Maradona contro Platini, le sfide da leggenda

Maradona contro Platini, le sfide da leggenda

Quando Michel si confrontava con Diego e il campionato diventava un vero spettacolo: dal 1984 al 1987 Juventus-Napoli il top

Paolo Marcacci/Edipress

23.04.2023 ( Aggiornata il 23.04.2023 11:21 )

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Gli anni di due come loro, nella stessa epoca e nel medesimo campionato, con i gesti tecnici di entrambi esibiti nei novanta minuti di una stessa partita, hanno rappresentato il meglio che la Serie A abbia potuto offrire nel corso della sua intera storia. Il bello è che non c’erano loro due soltanto, ma coabitavano nel campionato italiano tutti i più grandi, d’Europa e del Sudamerica. Di loro due, però, anche in ragione del colore delle maglie che indossavano, possiamo dire che oltre a essere grandi fra i grandi erano due paradigmi, non soltanto calcistici. Due modelli, due prototipi che facevano deambulare sul rettangolo verde, con velocità e ritmi differenti, tutta una serie di contrapposizioni etniche, storiche, folcloristiche. 

Maradona, Platini e le storie musicali

Cantava Antonello Venditti, in uno dei suoi pezzi più datati e immeritatamente meno conosciuti, che in fondo “Torino vuol dire Napoli che va in montagna…”; “Se non del tutto giusto, quasi niente sbagliato” risponderebbe Fabrizio De André, che in napoletano ha saputo cantare e che aveva le radici in Piemonte, oltre ad aver ammirato con la maglia del suo amato Gigi Meroni, prima che quest’ultimo andasse a Torino per diventare la farfalla granata. Divagazioni, per le quali ci perdonerete; ghirigori dialettici come corrispettivo di quelli tecnici, espressi a un livello sublime, che in campo esibivano Michel Platini e Diego Armando Maradona, vale a dire Apollo e Dioniso, entrambi rappresentanti di un tempo in cui il campionato italiano era l’Olimpo del football mondiale. 

Le Roi Michel Platini, il pupillo dell'Avvocato Agnelli

Arrivato in Italia per la stagione 1982-1983, Michel Platini aveva lo sguardo, il profilo, persino la pettinatura francese. S’era fatto già conoscere in Europa prima con il Nancy, poi con un grande Saint-Étienne; nel mondo con la fortissima nazionale transalpina, che probabilmente avrebbe meritato di approdare in finale al Mondiale spagnolo del 1982, della quale era già uno dei leader indiscussi. Torino era la città ideale per lui, come non lo sarebbero state né Roma, né Milano; forse paradossalmente sarebbe stata adatta di più Napoli, che all’occorrenza da rispolverare la sua altezzosità culturale e il suo passato filosofico da avamposto illuminista tanto caro alla memoria dei nostalgici di Vico e Pietro Giannone. Ostentava, in campo, una corsa che era quasi più una corsetta: apparentemente indolente, quasi rilassata diremmo. Spesso l’istante in cui appariva più avulso dal contesto dell’azione era proprio quello in cui aveva già razionalizzato il modo, quasi sempre sublime, con il quale le avrebbe dato senso, o addirittura conclusione, quando se ne faceva carico. Più grande della sua classe Platini ha avuto una cosa soltanto, che fungeva da moltiplicatore della classe stessa: la innata razionalità in nome della quale metteva ogni sua giocata sopraffina al servizio dello sviluppo della manovra. Tra le sue tante definizioni, Apollo era anche il dio dell’intelletto e della profezia: profetica sapeva essere sovente l’intelligenza calcistica del fuoriclasse francese; l’aristocratica linearità delle sue giocate, dei suoi lanci che decollavano con la nitidezza con la quale raggiungevano il destinatario; dei suoi calci di punizione per i quali al termine della breve rincorsa il pallone più che impattato dallo scarpino sembrava soffiato con parabola ad arco, come una piuma. 

Maradona, il Dio che fece impazzire Napoli

Dioniso era, invece, fondamentalmente il dio del delirio mistico: esiste forse una definizione più efficace per sintetizzare ciò che Diego Maradona ha portato a Napoli sin dal suo arrivo (dal suo avvento?) sotto il Vesuvio nella stagione 1984 - 1985. “Si yo fuera Maradona, viviría como él..." Perché nessuno l’ha detto meglio di Manu Chao; nessuno meglio di lui l’ha saputo spiegare, con un po’ di versi che sembrano parlare del calciatore, mentre invece stanno assolvendo l’uomo, come se non ci fosse più bisogno di perdonargli nulla. Forse perché soltanto un irregolare può essere in grado di raccontarne un altro; o, forse, perché ci sono uomini che riescono a rimanere più grandi del proprio destino; equilibristi sul filo sottile delle proprie debolezze, come i rimbalzi di un pallone che sembra stia lì lì per cadere e invece non cade mai. Più di due scudetti, una Coppa Italia e una Coppa Uefa, la sua “predestinazione partenopea” la racconta un episodio apparentemente marginale: un giorno d’inverno ad Acerra, con l’erba sepolta dal fango e gli spogliatoi che non si capiva quali e dove fossero. Il Napoli si scalda in mezzo alle macchine e ai furgoni degli ambulanti, con la maglia di tessuto grosso, sponsor Cirio. Maradona saltella e scuote i fianchi, bambini imbacuccati gli posano accanto per lo scatto che terranno nel portafogli tutta la vita. L’amichevole è stata organizzata da Pietro Puzone, compagno di squadra, che da quelle parti è nato e che conosce la famiglia del ragazzino malato a cui andranno i soldi dell’incasso. Ferlaino ne farebbe volentieri a meno, per paura che qualcuno dei suoi si faccia male, Maradona in testa; i Lloyds di Londra, presso i quali il dieci è assicurato, glielo vietano e lui paga una penale pur di giocarla tutta, quell’amichevole, affondando i contrasti, prendendosi la palla in scivolata e portandosela appresso come un barboncino bianco da tenere al riparo dagli schizzi e dall’acqua marrone, da tutta quella merda che può essere la vita, quando piove forte in periferia. In un mondo in cui quasi tutti si sbattono per tentare di nascondere quello che sono, Maradona non fece altro che mostrarsi per ciò che è sempre stato, come quella volta su un campetto di Acerra, con la gente che si sentì al centro del mondo per novanta minuti e lui che poteva soltanto giocarla tutta, quella partita, senza alternative.

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