese; l&rsquo;aristocratica linearit&agrave; delle sue giocate, dei suoi lanci che decollavano con la nitidezza con la quale raggiungevano il destinatario; dei suoi calci di punizione per i quali al termine della breve rincorsa il pallone pi&ugrave; che impattato dallo scarpino sembrava soffiato con parabola ad arco, come una piuma.&nbsp;  Maradona, il Dio che fece impazzire Napoli Dioniso era, invece, fondamentalmente il dio del delirio mistico: esiste forse una definizione pi&ugrave; efficace per sintetizzare ci&ograve; che Diego Maradona ha portato a Napoli sin dal suo arrivo (dal suo avvento?) sotto il Vesuvio nella stagione 1984 - 1985. &ldquo;Si yo fuera Maradona, vivir&iacute;a como &eacute;l..." Perch&eacute; nessuno l&rsquo;ha detto meglio di Manu Chao; nessuno meglio di lui l&rsquo;ha saputo spiegare, con un po&rsquo; di versi che sembrano parlare del calciatore, mentre invece stanno assolvendo l&rsquo;uomo, come se non ci fosse pi&ugrave; bisogno di perdonargli nulla.&nbsp;Forse perch&eacute; soltanto un irregolare pu&ograve; essere in grado di raccontarne un altro; o, forse, perch&eacute; ci sono uomini che riescono a rimanere pi&ugrave; grandi del proprio destino; equilibristi sul filo sottile delle proprie debolezze, come i rimbalzi di un pallone che sembra stia l&igrave; l&igrave; per cadere e invece non cade mai. Pi&ugrave; di due scudetti, una Coppa Italia e una Coppa Uefa, la sua &ldquo;predestinazione partenopea&rdquo; la racconta un episodio apparentemente marginale: un giorno d&rsquo;inverno ad Acerra, con l&rsquo;erba sepolta dal fango e gli spogliatoi che non si capiva quali e dove fossero.&nbsp;Il Napoli si scalda in mezzo alle macchine e ai furgoni degli ambulanti, con la maglia di tessuto grosso, sponsor Cirio.&nbsp;Maradona saltella e scuote i fianchi, bambini imbacuccati gli posano accanto per lo scatto che terranno nel portafogli tutta la vita. L&rsquo;amichevole &egrave; stata organizzata da Pietro Puzone, compagno di squadra, che da quelle parti &egrave; nato e che conosce la famiglia del ragazzino malato a cui andranno i soldi dell&rsquo;incasso.&nbsp;Ferlaino ne farebbe volentieri a meno, per paura che qualcuno dei suoi si faccia male, Maradona in testa; i Lloyds di Londra, presso i quali il dieci &egrave; assicurato, glielo vietano e lui paga una penale pur di giocarla tutta, quell&rsquo;amichevole, affondando i contrasti, prendendosi la palla in scivolata e portandosela appresso come un barboncino bianco da tenere al riparo dagli schizzi e dall&rsquo;acqua marrone, da tutta quella merda che pu&ograve; essere la vita, quando piove forte in periferia.&nbsp;In un mondo in cui quasi tutti si sbattono per tentare di nascondere quello che sono, Maradona non fece altro che mostrarsi per ci&ograve; che &egrave; sempre stato, come quella volta su un campetto di Acerra, con la gente che si sent&igrave; al centro del mondo per novanta minuti e lui che poteva soltanto giocarla tutta, quella partita, senza alternative.        

Quando Michel si confrontava con Diego e il campionato diventava un vero spettacolo: dal 1984 al 1987 Juventus-Napoli il top

Maradona contro Platini, le sfide da leggenda

        Settant&rsquo;anni di Zico. Due sillabe che racchiudono un mondo dentro al quale c&rsquo;&egrave; tutto il calcio di una volta. C&rsquo;&egrave; stato un tempo in cui il brasiliano si present&ograve; al Mondiale di Spagna con la corona in testa; re, deputato a guidare la Nazionale di Tel&egrave; Santana: i sudamericani non avevano fatto i conti con Gentile, Tardelli e con Pablito Rossi. C&rsquo;&egrave; stato un tempo in cui il numero dieci del Flamengo sarebbe dovuto sbarcare nella Capitale dopo l&rsquo;apertura delle frontiere; il presidente della Roma Dino Viola si era innamorato del talentuoso ragazzo, ma alla fine decise Nils Liedholm: risolutiva una telefonata dell&rsquo;allenatore svedese con l&rsquo;ex compagno brasiliano Dino Sani: "Se vuoi vincere le partite, prendi Zico, ma se vuoi vincere il campionato prendi Paulo Roberto Falcao".L&rsquo;arrivo di Zico in Italia slitt&ograve; di qualche stagione, nel frattempo vinse una coppa Intercontinentale con il Flamengo con cui aveva gi&agrave; vinto una Coppa Libertadores e tre titoli del campionato brasiliano. Zico &egrave; un giocatore stiloso, elegante, risolutivo; il suo calcio &egrave; allegro, nelle sue parabole griffate su punizione dentro c&rsquo;&egrave; la poesia di Paulo Coelho e la musicalit&agrave; di Jorge Ben: non &egrave; ancora un Jogo Bonito che proporr&agrave; vent&rsquo;anni dopo Ronaldinho, la gioia delle giocate &egrave; la stessa, ma lo stile del campione dell&rsquo;Udinese &egrave; pi&ugrave; essenziale. Il suo fisico piuttosto esile trasmette un messaggio ingannevole: &egrave; alto 173 centimetri e pesa 69 chili, ma sono sessantanove chilogrammi di talento cristallino. Il giocatore ha lavorato molto sulla propria struttura muscolare, e quindi &egrave; ormai temprato ad ogni tipo di marcatura. L&rsquo;Udinese lo annuncia a sorpresa nell&rsquo;estate del 1983, anticipando grandi club, ma la Figc blocca il trasferimento perch&eacute; sentenzia che il contratto &egrave; stato depositato in ritardo. O Zico, o Austria! A Udine, dalle parti di Piazza della Libert&agrave;, hanno le idee chiare; alla fine Zico arriva, e incanta con il suo destro chirurgico, Zico non fallisce mai il bersaglio. E quando sbaglia, non &egrave; colpa sua. Ora il set si sposta nel centro di allenamento della squadra friulana gi&agrave; durante il primo giorno di allenamento del brasiliano. Esterno giorno, Zico mette cinque palloni in fila al limite dell&rsquo;area di rigore: davanti a s&eacute; ha la barriera mobile e una porta di calcio. Primo tiro, traversa. Secondo tiro, traversa, terzo tiro, traversa. A quel punto richiama l&rsquo;attenzione del magazziniere: "Queste porte sono pi&ugrave; basse rispetto a quelle regolamentari". L&rsquo;uomo &egrave; interdetto, ma cerca e trova un metro per misurare l&rsquo;altezza della traversa. In effetti, &egrave; cinque centimetri pi&ugrave; bassa!Ma ora &egrave; tempo di fare sul serio, l&rsquo;Udinese fa il suo esordio a Marassi contro il Genoa; i friulani vincono per cinque a zero, Zico segna una doppietta presentandosi in maniera eccellente e offrendo la specialit&agrave; della casa: punizione all&rsquo;incrocio dei pali, il portiere Martina &egrave; disarmato. A fine campionato le reti saranno diciannove - ultima delle quali realizzata nella partita di ritorno contro la Lazio - ma non basteranno per vincere il titolo dei cannonieri conquistato dal francese Michel Platini. La stagione successiva un infortunio al ginocchio compromette le prestazioni del brasiliano che gioca soltanto sedici partite - ultima delle quali contro il Napoli di Maradona - segnando altri tre gol. Ormai ha 32 anni, e decide di tornare al Flamengo dove gioca per altri cinque campionati prima di trasferirsi in Giappone nei Kashima Antlers. Chiude la propria carriera nel 1994. Zico ha disputato tre Mondiali (1978,1982,1986) restando per almeno un decennio ai vertici del calcio Mondiale. La rivista francese France Football lo ha inserito nei primi dieci calciatori (9&ordm;) pi&ugrave; forti della Storia del calcio.        

Il suo stile era efficace e spettacolare: domin&ograve; la scena per un decennio. O Galinho vinse tutto con il Flamengo, e quel legame speciale con Maradona...

Zico, l'Udinese e i tre Mondiali col Brasile: fantasia al potere

        Il &ldquo;Supercl&aacute;sico&rdquo; tra River Plate e Boca Juniors &egrave; l&rsquo;evento per eccellenza dell&rsquo;Argentina, il derby per antonomasia, una rivalit&agrave; eterna tra le due squadre pi&ugrave; titolate e pi&ugrave; popolari della nazione, i &ldquo;Millonarios&rdquo; contro gli &ldquo;Xen&egrave;izes&rdquo; (i ricchi contro gli immigrati genovesi). Anche se ormai da tanti anni non &egrave; pi&ugrave; uno scontro ideologico tra borghesi e proletari, l&rsquo;odio sportivo tra le due compagini della capitale &egrave; comunque rimasto inalterato nel tempo. Quello del 25 ottobre 1997 per&ograve; non fu un &ldquo;Supercl&aacute;sico&rdquo; come gli altri, perch&eacute; quel giorno Diego Armando Maradona aveva deciso di recitare il suo ultimo ballo sui campi da calcio. Essendo Diego uno degli d&egrave;i pagani di questo sport (al pari di Pel&egrave;, Alfredo Di Stefano, Johan Cruyff e pochi altri eletti), per il suo definitivo addio alle scene aveva necessariamente bisogno di una location di un certo spessore, di un pubblico pronto per le grandi occasioni, per dare il giusto commiato alla sua immensa carriera, davanti alla sua gente: il derby tra Boca e River si prestava perfettamente all&rsquo;occasione, e non ci potevano essere altre opzioni nella testa di Diego. Maradona ovviamente gioca per gli Azul y oro, dove gi&agrave; all&rsquo;inizio degli anni Ottanta aveva contribuito a deliziare il pubblico della Bombonera con la sua classe gi&agrave; immane, anche se la partita-evento si gioca al Monumental, la casa del River, ma tanto per una (ed unica) volta si pu&ograve; riporre l&rsquo;ascia di guerra per salutare il pi&ugrave; grande di tutti, anche se gioca dalla parte dei &ldquo;nemici&rdquo;. Inutile sottolineare che quel giorno erano presenti pi&ugrave; giornalisti e fotografi del solito, tutti pronti ad assediare con i loro scatti il &ldquo;Diez&rdquo; per la sua uscita di scena dai campi di gioco. Prima dell&rsquo;inizio del match, Diego fa due gesti pi&ugrave; che eclatanti: alza i pugni al cielo e poi si fa il segno della croce. Il Maradona politico, il terzomondista schierato dalla parte dei pi&ugrave; deboli, amico di Fidel Castro e Hugo Chavez, e nemico dei potenti della Terra, dei presidenti americani e della corrotta Fifa, &egrave; assolutamente inseparabile dal Maradona giocatore, e viceversa. Il Maradona credente, invece, dichiara questo: &ldquo;&Egrave; Dio che mi fa giocare bene. Mi faccio sempre il segno della croce quando scendo in campo. Se non lo facessi, lo tradirei&rdquo;. La consapevolezza di essere una &ldquo;divinit&agrave; minore&rdquo; al cospetto del Padre.  Diego gioca una partita modesta, senza grandi acuti e senza azioni di rilievo, venendo sostituito gi&agrave; alla fine del primo tempo dal suo grande amico Claudio Caniggia: era ormai un ex-calciatore dal 1994, anno della squalifica di 18 mesi per efedrina ai Mondiali statunitensi. Maradona sapeva bene, nel crepuscolo della propria carriera, di poter contare solo sulla sua immagine e sul suo mito per attirare folle oceaniche di persone. Gli bastava unicamente la presenza fisica, corporale, per suscitare ancora emozioni, urla, gioia e commozione, ed &egrave; anche questa una delle ragioni della sua grandezza. Per la cronaca la partita fin&igrave; 2 a 1 per il Boca, che riusc&igrave; a rimontare lo svantaggio iniziale segnando due reti nel secondo tempo (quella decisiva la sigl&ograve; un giovanissimo Martin Palermo). Intervistato a fine gara, Diego dichiarer&agrave;: &ldquo;Il Boca ha giocato come il Boca, e il River era il River. Hanno giocato un grande primo tempo, ma poi gli si sono calate le mutande.&rdquo; Mitomania pura, come si addice a un mito(mane) come Diego.  A cura di:&nbsp;        

Il 25 ottobre 1997, al Monumental di Buenos Aires, la casa del River Plate, andava in scena l&rsquo;ultima partita del "genio del f&ugrave;tbol mundial"

Nel Superclásico l'ultimo "tango" di Diego Armando Maradona

        &ldquo;Napoli-Brescia di Coppa Italia, punizione dal limite, dal lato mio per&ograve;&rdquo;. Sul pallone Maradona e Ciro Muro, il giovane scugnizzo si avvicina, nessuno osava farlo quando c&rsquo;era Diego: &ldquo;Ci guardiamo e mi fa: &lsquo;Batti tu, se non fai gol non le tiri pi&ugrave;&rsquo;&rdquo;. Il pallone finisce all&rsquo;incrocio, come spesso accadeva quando si presentava sulla sfera il centrocampista napoletano. A scoprirlo &egrave; Giovanni Lambiase, responsabile del settore giovanile che girovagava per la citt&agrave; cercando i talenti grezzi che giocavano per la strada: &ldquo;Quando avevo 11 anni il Napoli venne a fare un&rsquo;amichevole al Cristo Re, Lambiase mi vide e mi port&ograve; a Soccavo&rdquo;. Dai campi d&rsquo;asfalto del collegio di Portici, dove si trovava insieme al fratello, alle strutture attrezzate del Napoli Calcio, dove ruba con gli occhi: &ldquo;Ho avuto grandi maestri come Corso, Sormani, Abbondanza (altro doppio ex di Lazio-Napoli). Dopo gli allenamenti mi fermavo a guardare Corso e Sormani che battevano le punizioni&rdquo;. Il leggendario Mariolino gli ha insegnato a calciare a giro con la sua rinomata &ldquo;foglia morta&rdquo;; Angelino come imprimere potenza al pallone: &ldquo;Grazie a loro ho imparato l&rsquo;arte dei calci piazzati&rdquo;. Il piedino d&rsquo;oro gliel&rsquo;aveva gi&agrave; dato Madre Natura, ma prima del Napoli Ciro non aveva mai messo piede in una scuola calcio: &ldquo;Giocavamo per strada con il famoso Super Santos, con 4 buste dell&rsquo;immondizia a fare da pali&rdquo;.  Bearzot parlava di lui e di Pasa (riserva di Zico all&rsquo;Udinese): &ldquo;Dopo i Mondiali del 1982 ci ha seguito con attenzione, vedeva in noi il futuro del calcio italiano. Purtroppo entrambi ci siamo poi persi&rdquo;. La carriera di Ciro Muro infatti parte col botto, tra i ragazzi gioca alla grande. Sogna di diventare come i suoi idoli concittadini (Juliano, Esposito e Montefusco) e si merita le prime chiamate: &ldquo;A 16 anni gi&agrave; mi allenavo con la prima squadra. Ho fatto anche qualche panchina con Giacomini. Ricordo che andammo a Kaiserslautern per la Coppa Uefa, segn&ograve; Briegel e perdemmo&rdquo;. Lo mandano in C1 a farsi le ossa a Monopoli. Ciro continua a crescere tanto da essere selezionato appena ventenne per la Nazionale Serie C: "Andammo a fare una tourn&eacute;e e venne un osservatore del Pisa per ispezionare Ivo Pulga. Ma quel giorno Pulga non giocava. Dopo quella partita Anconetani cominci&ograve; a chiamarmi due volte la settimana". L&rsquo;evoluzione di Muro continua a Pisa, una piazza appena tornata in Serie A dove pu&ograve; trovare spazio. Inizialmente entra per lo pi&ugrave; a partita in corso &ndash; accumulando un paio di presenze da titolare in Coppa Italia &ndash; ma nel girone di ritorno le cose cambiano: Guerini capisce che se vuole provare a salvarsi deve puntare sulla sua classe e gli affida la numero 10. Memorabile il gol alla Fiorentina, ovviamente su punizione con tanto di aneddoto: &ldquo;Perdevamo 1-0 a 10 minuti dal termine, sul pallone c&rsquo;erano Kieft e Berggreen, calciatori nel giro delle rispettive nazionali, li spostai e dissi: Calcio io!&rsquo;. Pareggiai la partita e Pisa impazz&igrave;&rdquo;. Le giocate del campioncino non bastano purtroppo a salvare i nerazzurri e per Ciro &egrave; ora di tornare a casa: &ldquo;Allodi mi riport&ograve; a Napoli. Ricordo che sulle &lsquo;probabili formazioni&rsquo; del Guerin Sportivo dell&rsquo;epoca partivo sempre tra i titolari. Non ero pi&ugrave; un ragazzino, avevo gi&agrave; esperienza in A: Allodi credeva moltissimo in me&rdquo;. Comincia a giocare il ragazzo, ad accumulare diverse presenze nella prima parte della stagione che porter&agrave; Napoli in paradiso: &ldquo;All&rsquo;inizio giocai tanto, sia in Coppa Uefa che in Coppa Italia&rdquo;.  Non giocher&agrave; solo al posto di Maradona, ma anche al suo fianco, come nella finale d&rsquo;andata di Coppa Italia contro l&rsquo;Atalanta. Ottavio Bianchi lo butta dentro per sbrigliare la situazione e in tandem con Maradona confeziona il 2-0: &ldquo;Fu un gol bellissimo e Diego esult&ograve; pi&ugrave; di me, sembrava l&rsquo;avesse fatto lui. Questo era Maradona, una persona generosa e gentile con tutti&rdquo;. Ma le rassicurazioni del Pibe non bastano: &ldquo;Mi fece intendere che dopo di lui sarebbe toccato a me, mi disse di avere pazienza, ma io volevo giocare e intanto Bruno Giordano mi riferiva che la Lazio lo stava martellando per me. Lui mi consigli&ograve; di trasferirmi a Roma dicendomi che i tifosi della Lazio sarebbero impazziti per un giocatore con le mie caratteristiche&rdquo;. Al timone dei biancocelesti c&rsquo;&egrave; Eugenio Fascetti che d&aacute; il via libera all&rsquo;operazione perch&eacute; lo ha gi&agrave; visto all&rsquo;opera, proprio contro la Lazio: &ldquo;L&rsquo;anno prima giocammo un&rsquo;amichevole infrasettimanale, organizzata per gli accordi pattuiti nel trasferimento in biancoceleste di Raimondo Marino avvenuto nella finestra autunnale. All&rsquo;Olimpico segnai sotto gli occhi del mio grande amico Giancarlo Camolese&rdquo;. Nonostante la B, Ciro Muro ci mette poco ad accettare: &ldquo;Alla Lazio c&rsquo;erano grandi giocatori: Galderisi che aveva fatto i Mondiali, Monelli, Beruatto che veniva dal Toro, Pin dalla Juve, Acerbis... Era uno squadrone e infatti risalimmo in A&rdquo;.  Qualcosa cambia nell&rsquo;anno successivo con l&rsquo;arrivo di Materazzi in panchina: &ldquo;Forse pagai un po&rsquo; l&rsquo;exploit di Di Canio che fece un grande campionato. Ricordo anche che per una settimana non venne agli allenamenti perch&eacute; aveva paura che i romanisti lo picchiassero (ride). Lui come Chinaglia anni prima ha avuto il coraggio di fare una cosa che nel derby non si dovrebbe fare. Nel derby di ritorno fu caccia all&rsquo;uomo: ognuno di loro voleva fargli male&rdquo;. In quella partita tra l&rsquo;altro Ciro Muro indossa la fascia da capitano e viene espulso, cacciato insieme al romanista Gerolin dall&rsquo;arbitro D&rsquo;Elia per un accenno di rissa tra i due.  Anche nelle due stagioni passate in biancoceleste continua a dispensare prodezze balistiche, sono 4 i gol segnati, tutti su punizione: &ldquo;Memorabile quella del 3-3 a Taranto nei minuti finali; difficilissima quella segnata al Barletta&rdquo;. A fine campionato lascia la Lazio, una decisione che rimpiange tantissimo ancora oggi: &ldquo;Lo sbaglio pi&ugrave; grande che ho commesso da calciatore. Avevo un altro anno di contratto ma Gigi Simoni mi tormentava da Cosenza. Ero gi&agrave; il suo pallino quando era allenatore del Genoa, mi feci convincere... da l&igrave; non sono pi&ugrave; riuscito a tornare in Serie A. Dovevo restare per mantenere la categoria. In Serie B si fa fatica&rdquo;. Un vero peccato, un talento dai piedi d&rsquo;oro che avrebbe potuto avere nobili fortune. Ciro Muro si ritiene comunque un privilegiato: &ldquo;Sono l&rsquo;unico napoletano ad aver indossato la maglia numero 10 di Maradona. In Coppa Italia la portavo al posto suo. I trionfi col Napoli li sento tantissimo: fui protagonista in Coppa e mi ritagliai un buono spazio in campionato, oltre a giocare la Coppa Uefa. In quanti avrebbero fatto questo con davanti il giocatore pi&ugrave; forte di sempre?&rdquo;.         

Napoletano dai piedi d'oro, ha giocato in Serie A con Napoli, Pisa e Lazio: "Bearzot vedeva in me e Pasa il futuro del calcio Italiano. Diego mi disse di avere pazienza, ma io volevo giocare"

Ciro Muro: il mago delle punizioni oscurato da Maradona

Diego e il Guerino, Italo: il Guerino e un dolore speciale. Storia di un rapporto meraviglioso, nato non per caso.  &laquo;A Baires c&rsquo;era Oreste Bomben, un gigante friulano che aveva portato l&rsquo;Argentina sul Guerino conquistando sempre pi&ugrave; spazio per storie e personaggi inediti. Fu lui a parlarci per primo di un giovanissimo Diego Armando Maradona eleggendolo protagonista quando il suo nome circolava solo fra gli specialisti (rari) di calcio internazionale. Nel &rsquo;78, durante il Mundial, l&rsquo;avevo inutilmente cercato con Radice e il Trap, a Baires, ma il giovane Diego s&rsquo;era nascosto. I colleghi del Grafico mi assicuravano che avrebbe meritato di giocare, ma Menotti lo riteneva non maturo per la nazionale maggiore. Mi fece ricordare Edmondo Fabbri che a Middelsbr&ograve; aveva Gigi Riva in tribuna quando perdevamo con la Corea del Nord. Mentre El Flaco avrebbe vinto la Coppa grazie alla &ldquo;marmelada peruana&rdquo; di Ramon Quiroga e al fischietto dell&rsquo;italiano Gonella&raquo;.  Gi&agrave;. Ma il vecchio Oreste?   &laquo;Bomben insisteva e un giorno mi convinse a sbattere in copertina il gi&agrave; Pibe de Oro con un titolo riferito a altri (&ldquo;Addio sogni di gloria&rdquo;) che gli argentini non capirono e s&rsquo;incazzarono. In realt&agrave; difendevamo Diego dal disinteresse di Menotti. (Va precisato che il Guerin era presente nelle edicole di Baires pi&ugrave; di quanto lo fosse in certe citt&agrave; italiane). L&rsquo;Argentina nel &rsquo;79 aveva vinto il Mondiale Under 20, Diego aveva incantato il Giappone e dintorni, un giovane Zico ne aveva parlato benissimo smontando la faida Brasile-Argentina: &ldquo;Nel 1979 l&rsquo;ho visto giocare per la prima volta, segn&ograve; un gol stupendo e si vedeva che era un giocatore diverso da tutti. Sarebbe diventato uno dei migliori, faceva cose incredibili...&rdquo;&raquo;.  Fu praticamente il primo incontro del Guerino con Diego.  &laquo;Bomben torn&ograve; alla carica, ebbe la cover, fece il suo pezzo. E Maradona non ci dimentic&ograve;, come il collega Blanco che nell&rsquo;84, arrivato con Diego al Napoli come portavoce e collaboratore del manager del Pibe, di Jorge Cyterszpiler (suicida nel 2017, poveraccio, dopo una vita di follie), mi promise la prima intervista italiana che realizzai a Reggello - ritiro del Napoli, allenatore Marchesi - il giorno di ferragosto dell&rsquo;84. Il grande Maradona era in realt&agrave; un ragazzo spaventato, si mangiava le unghie e prima di rispondere alle mie domande confabulava con Blanco&raquo;.  Da quel giorno il Guerino divent&ograve; la sua casa, la sua famiglia.  &laquo;Cos&igrave; &ldquo;giocammo insieme&rdquo; il Mundial del 1986 perch&eacute; portammo a Citt&agrave; del Messico il suo portavoce Paolo Paoletti in cambio di un articolo autografo alla settimana. Potevo entrare nel ritiro dell&rsquo;Argentina, la policia ormai mi conosceva e io ammiravo un Di&nbsp;go sempre pi&ugrave; splendido e splendente (a quei tempi Rettore era spesso al giornale, amica di Serena Zambon, la segretaria di redazione che un giorno mi convinse a non pubblicare le foto che avevo - esclusive - di un incontro d&rsquo;amore fra Diego e una famosa soubrette della tv. &ldquo;Direttore faccia un sacrificio - mi disse Serena - se le pubblica incasiniamo Diego...&rdquo;. Le buttai via ma per &ldquo;salvare&rdquo; lei, non lui che ormai era diventato uno spudorato colezionista di gnocche&raquo;.  Da Napoli Alfredo Capozzi ci bombardava di foto favolose che Diego gli consentiva di fare prestandosi a tutto.  &laquo;Come quando pos&ograve; per la copertina di &ldquo;Maramondo&rdquo;. Un bel giorno me ne andai dalla tentacolare San Lazzaro (Brera dixit) per conquistare Roma - con il Corriere dello Sport - e ci perdemmo di vista. Qualche breve incontro a Napoli nella suite di Jorge all&rsquo;hotel Vesuvio e per il suo bene facevo il Grillo Parlante perch&eacute; lui si era messo a fare il Pinocchio con il Gatto e la Volpe. Quando lo seppe mi tir&ograve; in faccia uno scarpino e mi squalific&ograve; per dodici Anni. Bomben si preoccupava del dissidio, lui che era diventato il cronista ufficiale del miracoloso argentino. Fra l&rsquo;altro, in un Guerino dell&rsquo;80 aveva raccontato la nascita di Diego da evangelista, sant&rsquo;Oreste: &ldquo;Dicono che quando sua madre stava per darlo alla luce, trov&ograve; una stella per terra. Quella stella sembra abbia marcato il suo destino&rdquo;. Mancavano solo gli angeli e i Re Magi. I pastori, a Lan&ugrave;s, non mancavano. Il miracolo successivo, come ho detto, fu la laurea di Tokyo 1979 che lo fece accogliere a Baires come un campione gi&agrave; realizzato. &ldquo;El Mundo&rdquo; di Caracas, anticipando tutti, lo elesse Futbolista Del A&ntilde;o En Sudam&eacute;rica. Studiava con la sua Palla - oggetto della vita - per diventare Futbolista del secolo in tutto il mondo.&nbsp;E ci fece innamorare perch&eacute;&nbsp; lui, con la Palla, diventava il migliore. Pel&eacute;, Cruijff, Zico, bravissimi ma vuoi mettere la sua trasfigurazione quando cominciava a giocare?&raquo;.  Cosa le &egrave; piaciuto e cosa no dei tanti interventi su Diego, dopo la sua morte?   &laquo;Molti gli hanno restituito - troppo tardi - quello che gli avevano tolto da vivo. Non dico dei tifosi, anche nemici, che hanno ammesso il loro innamoramento segreto dopo averlo odiato da vivo perch&eacute; avversario indomabile. Dico soprattutto di certi intellettuali che se ne sono indegnamente serviti anche per fare politica, e si capisce con chi, visto che Gianni Min&agrave;, suo primo cantore televisivo, l&rsquo;aveva abbinato a Fidel Castro, come dire Che Guevara, anche se tutti sapevano che il &ldquo;Che&rdquo; l&rsquo;aveva eliminato il regime di Fidel. Dico intellettuali, escluso Vittorio Sgarbi che al tempi della coca lo defin&igrave; Rimbaud, poeta maledetto. Esagerava, ma era rispettoso. Anche adesso, nell&rsquo;orgia di lacrime, si sono esibiti ignobili frustrati sputasentenze che indossano magliette d&rsquo;altri colori per far sapere che esistono. E dire che Diego aveva sempre tollerato e perdonato i nemici perch&eacute; facevano parte della partita&raquo;.  Odiava solo il Fisco che lo perseguitava.  &laquo;A proposito, mi ha fatto sorridere una fake news di queste ore: &ldquo;Ciao Diego, ci hai lasciato un vuoto enorme - Firmato Agenzia delle Entrate&rdquo;&raquo;.  Gli argentini propongono di togliere la maglia numero 10 della Nazionale. Ma &egrave; sulle spalle di Messi.  &laquo;Detesto questi riti diminutivi che il calcio non merita. Messi c&rsquo;&egrave; gi&agrave;, beato lui, ma perch&eacute; impedire che il sogno del Diez appartenga anche a tutti i ragazzini del mondo che vogliono diventare Lui come Lui ha detto di s&eacute;? Ricordi?&nbsp; &ldquo;Se torno a nascere voglio diventare un calciatore come Maradona&rdquo;&raquo;.  Cosa avrebbe voluto dire a Diego che non ha potuto dirgli?  &laquo;Se permetti, appena ho saputo del suo addio gli ho dedicato non un articolo - gliene avevo appena dedicato uno per i sessant&rsquo;anni - ma una insolita nota d&rsquo;agenzia: &ldquo;Ciao Diego. Se dovessi parlare del calciatore dovrei dire che mi hai preso in contropiede. Non &egrave; da te. Ero l&igrave; che mi rallegravo per l&rsquo;operazione alla testa andata bene, dicevo fra me e me finalmente un po&rsquo; di fortuna per Diego. E invece no. Sei fuggito. Ho raccontato i tuoi gol pi&ugrave; belli, il superbello a Citt&agrave; del Messico, il 22 giugno dell&rsquo;86, quando hai fregato gli inglesi delle Falkland non con la mano de Di&oacute;s ma con quell&rsquo;incontenibile slalom-gol - fors&rsquo;anche in contropiede - che ancora vien cantato come un inno da Victor Hugo Morales. E tu alla fine, raggiante, cantavi (ero con te, io potevo, a scrivere insieme il pezzo del giorno che ti p&nbsp;gavo alla grande) &ldquo;Las Malvinas son Argentinas&rdquo;. Ciao Diego. Se dovessi parlare del calciatore vitaiolo mi farei una bella risata - e tu la tua - dicendoti che Pel&eacute; stavolta ti ha fregato. Lui ha fatto gli ottanta l&rsquo;altro giorno, un po&rsquo; decadente, come me, Diego, che ho i suoi anni: ma &egrave; l&igrave;, impavido, e all&rsquo;anagrafe di Tr&ecirc;s Cora&ccedil;o&ecirc;s cantano &ldquo;Pel&eacute; &egrave; meglio &lsquo;e Maradona&rdquo;. Tu sessanta, subito rovinati dal cervello ferito, dal ricovero, dalla paura che quest&rsquo;anno di merda ti portasse via. Con te, Diego, ho avuto una fortuna che adesso pago il doppio, perch&eacute; in realt&agrave; del calcio chissenefrega, di Pel&eacute; tantomeno, perdio ho perso un amico; peggio, un amico ritrovato. Perch&eacute; dopo quella storia della droga avevamo rotto: tu mi davi dell&rsquo;ipocrita perch&eacute; avrei dovuto rimproverare anche quel mitico industriale del Nord che tirava di coca e io no, io ti dicevo che quello non era un ambasciatore dell&rsquo;Unicef come te. Chiudemmo ogni rapporto, negli Usa, nel &rsquo;94, quando quell&rsquo;infermiera&nbsp; ti port&ograve; fuori dal campo e tu sparavi al mondo due occhiacci da far paura. E io ti dissi ch&rsquo;eri Pinocchio imbrogliato dal Gatto e la Volpe. Mi tirasti una scarpa, feci la fine del grillo parlante. Tacqui per 12 anni. Poi una sera, a Monaco di Baviera, alla vigilia di Italia-Germania, un collega di Radiorai mi dice che sei al &ldquo;Calabrone&rdquo;, il ristorante del mio albergo. &ldquo;Vieni a dargli un saluto... Poi una bella intervista...&rdquo;. &ldquo;Non ci parliamo da anni...&rdquo;. &ldquo;Uno deve cedere... provaci tu...&rdquo;. Era passata la mezzanotte. Entrai, ti vidi a capotavola, c&rsquo;era anche Batigol. Mi avevano raggiunto Carlo Verna, Tonino Raffa, Emanuele Dotto, Riccardo Cucchi. Mi fermai sulla porta, pronto a ritirarmi, poi sentii la tua voce, una cantatina sfottente e amica insieme: &ldquo;Forsa Bolonia&rdquo;, proprio come il Petisso, ricordi? Ti sei alzato, mi sei venuto incontro con un bel sorriso, ci siamo abbracciati e ci siam messi a piangere come due ubriachi. Ti abbraccio an&nbsp;che oggi, e piango, Diego mio. Ma poi sorrido. Sarai vivo per sempre&raquo;. 

Ivan Zazzaroni nel suo editoriale, assieme a Italo Cucci, racconta&nbsp;la storia tra Diego Armando Maradona e il Guerin Sportivo, un rapporto meraviglioso, nato non per caso.&nbsp;

Diego Armando Maradona era nostro dal &#39;78

A Napoli, per tre anni, il percorso calcistico di Bruno Giordano ha intersecato quello di Diego Maradona. Per ricordarlo abbiamo raccolto le impressioni di colui che El Pibe de Oro defin&igrave; il giocatore &ldquo;pi&ugrave; sudamericano tra quelli che sono nati nel vostro meraviglioso Paese&rdquo;.  Bruno, sul tuo profilo WhatsApp campeggia una foto in bianco e nero che ti ritrae insieme a Maradona. C&rsquo;&egrave; un motivo particolare?  &quot;In questo modo ogni giorno lo vedo e lo ringrazio per quello che ci ha fatto vivere non solo in campo ma anche fuori: ho avuto la fortuna di avere un&rsquo;amicizia speciale con Diego che nessuno potr&agrave; mai togliermi e che mi tengo stretta nel cuore&quot;.  Quanto incise la presenza di Maradona nella tua scelta di andare al Napoli nel 1985?  &quot;Tanto! Diciamo il 50 per cento, il resto fu dovuto ad Allodi, che aveva una cotta per me gi&agrave; ai tempi in cui voleva portarmi alla Fiorentina dei Pontello. Quando c&rsquo;&egrave; stata l&rsquo;occasione, sia lui che Diego spinsero tanto per avermi&quot;.  Cosa ti colp&igrave; di lui la prima volta che lo incontrasti?  &quot;Ci salutammo prima dell&rsquo;amichevole Italia-Argentina del 1979. Ho memoria del fatto che in mezzo al campo Tardelli cercava di stargli dietro: l&igrave; mi resi conto della forza di questo giocatore perch&eacute; in quel periodo saltare Marco non era semplice. E poi mi colp&igrave; molto anche quando mi feci male ad Ascoli: mi mand&ograve; un telegramma da Barcellona&quot;.  Cosa significava scendere in campo con Maradona?  &quot;Prima di tutto c&rsquo;era gioia, quella che lui trasmetteva. Di solito quando si avvicina la partita sale la tensione: lui, invece, ci trasmetteva questa gioia di andare in campo, divertirci e divertire la gente. Certo, per lui era molto pi&ugrave; semplice che per tutti noi&hellip; (ride, ndi). Era talmente bello vederlo giocare che a volte invece che fare un movimento ti fermavi a guardarlo perch&eacute; faceva cose incredibili&quot;.  Ci sono tre istantanee di Diego Maradona ai Mondiali che mi farebbe piacere che tu commentassi: la doppietta che fece contro l&rsquo;Inghilterra nel 1986; la sua inquadratura prima della finale del 1990 a Roma; e la sua prematura uscita di scena nel 1994 negli Stati Uniti.  &quot;Nella partita con l&rsquo;Inghilterra realizz&ograve; il gol del secolo: a sentire quella telecronaca vengono ancora i brividi. Ma io credo che la prestazione migliore in assoluto la fece col Belgio, quando oltre a segnare i due gol disput&ograve; un match perfetto. L&rsquo;episodio prima della finale del 90 fu una brutta cosa da parte dei tifosi italiani: un inno nazionale non si deve mai fischiare. La reazione che ebbe ci stava tutta. Quello che accadde in America fu una &ldquo;porcata&rdquo;: fecero quella sceneggiata con &ldquo;l&rsquo;infermierina&rdquo; che and&ograve; a prendere Diego in mezzo al campo&hellip;&quot;.  Maradona era un uomo forte o un ragazzo fragile?  &quot;Era straordinario quando c&rsquo;era il pallone di mezzo. Fuori dal campo era fragile, ma credo che abbia sbagliato soprattutto nelle scelte delle persone che gli stavano vicino, dal procuratore Coppola ai tanti signor s&igrave; che erano l&igrave; e non avevano la forza di dirgli: &ldquo;Questo non si pu&ograve; fare&rdquo;. Diego era un ragazzo che ascoltava molto: ricordo che a me, Bruscolotti e Bagni ci stava a sentire. Forse perch&eacute; avevamo qualche anno in pi&ugrave;, ma alla fine ci dava ragione e faceva quello che gli consigliavamo&quot;.  Tutti i compagni di squadra che ha avuto ne hanno sempre parlato bene. C&rsquo;era un modo per non essere amici di Diego?  &quot;Non lo so, ma era difficile non andare d&rsquo;accordo con lui perch&eacute; era vero, diretto e generoso. Forse se gli facevi la pasta aglio e olio un po&rsquo; scotta si arrabbiava (ride, ndi)&quot;.  C&rsquo;&egrave; un aneddoto che vi riguarda e che non &egrave; conosciuto dal pubblico?  &quot;Devo tornare all&rsquo;amichevole Italia-Argentina del &rsquo;79. A fine partita ricordo che mi chiese se gli potevo indicare un posto dove avrebbe potuto andare a ballare per passare la serata: glielo suggerii e lui ci and&ograve;&quot;.  Se oggi potessi incontrarlo, cosa diresti a Diego?  &quot;Quello che gli dicevo quando ci salutavamo: &ldquo;ti voglio bene&rdquo;. Glielo dicevo sempre: &ldquo;Ricordati che ti voglio un mondo di bene&rdquo;. E lui mi rispondeva: &ldquo;Lo so&rdquo;. Continuerei a dirgli questo all&rsquo;infinito&quot;. 

&quot;Ci univa un legame forte che conservo stretto nel cuore. Vorrei poterlo rivedere e dirgli ancora una volta: Ti voglio bene!&rdquo;

Bruno Giordano racconta il &ldquo;suo&rdquo; Maradona dentro e fuori il campo

Siamo Campioni del Mondo. sono Campione del Mondo, &egrave; la cosa pi&ugrave; bella della mia vita, il successo pi&ugrave; importante per la carriera di un calciatore. Da tempo ero considerato il migliore del mondo, ora in lotta con Platini o con il calciatore del momento.  Cosa succede dopo la vittoria Mondiale  Questo Mundial ha risolto inutili paragoni, faziosi interrogativi. sono felice, ma sempre uguale: Maradona non &egrave; cambiato, &ldquo;Pelusa&rdquo; nemmeno. Non pu&ograve; cambiarmi un successo. Anche il pi&ugrave; prestigioso. il titolo di &ldquo;campeon&rdquo; non mi ha fatto pi&ugrave; uomo e migliorato il talento calcistico. La notte dormo come un cavallo, i ricordi servono per i giornali e le interviste televisive. Ho tutto impresso nella mente, ci&ograve; non mi turba... tra le tante emozioni del 29 giugno &rsquo;86, scelgo l&rsquo;abbraccio con Bilardo al termine della partita. Carlos &egrave; un amico che mi ha aiutato molto dandomi fiducia e responsabilit&agrave;, la fascia di capitano, il ruolo di leader della squadra. ora tutti si chiedono se l&rsquo;allena&nbsp;tore della Nazionale Campione del Mondo rester&agrave; al suo posto firmando con la Federazione argentina per altri quattro anni. Me lo auguro, per quanto ha fatto per il calcio argentino, per il &ldquo;gruppo&rdquo; che divide con lui i meriti di Messico &rsquo;86.&nbsp;Grondona gli ha offerto di restare fino al &rsquo;90, la pi&ugrave; grande rivincita su tutti i denigratori: Carlos ha offerte dalla Colombia e dall&rsquo;Europa, verrebbe in italia, ma sar&agrave; soltanto lui a decidere. se andr&agrave; via come temo porter&agrave; con s&eacute; la gloria delle imprese impossibili. Ha sofferto molto, si &egrave; guadagnato questi momenti di festa, questi riconoscimenti. Vorrei che restasse citt&igrave; della seleccion, ma nessuno ha il diritto di imporgli questa scelta.   Casa mia &egrave; una bolgia. Mille telefonate al giorno   Casa mia &egrave; una bolgia. Mille telefonate al giorno, 286 telegrammi tra i quali quello di Giulio Andreotti dal Ministero degli esteri italiano, sembro essere diventato importante cetto di Devoto, il mio quartiere. Raul e Hugo volevano festeggiare cos&igrave;, mi hanno caricato sul sedile posteriore dell&rsquo;auto nascosto tra coperte e giacche a vento, nessuno si &egrave; accorto del blitz, siamo riusciti a giocare in tranquillit&agrave;. Per ritirare l&rsquo;onorificenza di Cittadino illustre ho dovuto attendere 9 giorni, mi &egrave; stato impossibile andare con la Nazionale al santuario della Vergine di Lujian.  Le vacanze e poi il Napoli  Buenos Aires &egrave; impazzita per 48 ore, pian piano si torna alla normalit&agrave;, ai ritmi quotidiani. Ho cambiato il piano vacanza gi&agrave; due volte, dovevo partire subito: andr&ograve; prima in Brasile, poi in Polinesia. Dovrei rientrare in italia per fine mese dopo la partita di Los Angeles. Ho voglia di rivedere i miei compagni del Napoli, di ricominciare a lavorare con il mio club. La prossima &egrave; una stagione importante. Sono Campione del Mondo, come me, con lo stesso spirito dovranno sentirsi gli altri, vecchi e nuovi. Il Napoli &egrave; in corsa per lo scudetto,c&rsquo;&egrave; molto entusiasmo.Al rientro sar&ograve; pronto per la galoppata azzurra. speriamo che Ferlaino esaudisca il tecnico, che compri chi indicato dall&rsquo;allenatore, al resto penseremo noi. Nell&rsquo;ultima telefonata, due giorni dopo il rientro a casa, Ferlaino mi ha parlato del piano di rafforzamento, hanno avuto un netto incremento le vendite di abbonamenti, non possono esserci paure per la storia del calcio truccato. Lo spogliatoio del Napoli &egrave; pulito. Ferlaino mi ha detto testualmente che i napoletani sono orgogliosi del loro capitano; per me &egrave; importante. Non sono soltanto frasi di convenienza, mi impegner&ograve; a fondo come ho sempre fatto, Napoli aspetta lo scudetto: ci proveremo, in lotta con inter, Milan, Juve, Roma. Ora lo scudetto &egrave; un obbligo, ma per tutti: da Garella a Maradona, ai giovani, ai nuovi.  Maradona sul tetto del mondo  Ho sempre giocato per vincere, partita per partita: sono abituato a vincere da quando sono nato. Questo Mundial far&agrave; cambiare qualcosa nella considerazione dei mass media, dell&rsquo;opinione pubblica. Fino all&rsquo;ultimo campionato Napoli rappresentava la contrapposizione al potere del Nord: Napoli contro la Juve, Platini e Maradona.   Non voglio polemiche con il francese, anche se&nbsp;l&rsquo;unica cosa che mi piace della Francia sono le donne   Hanno sempre avuto riguardi e attenzioni per Platini, ora il mondo dice Maradona. Non voglio polemiche con il francese, anche se l&rsquo;unica cosa che mi piace della Francia sono le donne.  Ai napoletani, un messaggio: che ci lascino tranquilli, che ci aiutino a difendere il nostro equilibrio.serve il rispetto della gente, dei giornalisti, della citt&agrave;, per raggiungere grandi traguardi. &Egrave; stato il segreto della vittoria dell&rsquo;Argentina. Napoli deve darmi la stessa tranquillit&agrave; del ritiro di Messico &rsquo;86. Non voglio sentir parlare di storie di camorra, di pettegolezzi stupidi, inutili polemiche. Quando arrivai a Napoli conoscevo poco l&rsquo;ambiente, arrivavano inviti da ogni dove, chiunque voleva una foto con Maradona. In due anni ho capito che il difetto di questa citt&agrave; &egrave; l&rsquo;ingenuit&agrave; e la leggerezza di certi giudizi.  Quali scelte per il futuro di Maradona?&nbsp;  Mi sono trovato coinvolto in storie assurde per aver festeggiato la nascita di un bimbo. Per me i bambini sono tutti uguali, anche se magari il pap&agrave; o un parente pu&ograve; avere problemi con la giustizia. sono cose passate, ma racconto tutta la verit&agrave;. Un giorno mi telefon&ograve; Ferlaino chiedendomi dei miei rapporti personali, la mia vita privata. Gli risposi che se il Napoli non era contento di me, potevo andar via. Cose passate: invito tutti i napoletani, a partire dai dirigenti, a proteggere la privacy di tutti i giocatori. &Egrave; importante, determinante. Napoli &egrave; la seconda citt&agrave; della mia vita, potrei allungare il mio contratto, restare per sempre.  C&rsquo;&egrave; tempo, vedremo: se accetteranno il mio ritorno in Argentina per un anno, al Boca, per giocare insieme ai miei fratelli come desidera mia madre. Lalo e il &ldquo;turco&rdquo; (Hugo, n.d.r.) hanno cominciato la carriera, vorrei con me Huguito al Napoli. Subito. se riapriranno al terzo straniero...  &Egrave; un momento importante per il calcio argentino. Dar&agrave; maggiore possibilit&agrave; ai 22 mundialistas. Brown non aveva squadra, andr&agrave; in Colombia o in Germania. Chi rester&agrave; qui godr&agrave; vantaggi economici. Che dir&agrave; l&rsquo;Adidas a Cuciuffo, adesso...? Non voleva riconoscergli il contratto fatto prima del Mondiale, &ldquo;Cuciu&rdquo; era deluso, adesso aspetta scuse e quattrini.Il Mundial non pu&ograve; risolvere problemi che sono problemi legati alla condizione del Paese. Continuer&agrave; l&rsquo;esodo dei migliori, accade anche in altri campi professionali. Nessuno sa quanti medici, ingegneri, illustri professionisti lasciano l&rsquo;Argentina. il calcio ha altra pubblicit&agrave;...  I giocatori argentini  Qualcuno dice che dovrei restare qui, simbolo del nostro football. &Egrave; impossibile; ep&nbsp;poi, quando decisi di andare via, al Barcellona, capii che sarebbe stata una grande esperienza di vita. Sono cambiato, posso ancora imparare tanto. Alfonsin si &egrave; complimentato, si vedeva l&rsquo;orgoglio della Nazione sul suo viso.il pallone pu&ograve; aiutare il Paese nella ripresa, immagine di pulizia e successo. Dobbiamo sfruttare questo momento,l&rsquo;esperienza insegna che tra qualche tempo torneranno polemiche e interessi di parte.   La forza del gruppo &egrave; cosa importantissima,&nbsp;bisogna salvaguardare i valori umani, i rapporti personali   La forza del gruppo &egrave; cosa importantissima, bisogna salvaguardare i valori umani, i rapporti personali. Al club America abbiamo sempre risolto tra noi i problemi di spogliatoio. Una volta mi feci carico di una scappatella di Islas, uscito senza permesso, a Bilardo dissi una bugia. in certi momenti poteva servire anche l&rsquo;autorizzazione del capitano. Carlos voleva prendere drastici provvedi-menti. Ci riunimmo, parlammo. Dalla discussione usc&igrave; un gruppo pi&ugrave; forte.  Islas attraversava un momento delicato, aveva preso male il ruolo di secondo portiere. In una squadra esistono difensori, centrocampisti, attaccanti: non siamo tutti uguali, tutti hanno i loro problemi professionali e personali. A Bianchi chiedo un sorriso in pi&ugrave;, che capisca di pi&ugrave; il calciatore: spero in un rapporto pi&ugrave; approfondito.   Sono campione del mondo   Sono Campione del Mondo, arrivano richieste di sponsorizzazioni, proposte, idee nuove. &Egrave; un anno importante nella mia vita. Chiedo a Dio l&rsquo;aiuto di sempre, mi impegner&ograve; come sempre alla morte per avere successo nel mio lavoro, per essere felice. Umilt&agrave;, forza, coraggio...Chi non mi ama mi descrive scobutico e superbo. sono Maradona, un ragazzo sincero.  Il Diario Mundial pubblicato dal &ldquo;Guerino&rdquo;&nbsp;&egrave; stata una bella esperienza, ringrazio chi ha contribuito a raccontare 40 giorni indimenticabili. 

Il Guerin Sportivo aveva un inviato speciale a Messico &rsquo;86 Era lui: nel suo diario&nbsp;il trionfo e tanto Napoli

Io, Diego campione del Mondo

        Se qualcosa rimane, come canta De Gregori, qualcuno persiste, aggiungiamo noi: non solo, banalmente, nel ricordo; ma nell&rsquo;esempio, nella realizzazione di ci&ograve; che &egrave; stato e che sembrava impossibile, pi&ugrave; che improbabile; nel richiamo irresistibile del suo nome ogni volta che un qualche pretesto del tempo presente fa affiorare il suo nome; nel paragone spesso forzato con un tempo, un modo di essere, di vincere e di stare al mondo per molti aspetti non replicabili. Non potevano essere pi&ugrave; distanti l&rsquo;uno dall&rsquo;altro, Diego Maradona e Agostino Di Bartolomei, per mille aspetti; forse pi&ugrave; superficiali di quanto si pensasse all&rsquo;epoca, col senno di poi. Non potevano che risultare simili, una volta sgombrato il campo da tutto quello che il tempo ha rimpicciolito, preservando ci&ograve; che conta davvero, mai sbiadito sotto il sole campano, ridente in un&rsquo;immagine da cartolina, amaro e velato di una multiforme malinconia per chi sa sbirciare oltre il velo delle cose. Per chi ricorda quanto sapesse, insospettabilmente per i pi&ugrave;, essere allegro e scanzonato sotto un ci- piglio di perenne seriosit&agrave; Ago; per chi rammenta quale struggimento potesse celarsi nel fondo pi&ugrave; scuro dell&rsquo;anima di Diego, dietro al clamore roboante degli eventi, al frastuono di conquiste memorabili e rovinose cadute esistenziali, per rumorose o silenti che fossero.&nbsp; Diego e Ago, due condottieri Hanno guidato una squadra e un popolo, termine quest&rsquo;ultimo ben diverso da pubblico, che &egrave; cornice, o folla, che &egrave; solo rumore. Gli escamotage geniali di Corrado Ferlaino, tra buste vuote depositate in Lega e ingenti prestiti bancari per portare Diego a Napoli, nell&rsquo;estate del 1984, dopo i malumori catalani e una gamba ricostruita. La discesa negli inferi della Serie C in quella del 1988, senza battere ciglio, per Ago, dopo quell&rsquo;ultima stagione di A a Cesena e con una vita di Roma e tre anni di Milan alle spalle, suggellando una carriera di unanime rispetto con due anni di amore incondizionato. Entrambi davanti al mare, specchiando nei riflessi salmastri due uomini agli antipodi e al tempo stesso due condottieri identici per il seguito che hanno riscosso; per la gioia che hanno diffuso anche e soprattutto nell&rsquo;ombra di vicoli che null&rsquo;altro avrebbero avuto mai da festeggiare. E allora, inquadrate con lo sguardo di chi ha gioito per merito loro, hanno lo stesso valore le coccarde tricolore dei due scudetti napoletani, le riproduzioni di cartone della Coppa Uefa e la promozione in Serie B dell&rsquo;estate salernitana del 1990, quando Ago chiudeva in una teca gli scarpini che aveva sempre lucidato da solo, non permettendo a nessun altro di mettervi mano e Diego si apprestava a disputare la Coppa del Mondo italiana, con il secondo scudetto fiammante sul petto e un titolo mondiale che avrebbe difeso fino alla finale dell&rsquo;Olimpico contro i tedeschi, quando in mondovisione avrebbe ricordato i natali incerti a tutti quelli che fischiavano l&rsquo;inno della sua terra. E alla fine di entrambi torniamo a dire che al gioco hanno devoluto il meglio di loro stessi, entrambi felici entro quelle linee di gesso pi&ugrave; che in ogni altro posto.&nbsp;       

Due figure uniche dentro e fuori dal campo, icone eterne di un calcio che non c'&egrave; pi&ugrave;. Ago in granata ha chiuso la carriera, Diego in azzurro ha scritto la storia

Salernitana-Napoli: Di Bartolomei e Maradona, due leggende immortali

        Sampdoria-Napoli del 24 marzo 1991, una partita storica per pi&ugrave; motivi. Innanzitutto per l&rsquo;importanza sportiva del risultato: un 4-1 con cui i blucerchiati scuciono simbolicamente lo scudetto dal petto dei partenopei, beneficiando anche della sconfitta dell&rsquo;Inter nel derby di Milano che porta i nerazzurri a -3, quando mancano ormai otto giornate al termine. Ma anche perch&eacute; sancisce la fine dell&rsquo;irripetibile storia d&rsquo;amore tra il Napoli e Diego Armando Maradona.&nbsp; Il poker della Sampdoria &nbsp; Marassi gremito per inseguire il sogno scudetto. Vialli e Mancini a guidare l&rsquo;attacco della corazzata di Boskov, che passa in vantaggio gi&agrave; al 12&rsquo; con il corner del Mancio e il colpo di testa di Toninho Cerezo. Sette minuti pi&ugrave; tardi &egrave; ancora il 10 a ispirare il suo Gemello Vialli, bravo a battere Galli con un preciso diagonale. La gara sontuosa di Mancini viene &ldquo;macchiata&rdquo; da un paio di errori sotto porta, ma il fantasista della Samp &egrave; letale nelle vesti di assistman, confezionando un&rsquo;altra traiettoria perfetta sulla quale si fionda ancora Vialli. Al 75&rsquo; un guizzo in area di Zola steso da Mannini, regala l&rsquo;ultima &ldquo;gioia&rdquo; nel campionato italiano al Pibe de Oro: il rigore del 3-1 trasformato da Diego rimarr&agrave; l&rsquo;ultimo sigillo con la maglia del Napoli per l&rsquo;argentino. Ce ne sarebbe un altro, ma il guardalinee annulla il bel gol di Maradona pescato in fuorigioco. La contesa viene chiusa a cinque dal termine da Attilio Lombardo, bravissimo nello spedire in rete il pallone del 4-1. Un gol seguito da un&rsquo;esultanza grintosa, immortalata da uno scatto iconico in cui Popeye scuote la maglia blucerchiata sotto la Gradinata del Ferraris. Un poker senza storia che bissa il parziale scaturito all&rsquo;andata, quando Mancini, con un sensazionale tiro al volo, aveva segnato uno dei gol pi&ugrave; belli di sempre.  Maradona e Mancini: una maglia e un passaggio di consegne  &nbsp; Il Napoli e la Sampdoria, Maradona e Mancini: un passaggio di consegne. Non solo per lo scudetto scucito, ma anche per quella maglia numero 10 rossa indossata quel giorno dal Pibe a Marassi. L&rsquo;attuale Ct dell&rsquo;Italia ha recentemente svelato che al termine di quella gara, l&rsquo;argentino lo ha omaggiato con un presente dal valore inestimabile: la sua ultima maglia indossata in Serie A. La 10 con tanto di dedica per il figlio Filippo &egrave; stata infatti donata dal Pibe al Mancio. Il capitano della Samp &ndash; come Diego d'altronde &ndash; non poteva lontanamente immaginare cosa sarebbe successo a poche ore di distanza dalla partita. Proprio in un ristorante genovese viene comunicato a Maradona l&rsquo;esito del test antidoping effettuato una settimana prima al termine di Napoli-Bari: Diego risulta positivo alla cocaina. &Egrave; la stoccata finale a una leggenda. La squalifica verr&agrave; confermata fino al 30 giugno 1992, decretando cos&igrave; &ndash; dopo due scudetti, una Coppa Italia, una Coppa Uefa, una Supercoppa Italiana, 259 presenze, 115 gol e migliaia di giocate irripetibili &ndash; Sampdoria-Napoli come l&rsquo;ultimo tango di Maradona con la maglia azzurra: l&rsquo;inizio della fine di quello che da molti &egrave; riconosciuto come il calciatore pi&ugrave; forte di tutti i tempi. &nbsp; &nbsp;       

Il 24 marzo 1991 un poker blucerchiato affoss&ograve; gli azzurri a Marassi: fu la gara che sanc&igrave; la fine della storia d&rsquo;amore tra il club partenopeo e il fenomeno argentino

Sampdoria-Napoli, lo “scudetto scucito” e l’ultimo tango di Maradona

        All&rsquo;alba degli anni &rsquo;80 il Napoli cambia allenatore e ritiro estivo: Rino Marchesi subentra a &ldquo;&rsquo;O Lione&rdquo; Luis Vinicio e sceglie di abbandonare il parco del Ciocco, in provincia di Lucca, per andare a Castel del Piano, tra boschi collinari a 60 chilometri da Grosseto, ai piedi del Monte Amiata. Si ricorda un gavettone di Vinazzani a Krol e qualche fuga notturna, con Marchesi che ogni tanto riesce a beccare il malandrino di turno. Nell&rsquo;estate del 1982 Massimo Giacomini raduna tutti a met&agrave; luglio a San Terenziano, all&rsquo;Hotel dei Pini, in provincia di Perugia. &Egrave; l&igrave; che dopo una decina di giorni di lavoro arriva Ramon Diaz, l&rsquo;argentino che fa sognare i tifosi, ma che in azzurro non decoller&agrave; mai. Mentre il gruppo si allena il nuovo general manager Beppe Bonetto discute i rinnovi di contratto e risolve le grane con ciascuno dei calciatori della rosa, secondo una tradizione estiva ben consolidata, soprattutto negli anni Sessanta e Settanta: &laquo;Penso che in una settimana definir&ograve; la questione &ndash; racconta Bonetto ai giornalisti il 26 luglio 1982 &ndash; d&rsquo;altra parte con quelli con cui mi sono finora incontrato ho potuto concludere con reciproca soddisfazione&raquo;. Il giorno successivo i problemi arrivano dal campo per un bisticcio tra Bruscolotti e Celestini per un fallo, durante la partitella di allenamento: Giacomini, per evitare guai, spedisce i litiganti negli spogliatoi.&nbsp;  L'arrivo di Maradona  Nel 1983 mister Pietro Santin porta tutti ad Abbadia San Salvatore, in provincia di Siena, tra l&rsquo;entusiasmo dei tifosi per l&rsquo;arrivo del brasiliano Dirceu e la conferma di Krol e Bruscolotti. Il programma della preparazione prevede dieta disintossicante e doppia seduta di allenamento giornaliera, sotto gli occhi attenti del massaggiatore Carmando. Nel 1984 torna Marchesi che riporta tutti a Castel del Piano, tra l&rsquo;entusiasmo generale per l&rsquo;arrivo di Maradona. &laquo;L&rsquo;eccessiva euforia, potrebbe nuocerci &ndash; ammonisce il portiere Luciano Castellini, dall&rsquo;alto dell&rsquo;esperienza che gli danno i suoi quasi 39 anni - proviamo prima a fare qualcosa di concreto e poi ci esalteremo&raquo;. Alla prova dei fatti il campionato non sar&agrave; esaltante, chiuso all&rsquo;ottavo posto nonostante Maradona.&nbsp;&nbsp;Con Ottavio Bianchi si passa a Madonna di Campiglio, dove il Napoli svolge la preparazione estiva per cinque anni, dal 1985 al 1989. Al primo anno, addirittura, il gruppo partenopeo resta al lavoro per oltre un mese, dal 10 luglio al 12 agosto, spostandosi anche a Spiazzo, nel Trentino, e a Valle Cascia di Montecassiano, nelle Marche.&nbsp;  Verso il primo, storico scudetto  Nel 1986 la preparazione che vale il primo scudetto &egrave; svolta inizialmente a Madonna di Campiglio per poi spostarsi nella vicina Lodrone. La nota stonata, dopo un paio di giorni di lavoro, &egrave; il grave infortunio al ginocchio destro dello &ldquo;scugnizzo&rdquo; di Pozzuoli Antonio Carannante, che non riuscir&agrave; a vedere il campo neanche per un minuto nella stagione tricolore. Nel 1987 invece l&rsquo;inizio della preparazione &egrave; turbato dall&rsquo;assenza ingiustificata di Andrea Carnevale, che fa infuriare il general manager Luciano Moggi. Il caso si chiuder&agrave; soltanto a fine settembre, con il reintegro in rosa dell&rsquo;attaccante dopo due mesi di braccio di ferro. D&rsquo;altronde Madonna di Campiglio era stata soprannominata, con ironia tutta napoletana, Madonna di Scompiglio, anche se nell&rsquo;estate 1988 vede la pace tra Maradona e Bianchi, dopo i dissidi per lo scudetto perso in volata col Milan poche settimane prima. Nel 1989, con Albertino Bigon in panchina, &egrave; invece Maradona a far preoccupare i tifosi: il suo rientro in Italia viene rinviato pi&ugrave; volte, l&rsquo;Olympique Marsiglia prova a ingaggiarlo, ma alla fine El Pibe de Oro si accorda con il presidente Ferlaino, tornando in squadra all&rsquo;inizio di settembre. Gli attriti saranno dimenticati in fretta in una stagione che porta il secondo scudetto sotto il Vesuvio.&nbsp;  I ritiri degli anni '90  Nel 1990 la preparazione si sposta a Vipiteno, mentre nel 1991 e 1992 si va a Molveno, agli ordini del nuovo allenatore Claudio Ranieri. L&rsquo;arrivo di Marcello Lippi nel &rsquo;93 riporta tutti a Madonna di Campiglio: nella prima amichevole, contro i dilettanti della Rendenese, l&rsquo;attaccante di scorta Buso segna la bellezza di 5 gol e Policano 4. I ritiri degli anni successivi sono all&rsquo;insegna del cambiamento di allenatori e di sedi: nel 1994 Vincenzo Guerini porta il Napoli a Castel del Piano, nelle Marche, dove il giovane Imbriani si trasforma in bomber infallibile, prima di dimostrarsi niente pi&ugrave; che una meteora. Nel 1995 si torna al Ciocco con Vujadin Boskov mentre nel 1996 tocca a Lavarone, con Gigi Simoni in panchina. Nel 1997 Bortolo Mutti lavora con la squadra a Borno, nel bresciano, per poi partire per una gara a Los Angeles a met&agrave; agosto. Gli anni Novanta si chiudono con il ritorno a Il Ciocco, per preparare il campionato di Serie B agli ordini di Renzo Ulivieri, e a Predazzo, dove Walter Novellino lavora proficuamente per tornare nel massimo campionato: &laquo;Napoli &egrave; una grande piazza, chiunque vorrebbe lavorare qui&raquo; dice il tecnico al momento del suo arrivo. Il suo entusiasmo sar&agrave; ripagato con la promozione in Serie A.        

Da Castel del Piano a Madonna di Campiglio passando per Abbadia San Salvatore, riperccorriamo i luoghi della preparazione precampionato della squadra azzurra

Napoli, ritiri anni '80 e '90: gol e gavettoni sulle montagne italiane

        22 giugno 1986: appuntamento con la storia. Quarti di finale della Coppa del Mondo. Lo Stadio Azteca brilla: la luce del sole &egrave; accecante, ma s&rsquo;incentra su un singolo giocatore, quello con la maglia numero dieci dell&rsquo;Argentina.&nbsp;L&rsquo;Albiceleste non &egrave; una squadra da titolo, ma in campo ha Diego Armando Maradona. Basta lui per mettere in ginocchio l&rsquo;Inghilterra.&nbsp;Due gol per la leggenda: il primo &egrave; un&rsquo;astuzia, un pugno teso verso il cielo che anticipa l&rsquo;uscita di Shilton, che schiaffeggia il regolamento del calcio e che penetra dritto dritto nello stomaco dei gentlemen inglesi, i quali rimangono attoniti davanti all&rsquo;esultanza di Diego. Maradona non ha finito: Enrique serve &ldquo;l'assist del secolo&rdquo;, un passaggio di cinque metri al Dies che riceve il pallone a 70 metri dalla porta. Parte. Nessuno lo pu&ograve; fermare. Dentro quel gol c&rsquo;&egrave; tutto: classe sopraffina, corsa, rabbia, orgoglio, genio. Gli inglesi non lo possono fermare, non hanno quella cattiveria ideologica per intervenire duramente sulle gambe di Maradona. Diego va: corre verso l&rsquo;infinito, incontrastato in direzione dell&rsquo;area di rigore avversaria. Salta tutta l&rsquo;Inghilterra, compresa la Thatcher, Primo ministro del Regno Unito che pochi anni prima aveva intrapreso la guerra alle Malvinas, nella quale pi&ugrave; di 600 argentini persero la vita per difendere un paio di rocce vicino all&rsquo;Antartide. Maradona ha appena segnato il gol del secolo. Per descriverlo non servono tante parole, basta una frase, pronunciata da Victor Hugo Morales, il telecronista di quella partita: &laquo;De qu&eacute; planeta viniste, barrilete cosmico!&raquo;.       

Il 22 giugno 1986 El Pibe de Oro si carica sulle spalle tutta l'Argentina e annichilisce l'Inghilterra con due reti iconiche, entrate, in modo diverso, nella storia del calcio

Maradona vs Inghilterra, due gol per la leggenda

        In 33 anni ha cambiato il Napoli. Corrado Ferlaino, entrato in societ&agrave; nel 1967, presidente dal 1969 al 2000 salvo brevi intervalli, ha portato in Italia Maradona, che ha coperto pi&ugrave; volte nei momenti di buio personale, come confess&ograve; al Mattino nel 2003. Ha costruito i due scudetti e la Coppa Uefa, ha voluto Antonio Juliano come direttore generale e ingaggiato due grandi manager come Italo Allodi e Pier Paolo Marino. Il Napoli, diceva, &egrave; come una Formula 1: o la sai guidare o rischi di farti male. E Ferlaino, campione italiano di gran turismo nel 1963, quattro partecipazioni alla Mille Miglia alle spalle, parla per esperienza diretta.&nbsp;  La vita prima del calcio e gli inizi&nbsp;  Ingegnere, inizia a lavorare con l&rsquo;impresa di pap&agrave; Modesto poi si mette in proprio ma continua a progettare per lui. Costruisce 10-12mila appartamenti fra i Colli Aminei e il Rione Alto. Realizza dodici ville ad Anacapri e palazzi al Centro Direzionale, a Milano. Diventa presidente del Napoli il 18 gennaio del 1969, alla morte di Antonio Corcione, uno degli azionisti di maggioranza. Sale di corsa le scale di un palazzo nobile mentre i concorrenti aspettano l&rsquo;ascensore, e convince la vedova a vendergli le quote del marito. Irrequieto, si fa squalificare da giovane quando giocava nel campionato Intersociale per un pugno all&rsquo;arbitro, si sposa a vent&rsquo;anni con una ragazza di sedici, ma si separa dopo una decina d&rsquo;anni. Si considera l&rsquo;ultimo Borbone, lo scomparso Guido Passalacqua gli d&agrave; del buffone dopo il mancato passaggio di Juliano al Milan. Imprenditore scaltro, promette che prima o poi riuscir&agrave; a portare lo scudetto a Napoli. E quasi ci riesce al terzo anno, ma l&rsquo;arbitraggio contestatissimo di Gonella, che sar&agrave; l&rsquo;arbitro della finale del Mondiale 1978, nello scontro diretto a San Siro contro l&rsquo;Inter rimanda il sogno.&nbsp;  Mister due miliardi e gli anni &lsquo;80  Il primo grande colpo matura nel 1975, un anno triste per l&rsquo;Italia, il peggiore del dopoguerra per il ministro del lavoro Carlo Donat-Cattin. Il PIL crolla quasi del 3%, le ore di cassa integrazione salgono del 133%, nessuno dei 44 contratti nazionali viene rinnovato. Il Napoli, per&ograve;, spende due miliardi (1,4 in contanti pi&ugrave; Clerici e la compropriet&agrave; di Rampanti valutati 600 milioni) per Beppe Savoldi. Della cifra si parla, con facile moralismo d&rsquo;accatto, in mezza Europa. Savoldi per&ograve; segna 14 gol e aiuta gli azzurri a vincere la seconda Coppa Italia della loro storia. Con gli anni Ottanta si apre un nuovo ciclo. Ferlaino richiama Antonio Juliano, che aveva lasciato Napoli da calciatore per questioni tecniche e di ingaggio. Vorrebbe pi&ugrave; autonomia nella scelta del tecnico, anche se Ferlaino lo scavalca (e non sar&agrave; la prima volta) perch&eacute; gi&agrave; in parola con Rino Marchesi. &Egrave; tutto di &ldquo;Totonno&rdquo;, per&ograve;, il blitz a Vancouver che fa atterrare a Capodichino, accolto da migliaia di tifosi festanti, Ruud Krol. Con lui il Napoli assapora il tricolore, sfumato solo all&rsquo;ultima giornata per l&rsquo;autorete di Ferrario contro il Perugia gi&agrave; in B.&nbsp;  Il colpo del secolo  Il colpo del secolo nasce come una boutade, nell&rsquo;intervallo di un&rsquo;amichevole Italia-Germania a Zurigo. Il presidente federale Sordillo gli chiede chi sar&agrave; il suo prossimo colpo, Ferlaino annuncia con quella che dovrebbe essere solo una battuta: prendo Maradona. Trentanove giorni dopo, il 30 giugno 1984, il dio del calcio scende davvero a Napoli. Il Pibe de Oro &egrave; in rotta con il Barcellona, che chiede 13 miliardi. Gli azzurri non li hanno ma il sindaco Enzo Scotti, notabile Dc, mette Ferlaino in contatto con Ferdinando Ventriglia, il presidente del Banco di Napoli. La trattativa &egrave; estenuante, ma i fondi si trovano. L&rsquo;ultimo giorno utile prima della chiusura del mercato, Ferlaino prende l&rsquo;aereo per Milano, consegna una busta vuota, poi parte per Barcellona, fa firmare Maradona, torna di notte in Lega e, con l&rsquo;aiuto di una guardia giurata, sale negli uffici dove sostituisce le buste. Il segreto dura per poco, i giornali lo scoprono ma il calcio italiano chiude un occhio. &Egrave; l&rsquo;epoca migliore di sempre del Napoli. Ferlaino protegge Maradona dai controlli antidoping, si commuove quando gli azzurri alzano la Coppa Uefa 1988-89 al Neckarstadion di Stoccarda davanti a tanti emigrati napoletani, tesse buoni rapporti con il designatore Gussoni che manda un meridionalista come Concetto Lo Bello per Verona-Milan del 22 aprile 1990: i rossoneri perdono testa, partita e scudetto. &Egrave; anche l&rsquo;anno della monetina che colpisce Alemao, con effetti, lo confessa, ingigantiti. Lascia dopo 33 anni, all&rsquo;alba del terzo millennio, con i conti in ordine. Ma il miracolo non si ripeter&agrave;.       

Amante di donne e motori, compr&ograve; Maradona e fu artefice dei grandi successi azzurri in Italia e in Europa

Corrado Ferlaino, il presidente che fece grande il Napoli compie 90 anni

        &Egrave; la mattina del 29 aprile 1990, i Mondiali sono ormai alle porte, ma Napoli &egrave; gi&agrave; tinta d'azzurro con sfumature tricolore. &Egrave;&nbsp;il grande giorno, manca solo un piccolo ultimo passo verso lo scudetto. Al San Paolo arriva una Lazio che non ha pi&ugrave; nulla da chiedere al campionato: Maradona e co. sono padroni del proprio destino. Con un pareggio il tricolore &egrave; assicurato.&nbsp; Gli ultimi 90 minuti  23.153 paganti, 39.346 abbonati, con 'O surdato 'nnammurato' che accompagna gli azzurri dagli spalti. Il San Paolo &egrave; un tripudio di bandiere, la festa &egrave; gi&agrave; iniziata, nonostante manchino ancora 90 minuti. Intanto le vie di Napoli sono pronte ad accogliere il secondo scudetto: la Lazio non sembra in grado di poter rovinare la festa. E se in campo hai Diego Armando Maradona, la storia la porti a termine senza particolari sforzi. Il Pibe &egrave; scatenato - tutta la Seleccion e il tecnico Bilardo fanno il tifo per lui dalla tribuna -, sembra tornato quello guizzante di Mexico '86, "el genio del futbol Mundial". Anche se a volare in aria, leggero e imponente come un "aquilone cosmico", c'&egrave; Marco Baroni. Quando scocca il settimo minuto, ecco il primo boato di giornata. Diego guadagna una punizione sulla trequarti, la sua battuta &egrave; tesa e tagliata: Baroni sale in cielo e batte imperiosamente il portiere laziale Fiori. Sar&agrave; lui il migliore in campo tra gli ospiti, incapaci di reagire in una contesa che gi&agrave; sembra terminata dopo appena sette giri d'orologio. S&igrave; perch&eacute;, il sigillo di Baroni rester&agrave; per sempre il gol scudetto: ancora oggi a distanza di 31 anni, l'istantanea del suo volo &egrave; una preziosa cartolina per il popolo partenopeo.&nbsp;Eccolo il secondo boato, quando l'arbitro Sguizzato riceve direttamente la sfera dalle mani dell'indimenticato Giuliano Giuliani, per alzare le braccia e fischiare tre volte, decretando l'inizio ufficiale di una festa che sugli spalti gi&agrave; impazza da ore. Un campionato entusiasmante, tra agganci in vetta, sorpassi e controsorpassi, fino a quella monetina, seguita dalla Fatal Verona 2.0, una distrazione troppo grande per non essere pagata a caro prezzo dai rossoneri. Due scudetti nell'arco di tre anni, grazie a Diego, grazie a Ferlaino, ma anche grazie a Bianchi, Bigon e tutti gli altri. Un capolavoro architettato dal presidente, che pu&ograve; fregiarsi di qualcosa di unico e straordinario. La "festa" rossonera  Nel frattempo a Bergamo - il Milan gioca l&igrave; per la rizollatura di San Siro in vista dei Mondiali - finisce anche il campionato dei grandi rivali, quel Milan di Sacchi che aveva beffato gli azzurri nel 1988 e che adesso viene ripagato con la stessa "monetina". Una beffa secondo i rossoneri, ai quali per&ograve; restano solo lacrime da versare proprio su quella monetina. Il Napoli, prima del solenne 1-0 sui biancocelesti, in casa aveva perso solo 1 dei 34 punti a disposizione, contro la Sampdoria, squadra che tra un anno gli scucir&agrave; lo scudetto dal petto. Una marcia costruita tra le mura amiche, continuit&agrave; che &egrave; mancata alla squadra di Sacchi, che ha invece costruito la sua classifica sui successi in trasferta. Al Comunale di Bergamo i rossoneri chiudono la stagione con un 4-0 sul Bari. L'urlo a fine gara tra i salti dei tifosi rossoneri che portano in trionfo Arrigo Sacchi &egrave; un consolatorio, ma irreale: "Campioni siamo noi". Dalla festa che si scatena per le vie di Napoli e negli spogliatoi azzurri, non si direbbe. Sacchi parler&agrave;, si complimenter&agrave; con la squadra e con la gente di Napoli: "Loro meritano lo scudetto". Ma i suoi complimenti saranno dedicati solo ed esclusivamente a calciatori e tifosi. A dimostrazione di un'accesa rivalit&agrave; che ha illuminato il calcio italiano degli ultimi anni, portandosi dietro decisioni arbitrali che fanno riflettere ancora oggi con la Var, figuriamoci 31 anni fa. Maradona, un fenomeno anche col microfono  Mezzi nudi e con il sudore spazzato via dallo champagne che scorre a fiumi, i giocatori azzurri festeggiano cantando "chi non salta rossonero &egrave;".&nbsp;&Egrave; questa la risposta dagli spogliatoi del San Paolo, dove la festa &egrave; reale e dove il grande intruso &egrave; il "Bisteccone", Giampiero Galeazzi. L'inviato della Rai ha la trovata geniale: "Per la festa del Napoli Maradona speaker. Vai con le interviste. Vai. Vai!". Diego si destreggia nello spogliatoio con il microfono in mano. La prima vittima &egrave; Ferlaino, poi Crippa, Carnevale, Alemao, Bigon, perfino il massaggiatore Carmando. Una scenetta epica che i tifosi di tutta Italia hanno avuto la fortuna di poter vedere nella Domenica Sportiva condotta dal mitico Sandro Ciotti. Maradona dimostra di saperci fare anche con il microfono, punzecchiando con ironia il suo presidente, il suo allenatore e i suoi compagni. Tra un sorso di champagne e l'indimenticabile parlantina dell'argentino, il tema principale &egrave; il futuro. Bigon annuncia la sua firma per la prossima stagione, mentre le belle parole di Carnevale sanno di addio. Nonostante "debba parlare con il presi", Diego vuole giocare la Coppa dei Campioni: i tifosi non volevano sentirsi dire altro. &nbsp;  &nbsp;       

Il colpo di testa dell'ex Lecce su assist di Maradona decret&ograve; gli azzurri campioni d'Italia per la seconda volta. Beffato il Milan di Sacchi

29 aprile 1990, Baroni stende la Lazio: a Napoli è festa scudetto

Diego Maradona &egrave; morto a 60 anni, gli ultimi pieni di problemi di salute di ogni tipo, ma per sempre rimarr&agrave; l&#39;icona del calcio in tutto il mondo. Al punto che &egrave; impossibile ricordarlo senza avere l&#39;impressione del gi&agrave; visto e del gi&agrave; sentito: Maradona era e sar&agrave; sempre fra noi, anche quando l&#39;ultima persona che lo ha visto giocare sar&agrave; scomparsa. Alla retorica preferiamo il ricordo delle sue pi&ugrave; grandi e meno grandi partite, anche se Maradona &egrave; stato molto pi&ugrave; di un fuoriclasse del calcio e non pu&ograve; certo essere raccontato attraverso i trofei alzati. Peraltro molto meno di altri campioni e anche di molte mezze figure, ma dal peso specifico immenso.&nbsp;  Fra le tante ci emoziona in questo momento citare la prima in assoluto con la maglia del Napoli, che fu un&#39;amichevole a Casteldelpiano contro la squadra locale. Biglietti per l&#39;epoca cari (10.000 lire) e attesa spasmodica per la prima partita del pi&ugrave; grande calciatore del mondo, arrivato incredibilmente (il Napoli aveva chiuso la stagione precedente all&#39;undicesimo posto...) un mese prima dal Barcellona. 7.000 tifosi napoletani si presentarono&nbsp;nel paese toscano e la partita fra il Napoli allenato da Rino Marchesi e una squadra di dilettanti si svolse in un clima da Serie A, tra cori e fumogeni. Nei progetti dell&#39;allenatore un Maradona in ritardo di condizione non avrebbe dovuto giocare pi&ugrave; di un tempo, ma le cose andarono diversamente.&nbsp;  Il fuoriclasse argentino stup&igrave; subito tutti non per i gol (alla fine quattro) e gli assist (quattro anche loro) per il 13-1 finale (fra i presunti padroni di casa gioc&ograve; anche il disoccupato Oscar Damiani, l&#39;anno prima nel Milan), ma per l&#39;impegno che fin dal primo minuto mise nel pressing e nei contrasti, con un coraggio sconfinante nella temerariet&agrave;. Era un Maradona gi&agrave; carico, che non si sentiva declassato ad avere accettato le offerte del Napoli e questo fu chiaro subito. Il Napoli cominci&ograve; con Castellini, Bruscolotti, Boldini, Celestini, Marino, Ferrario, Bertoni, De Vecchi, Penzo, Maradona e Dal Fiume. Non proprio una squadra da scudetto, ma dall&#39;altro lato era anche il tipico contesto in cui Maradona si esaltava. Durante l&#39;intervallo Marchesi disse a Maradona che poteva bastare cos&igrave;, inutile correre rischi in un&#39;amichevole, per&ograve; Maradona non fu d&#39;accordo: &quot;Ancora venti minuti, mister&quot;. Marchesi glieli concesse, ma l&#39;atmosfera era tale che nemmeno a met&agrave; secondo tempo riusc&igrave; a sostituirlo. Maradona and&ograve; avanti a giocare come un indemoniato e a dieci minuti dalla fine, su assist di Daniel Bertoni, segn&ograve; in mezza rovesciata un gol che fu visto (in differita, perch&eacute; erano altri tempi) in tutta Italia. Era arrivato Maradona. Maradona.&nbsp;Sembra davvero ieri. 

Uno dei pi&ugrave; grandi campioni di sempre &egrave; morto a soli 60 anni, ma rimarr&agrave; per sempre senza tempo. Sembra storia di ieri il suo esordio con il Napoli in una classica amichevole estiva del 1984, quando a tutti fu chiaro chi era arrivato in Italia...

45 risultati per 'maradona'