Tre finali di Coppa del Mondo. Basterebbe questo per portare la mano sul cappello e farci inchinare di fronte a quello che &egrave; ritenuto uno dei terzini pi&ugrave; forti della storia del calcio mondiale. Lui &egrave; Marcos Evangelista de Moraes. Tutti lo conoscono come Cafu, in onore dell'ala brasiliana Cafuringa, idolo del padre. A Roma era anche chiamato Pendolino, soprannome che si &egrave; portato dietro pure a Milano. Nelle due citt&agrave; ha vinto due scudetti, una Champions e svariate coppe nazionali e non. Centoquarantadue le presenze col Brasile, nessuno come lui nella storia della Sele&ccedil;ao. Nessuno come lui, in quel ruolo, nella storia del nostro campionato. <o:p></o:p> Marcos Cafu, un pezzo di storia del Brasile. Quale dei due Mondiali le ha dato pi&ugrave; gioia?<o:p></o:p> "Nel 1994 ero giovanissimo ma giocai un pezzo di finale contro l'Italia di Maldini. Ci ho messo un po&rsquo; a realizzarlo, ho fatto due assist per Bebeto e Romario e ai rigori avevamo capito subito che si era messa bene con l'errore di Baresi. Quello del 2002 l'ho vinto da capitano, ero pi&ugrave; vecchietto. Avevamo al top Ronaldo che era pazzesco. Non saprei scegliere".<o:p></o:p> Il ricordo pi&ugrave; bello alla Roma invece? <o:p></o:p> "I ricordi belli sono tanti, dopo 18 anni abbiamo portato lo scudetto a Roma in una piazza dove un tricolore ne vale dieci. Avevamo una squadra fortissima allenata da Capello e abbiamo vissuto anni meravigliosi in cui ho avuto la fortuna di veder crescere uno come Totti. C'era un'atmosfera fantastica".&nbsp; <o:p></o:p> Se le dico Roma-Parma 3-1?<o:p></o:p> "Mi ricordo tutto di quel giorno, dal primo all'ultimo secondo. Era l'ultima stazione di un viaggio bellissimo. A due minuti dalla fine tutti i giocatori in campo erano con gli occhi fissi sugli spalti, era impossibile non restare incantati da quelle bandiere, quei cori, quei colori. Sembrava di stare in Brasile".<o:p>&nbsp;</o:p> Dopo sei anni di Roma passa al Milan. Un po' per caso, vero?<o:p></o:p> "S&igrave; perch&eacute; avevo chiuso l'accordo con lo Yokohama. A 33 anni pensavo di aver dato tutto in Europa e volevo una esperienza diversa. Poi pochi giorni prima di partire mi chiama il Milan e mi dicono che Ancelotti mi vuole almeno un anno. Potevo dire no al Milan? Ho chiamato in Giappone e loro hanno capito".<o:p></o:p> E a Milano ha scoperto una seconda giovinezza. Due finali di Champions, ci racconta la prima a Istanbul persa ai rigori?<o:p></o:p> "Era una partita finita nel primo tempo, eravamo 3-0 e stavamo dominando. Non ci avevano mai rimontato, quindi ci sentivamo sicuri. Nella ripresa abbiamo subito notato la rabbia e la voglia del Liverpool. Nessuno poteva immaginarlo. Ci &egrave; servito da lezione".<o:p></o:p> Due anni dopo, infatti, &egrave; arrivata la vendetta di Atene sempre con il Liverpool.<o:p></o:p> "Ma non avevamo pensato a vendicarci. Il Milan aveva tanta esperienza. Io avevo 36 anni, Maldini 38, Costacurta 41 e Serginho 35. Sapevamo che era la nostra ultima chance, ma eravamo molto calmi. Poi il gol di Inzaghi ci ha spianato la strada".<o:p></o:p> Torniamo a Roma-Milan, tante sfide. La pi&ugrave; bella?<o:p></o:p> "La pi&ugrave; emozionante &egrave; stata quella nell'anno dello scudetto con la Roma finita 1-1 con gol di Montella. Ma ce ne sono state molte".<o:p></o:p><o:p>&nbsp;</o:p> Ricorda invece quella che consegn&ograve; lo scudetto al Milan nel 2004 con gol di Shevchenko in cui ha avviato lei l'azione?<o:p></o:p> "Sheva sapeva sempre dove stare. Lui aveva immaginato la giocata tra me e Kak&aacute; e gi&agrave; era al posto giusto. Mi &egrave; dispiaciuto per la Roma".<o:p></o:p>

        Tre finali di Coppa del Mondo. Basterebbe questo per portare la mano sul cappello e farci inchinare di fronte a quello che &egrave; ritenuto uno dei terzini pi&ugrave; forti della storia del calcio mondiale. Lui &egrave; Marcos Evangelista de Moraes. Tutti lo conoscono come Cafu, in onore dell'ala brasiliana Cafuringa, idolo del padre. A Roma era anche chiamato Pendolino, soprannome che si &egrave; portato dietro pure a Milano. Nelle due citt&agrave; ha vinto due scudetti, una Champions e svariate coppe nazionali e non. Centoquarantadue le presenze col Brasile, nessuno come lui nella storia della Sele&ccedil;ao. Nessuno come lui, in quel ruolo, nella storia del nostro campionato.  Marcos Cafu, un pezzo di storia del Brasile. Quale dei due Mondiali le ha dato pi&ugrave; gioia? "Nel 1994 ero giovanissimo ma giocai un pezzo di finale contro l'Italia di Maldini. Ci ho messo un po&rsquo; a realizzarlo, ho fatto due assist per Bebeto e Romario e ai rigori avevamo capito subito che si era messa bene con l'errore di Baresi. Quello del 2002 l'ho vinto da capitano, ero pi&ugrave; vecchietto. Avevamo al top Ronaldo che era pazzesco. Non saprei scegliere". Il ricordo pi&ugrave; bello alla Roma invece?  "I ricordi belli sono tanti, dopo 18 anni abbiamo portato lo scudetto a Roma in una piazza dove un tricolore ne vale dieci. Avevamo una squadra fortissima allenata da Capello e abbiamo vissuto anni meravigliosi in cui ho avuto la fortuna di veder crescere uno come Totti. C'era un'atmosfera fantastica".&nbsp;  Se le dico Roma-Parma 3-1? "Mi ricordo tutto di quel giorno, dal primo all'ultimo secondo. Era l'ultima stazione di un viaggio bellissimo. A due minuti dalla fine tutti i giocatori in campo erano con gli occhi fissi sugli spalti, era impossibile non restare incantati da quelle bandiere, quei cori, quei colori. Sembrava di stare in Brasile".&nbsp; Dopo sei anni di Roma passa al Milan. Un po' per caso, vero? "S&igrave; perch&eacute; avevo chiuso l'accordo con lo Yokohama. A 33 anni pensavo di aver dato tutto in Europa e volevo una esperienza diversa. Poi pochi giorni prima di partire mi chiama il Milan e mi dicono che Ancelotti mi vuole almeno un anno. Potevo dire no al Milan? Ho chiamato in Giappone e loro hanno capito". E a Milano ha scoperto una seconda giovinezza. Due finali di Champions, ci racconta la prima a Istanbul persa ai rigori? "Era una partita finita nel primo tempo, eravamo 3-0 e stavamo dominando. Non ci avevano mai rimontato, quindi ci sentivamo sicuri. Nella ripresa abbiamo subito notato la rabbia e la voglia del Liverpool. Nessuno poteva immaginarlo. Ci &egrave; servito da lezione". Due anni dopo, infatti, &egrave; arrivata la vendetta di Atene sempre con il Liverpool. "Ma non avevamo pensato a vendicarci. Il Milan aveva tanta esperienza. Io avevo 36 anni, Maldini 38, Costacurta 41 e Serginho 35. Sapevamo che era la nostra ultima chance, ma eravamo molto calmi. Poi il gol di Inzaghi ci ha spianato la strada". Torniamo a Roma-Milan, tante sfide. La pi&ugrave; bella? "La pi&ugrave; emozionante &egrave; stata quella nell'anno dello scudetto con la Roma finita 1-1 con gol di Montella. Ma ce ne sono state molte".&nbsp; Ricorda invece quella che consegn&ograve; lo scudetto al Milan nel 2004 con gol di Shevchenko in cui ha avviato lei l'azione? "Sheva sapeva sempre dove stare. Lui aveva immaginato la giocata tra me e Kak&aacute; e gi&agrave; era al posto giusto. Mi &egrave; dispiaciuto per la Roma".       

L'intervista al terzino brasiliano ripercorre una lunga carriera costellata di trionfi sia con le squadre di club che con la nazionale&nbsp;

Roma-Milan: i ricordi del doppio ex Pendolino Cafu

Il 17 luglio 1994 il Mondiale Made in USA andava a rappresentare il suo ultimo atto: una finale altisonante che, come ventiquattro anni prima in Messico, poneva di fronte Italia e Brasile. Nel 1970 le due nazionali si erano gi&agrave; aggiudicate due campionati per parte: a chi vinceva sarebbe stata assegnata in via definitiva la Coppa Rimet. A Pasadena le rappresentative si ritrovavano col palmar&egrave;s ancora in situazione di parit&agrave;: 3 titoli a testa. Ma questa volta non ci sarebbe stato nessun conferimento definitivo del trofeo messo in palio dalla FIFA che, dal 1974, era itinerante per vocazione. Vincere, per&ograve;, significava ascendere in solitaria sulla vetta della classifica assoluta dei vincitori dei Mondiali: uno stimolo ulteriore per dare energia a due squadre arrivate a quel pomeriggio infuocato al limite della sopravvivenza agonistica, fiaccate da un mese di impegni da assolvere in condizioni climatiche proibitive disseminati nell&rsquo;immenso continente americano.&nbsp;Le esigenze televisive avevano suggerito agli organizzatori di programmare le partite a orari pomeridiani con temperature e tassi di umidit&agrave; elevatissimi che avevano prosciugato la resistenza dei giocatori, ai quali scendere in campo alle 12,30 di quella domenica assolata sembrava pi&ugrave; una condanna ai lavori forzati che l&rsquo;adrenalinica sfida da superare per vincere un campionato del mondo. <h2>Il cammino di Italia e Brasile</h2> Gli azzurri di Arrigo Sacchi erano arrivati a quell&rsquo;appuntamento dopo aver giocato le sei partite precedenti sulla East Coast, su e gi&ugrave; tra New York, Washington e Boston a raccogliere l&rsquo;affetto degli italiani emigrati in quelle terre dove avevano lavorato per costruire la loro vita. Era stato un percorso accidentato quello che aveva seguito la nostra Nazionale che, sconfitta all&rsquo;esordio dall&rsquo;Irlanda e in inferiorit&agrave; numerica nel successivo match vincente contro la Norvegia, era riuscita a ottenere la qualificazione agli ottavi solo rientrando nel novero delle migliori terze classificate. Un passaggio non proprio onorevole, soprattutto se paragonato alle aspettative che circondavano la spedizione, sbarcata in America con l&rsquo;intenzione di mostrare i miracoli del calcio scientifico di Sacchi. Invece, come gi&agrave; accaduto con Paolo Rossi nel 1982, fu necessario attendere il risveglio del nostro miglior giocatore, il buddhist Ponytail (come era stato ribattezzato dai giornalisti locali) Roberto Baggio, per avanzare nella competizione, dalla quale saremmo miseramente usciti nell&rsquo;ottavo di finale contro la Nigeria se, appunto, il Divin Codino non avesse estratto dal cilindro due gol che sottrassero la Nazionale all&rsquo;accanimento della critica. Il suo vero Mondiale cominci&ograve; l&igrave; e brill&ograve; otto giorni, il tempo che gli serv&igrave; per matare la Spagna e lasciare poche speranze in semifinale alla Bulgaria di Stoichkov, che a fine anno diventer&agrave; Pallone d&rsquo;Oro. Gi&agrave;, perch&eacute; quando il suo sogno da bambino di giocare la finale del Mondiale col Brasile si sta per realizzare, una fitta alla gamba lo costringe a uscire dal campo coi pensieri oscurati dalla paura di non poter giocare a Pasadena per sfidare i verdeoro, giunti a destinazione solidamente ancorati alla ricerca del risultato pi&ugrave; che ai fuochi pirotecnici di giocate ad effetto. Dopo il girone iniziale, Stati Uniti, Olanda e Svezia, eliminata a soli dieci minuti dai tempi supplementari, vengono debellate senza strapazzi dall&rsquo;apporto calibrato del duo offensivo Bebeto-Romario, punte di diamante di una formazione insolitamente parca nell&rsquo;elargire spettacolo, innervata dalla presenza di calciatori come Taffarel, Aldair, Branco, Dunga e Mazinho, transitati per la nostra Serie A ad apprendere nozioni di tattica poco praticate dalla Sele&ccedil;ao nel passato. <h2>La finale di Pasadena</h2> &ldquo;La&nbsp;California &egrave; candida come bucato e ha la testa vuota&rdquo; aveva scritto Jack Kerouac. Ed era proprio quella l&rsquo;impressione che dava il cielo sopra il Rose Bowl di Pasadena in quel 17 luglio, indelebilmente azzurro e sgombrato anche dall&rsquo;ombra di una sola nuvola. Baggio voleva esserci: &rdquo;Non giocare, per me, sarebbe beffa, rabbia, delusione e disperazione&rdquo; aveva detto alla vigilia. Sacchi non pu&ograve; opporsi alla sua scelta: sa di essere in debito di riconoscenza con colui che ha risolto problemi altrimenti insormontabili per le sue geometrie maniacali. Cos&igrave;, quando l&rsquo;arbitro Puhl fischia l&rsquo;inizio, Baggio &egrave; in campo: fasciato, menomato nelle movenze, disperatamente attaccato a un sogno che non &egrave; solo suo. Il Rose Bowl fiammeggia un calore che impedisce al match di avere un ritmo almeno accettabile: troppa la stanchezza accumulata in un mese di allenamenti, partite e trasferimenti. Pochi i sussulti: Massaro all&rsquo;inizio, poi Branco su punizione, un palo fortunoso di Mauro Silva nella ripresa. Baggio &egrave; statico: guarda il gioco, osserva i movimenti della partita, cerca di trovare lo spunto giusto per inserirsi nei momenti topici di una gara alla quale riesce a regalare tre tiri che non hanno la forza di sbloccare il risultato. Per la prima volta nella storia dei Mondiali sono necessari i calci di rigore per decidere il vincitore. Dopo gli errori di Baresi e Massaro, le residue speranze di non cadere nel girone degli sconfitti restano aggrappate al quinto rigore che Roberto deve tirare. E non c&rsquo;&egrave; pi&ugrave; niente da dire, n&eacute; da poter fare, quando il suo calcio, che di solito accarezza il pallone, stavolta asseconda l&rsquo;impennata di un destino avverso. Il Brasile vince cos&igrave; il suo quarto Mondiale e lo dedica alla memoria di Ayrton Senna, scomparso a Imola poco pi&ugrave; di due mesi prima.&nbsp;&nbsp;&nbsp; &nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;

        Il 17 luglio 1994 il Mondiale Made in USA andava a rappresentare il suo ultimo atto: una finale altisonante che, come ventiquattro anni prima in Messico, poneva di fronte Italia e Brasile. Nel 1970 le due nazionali si erano gi&agrave; aggiudicate due campionati per parte: a chi vinceva sarebbe stata assegnata in via definitiva la Coppa Rimet. A Pasadena le rappresentative si ritrovavano col palmar&egrave;s ancora in situazione di parit&agrave;: 3 titoli a testa. Ma questa volta non ci sarebbe stato nessun conferimento definitivo del trofeo messo in palio dalla FIFA che, dal 1974, era itinerante per vocazione. Vincere, per&ograve;, significava ascendere in solitaria sulla vetta della classifica assoluta dei vincitori dei Mondiali: uno stimolo ulteriore per dare energia a due squadre arrivate a quel pomeriggio infuocato al limite della sopravvivenza agonistica, fiaccate da un mese di impegni da assolvere in condizioni climatiche proibitive disseminati nell&rsquo;immenso continente americano.&nbsp;Le esigenze televisive avevano suggerito agli organizzatori di programmare le partite a orari pomeridiani con temperature e tassi di umidit&agrave; elevatissimi che avevano prosciugato la resistenza dei giocatori, ai quali scendere in campo alle 12,30 di quella domenica assolata sembrava pi&ugrave; una condanna ai lavori forzati che l&rsquo;adrenalinica sfida da superare per vincere un campionato del mondo. Il cammino di Italia e Brasile  Gli azzurri di Arrigo Sacchi erano arrivati a quell&rsquo;appuntamento dopo aver giocato le sei partite precedenti sulla East Coast, su e gi&ugrave; tra New York, Washington e Boston a raccogliere l&rsquo;affetto degli italiani emigrati in quelle terre dove avevano lavorato per costruire la loro vita. Era stato un percorso accidentato quello che aveva seguito la nostra Nazionale che, sconfitta all&rsquo;esordio dall&rsquo;Irlanda e in inferiorit&agrave; numerica nel successivo match vincente contro la Norvegia, era riuscita a ottenere la qualificazione agli ottavi solo rientrando nel novero delle migliori terze classificate. Un passaggio non proprio onorevole, soprattutto se paragonato alle aspettative che circondavano la spedizione, sbarcata in America con l&rsquo;intenzione di mostrare i miracoli del calcio scientifico di Sacchi. Invece, come gi&agrave; accaduto con Paolo Rossi nel 1982, fu necessario attendere il risveglio del nostro miglior giocatore, il buddhist Ponytail (come era stato ribattezzato dai giornalisti locali) Roberto Baggio, per avanzare nella competizione, dalla quale saremmo miseramente usciti nell&rsquo;ottavo di finale contro la Nigeria se, appunto, il Divin Codino non avesse estratto dal cilindro due gol che sottrassero la Nazionale all&rsquo;accanimento della critica. Il suo vero Mondiale cominci&ograve; l&igrave; e brill&ograve; otto giorni, il tempo che gli serv&igrave; per matare la Spagna e lasciare poche speranze in semifinale alla Bulgaria di Stoichkov, che a fine anno diventer&agrave; Pallone d&rsquo;Oro. Gi&agrave;, perch&eacute; quando il suo sogno da bambino di giocare la finale del Mondiale col Brasile si sta per realizzare, una fitta alla gamba lo costringe a uscire dal campo coi pensieri oscurati dalla paura di non poter giocare a Pasadena per sfidare i verdeoro, giunti a destinazione solidamente ancorati alla ricerca del risultato pi&ugrave; che ai fuochi pirotecnici di giocate ad effetto. Dopo il girone iniziale, Stati Uniti, Olanda e Svezia, eliminata a soli dieci minuti dai tempi supplementari, vengono debellate senza strapazzi dall&rsquo;apporto calibrato del duo offensivo Bebeto-Romario, punte di diamante di una formazione insolitamente parca nell&rsquo;elargire spettacolo, innervata dalla presenza di calciatori come Taffarel, Aldair, Branco, Dunga e Mazinho, transitati per la nostra Serie A ad apprendere nozioni di tattica poco praticate dalla Sele&ccedil;ao nel passato.  La finale di Pasadena &ldquo;La&nbsp;California &egrave; candida come bucato e ha la testa vuota&rdquo; aveva scritto Jack Kerouac. Ed era proprio quella l&rsquo;impressione che dava il cielo sopra il Rose Bowl di Pasadena in quel 17 luglio, indelebilmente azzurro e sgombrato anche dall&rsquo;ombra di una sola nuvola. Baggio voleva esserci: &rdquo;Non giocare, per me, sarebbe beffa, rabbia, delusione e disperazione&rdquo; aveva detto alla vigilia. Sacchi non pu&ograve; opporsi alla sua scelta: sa di essere in debito di riconoscenza con colui che ha risolto problemi altrimenti insormontabili per le sue geometrie maniacali. Cos&igrave;, quando l&rsquo;arbitro Puhl fischia l&rsquo;inizio, Baggio &egrave; in campo: fasciato, menomato nelle movenze, disperatamente attaccato a un sogno che non &egrave; solo suo. Il Rose Bowl fiammeggia un calore che impedisce al match di avere un ritmo almeno accettabile: troppa la stanchezza accumulata in un mese di allenamenti, partite e trasferimenti. Pochi i sussulti: Massaro all&rsquo;inizio, poi Branco su punizione, un palo fortunoso di Mauro Silva nella ripresa. Baggio &egrave; statico: guarda il gioco, osserva i movimenti della partita, cerca di trovare lo spunto giusto per inserirsi nei momenti topici di una gara alla quale riesce a regalare tre tiri che non hanno la forza di sbloccare il risultato. Per la prima volta nella storia dei Mondiali sono necessari i calci di rigore per decidere il vincitore. Dopo gli errori di Baresi e Massaro, le residue speranze di non cadere nel girone degli sconfitti restano aggrappate al quinto rigore che Roberto deve tirare. E non c&rsquo;&egrave; pi&ugrave; niente da dire, n&eacute; da poter fare, quando il suo calcio, che di solito accarezza il pallone, stavolta asseconda l&rsquo;impennata di un destino avverso. Il Brasile vince cos&igrave; il suo quarto Mondiale e lo dedica alla memoria di Ayrton Senna, scomparso a Imola poco pi&ugrave; di due mesi prima.&nbsp;&nbsp;&nbsp; &nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;       

Il 17 luglio 1994, nell'ultimo atto del Mondiale americano, gli azzurri si arresero alla Sele&ccedil;ao solo ai calci di rigore. Fatali gli errori dal dischetto di Baresi, Massaro e Baggio

Brasile-Italia, la finale maledetta di Usa '94

Questa notte alle 2:00 (ora italiana) al Maracan&agrave; di Rio de Janeiro si disputer&agrave; l&rsquo;atto finale di questa edizione della Copa America. Ad andare in scena sar&agrave; uno dei pi&ugrave; grandi classici del calcio mondiale: Argentina-Brasile, Messi contro Neymar, Albiceleste contro Sele&ccedil;ao. Dal 1975, anno in cui prese forma l&rsquo;attuale formula del torneo, ad oggi, le due big sudamericane si sono incontrate in finale solamente 2 volte. <h2>1991, lo scontro fondamentale</h2> L&rsquo;edizione del 1991 non prevedeva una finale diretta, ma un mini girone decisivo di quattro squadre. La partita tra Brasile e Argentina all&rsquo;Estadio Nacional de Cile, la prima di questo &ldquo;torneo nel torneo&rdquo;, risulta dunque quasi decisiva. A spuntarla furono Batistuta e compagni dopo una gara ricca di emozioni. Al primo minuto subito in vantaggio l&rsquo;Albiceleste con Franco che incorna su calcio d&rsquo;angolo. Dopo nemmeno 4 minuti Branco rimette in pari con una punizione magistrale dai 30 metri. La partita &egrave; infuocata: al 31&rsquo; Mazinho entra malissimo su Caniggia che reagisce in maniera violenta, l&rsquo;arbitro Carlos Maciel manda entrambi sotto la doccia. Per la cronaca, la partita terminer&agrave; con cinque espulsi. Prima del 45&rsquo; la formazione allenata da Alfio Basile segna altri due gol, portandosi sul 3-1. Nella ripresa c&rsquo;&egrave; spazio per il gol di Joao Paulo che accorcia le distanze e per tanti, tantissimi falli, come tradizione sudamericana impone. Finir&agrave; 3-2, grazie a quel successo l&rsquo;Albiceleste vincer&agrave; il girone con 5 punti e di conseguenza il torneo.&nbsp; <h2>Le vittorie verdeoro del 2004 e 2007</h2> Argentina e Brasile si incontrano in una vera finale 13 anni dopo, nell&rsquo;edizione del 2004. Questa volta a fare da cornice alla sfida &egrave; l&rsquo;Estadio Nacional Jos&egrave; Diaz di Lima, in Per&ugrave;. L&rsquo;Albiceleste si porta in vantaggio quasi subito grazie alla trasformazione dagli undici metri di Kily Gonz&aacute;lez e il Brasile riesce ad acciuffare il pareggio quasi allo scadere del primo tempo con Luisao. La seconda frazione &egrave; ricca di emozioni: dopo le solite botte da orbi e ben 5 cartellini gialli, all&rsquo;87&rsquo; Cesar Delgado porta in vantaggio la formazione di Bielsa. Gli argentini, ormai convinti di avere la vittoria in tasca, abbassano la guardia e concedono il pareggio al 93&rsquo;, firmato da Adriano. I verdeoro, sulle ali dell&rsquo;entusiasmo, la spuntano ai rigori, sfruttando gli errori di D&rsquo;Alessandro e Heinze. L&rsquo;edizione successiva vede ancora le due formazioni scontrarsi nell&rsquo;ultimo atto della competizione: questa volta non c&rsquo;&egrave; storia, la Sele&ccedil;ao travolge Tevez e compagni per 3-0, laureandosi campione del Sudamerica per l&rsquo;ottava volta.

        Questa notte alle 2:00 (ora italiana) al Maracan&agrave; di Rio de Janeiro si disputer&agrave; l&rsquo;atto finale di questa edizione della Copa America. Ad andare in scena sar&agrave; uno dei pi&ugrave; grandi classici del calcio mondiale: Argentina-Brasile, Messi contro Neymar, Albiceleste contro Sele&ccedil;ao. Dal 1975, anno in cui prese forma l&rsquo;attuale formula del torneo, ad oggi, le due big sudamericane si sono incontrate in finale solamente 2 volte. 1991, lo scontro fondamentale  L&rsquo;edizione del 1991 non prevedeva una finale diretta, ma un mini girone decisivo di quattro squadre. La partita tra Brasile e Argentina all&rsquo;Estadio Nacional de Cile, la prima di questo &ldquo;torneo nel torneo&rdquo;, risulta dunque quasi decisiva. A spuntarla furono Batistuta e compagni dopo una gara ricca di emozioni. Al primo minuto subito in vantaggio l&rsquo;Albiceleste con Franco che incorna su calcio d&rsquo;angolo. Dopo nemmeno 4 minuti Branco rimette in pari con una punizione magistrale dai 30 metri. La partita &egrave; infuocata: al 31&rsquo; Mazinho entra malissimo su Caniggia che reagisce in maniera violenta, l&rsquo;arbitro Carlos Maciel manda entrambi sotto la doccia. Per la cronaca, la partita terminer&agrave; con cinque espulsi. Prima del 45&rsquo; la formazione allenata da Alfio Basile segna altri due gol, portandosi sul 3-1. Nella ripresa c&rsquo;&egrave; spazio per il gol di Joao Paulo che accorcia le distanze e per tanti, tantissimi falli, come tradizione sudamericana impone. Finir&agrave; 3-2, grazie a quel successo l&rsquo;Albiceleste vincer&agrave; il girone con 5 punti e di conseguenza il torneo.&nbsp; Le vittorie verdeoro del 2004 e 2007  Argentina e Brasile si incontrano in una vera finale 13 anni dopo, nell&rsquo;edizione del 2004. Questa volta a fare da cornice alla sfida &egrave; l&rsquo;Estadio Nacional Jos&egrave; Diaz di Lima, in Per&ugrave;. L&rsquo;Albiceleste si porta in vantaggio quasi subito grazie alla trasformazione dagli undici metri di Kily Gonz&aacute;lez e il Brasile riesce ad acciuffare il pareggio quasi allo scadere del primo tempo con Luisao. La seconda frazione &egrave; ricca di emozioni: dopo le solite botte da orbi e ben 5 cartellini gialli, all&rsquo;87&rsquo; Cesar Delgado porta in vantaggio la formazione di Bielsa. Gli argentini, ormai convinti di avere la vittoria in tasca, abbassano la guardia e concedono il pareggio al 93&rsquo;, firmato da Adriano. I verdeoro, sulle ali dell&rsquo;entusiasmo, la spuntano ai rigori, sfruttando gli errori di D&rsquo;Alessandro e Heinze. L&rsquo;edizione successiva vede ancora le due formazioni scontrarsi nell&rsquo;ultimo atto della competizione: questa volta non c&rsquo;&egrave; storia, la Sele&ccedil;ao travolge Tevez e compagni per 3-0, laureandosi campione del Sudamerica per l&rsquo;ottava volta.       

Le due nazionali si sono incontrate gi&agrave; due volte nell&rsquo;atto conclusivo del torneo sudamericano, nel 1991 invece fu decisivo lo scontro nel girone

Argentina-Brasile, i precedenti in finale di Copa America

Il 5 luglio 1982 era il capitano dell&rsquo;ultima partita che il Brasile perse contro la nazionale italiana. Quello che, nel catino del Sarri&agrave; che ribolliva temperature desertiche sapientemente combinate al potere della fantasia da un destino imperscrutabile, riport&ograve; momentaneamente sulla falsariga dei pronostici un risultato che Paolo Rossi, fino a quel pomeriggio solo la pessima controfigura dell&rsquo;attaccante agile e intelligente che aveva meravigliato anche i generali argentini quattro anni prima, aveva cominciato a scuotere con la precisione tagliente dei suoi tocchi. S&oacute;crates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira, per tutti semplicemente S&oacute;crates come il filosofo che molti hanno studiato a scuola, guidava forse l&rsquo;incompiuta pi&ugrave; grande della storia del calcio: quel Brasile che nel 1982 sembrava dover giocare il Mondiale per pura formalit&agrave; prima di alzare al cielo quella che, all&rsquo;epoca, sarebbe stata la sua quarta coppa del mondo. Una selezione che ballava un calcio irresistibilmente spettacolare, dove il dinamismo di Cerezo univa le ragioni di Falcao e i tacchi di S&oacute;crates, un califfo del centrocampo, Junior, arretrava a terzino sinistro per trovare il suo spazio espressivo e un rubacuori come Eder lanciava fendenti a 170 chilometri orari con la precisione di un missile. In mezzo a questo stropicc&igrave;o per gli occhi Arthur Antunes Coimbra alternava assist e gol come, in quegli anni, solo Maradona riusciva a fare. S&oacute;crates di quella sconfitta, diversamente dai suoi compagni e dai suoi concittadini, seppe non farne un dramma. Forse perch&eacute; in fondo il calcio, per lui, fu sempre soprattutto un hobby, termine che utilizzava per definire la sua attivit&agrave; sportiva quando frequentava la facolt&agrave; di medicina all&rsquo;universit&agrave;. Provo a immaginare di fare due chiacchiere con lui, andando a spaziare su tutti i motivi che in questa vita gli dettero le ragioni migliori per esprimersi. Che ricordo hai di Italia-Brasile dei Mondiali &lsquo;82? &laquo;Ricordo che l&rsquo;Italia vinse ma che noi giocammo meglio. Credo che quella partita fu una delle migliori giocate dalla Sele&ccedil;&atilde;o in quegli anni&raquo;. Quel giorno sapevi che l&rsquo;Italia era nel tuo destino? &laquo;A dire il vero, no. La mia esperienza al Corinthians, all&rsquo;epoca, mi appagava pienamente e a tutto&nbsp;pensavo tranne che ad andarmene. Coi miei compagni stavamo realizzando qualche cosa che andava oltre il calcio seppure veniva sviluppato all&rsquo;interno di una squadra di calcio&raquo;. Immagino che stai facendo riferimento all&rsquo;esperienza della Democrazia Corinthiana. &laquo;Esattamente&raquo;. Vuoi provare a spiegare di cosa si trattava a chi non ne sa niente? &laquo;Nella nostra squadra avevamo deciso di provare a seguire un modello di comportamento e di azione che potesse essere d&rsquo;esempio e dare un messaggio politico al &nbsp;nostro Paese, governato dai militari da troppi anni,con tutto quello che ne conseguiva. Avevamo stabilito di prendere democraticamente qualsiasi decisione che riguardasse il club: i turni di allenamento, le formazioni da schierare, i premi partita, l&rsquo;acquisto di giocatori, gli investimenti del club, la redistribuzione delle entrate economiche, le sponsorizzazioni erano questioni che venivano risolte non da un singolo ma votate a maggioranza da tutti i membri della squadra, dai giocatori pi&ugrave; influenti ai magazzinieri. Tutti avevano la possibilit&agrave; di esprimere la loro opinione. Il voto del direttore sportivo valeva quanto quello di un qualsiasi altro dipendente del club: a lui spettava solo il compito di portare le decisioni prese dalla squadra al presidente e al consiglio per la ratifica&raquo;. In questo modo decideste anche l&rsquo;abolizione dei ritiri? &laquo;A che servono i ritiri? Sono delle forme di tortura che generano sofferenza. &Egrave; un discorso logico: se io sto lontano da casa, &egrave; quello il mio primo pensiero. Se tu vivi a casa, dove c&rsquo;&egrave; il tuo cuore, allora il lavoro diventa il tuo primo pensiero&raquo;. Come fu possibile che nel Brasile di quel particolare periodo storico in una squadra di calcio venissero permessi metodi di gestione cos&igrave; diversi? &laquo;Ci furono una serie di circostanze favorevoli. Innanzitutto l&rsquo;arrivo di un presidente di ampie vedute, Waldemar Pires, e di un direttore sportivo come Ad&iacute;lson Monteiro Alves, figlio di un dirigente del club, contrario alla dittatura. Ma anche l&rsquo;allenatore, Mario Travaglini, condivideva questa politica. Senza di loro, probabilmente, la Democrazia Corinthiana non avrebbe potuto esistere. Certo non eravamo simpatici al regime, che in qualche modo ci teneva sotto controllo&raquo;. Come faceste a non farvi opprimere dalla dittatura? &laquo;Grazie ai risultati. Con le vittorie in campionato che ottenemmo nel 1982 e nel 1983 ci garantimmo un futuro. Se avessimo perso, ci sarebbero saltati tutti addosso e ci avrebbero annientati. E comunque in Brasile non eravamo isolati: in quegli anni c&rsquo;era un movimento di protesta che trovava espressione anche nelle lotte sindacali e nelle istanze promosse da personaggi di rilievo della vita culturale del Paese come Toquinho e Caetano Veloso col quale, in qualche modo, ci sostenevamo a vicenda&raquo;. Pensi che nel tuo nome ci fossero gi&agrave; i semi di quella che sarebbe stata la tua vita? &laquo;Socrate era un filosofo e nell&rsquo;antica Grecia la politica occupava uno spazio importante proprio nelle riflessioni filosofiche.&nbsp;Fu mio padre a volermi dare quel nome. Lui &egrave; stato sicuramente la persona pi&ugrave; importante della mia vita, colui al quale ho fatto riferimento. Aveva umili origini: pensa che a scuola aveva frequentato solo fino alla seconda elementare. Ma coltivava un grande interesse per la cultura classica e la filosofia greca: da questo deriva il mio nome, dalla lettura che mio padre fece della Repubblica di Platone, che di Socrate era un discepolo. Grazie alla sua voglia di conoscere lesse molto e quella passione per la lettura la trasfer&igrave; anche a me. Per questo ho studiato e ho cercato sempre di impegnarmi nella societ&agrave;, non solo nel mondo del calcio. Io tenevo molto non tanto a essere un campione quanto un uomo democratico, un brasiliano democratico&raquo;.&nbsp; Parliamo della tua esperienza in Italia. &Egrave;vero che, appena arrivato, ammettesti di non conoscere Mazzola e Rivera?&nbsp;Ancora te lo ricordi? &laquo;Beh s&igrave; fu una dichiarazione sorprendente per gli italiani.&nbsp;Rimasi stupito dal casino che sollev&ograve; quella mia affermazione. Come ti ho gi&agrave; detto, io non vivevo di solo calcio. Dell&rsquo;Italia mi affascinava l&rsquo;idea di poter leggere Gramsci in lingua originale&nbsp;e studiare la storia del movimento operaio. Partecipando alle coppe europee c&rsquo;era l&rsquo;eventualit&agrave; di andare a giocare in un Paese dell&rsquo;Est e intuire le condizioni di vita di quei popoli in quel particolare periodo storico&raquo;. Cosa ti convinse a scegliere la Fiorentina? &laquo;In Brasile, poco tempo prima, portando avanti la mia lotta per la democrazia, avevo dichiarato che se non fosse passata la proposta di votazione diretta del Presidente del Paese me ne sarei andato. Il 25 aprile 1984 quella proposta fu bocciata, cos&igrave; io mantenni fede a ci&ograve; che avevo detto&raquo;. &nbsp;&nbsp;&nbsp; Come fu l&rsquo;approccio col nostro calcio? &laquo;Lo patii abbastanza. Gli allenamenti erano molto duri e, non avendo io una struttura da atleta, mi trovai in difficolt&agrave; gi&agrave; durante la preparazione estiva. Certo, ammetto anche che, fumando e bevendo, non mi aiutavo molto sotto l&rsquo;aspetto fisico. Ma il calcio &egrave; uno sport collettivo e non serve che tutti corrano. Ci sono quelli che corrono e quelli che pensano ma da voi le cose erano viste in maniera diversa&raquo;. Per questo non riuscisti ad ambientarti? &laquo;Non solo. Ci furono anche problemi con lo spogliatoio: una parte aveva come elemento di riferimento Passarella, l&rsquo;altra Pecci. Per il bene della squadra provai a mettermi in mezzo, a mediare. Ma questo mi rese inviso a tutti e cos&igrave; mi sentii sempre pi&ugrave; distante da quell&rsquo;ambiente. Le mie prestazioni in campo risentivano di questo e del fatto che in Italia non riuscivo proprio a divertirmi. Da quello che potei intuire, la societ&agrave; pi&ugrave; adatta a me sarebbe stata la Cremonese: non &egrave; una battuta, &egrave; una dichiarazione di simpatia per il modo di fare calcio che c&rsquo;era in quella squadra all&rsquo;epoca&raquo;. Quali sono i ricordi positivi che hai di Firenze? &laquo;Ricordo i dibattiti politici presso il circolo ricreativo delle Vie Nuove dove&nbsp;si discuteva di Che Guevara e di John Lennon. E poi l&rsquo;amicizia che strinsi con Giovanni Galli, mio compagno di stanza nelle trasferte: una persona speciale&raquo;. Che bilancio hai tratto del tuo anno in Italia? &laquo;Ho dato quello che potevo e mi prendo la responsabilit&agrave; per ci&ograve; che non ho fatto: evidentemente non ne sono stato capace. Il calcio italiano era troppo diverso da quello brasiliano e nel vostro Paese io non sono riuscito a divertirmi in campo. Un proverbio delle mie parti dice che il cavallo che corre sull&rsquo;erba non corre sulla sabbia: credo che possa essere la metafora giusta per rappresentare la mia esperienza da voi&raquo;. Qual era il tuo obiettivo? &laquo;Il piacere era il mio unico obiettivo, inteso come la possibilit&agrave; di fare quello che maggiormente mi interessava e mi esprimeva, non solo come mero godimento di un vizio come poteva essere il fumo. Esercitare la professione di medico, fare politica attivamente, scrivere su un giornale per esprimere le mie idee, recitare in una telenovela o fare il produttore teatrale: queste erano le cose che mi davano piacere. La vita &egrave; molto breve e bisogna stare attenti a cogliere queste opportunit&agrave; nelle quali, per me, risiede il suo vero significato&raquo;.

        Il 5 luglio 1982 era il capitano dell&rsquo;ultima partita che il Brasile perse contro la nazionale italiana. Quello che, nel catino del Sarri&agrave; che ribolliva temperature desertiche sapientemente combinate al potere della fantasia da un destino imperscrutabile, riport&ograve; momentaneamente sulla falsariga dei pronostici un risultato che Paolo Rossi, fino a quel pomeriggio solo la pessima controfigura dell&rsquo;attaccante agile e intelligente che aveva meravigliato anche i generali argentini quattro anni prima, aveva cominciato a scuotere con la precisione tagliente dei suoi tocchi. S&oacute;crates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira, per tutti semplicemente S&oacute;crates come il filosofo che molti hanno studiato a scuola, guidava forse l&rsquo;incompiuta pi&ugrave; grande della storia del calcio: quel Brasile che nel 1982 sembrava dover giocare il Mondiale per pura formalit&agrave; prima di alzare al cielo quella che, all&rsquo;epoca, sarebbe stata la sua quarta coppa del mondo. Una selezione che ballava un calcio irresistibilmente spettacolare, dove il dinamismo di Cerezo univa le ragioni di Falcao e i tacchi di S&oacute;crates, un califfo del centrocampo, Junior, arretrava a terzino sinistro per trovare il suo spazio espressivo e un rubacuori come Eder lanciava fendenti a 170 chilometri orari con la precisione di un missile. In mezzo a questo stropicc&igrave;o per gli occhi Arthur Antunes Coimbra alternava assist e gol come, in quegli anni, solo Maradona riusciva a fare. S&oacute;crates di quella sconfitta, diversamente dai suoi compagni e dai suoi concittadini, seppe non farne un dramma. Forse perch&eacute; in fondo il calcio, per lui, fu sempre soprattutto un hobby, termine che utilizzava per definire la sua attivit&agrave; sportiva quando frequentava la facolt&agrave; di medicina all&rsquo;universit&agrave;. Provo a immaginare di fare due chiacchiere con lui, andando a spaziare su tutti i motivi che in questa vita gli dettero le ragioni migliori per esprimersi. Che ricordo hai di Italia-Brasile dei Mondiali &lsquo;82? &laquo;Ricordo che l&rsquo;Italia vinse ma che noi giocammo meglio. Credo che quella partita fu una delle migliori giocate dalla Sele&ccedil;&atilde;o in quegli anni&raquo;. Quel giorno sapevi che l&rsquo;Italia era nel tuo destino? &laquo;A dire il vero, no. La mia esperienza al Corinthians, all&rsquo;epoca, mi appagava pienamente e a tutto&nbsp;pensavo tranne che ad andarmene. Coi miei compagni stavamo realizzando qualche cosa che andava oltre il calcio seppure veniva sviluppato all&rsquo;interno di una squadra di calcio&raquo;. Immagino che stai facendo riferimento all&rsquo;esperienza della Democrazia Corinthiana. &laquo;Esattamente&raquo;. Vuoi provare a spiegare di cosa si trattava a chi non ne sa niente? &laquo;Nella nostra squadra avevamo deciso di provare a seguire un modello di comportamento e di azione che potesse essere d&rsquo;esempio e dare un messaggio politico al &nbsp;nostro Paese, governato dai militari da troppi anni,con tutto quello che ne conseguiva. Avevamo stabilito di prendere democraticamente qualsiasi decisione che riguardasse il club: i turni di allenamento, le formazioni da schierare, i premi partita, l&rsquo;acquisto di giocatori, gli investimenti del club, la redistribuzione delle entrate economiche, le sponsorizzazioni erano questioni che venivano risolte non da un singolo ma votate a maggioranza da tutti i membri della squadra, dai giocatori pi&ugrave; influenti ai magazzinieri. Tutti avevano la possibilit&agrave; di esprimere la loro opinione. Il voto del direttore sportivo valeva quanto quello di un qualsiasi altro dipendente del club: a lui spettava solo il compito di portare le decisioni prese dalla squadra al presidente e al consiglio per la ratifica&raquo;. In questo modo decideste anche l&rsquo;abolizione dei ritiri? &laquo;A che servono i ritiri? Sono delle forme di tortura che generano sofferenza. &Egrave; un discorso logico: se io sto lontano da casa, &egrave; quello il mio primo pensiero. Se tu vivi a casa, dove c&rsquo;&egrave; il tuo cuore, allora il lavoro diventa il tuo primo pensiero&raquo;. Come fu possibile che nel Brasile di quel particolare periodo storico in una squadra di calcio venissero permessi metodi di gestione cos&igrave; diversi? &laquo;Ci furono una serie di circostanze favorevoli. Innanzitutto l&rsquo;arrivo di un presidente di ampie vedute, Waldemar Pires, e di un direttore sportivo come Ad&iacute;lson Monteiro Alves, figlio di un dirigente del club, contrario alla dittatura. Ma anche l&rsquo;allenatore, Mario Travaglini, condivideva questa politica. Senza di loro, probabilmente, la Democrazia Corinthiana non avrebbe potuto esistere. Certo non eravamo simpatici al regime, che in qualche modo ci teneva sotto controllo&raquo;. Come faceste a non farvi opprimere dalla dittatura? &laquo;Grazie ai risultati. Con le vittorie in campionato che ottenemmo nel 1982 e nel 1983 ci garantimmo un futuro. Se avessimo perso, ci sarebbero saltati tutti addosso e ci avrebbero annientati. E comunque in Brasile non eravamo isolati: in quegli anni c&rsquo;era un movimento di protesta che trovava espressione anche nelle lotte sindacali e nelle istanze promosse da personaggi di rilievo della vita culturale del Paese come Toquinho e Caetano Veloso col quale, in qualche modo, ci sostenevamo a vicenda&raquo;. Pensi che nel tuo nome ci fossero gi&agrave; i semi di quella che sarebbe stata la tua vita? &laquo;Socrate era un filosofo e nell&rsquo;antica Grecia la politica occupava uno spazio importante proprio nelle riflessioni filosofiche.&nbsp;Fu mio padre a volermi dare quel nome. Lui &egrave; stato sicuramente la persona pi&ugrave; importante della mia vita, colui al quale ho fatto riferimento. Aveva umili origini: pensa che a scuola aveva frequentato solo fino alla seconda elementare. Ma coltivava un grande interesse per la cultura classica e la filosofia greca: da questo deriva il mio nome, dalla lettura che mio padre fece della Repubblica di Platone, che di Socrate era un discepolo. Grazie alla sua voglia di conoscere lesse molto e quella passione per la lettura la trasfer&igrave; anche a me. Per questo ho studiato e ho cercato sempre di impegnarmi nella societ&agrave;, non solo nel mondo del calcio. Io tenevo molto non tanto a essere un campione quanto un uomo democratico, un brasiliano democratico&raquo;.&nbsp; Parliamo della tua esperienza in Italia. &Egrave;vero che, appena arrivato, ammettesti di non conoscere Mazzola e Rivera?&nbsp;Ancora te lo ricordi? &laquo;Beh s&igrave; fu una dichiarazione sorprendente per gli italiani.&nbsp;Rimasi stupito dal casino che sollev&ograve; quella mia affermazione. Come ti ho gi&agrave; detto, io non vivevo di solo calcio. Dell&rsquo;Italia mi affascinava l&rsquo;idea di poter leggere Gramsci in lingua originale&nbsp;e studiare la storia del movimento operaio. Partecipando alle coppe europee c&rsquo;era l&rsquo;eventualit&agrave; di andare a giocare in un Paese dell&rsquo;Est e intuire le condizioni di vita di quei popoli in quel particolare periodo storico&raquo;. Cosa ti convinse a scegliere la Fiorentina? &laquo;In Brasile, poco tempo prima, portando avanti la mia lotta per la democrazia, avevo dichiarato che se non fosse passata la proposta di votazione diretta del Presidente del Paese me ne sarei andato. Il 25 aprile 1984 quella proposta fu bocciata, cos&igrave; io mantenni fede a ci&ograve; che avevo detto&raquo;. &nbsp;&nbsp;&nbsp; Come fu l&rsquo;approccio col nostro calcio? &laquo;Lo patii abbastanza. Gli allenamenti erano molto duri e, non avendo io una struttura da atleta, mi trovai in difficolt&agrave; gi&agrave; durante la preparazione estiva. Certo, ammetto anche che, fumando e bevendo, non mi aiutavo molto sotto l&rsquo;aspetto fisico. Ma il calcio &egrave; uno sport collettivo e non serve che tutti corrano. Ci sono quelli che corrono e quelli che pensano ma da voi le cose erano viste in maniera diversa&raquo;. Per questo non riuscisti ad ambientarti? &laquo;Non solo. Ci furono anche problemi con lo spogliatoio: una parte aveva come elemento di riferimento Passarella, l&rsquo;altra Pecci. Per il bene della squadra provai a mettermi in mezzo, a mediare. Ma questo mi rese inviso a tutti e cos&igrave; mi sentii sempre pi&ugrave; distante da quell&rsquo;ambiente. Le mie prestazioni in campo risentivano di questo e del fatto che in Italia non riuscivo proprio a divertirmi. Da quello che potei intuire, la societ&agrave; pi&ugrave; adatta a me sarebbe stata la Cremonese: non &egrave; una battuta, &egrave; una dichiarazione di simpatia per il modo di fare calcio che c&rsquo;era in quella squadra all&rsquo;epoca&raquo;. Quali sono i ricordi positivi che hai di Firenze? &laquo;Ricordo i dibattiti politici presso il circolo ricreativo delle Vie Nuove dove&nbsp;si discuteva di Che Guevara e di John Lennon. E poi l&rsquo;amicizia che strinsi con Giovanni Galli, mio compagno di stanza nelle trasferte: una persona speciale&raquo;. Che bilancio hai tratto del tuo anno in Italia? &laquo;Ho dato quello che potevo e mi prendo la responsabilit&agrave; per ci&ograve; che non ho fatto: evidentemente non ne sono stato capace. Il calcio italiano era troppo diverso da quello brasiliano e nel vostro Paese io non sono riuscito a divertirmi in campo. Un proverbio delle mie parti dice che il cavallo che corre sull&rsquo;erba non corre sulla sabbia: credo che possa essere la metafora giusta per rappresentare la mia esperienza da voi&raquo;. Qual era il tuo obiettivo? &laquo;Il piacere era il mio unico obiettivo, inteso come la possibilit&agrave; di fare quello che maggiormente mi interessava e mi esprimeva, non solo come mero godimento di un vizio come poteva essere il fumo. Esercitare la professione di medico, fare politica attivamente, scrivere su un giornale per esprimere le mie idee, recitare in una telenovela o fare il produttore teatrale: queste erano le cose che mi davano piacere. La vita &egrave; molto breve e bisogna stare attenti a cogliere queste opportunit&agrave; nelle quali, per me, risiede il suo vero significato&raquo;.       

Torna la nostra rubrica in cui immaginiamo di poter scambiare due chiacchiere con i campioni del passato che non ci sono pi&ugrave;. In quest'ipotetica intervista ci immergiamo nell'interessante vissuto del centrocampista brasiliano

L'intervista impossibile: Sócrates

Edgardo Norberto Andrada: vi dice niente? &Egrave; l&rsquo;uomo che per un istante ha avuto tutto il mondo contro. Di ruolo fa il portiere ed &egrave; soprannominato &lsquo;El Gato&rsquo; per le sue doti feline. La sera del 19 novembre 1969, per&ograve;, &egrave; costretto ad affrontare la storia. &Egrave; in corso la partita tra Vasco da Gama e Santos: si gioca al Maracan&atilde;. S&igrave;, &egrave; vero, il Vasco avrebbe un suo stadio, il S&atilde;o Janu&aacute;rio, ma nel Santos ci gioca Pel&eacute;, che essendo patrimonio del Brasile, deve essere visto da pi&ugrave; persone possibili. Per questo motivo il Santos, in alcune occasioni, si sposta dalla citt&agrave; di Santos a Rio de Janeiro per giocare. Quella sera Andrada fa letteralmente il gatto e para tutto. Complice anche una traversa, impedisce a O Rei di andare in gol. Succede qualcosa di strano: i tifosi del Vasco iniziano a insultare il proprio portiere. &lsquo;El Gato&rsquo;, al posto di venire esaltato per le sue prodezze, viene umiliato. Pel&eacute; &egrave; una macchina da 999 gol e non solo tutto il Maracan&atilde;, ma tutto il Brasile, vuole festeggiare &lsquo;O Mil&eacute;simo'. Andrada continua a fare miracoli, ma a un certo momento Fernando atterra la &lsquo;Perla Nera&rsquo; in area di rigore e l&rsquo;arbitro &egrave; costretto a indicare il dischetto. Il Vasco da Gama circonda il numero 10 avversario, tra proteste e trucchi per distrarlo, mentre Rildo, difensore del Santos, prende il pallone. Carlos Alberto, suo capitano, si avvicina e invita il compagno a lasciare la sfera l&igrave; dove l&rsquo;aveva trovata. Qualche giocatore del Vasco pesta col piede sul dischetto, nella speranza che quel pallone vada alle stelle. Intanto, dietro la porta di Andrada, si piazzano centinaia di fotografi. &Egrave; un&rsquo;attesa interminabile per Pel&eacute;, ma anche per il portiere argentino, che se dovesse parare quel tiro avrebbe tutto il mondo pronto a vilipenderlo. D&rsquo;altra parte, negare &lsquo;O Mil&eacute;simo&rsquo; a O Rei sarebbe come riuscire a fermare un gigante. Ai tifosi del Vasco da Gama non interessa entrare nella storia dalla parte sbagliata, vogliono assistere a qualcosa di irripetibile. Andrada no: non vuole subire quel gol. Sono passati quasi cinque minuti da quando l&rsquo;arbitro ha decretato il calcio di rigore e ancora non &egrave; possibile riprendere il gioco. Pel&eacute; ha posizionato la palla sul dischetto, mentre gli avversari provano continuamente a distrarlo. &lsquo;El Gato&rsquo; &egrave; sulla linea di porta, a undici metri di distanza da quel pallone che pesa come un macigno, ma dagli spalti continuano a piovere insulti nei suoi confronti. Ora &egrave; tutto pronto: l&rsquo;arbitro fischia. Pel&eacute; prende la rincorsa, il Brasile trattiene il fiato. Cinque passi e l&rsquo;impatto con la palla. O Rei apre il piatto, Andrada sceglie l&rsquo;angolo giusto. &lsquo;El Gato&rsquo; balza come un felino verso la sfera, ma la traiettoria &egrave; imprendibile. Il portiere allunga gli artigli, sfiora il pallone ma non basta. La palla entra, il Maracan&atilde; esplode e si riversa tutto in campo. Pel&eacute; entra in porta, raccoglie il pallone e lo bacia prima di essere portato in trionfo. La partita viene sospesa, il Brasile fa festa. Edson Arantes do Nascimento ha appena firmato il suo gol numero 1000. Intanto, a 384.400 km di distanza dalla Terra, gli astronauti Charles Conrad e Alan Bean atterrano con l&rsquo;Apollo 12 sul suolo lunare. &Egrave; la seconda volta che l&rsquo;uomo mette piede sulla Luna. La mattina dopo, il Brasile si sveglia con i giornali che intitolano: &ldquo;Luna, gi&agrave; vista. Pel&eacute;, mai visto&rdquo;.

        Edgardo Norberto Andrada: vi dice niente? &Egrave; l&rsquo;uomo che per un istante ha avuto tutto il mondo contro. Di ruolo fa il portiere ed &egrave; soprannominato &lsquo;El Gato&rsquo; per le sue doti feline. La sera del 19 novembre 1969, per&ograve;, &egrave; costretto ad affrontare la storia. &Egrave; in corso la partita tra Vasco da Gama e Santos: si gioca al Maracan&atilde;. S&igrave;, &egrave; vero, il Vasco avrebbe un suo stadio, il S&atilde;o Janu&aacute;rio, ma nel Santos ci gioca Pel&eacute;, che essendo patrimonio del Brasile, deve essere visto da pi&ugrave; persone possibili. Per questo motivo il Santos, in alcune occasioni, si sposta dalla citt&agrave; di Santos a Rio de Janeiro per giocare. Quella sera Andrada fa letteralmente il gatto e para tutto. Complice anche una traversa, impedisce a O Rei di andare in gol. Succede qualcosa di strano: i tifosi del Vasco iniziano a insultare il proprio portiere. &lsquo;El Gato&rsquo;, al posto di venire esaltato per le sue prodezze, viene umiliato. Pel&eacute; &egrave; una macchina da 999 gol e non solo tutto il Maracan&atilde;, ma tutto il Brasile, vuole festeggiare &lsquo;O Mil&eacute;simo'. Andrada continua a fare miracoli, ma a un certo momento Fernando atterra la &lsquo;Perla Nera&rsquo; in area di rigore e l&rsquo;arbitro &egrave; costretto a indicare il dischetto. Il Vasco da Gama circonda il numero 10 avversario, tra proteste e trucchi per distrarlo, mentre Rildo, difensore del Santos, prende il pallone. Carlos Alberto, suo capitano, si avvicina e invita il compagno a lasciare la sfera l&igrave; dove l&rsquo;aveva trovata. Qualche giocatore del Vasco pesta col piede sul dischetto, nella speranza che quel pallone vada alle stelle. Intanto, dietro la porta di Andrada, si piazzano centinaia di fotografi. &Egrave; un&rsquo;attesa interminabile per Pel&eacute;, ma anche per il portiere argentino, che se dovesse parare quel tiro avrebbe tutto il mondo pronto a vilipenderlo. D&rsquo;altra parte, negare &lsquo;O Mil&eacute;simo&rsquo; a O Rei sarebbe come riuscire a fermare un gigante. Ai tifosi del Vasco da Gama non interessa entrare nella storia dalla parte sbagliata, vogliono assistere a qualcosa di irripetibile. Andrada no: non vuole subire quel gol. Sono passati quasi cinque minuti da quando l&rsquo;arbitro ha decretato il calcio di rigore e ancora non &egrave; possibile riprendere il gioco. Pel&eacute; ha posizionato la palla sul dischetto, mentre gli avversari provano continuamente a distrarlo. &lsquo;El Gato&rsquo; &egrave; sulla linea di porta, a undici metri di distanza da quel pallone che pesa come un macigno, ma dagli spalti continuano a piovere insulti nei suoi confronti. Ora &egrave; tutto pronto: l&rsquo;arbitro fischia. Pel&eacute; prende la rincorsa, il Brasile trattiene il fiato. Cinque passi e l&rsquo;impatto con la palla. O Rei apre il piatto, Andrada sceglie l&rsquo;angolo giusto. &lsquo;El Gato&rsquo; balza come un felino verso la sfera, ma la traiettoria &egrave; imprendibile. Il portiere allunga gli artigli, sfiora il pallone ma non basta. La palla entra, il Maracan&atilde; esplode e si riversa tutto in campo. Pel&eacute; entra in porta, raccoglie il pallone e lo bacia prima di essere portato in trionfo. La partita viene sospesa, il Brasile fa festa. Edson Arantes do Nascimento ha appena firmato il suo gol numero 1000. Intanto, a 384.400 km di distanza dalla Terra, gli astronauti Charles Conrad e Alan Bean atterrano con l&rsquo;Apollo 12 sul suolo lunare. &Egrave; la seconda volta che l&rsquo;uomo mette piede sulla Luna. La mattina dopo, il Brasile si sveglia con i giornali che intitolano: &ldquo;Luna, gi&agrave; vista. Pel&eacute;, mai visto&rdquo;.       

Il 19 novembre 1969 l&rsquo;uomo raggiunge la Luna per la seconda volta nella storia, mentre al Maracan&atilde;, nella partita tra Vasco da Gama e Santos, avviene un episodio leggendario

"O Milésimo" di Pelé

Il Brasile ha per la quarta volta nella sua storia, la prima davanti al suo pubblico, vinto il Mondiale di calcio Under 17, battendo 2-1 il Messico in una finale emozionantissima, raddrizzata a 6 minuti dalla fine grazie al VAR che ha portato al rigore di Kaio Jorge e risolta da Lazaro nel recupero. L&rsquo;Italia di Nunziata, che priva della sua stella Esposito rimasta a disposizione dell&rsquo;Inter (ma anche dell&rsquo;Under 19) &egrave; stata eliminata proprio dal Brasile nei quarti, pu&ograve; dire di avere fatto il suo anche se sono sempre considerazioni amare. La domanda &egrave; comunque sempre la stessa: quanto valgono i risultati delle competizioni giovanili, a maggior ragione di quelle per classi di et&agrave; in cui quasi nessuno &egrave; ancora diventato un professionista? Prendiamo il primo Brasile campione Under 17, quello che vinse nel 1997 in Egitto. Quella squadra al calcio che conta avrebbe dato un campione come Ronaldinho, un buon giocatore come Matuzalem e poi quasi soltanto mezze figure. Facile ricordare, pensando soltanto a gente che poi sarebbe andata ad un Mondiale vero, che per quel torneo non vennero nemmeno convocati Luis Fabiano e Cicinho (classe 1980), e buona parte dalla clamorosa classe 1981: Maicon, Maxwell, Luisao, Julio Baptista, Heurelho Gomes ed Elano. Due anni dopo la nazionale brasiliana, sempre allenata da Carlos Cesar Ramos, conquist&ograve; il titolo in Nuova Zelanda avendo come stella Adriano, proprio il futuro interista, e come portiere Rubinho, ma poi davvero poco altro. A quel giro rimase a casa addirittura Kak&agrave; (classe 1982), oltre a Dani Alves, Felipe Melo, Fred, Dante, Jefferson, Victor e Michel Bastos (tutti del 1983). Terzo titolo nel 2003 in Finlandia, con allenatore Marcos Paquet&agrave;, e anche qui pochi futuri giocatori di primo piano: il futuro laziale Ederson e il futuro interista Jonathan, per dirne due. Fuori dai giochi Hulk ed Henrique (classe 1986), ma anche Luiz Gustavo, David Luiz, Ramires e Jo (1987). Insomma, nessuno mette in dubbio che il Brasile sia la pi&ugrave; grande scuola calcistica del mondo, se parliamo di produzione di giocatori. E nemmeno che i selezionatori siano pi&ugrave; competenti di chi parla con il senno di poi. Il dubbio &egrave; quello sul valore relativo delle competizioni giovanili a questa et&agrave; in cui il fisico &egrave; ancora in formazione e in cui &egrave; impossibile tenere sotto osservazione tutti. La certezza &egrave; che questi Mondialini servano soprattutto alla FIFA per motivi geopolitici, per dare in chiave elettorale un contentino a nazioni fuori dai grandi giri, non tanto come organizzazione (il Brasile solo 5 anni fa ha ospitato il Mondiale vero) quanto come piazzamenti.

Il Brasile ha per la quarta volta nella sua storia, la prima davanti al suo pubblico, vinto il Mondiale di calcio Under 17, battendo 2-1 il Messico in una finale emozionantissima, raddrizzata a 6 minuti dalla fine grazie al VAR che ha portato al rigore di Kaio Jorge e risolta da Lazaro nel recupero. L&rsquo;Italia di Nunziata, che priva della sua stella Esposito rimasta a disposizione dell&rsquo;Inter (ma anche dell&rsquo;Under 19) &egrave; stata eliminata proprio dal Brasile nei quarti, pu&ograve; dire di avere fatto il suo anche se sono sempre considerazioni amare. La domanda &egrave; comunque sempre la stessa: quanto valgono i risultati delle competizioni giovanili, a maggior ragione di quelle per classi di et&agrave; in cui quasi nessuno &egrave; ancora diventato un professionista?  Prendiamo il primo Brasile campione Under 17, quello che vinse nel 1997 in Egitto. Quella squadra al calcio che conta avrebbe dato un campione come Ronaldinho, un buon giocatore come Matuzalem e poi quasi soltanto mezze figure. Facile ricordare, pensando soltanto a gente che poi sarebbe andata ad un Mondiale vero, che per quel torneo non vennero nemmeno convocati Luis Fabiano e Cicinho (classe 1980), e buona parte dalla clamorosa classe 1981: Maicon, Maxwell, Luisao, Julio Baptista, Heurelho Gomes ed Elano.  Due anni dopo la nazionale brasiliana, sempre allenata da Carlos Cesar Ramos, conquist&ograve; il titolo in Nuova Zelanda avendo come stella Adriano, proprio il futuro interista, e come portiere Rubinho, ma poi davvero poco altro. A quel giro rimase a casa addirittura Kak&agrave; (classe 1982), oltre a Dani Alves, Felipe Melo, Fred, Dante, Jefferson, Victor e Michel Bastos (tutti del 1983).  Terzo titolo nel 2003 in Finlandia, con allenatore Marcos Paquet&agrave;, e anche qui pochi futuri giocatori di primo piano: il futuro laziale Ederson e il futuro interista Jonathan, per dirne due. Fuori dai giochi Hulk ed Henrique (classe 1986), ma anche Luiz Gustavo, David Luiz, Ramires e Jo (1987).  Insomma, nessuno mette in dubbio che il Brasile sia la pi&ugrave; grande scuola calcistica del mondo, se parliamo di produzione di giocatori. E nemmeno che i selezionatori siano pi&ugrave; competenti di chi parla con il senno di poi. Il dubbio &egrave; quello sul valore relativo delle competizioni giovanili a questa et&agrave; in cui il fisico &egrave; ancora in formazione e in cui &egrave; impossibile tenere sotto osservazione tutti. La certezza &egrave; che questi Mondialini servano soprattutto alla FIFA per motivi geopolitici, per dare in chiave elettorale un contentino a nazioni fuori dai grandi giri, non tanto come organizzazione (il Brasile solo 5 anni fa ha ospitato il Mondiale vero) quanto come piazzamenti. 

Per la quarta volta nella sua storia la nazionale verdeoro ha conquistato il torneo iridato Under 17 e come al solito ci si chiede quale sia in prospettiva il valore reale di questa competizione. La storia dice che &egrave; modesto...

Il Mondialino del Brasile

Il Brasile ha aperto la sua Coppa America battendo la Bolivia 3-0 al Morumbi di San Paolo, doppietta di Coutinho e terzo gol di Everton, ma la notizia non &egrave; stata tanto la partita (peraltro fischiata dai tifosi di casa, con atteggiamento assurdo) della nazionale di Tite, quanto il fatto che la Selec&atilde;o abbia giocato con una maglia bianca simile a quella del 1950, quella del 16 luglio della sconfitta contro l&rsquo;Uruguay di Schiaffino e Ghiggia che per sempre sar&agrave; ricordata come Maracanazo. Il ritorno della maglia bianca &egrave; in parte una sfida alla superstizione e in parte una scelta di marketing della Nike annunciata gi&agrave; da qualche mese, spiegata come un ritorno alla tradizione visto che siamo nel centenario della prima Coppa America vinta dal Brasile, proprio indossando la maglia bianca. Non sono osservazioni da maniaci, perch&eacute; stiamo parlando della squadra e della maglia pi&ugrave; famosi del mondo, che fanno battere il cuore in ogni angolo del pianeta anche a persone che con il Brasile non hanno niente da spartire. Ma qual &egrave; la &lsquo;vera&rsquo; maglia del Brasile, in definitiva? Non c&rsquo;&egrave; dubbio alcuno che la maglia storica del Brasile sia proprio quella bianca, visto che nel 1914 il Brasile disput&ograve; proprio in bianco la sua prima partita, quando le allora otto federazioni calcistiche del paese si fusero per crearne una condivisa (la FBS). Bianche le maglie, bianchi i pantaloncini. Quando nel 1916 la FBS divent&ograve; CBD, iniziarono a comparire i colori della bandiera, che quindi non sono un&rsquo;invenzione del post Maracanazo. Maglia a strisce verticali gialle e verdi, simile (per fare un esempio moderno) a quella da trasferta del West Bromwich Albion, con pantaloncini bianchi. L&rsquo;innovazione non convinse e dopo vari esperimenti sempre a tema verdeoro si torno&ograve; alla maglia bianca, questa volta con pantaloncini (e bordi delle maniche) blu, per la Coppa America (all&rsquo;epoca denominata Campionato Sudamericano) del 1919 ospitata a Rio de Janeiro e vinta grazie ai gol di Friedenreich e Neco. Non ci furono pi&ugrave; cambiamenti sostanziali fino al 1942, quindi fino ai primi tre Mondiali disputati dal Brasile (eccezione nel 1938, quando contro la Polonia si gioc&ograve; in blu in maniera abbastanza improvvisata visto che i polacchi avevano vinto il sorteggio per giocare in bianco), quando i pantaloncini da blu ridiventarono bianchi. Poi nel 1950 la madre di tutte le sconfitte, quella con l&rsquo;Uruguay (anche se la semifinale 2014 contro la Germania non scherza), e la decisione di indire un bando per la nuova divisa, vinto dall&rsquo;idea che poi sarebbe arrivata ai giorni nostri. La curiosit&agrave; &egrave; che la maglia bianca non fu accantonata subito, come spesso si dice, ma negli anni Cinquanta sarebbe stata usata in vari tornei, primo fra tutti il Panamericano del 1952 in cui un Brasile molto simile a quello del 1950 divent&ograve; campione dopo avere battuto 2-0 un Uruguay molto simile a quello del 1950. Qualche anziano milanese ricorda l&rsquo;uniforme bianca con cui il Brasile nel 1956 perse dall&rsquo;Italia di Foni a San Siro in mezzo a un tour europeo e la maglia bianca si vide anche nel Sudamericano del 1957. Ma ormai la maglia del Brasile era diventata quella che nella nostra testa &egrave; la maglia del Brasile. Nel 1952 il concorso nazionale aveva visto a sorpresa vincere un diciottenne aspirante giornalista e disegnatore, cosa che poi sarebbe diventato, Aldyr Schlee. Il trionfo in Svezia convinse la federazione a non andare al di l&agrave; del verdeoro come prima e del blu come seconda maglia, con i risultati che tutti ricordano, i cinque Mondiali vinti su tutti. L&rsquo;ultimo nel 2002, con Ronaldo trascinatore. Non lo diciamo a caso perch&eacute; nel 2004 il Brasile fece un&rsquo;eccezione alla regola disputando in bianco un&rsquo;amichevole contro la Francia per i 100 anni della FIFA. &Egrave; stata l&rsquo;ultima volta in bianco fino all&rsquo;altra sera al Morumbi, ma certo &egrave; che i Mondiali 2006, 2010, 2014 e 2018 il Brasile non li ha vinti e in qualche caso l&rsquo;eliminazione &egrave; stata figlia anche di sfortuna. La superstizione sar&agrave; anche segno di debolezza, ma non essere superstiziosi a volte porta male.

Il Brasile ha aperto la sua Coppa America battendo la Bolivia 3-0 al Morumbi di San Paolo, doppietta di Coutinho e terzo gol di Everton, ma la notizia non &egrave; stata tanto la partita (peraltro fischiata dai tifosi di casa, con atteggiamento assurdo) della nazionale di Tite, quanto il fatto che la Selec&atilde;o abbia giocato con una maglia bianca simile a quella del 1950, quella del 16 luglio della sconfitta contro l&rsquo;Uruguay di Schiaffino e Ghiggia che per sempre sar&agrave; ricordata come Maracanazo. Il ritorno della maglia bianca &egrave; in parte una sfida alla superstizione e in parte una scelta di marketing della Nike annunciata gi&agrave; da qualche mese, spiegata come un ritorno alla tradizione visto che siamo nel centenario della prima Coppa America vinta dal Brasile, proprio indossando la maglia bianca. Non sono osservazioni da maniaci, perch&eacute; stiamo parlando della squadra e della maglia pi&ugrave; famosi del mondo, che fanno battere il cuore in ogni angolo del pianeta anche a persone che con il Brasile non hanno niente da spartire. Ma qual &egrave; la &lsquo;vera&rsquo; maglia del Brasile, in definitiva?  Non c&rsquo;&egrave; dubbio alcuno che la maglia storica del Brasile sia proprio quella bianca, visto che nel 1914 il Brasile disput&ograve; proprio in bianco la sua prima partita, quando le allora otto federazioni calcistiche del paese si fusero per crearne una condivisa (la FBS). Bianche le maglie, bianchi i pantaloncini. Quando nel 1916 la FBS divent&ograve; CBD, iniziarono a comparire i colori della bandiera, che quindi non sono un&rsquo;invenzione del post Maracanazo. Maglia a strisce verticali gialle e verdi, simile (per fare un esempio moderno) a quella da trasferta del West Bromwich Albion, con pantaloncini bianchi. L&rsquo;innovazione non convinse e dopo vari esperimenti sempre a tema verdeoro si torno&ograve; alla maglia bianca, questa volta con pantaloncini (e bordi delle maniche) blu, per la Coppa America (all&rsquo;epoca denominata Campionato Sudamericano) del 1919 ospitata a Rio de Janeiro e vinta grazie ai gol di Friedenreich e Neco.  Non ci furono pi&ugrave; cambiamenti sostanziali fino al 1942, quindi fino ai primi tre Mondiali disputati dal Brasile (eccezione nel 1938, quando contro la Polonia si gioc&ograve; in blu in maniera abbastanza improvvisata visto che i polacchi avevano vinto il sorteggio per giocare in bianco), quando i pantaloncini da blu ridiventarono bianchi. Poi nel 1950 la madre di tutte le sconfitte, quella con l&rsquo;Uruguay (anche se la semifinale 2014 contro la Germania non scherza), e la decisione di indire un bando per la nuova divisa, vinto dall&rsquo;idea che poi sarebbe arrivata ai giorni nostri. La curiosit&agrave; &egrave; che la maglia bianca non fu accantonata subito, come spesso si dice, ma negli anni Cinquanta sarebbe stata usata in vari tornei, primo fra tutti il Panamericano del 1952 in cui un Brasile molto simile a quello del 1950 divent&ograve; campione dopo avere battuto 2-0 un Uruguay molto simile a quello del 1950. Qualche anziano milanese ricorda l&rsquo;uniforme bianca con cui il Brasile nel 1956 perse dall&rsquo;Italia di Foni a San Siro in mezzo a un tour europeo e la maglia bianca si vide anche nel Sudamericano del 1957. Ma ormai la maglia del Brasile era diventata quella che nella nostra testa &egrave; la maglia del Brasile. Nel 1952 il concorso nazionale aveva visto a sorpresa vincere un diciottenne aspirante giornalista e disegnatore, cosa che poi sarebbe diventato, Aldyr Schlee.  Il trionfo in Svezia convinse la federazione a non andare al di l&agrave; del verdeoro come prima e del blu come seconda maglia, con i risultati che tutti ricordano, i cinque Mondiali vinti su tutti. L&rsquo;ultimo nel 2002, con Ronaldo trascinatore. Non lo diciamo a caso perch&eacute; nel 2004 il Brasile fece un&rsquo;eccezione alla regola disputando in bianco un&rsquo;amichevole contro la Francia per i 100 anni della FIFA. &Egrave; stata l&rsquo;ultima volta in bianco fino all&rsquo;altra sera al Morumbi, ma certo &egrave; che i Mondiali 2006, 2010, 2014 e 2018 il Brasile non li ha vinti e in qualche caso l&rsquo;eliminazione &egrave; stata figlia anche di sfortuna. La superstizione sar&agrave; anche segno di debolezza, ma non essere superstiziosi a volte porta male. 

La Selec&atilde;o di Tite ha iniziato la sua Coppa America contro la Bolivia, indossando una maglia che nell&#39;immaginario dei suoi tifosi ha spesso portato sfortuna. Chi vincer&agrave; fra marketing e superstizione?

Il ritorno del Brasile in bianco

Dopo l&rsquo;impresa del Belgio si pu&ograve; dire che l&rsquo;Europa domini il Mondiale con quattro semifinaliste su quattro, come nella storia era avvenuto soltanto altre quattro volte: nel 1934, nel 1966, nel 1982 e nel 2006. Ma tutto scompare di fronte all&rsquo;uscita di scena del Brasile, che questa volta &egrave; stata meno drammatica e teatrale di tante altre. E proprio per questo fa pi&ugrave; male: i rimpianti della squadra di Tite devono essere enormi, al netto del pi&ugrave; clamoroso errore del VAR in questo torneo (rigore non dato al 56&rsquo; per fallo di Kompany su Gabriel Jesus, con risultato sullo 0-2), pennellata di Orsato anche se poi l&#39;ultima parola &egrave; dell&#39;arbitro in campo.&nbsp; Rimpianti prima di tutto perch&eacute; molti singoli hanno giocato sotto il loro standard: disastroso Fernandinho, per l&rsquo;autogol e il costante ritardo in quasi tutti gli interventi, poco lucido Paulinho, inferiore rispetto alle scorse settimane Coutinho, inesistenti Willian e Gabriel Jesus, fumoso e ormai battezzato come simulatore Neymar. In queste condizioni avere sfiorato pi&ugrave; volte il 2-2 contro una delle migliori squadre del ranking mondiale, anche grazie alle mosse dell&rsquo;allenatore (Firmino, Douglas Costa e soprattutto Renato Augusto), ed avere disputato un gran secondo tempo &egrave; stato quasi un miracolo. E per quello che si &egrave; visto i supplementari sarebbero stati giusti, anche se il Belgio ha fatto un&rsquo;onesta partita di quelle che una volta avremmo definito all&rsquo;italiana: muro Fellaini-Witsel davanti alla difesa e ripartenze con pallone gestito da un assatanato Hazard e da un buon De Bruyne. La testa della squadra di Martinez &egrave; adesso alla Francia, quella del Brasile a un altro Mondiale scivolato via senza un vero perch&eacute;. Quattro anni fa il Mineirazo, con le assenze di Thiago Silva e Neymar, era stato un colpo cos&igrave; grosso da sembrare irreale. Questa sconfitta con il Belgio &egrave; invece tremendamente concreta, essendo arrivata al termine di una partita normale e che poco si presta ad analisi visto che un episodio avrebbe potuto farla girare e senz&rsquo;altro il Belgio non ha alcun merito nel modo in cui il risultato si &egrave; sbloccato permettendogli dai fare una partita catenacciara contro avversari stranamente poco centrati, troppo condizionati dall&rsquo;assenza di Casemiro. Il resto lo hanno ha fatto la fortuna e le cattive prove di alcuni singoli, ma, va ripetuto, se il Brasile avesse rimontato sarebbe stato giusto. Quando la Selec&atilde;o viene eliminata si ha quasi la sensazione che sia finito il Mondiale, inutile negarlo. Inizia un altro quadriennio di speranze, forse ancora con Tite che ha poco da rimproverarsi, senza dover fare rivoluzioni perch&eacute; la squadra &egrave; abbastanza giovane e pu&ograve; arrivare quasi in blocco a Qatar 2022, fatta eccezione per i difensori centrali visto che Miranda e Thiago Silva hanno quasi 34 anni. La copertina del dolore sar&agrave; dedicata inevitabilmente a Neymar, il terzo grande del pianeta su tre a tornarsene a casa con la sensazione di avere perso un treno che forse non passer&agrave; pi&ugrave;: la stella del PSG avr&agrave; ancora almeno un tentativo per prendersi il suo Mondiale, scenario difficile per Messi e Cristiano Ronaldo, ma ancora una volta ha lasciato la sensazione di qualcosa di incompiuto. Non per il risultato, ma per il suo stesso modo di stare in campo. Peccato.

Dopo l&rsquo;impresa del Belgio si pu&ograve; dire che l&rsquo;Europa domini il Mondiale con quattro semifinaliste su quattro, come nella storia era avvenuto soltanto altre quattro volte: nel 1934, nel 1966, nel 1982 e nel 2006. Ma tutto scompare di fronte all&rsquo;uscita di scena del Brasile, che questa volta &egrave; stata meno drammatica e teatrale di tante altre. E proprio per questo fa pi&ugrave; male: i rimpianti della squadra di Tite devono essere enormi, al netto del pi&ugrave; clamoroso errore del VAR in questo torneo (rigore non dato al 56&rsquo; per fallo di Kompany su Gabriel Jesus, con risultato sullo 0-2), pennellata di Orsato anche se poi l&#39;ultima parola &egrave; dell&#39;arbitro in campo.&nbsp;  Rimpianti prima di tutto perch&eacute; molti singoli hanno giocato sotto il loro standard: disastroso Fernandinho, per l&rsquo;autogol e il costante ritardo in quasi tutti gli interventi, poco lucido Paulinho, inferiore rispetto alle scorse settimane Coutinho, inesistenti Willian e Gabriel Jesus, fumoso e ormai battezzato come simulatore Neymar. In queste condizioni avere sfiorato pi&ugrave; volte il 2-2 contro una delle migliori squadre del ranking mondiale, anche grazie alle mosse dell&rsquo;allenatore (Firmino, Douglas Costa e soprattutto Renato Augusto), ed avere disputato un gran secondo tempo &egrave; stato quasi un miracolo. E per quello che si &egrave; visto i supplementari sarebbero stati giusti, anche se il Belgio ha fatto un&rsquo;onesta partita di quelle che una volta avremmo definito all&rsquo;italiana: muro Fellaini-Witsel davanti alla difesa e ripartenze con pallone gestito da un assatanato Hazard e da un buon De Bruyne.  La testa della squadra di Martinez &egrave; adesso alla Francia, quella del Brasile a un altro Mondiale scivolato via senza un vero perch&eacute;. Quattro anni fa il Mineirazo, con le assenze di Thiago Silva e Neymar, era stato un colpo cos&igrave; grosso da sembrare irreale. Questa sconfitta con il Belgio &egrave; invece tremendamente concreta, essendo arrivata al termine di una partita normale e che poco si presta ad analisi visto che un episodio avrebbe potuto farla girare e senz&rsquo;altro il Belgio non ha alcun merito nel modo in cui il risultato si &egrave; sbloccato permettendogli dai fare una partita catenacciara contro avversari stranamente poco centrati, troppo condizionati dall&rsquo;assenza di Casemiro. Il resto lo hanno ha fatto la fortuna e le cattive prove di alcuni singoli, ma, va ripetuto, se il Brasile avesse rimontato sarebbe stato giusto.  Quando la Selec&atilde;o viene eliminata si ha quasi la sensazione che sia finito il Mondiale, inutile negarlo. Inizia un altro quadriennio di speranze, forse ancora con Tite che ha poco da rimproverarsi, senza dover fare rivoluzioni perch&eacute; la squadra &egrave; abbastanza giovane e pu&ograve; arrivare quasi in blocco a Qatar 2022, fatta eccezione per i difensori centrali visto che Miranda e Thiago Silva hanno quasi 34 anni. La copertina del dolore sar&agrave; dedicata inevitabilmente a Neymar, il terzo grande del pianeta su tre a tornarsene a casa con la sensazione di avere perso un treno che forse non passer&agrave; pi&ugrave;: la stella del PSG avr&agrave; ancora almeno un tentativo per prendersi il suo Mondiale, scenario difficile per Messi e Cristiano Ronaldo, ma ancora una volta ha lasciato la sensazione di qualcosa di incompiuto. Non per il risultato, ma per il suo stesso modo di stare in campo. Peccato. 

La squadra di Tite ha chiuso il suo Mondiale perdendo con il Belgio una partita dai tanti rimpianti e anche sfortunata, che stava per raddrizzare nonostante le prove negative di alcuni suoi campioni. L&#39;ennesima occasione buttata...

Il Brasile incompiuto di Neymar

L&rsquo;addio di Kak&agrave; al calcio giocato &egrave; avvenuto molto pi&ugrave; tardi rispetto al momento giusto, a 35 anni e con la parabola discendente iniziata da ben prima del 2013, quando torn&ograve; al Milan dopo 4 difficili anni di Real Madrid. Ultimo essere umano a vincere il Pallone d&rsquo;Oro (era il 2007, con la maglia del Milan campione d&rsquo;Europa e del mondo) prima che il premio venisse monopolizzato da Messi e Cristiano Ronaldo, il miglior Kak&agrave; &egrave; stato senza dubbio quello visto al Milan di Ancelotti, anche se si &egrave; trascinato con dignit&agrave; fino all&#39;epilogo ad Orlando. Fra problemi fisici e ambientali (in rossonero era la stella assoluta, nel Real no anche perch&eacute; arriv&ograve; la stessa estate di Cristiano Ronaldo preso dal Manchester United), raramente in Spagna si &egrave; visto il miglior Kak&agrave; e forse la freddezza con Mourinho (dal 2010) e l&rsquo;ambiente madridista c&rsquo;entra poco. Intanto perch&eacute; l&rsquo;operazione al ginocchio dell&rsquo;estate 2010 ha di fatto chiuso l&rsquo;era del miglior Kak&agrave;, a prescindere dal contesto, e poi perch&eacute; nemmeno nella Selec&atilde;o, nonostante il Mondiale vinto da ventenne riserva, le 83 presenze e le tante buone prestazioni &egrave; stato mai considerato un leader indiscutibile: forse non era considerato abbastanza &lsquo;del popolo&rsquo;, visto che viene da una famiglia dell&rsquo;alta borghesia di San Paolo, forse non aveva un vero ruolo e questo te lo puoi permettere soltanto in una squadra dove sei nettamente il migliore, forse il &lsquo;suo&rsquo; Mondiale, che era quello del 2010, se lo &egrave; giocato con troppi piccoli infortuni. Ricardo Izecson dos Santos Leite &egrave; stato un campione e soprattutto un brasiliano atipico, che aveva come modello Ra&igrave;: ottima carriera fra San Paolo e PSG, e anche nella rosa campione del mondo del 1994, noto anche come fratello di Socrates. Molto concreto e molto atleta, Kak&agrave;, almeno nei suoi anni migliori: raramente nella storia e mai nel calcio moderno si &egrave; visto uno con questa progressione palla al piede. Un gesto tecnico lungo anche quaranta metri che contro le difese del terzo millennio sembra impossibile, ma che lui faceva diventare facile ed esaltante. Il calcio dei videogiochi, per certi aspetti: sar&agrave; anche per questo e per la sua faccia pulita che Kak&agrave; &egrave; sempre stato amatissimo dai bambini e dagli sponsor, da Adidas ad Armani. Kak&agrave; ha il fisico e l&rsquo;atteggiamento del dirigente, nella peggiore delle ipotesi dell&rsquo;uomo immagine. Negli spogliatoi che ha frequentato si &egrave; guadagnato il rispetto di tutti ma non &egrave; mai stato un trascinatore: difficile che possa diventare la nuova bandiera milanista mandata allo sbaraglio in panchina per coprire gli errori di altri, ma non si pu&ograve; mai dire. Di certo a Milano tornerebbe senza la moglie Caroline, che Milano mai l&rsquo;avrebbe lasciata, visto che il matrimonio &egrave; finito. Va detto che la sua immagine straordinaria e positiva, non a caso &egrave; stato uno dei primi calciatori a diventare una vera star sui social network, &egrave; tutta da verificare alle prove della vita reale. Per fare il dirigente o l&rsquo;allenatore non basta conoscere il calcio, ma questo non vale soltanto per Kak&agrave;.&nbsp;

L&rsquo;addio di Kak&agrave; al calcio giocato &egrave; avvenuto molto pi&ugrave; tardi rispetto al momento giusto, a 35 anni e con la parabola discendente iniziata da ben prima del 2013, quando torn&ograve; al Milan dopo 4 difficili anni di Real Madrid. Ultimo essere umano a vincere il Pallone d&rsquo;Oro (era il 2007, con la maglia del Milan campione d&rsquo;Europa e del mondo) prima che il premio venisse monopolizzato da Messi e Cristiano Ronaldo, il miglior Kak&agrave; &egrave; stato senza dubbio quello visto al Milan di Ancelotti, anche se si &egrave; trascinato con dignit&agrave; fino all&#39;epilogo ad Orlando.  Fra problemi fisici e ambientali (in rossonero era la stella assoluta, nel Real no anche perch&eacute; arriv&ograve; la stessa estate di Cristiano Ronaldo preso dal Manchester United), raramente in Spagna si &egrave; visto il miglior Kak&agrave; e forse la freddezza con Mourinho (dal 2010) e l&rsquo;ambiente madridista c&rsquo;entra poco. Intanto perch&eacute; l&rsquo;operazione al ginocchio dell&rsquo;estate 2010 ha di fatto chiuso l&rsquo;era del miglior Kak&agrave;, a prescindere dal contesto, e poi perch&eacute; nemmeno nella Selec&atilde;o, nonostante il Mondiale vinto da ventenne riserva, le 83 presenze e le tante buone prestazioni &egrave; stato mai considerato un leader indiscutibile: forse non era considerato abbastanza &lsquo;del popolo&rsquo;, visto che viene da una famiglia dell&rsquo;alta borghesia di San Paolo, forse non aveva un vero ruolo e questo te lo puoi permettere soltanto in una squadra dove sei nettamente il migliore, forse il &lsquo;suo&rsquo; Mondiale, che era quello del 2010, se lo &egrave; giocato con troppi piccoli infortuni.  Ricardo Izecson dos Santos Leite &egrave; stato un campione e soprattutto un brasiliano atipico, che aveva come modello Ra&igrave;: ottima carriera fra San Paolo e PSG, e anche nella rosa campione del mondo del 1994, noto anche come fratello di Socrates. Molto concreto e molto atleta, Kak&agrave;, almeno nei suoi anni migliori: raramente nella storia e mai nel calcio moderno si &egrave; visto uno con questa progressione palla al piede. Un gesto tecnico lungo anche quaranta metri che contro le difese del terzo millennio sembra impossibile, ma che lui faceva diventare facile ed esaltante. Il calcio dei videogiochi, per certi aspetti: sar&agrave; anche per questo e per la sua faccia pulita che Kak&agrave; &egrave; sempre stato amatissimo dai bambini e dagli sponsor, da Adidas ad Armani.  Kak&agrave; ha il fisico e l&rsquo;atteggiamento del dirigente, nella peggiore delle ipotesi dell&rsquo;uomo immagine. Negli spogliatoi che ha frequentato si &egrave; guadagnato il rispetto di tutti ma non &egrave; mai stato un trascinatore: difficile che possa diventare la nuova bandiera milanista mandata allo sbaraglio in panchina per coprire gli errori di altri, ma non si pu&ograve; mai dire. Di certo a Milano tornerebbe senza la moglie Caroline, che Milano mai l&rsquo;avrebbe lasciata, visto che il matrimonio &egrave; finito. Va detto che la sua immagine straordinaria e positiva, non a caso &egrave; stato uno dei primi calciatori a diventare una vera star sui social network, &egrave; tutta da verificare alle prove della vita reale. Per fare il dirigente o l&rsquo;allenatore non basta conoscere il calcio, ma questo non vale soltanto per Kak&agrave;.&nbsp; 

Il campione brasiliano ha lasciato il calcio a 35 anni, anche se gi&agrave; da tanto era lontano dai suoi migliori livelli. Incerto fra una carriera da allenatore o da dirigente, potrebbe essere la prossima bandiera del Milan a scendere nell&#39;arena...

Il futuro di Kak&agrave;

L&rsquo;immagine che abbiamo di Renato Portaluppi, in Brasile noto a tutti come Renato Ga&uacute;cho, &egrave; sempre quella del trascinante viveur che nell&rsquo;estate 1988 arriv&ograve; dal Flamengo alla Roma di Viola pagato 3 miliardi di lire, rilasciando memorabili interviste (al Guerino dichiar&ograve; che non gli piaceva usare il preservativo) ma lasciando sul campo tracce inferiori a quelle che la sua classe gli avrebbe consentito. Un po&rsquo; come il connazionale Andrade, anche lui dal Flamengo e anche lui ottimo giocatore, di sicuro un po&rsquo; usurato (terzo straniero era Rudi V&ouml;ller). Invece dopo che il suo Gremio ha conquistato la Copa Libertadores nella casa del Lanus, la Fortaleza, 2-1 dopo la vittoria 1-0 a Porto Alegre, &egrave; diventato il primo brasiliano (non il primo allenatore in assoluto) ad alzare il trofeo pi&ugrave; ambito del Sudamerica sia da giocatore sia da allenatore. Impresa storica anche perch&eacute; Renato, purissimo figlio dello stato di Rio Grande do Sul (&egrave; nato a Guapor&eacute; nel 1962), a Porto Alegre &egrave; una divinit&agrave;: lo &egrave; stato da giocatore, conquistando con il Gremio non solo la Libertadores 1983 come attaccante di destra, ma anche la vecchia Coppa Intercontinentale (suoi entrambi i gol nel 2-1 all&rsquo;Amburgo di Happel) prima che la sua carriera si sviluppasse soprattutto a Rio, lo &egrave; da allenatore: quella attuale &egrave; la sua terza incarnazione alla guida del Gremio, decisamente la pi&ugrave; fortunata. E non &egrave; un caso che in Brasile si parli di lui come possibile successore di Tite sulla panchina della Selec&atilde;o, dopo il Mondiale russo, per prendere da tecnico quei treni che non ha preso come giocatore: Tel&eacute; Santana lo avrebbe convocato per il Mondiale 1986, ma cambi&ograve; idea dopo fughe da ritiri e situazioni tipo Margheritoni, mentre Lazaroni lo chiam&ograve; per Italia &rsquo;90 ma senza mai davvero dargli fiducia. Tornando all&rsquo;attualit&agrave;, nella finale di ritorno Fernandinho e Luan hanno chiuso il discorso gi&agrave; nel primo tempo, con la collaborazione della difesa argentina. E il gol di Luan sembra fatto apposta per renderlo uomo mercato e a gennaio, la pi&ugrave; disperata fra le ricche d&rsquo;Europa potrebbe puntare su di lui senza stare troppo a trattare. Non &egrave; certo uno sconosciuto, visto che nella nazionale oro a Rio giocava alle spalle di Neymar in un attacco davvero di&hellip; attaccanti, con Gabigol sulla destra e Gabriel Jesus a sinistra, e nel mercato attuale pu&ograve; tranquillamente costare 60 milioni di euro. Difficile invece che arrivi in Europa Marcelo Grohe, il portiere che del Gremio &egrave; l&rsquo;architrave insieme al completissimo Arthur, centrale dalla regia illuminata, e a Ramiro, centrocampista di sostanza che Renato ha adattato nella destra dell&rsquo;attacco nel suo 4-2-3-1 quasi immutabile, attacco che con una prima punta migliore di Barrios o Jael produrrebbe molti pi&ugrave; gol. Ma &egrave; chiaro che i riflettori sono per l&rsquo;allenatore: il suo Gremio, valutato per come ha giocato nella Libertadores, &egrave; una squadra molto europea che pressa alto e lo si &egrave; visto anche nella partita di Buenos Aires, con l&rsquo;assatanato Lanus che di fatto non &egrave; riuscito a combinare niente. Adesso per Renato e i suoi campioni il viaggio negli Emirati Arabi per il Mondiale per club, uno degli ultimi (fissate le date dell&rsquo;edizione 2018, poi si vedr&agrave;) prima della riforma di Infantino che a partire dal 2021 mira a renderlo qualcosa di atteso come il Mondiale vero, con 24 squadre in campo a giugno e cadenza quadriennale. Comunque vada, l&rsquo;impresa &egrave; gi&agrave; stata fatta.

L&rsquo;immagine che abbiamo di Renato Portaluppi, in Brasile noto a tutti come Renato Ga&uacute;cho, &egrave; sempre quella del trascinante viveur che nell&rsquo;estate 1988 arriv&ograve; dal Flamengo alla Roma di Viola pagato 3 miliardi di lire, rilasciando memorabili interviste (al Guerino dichiar&ograve; che non gli piaceva usare il preservativo) ma lasciando sul campo tracce inferiori a quelle che la sua classe gli avrebbe consentito. Un po&rsquo; come il connazionale Andrade, anche lui dal Flamengo e anche lui ottimo giocatore, di sicuro un po&rsquo; usurato (terzo straniero era Rudi V&ouml;ller). Invece dopo che il suo Gremio ha conquistato la Copa Libertadores nella casa del Lanus, la Fortaleza, 2-1 dopo la vittoria 1-0 a Porto Alegre, &egrave; diventato il primo brasiliano (non il primo allenatore in assoluto) ad alzare il trofeo pi&ugrave; ambito del Sudamerica sia da giocatore sia da allenatore.  Impresa storica anche perch&eacute; Renato, purissimo figlio dello stato di Rio Grande do Sul (&egrave; nato a Guapor&eacute; nel 1962), a Porto Alegre &egrave; una divinit&agrave;: lo &egrave; stato da giocatore, conquistando con il Gremio non solo la Libertadores 1983 come attaccante di destra, ma anche la vecchia Coppa Intercontinentale (suoi entrambi i gol nel 2-1 all&rsquo;Amburgo di Happel) prima che la sua carriera si sviluppasse soprattutto a Rio, lo &egrave; da allenatore: quella attuale &egrave; la sua terza incarnazione alla guida del Gremio, decisamente la pi&ugrave; fortunata. E non &egrave; un caso che in Brasile si parli di lui come possibile successore di Tite sulla panchina della Selec&atilde;o, dopo il Mondiale russo, per prendere da tecnico quei treni che non ha preso come giocatore: Tel&eacute; Santana lo avrebbe convocato per il Mondiale 1986, ma cambi&ograve; idea dopo fughe da ritiri e situazioni tipo Margheritoni, mentre Lazaroni lo chiam&ograve; per Italia &rsquo;90 ma senza mai davvero dargli fiducia.  Tornando all&rsquo;attualit&agrave;, nella finale di ritorno Fernandinho e Luan hanno chiuso il discorso gi&agrave; nel primo tempo, con la collaborazione della difesa argentina. E il gol di Luan sembra fatto apposta per renderlo uomo mercato e a gennaio, la pi&ugrave; disperata fra le ricche d&rsquo;Europa potrebbe puntare su di lui senza stare troppo a trattare. Non &egrave; certo uno sconosciuto, visto che nella nazionale oro a Rio giocava alle spalle di Neymar in un attacco davvero di&hellip; attaccanti, con Gabigol sulla destra e Gabriel Jesus a sinistra, e nel mercato attuale pu&ograve; tranquillamente costare 60 milioni di euro. Difficile invece che arrivi in Europa Marcelo Grohe, il portiere che del Gremio &egrave; l&rsquo;architrave insieme al completissimo Arthur, centrale dalla regia illuminata, e a Ramiro, centrocampista di sostanza che Renato ha adattato nella destra dell&rsquo;attacco nel suo 4-2-3-1 quasi immutabile, attacco che con una prima punta migliore di Barrios o Jael produrrebbe molti pi&ugrave; gol.  Ma &egrave; chiaro che i riflettori sono per l&rsquo;allenatore: il suo Gremio, valutato per come ha giocato nella Libertadores, &egrave; una squadra molto europea che pressa alto e lo si &egrave; visto anche nella partita di Buenos Aires, con l&rsquo;assatanato Lanus che di fatto non &egrave; riuscito a combinare niente. Adesso per Renato e i suoi campioni il viaggio negli Emirati Arabi per il Mondiale per club, uno degli ultimi (fissate le date dell&rsquo;edizione 2018, poi si vedr&agrave;) prima della riforma di Infantino che a partire dal 2021 mira a renderlo qualcosa di atteso come il Mondiale vero, con 24 squadre in campo a giugno e cadenza quadriennale. Comunque vada, l&rsquo;impresa &egrave; gi&agrave; stata fatta. 

La squadra allenata dall&#39;ex giocatore della Roma ha conquistato la Copa Libertadores in finale sul Lanus, trofeo che Renato con il Gremio aveva gi&agrave; alzato da giocatore...

Renato Ga&uacute;cho, l&#39;eroe del Gremio

Per trovare il primo precedente mondiale fra Italia e Svezia bisogna risalire a Brasile 1950, anche se non bisogna dimenticare che prima del 1930 i Giochi Olimpici avevano per il calcio un valore quasi da Coppa del Mondo e che nel 1912 proprio a Stoccolma l'Italia allenata da un giovanissimo Vittorio Pozzo aveva sconfitto per 1 a 0 i padroni di casa nel torneo di consolazione. 38 anni dopo, nel primo Mondiale del dopoguerra, Italia e Svezia erano state sorteggiate nello stesso girone di Paraguay e India. Ma poco prima dell'inizio il girone divent&ograve; a tre squadre, per il ritiro dell'India dovuto un po' al divieto della FIFA di giocare a piedi nudi (ai Giochi di Londra 1948 met&agrave; della selezione indiana aveva giocato in questo modo e anche con buoni risultati) e molto alla scarsa considerazione che l'India, fresca di indipendenza, dava al Mondiale rispetto ad un'Olimpiade. Da notare che mai pi&ugrave; l'India avrebbe avuto questa opportunit&agrave;... Siccome al turno successivo sarebbe passata soltanto la prima del girone la partita d'esordio fra Italia e Svezia fu da subito decisiva. Domenica 25 giugno al Pacaembu di San Paolo la Nazionale guidata da Ferruccio Novo, il presidente del Grande Torino distrutto l'anno prima a Superga, disput&ograve; una ottima partita contro i campioni olimpici in carica, che schieravano talenti come Hasse Jeppson e Lennart Skoglund, che di l&igrave; a poco sarebbero arrivati in serie A. L'Italia inizi&ograve; benissimo andando in vantaggio con Carapellese su assist di Cappello e sfiorando pi&ugrave; volte il raddoppio con Muccinelli, poi gli svedesi si imposero soprattutto sul piano fisico ma anche grazie alla classe di Jeppsson, che fece impazzire Parola segnando due gol che insieme a quello di Andersson portarono la partita sul 3 a 1. A questo punto quella che si poteva considerare quasi un'Italia B, visto che fino al 1949 quasi tutta la nazionale era composta dai giocatori del Torino, gioc&ograve; un ultimo quarto d'ora di intensit&agrave; straordinaria: altro assist di Cappello e gol del 2-3 di Muccinelli, poi si scaten&ograve; Boniperti che costrinse il portiere svedese a due miracoli. Proprio al 90' Carapellese prese la traversa e le speranze dell'Italia, bicampione del mondo in carica, finirono l&igrave;. Con tanti rimpianti, grande onore e qualche giustificazione come quella della stanchezza per il viaggio fatto in nave visto che il ricordo di Superga era ancora troppo fresco. Sempre a San Paolo gli azzurri avrebbero poi battuto il Paraguay 2 a 0, ma la vera partita era stata gi&agrave; persa.&nbsp;

        Per trovare il primo precedente mondiale fra Italia e Svezia bisogna risalire a Brasile 1950, anche se non bisogna dimenticare che prima del 1930 i Giochi Olimpici avevano per il calcio un valore quasi da Coppa del Mondo e che nel 1912 proprio a Stoccolma l'Italia allenata da un giovanissimo Vittorio Pozzo aveva sconfitto per 1 a 0 i padroni di casa nel torneo di consolazione. 38 anni dopo, nel primo Mondiale del dopoguerra, Italia e Svezia erano state sorteggiate nello stesso girone di Paraguay e India. Ma poco prima dell'inizio il girone divent&ograve; a tre squadre, per il ritiro dell'India dovuto un po' al divieto della FIFA di giocare a piedi nudi (ai Giochi di Londra 1948 met&agrave; della selezione indiana aveva giocato in questo modo e anche con buoni risultati) e molto alla scarsa considerazione che l'India, fresca di indipendenza, dava al Mondiale rispetto ad un'Olimpiade. Da notare che mai pi&ugrave; l'India avrebbe avuto questa opportunit&agrave;... Siccome al turno successivo sarebbe passata soltanto la prima del girone la partita d'esordio fra Italia e Svezia fu da subito decisiva. Domenica 25 giugno al Pacaembu di San Paolo la Nazionale guidata da Ferruccio Novo, il presidente del Grande Torino distrutto l'anno prima a Superga, disput&ograve; una ottima partita contro i campioni olimpici in carica, che schieravano talenti come Hasse Jeppson e Lennart Skoglund, che di l&igrave; a poco sarebbero arrivati in serie A. L'Italia inizi&ograve; benissimo andando in vantaggio con Carapellese su assist di Cappello e sfiorando pi&ugrave; volte il raddoppio con Muccinelli, poi gli svedesi si imposero soprattutto sul piano fisico ma anche grazie alla classe di Jeppsson, che fece impazzire Parola segnando due gol che insieme a quello di Andersson portarono la partita sul 3 a 1. A questo punto quella che si poteva considerare quasi un'Italia B, visto che fino al 1949 quasi tutta la nazionale era composta dai giocatori del Torino, gioc&ograve; un ultimo quarto d'ora di intensit&agrave; straordinaria: altro assist di Cappello e gol del 2-3 di Muccinelli, poi si scaten&ograve; Boniperti che costrinse il portiere svedese a due miracoli. Proprio al 90' Carapellese prese la traversa e le speranze dell'Italia, bicampione del mondo in carica, finirono l&igrave;. Con tanti rimpianti, grande onore e qualche giustificazione come quella della stanchezza per il viaggio fatto in nave visto che il ricordo di Superga era ancora troppo fresco. Sempre a San Paolo gli azzurri avrebbero poi battuto il Paraguay 2 a 0, ma la vera partita era stata gi&agrave; persa.&nbsp;       

Il primo incrocio fra l'Italia e la Svezia in un Mondiale risale a Brasile 1950, in una partita che da subito disse che la Coppa Rimet sarebbe passata di mano...

Eliminati da Jeppson

Il Brasile &egrave; diventato la prima squadra a qualificarsi per il Mondiale 2018, senza contare ovviamente la Russia, e rimane l'unica nazionale sempre presente nella fase finale della manifestazione sportiva pi&ugrave; seguita del pianeta. Con la certezza di difendere questo record per l'eternit&agrave;, vista la formula 'cani e porci' a 48 squadre che scatter&agrave; dal 2026 con una corrente di pensiero FIFA a spingere gi&agrave; per il 2022. Al di l&agrave; del lavoro di Tite (ottava vittoria consecutiva), del valore della rosa (ma l'Argentina non &egrave; da meno, eppure in questo momento dovrebbe giocare lo spareggio) e del ritorno al numero 1 nel ranking FIFA (Italia dodicesima), stiamo parlando di storia. Perch&eacute; quasi mai il Brasile ha rischiato di rimanere fuori: a Uruguay 1930 non ci furono qualificazioni per nessuna delle 13 partecipanti, ma gi&agrave; dal 1934 la presenza smise di essere scontata. Per&ograve; di fatto anche in Italia il Brasile and&ograve; senza lottare, perch&eacute; nel suo gruppo di qualificazione c'erano soltanto due (!) squadre e una (il Per&ugrave;)&nbsp;delle due&nbsp;si ritir&ograve;... Stessa musica nel 1938, con l'Argentina che si chiam&ograve; fuori prima ancora di giocare. Nel 1950 il Brasile era paese ospitante, come tutti (soprattutto in Uruguay) ricordano, cos&igrave; soltanto dal quinto Mondiale la Selec&atilde;o dovette sudarsi la partecipazione. Dominio in un girone con Paraguay, Cile e Per&ugrave;, quindi viaggio in Svizzera. La storia ha quasi dimenticato che all'edizione del 1958, quella che di fatto ha creato il mito del Brasile, lo squadrone i all'epoca allenato da Osvaldo Brand&atilde;o si qualific&ograve; quasi per miracolo nel suo gironcino Conmebol, da cui si era ritirato il Venezuela. Divennero quindi decisive le due partite con il Per&ugrave;: nella prima, a Lima, i padroni di casa dominarono e soltanto un gol di Indio (fra l'altro l'ultimo vivente della Selec&atilde;o 1954, mentre stiamo scrivendo queste righe) port&ograve; il match in pareggio. Per la squadra che rispetto a quella vista poi in Svezia non aveva ancora Vav&agrave; e Pel&eacute; (e nemmeno Altafini) ritorno faticosissimo e risolto soltanto da un gol di Did&igrave;. Nel 1962 e 1966 ovviamente la presenza alla fase finale fu da detentori, mentre la qualificazione del 1970 fu difficile almeno quanto quella del 1958. Continuava a non esserci il girone unico sudamericano come oggi, e il Brasile dovette vedersela con Paraguay, Colombia e Venezuela. Fu dura e all'ultima partita contro il Paraguay il Brasile di Saldanha era avanti di un solo punto: pi&ugrave; volte si sfior&ograve; un altro Maracanazo, poi un gol di Pel&eacute; a 10 minuti dalla fine mand&ograve; tutti (tranne Saldanha) in Messico. Per il 1978 due i gironi da superare, con Paraguay prima e Per&ugrave; dopo che furono ossi duri. Grande scioltezza per il 1982 e il 1986, fatica per Italia '90 (con il famoso caso Rojas), tutto facile nel per 1994, 2002, 2006, 2010 e, come si &egrave; visto, 2018. Ricapitolando: su 21 edizioni del Mondiale in 9 il Brasile si &egrave; qualificato senza bisogno di giocare, in 8 si &egrave; qualificato facilmente e soltanto in in 4 con qualche rischio. Il Mondiale &egrave; la sua casa naturale ed in fondo anche la nostra (ma diciamolo sottovoce).

Il Brasile &egrave; diventato la prima squadra a qualificarsi per il Mondiale 2018, senza contare ovviamente la Russia, e rimane l'unica nazionale sempre presente nella fase finale della manifestazione sportiva pi&ugrave; seguita del pianeta. Con la certezza di difendere questo record per l'eternit&agrave;, vista la formula 'cani e porci' a 48 squadre che scatter&agrave; dal 2026 con una corrente di pensiero FIFA a spingere gi&agrave; per il 2022. Al di l&agrave; del lavoro di Tite (ottava vittoria consecutiva), del valore della rosa (ma l'Argentina non &egrave; da meno, eppure in questo momento dovrebbe giocare lo spareggio) e del ritorno al numero 1 nel ranking FIFA (Italia dodicesima), stiamo parlando di storia.  Perch&eacute; quasi mai il Brasile ha rischiato di rimanere fuori: a Uruguay 1930 non ci furono qualificazioni per nessuna delle 13 partecipanti, ma gi&agrave; dal 1934 la presenza smise di essere scontata. Per&ograve; di fatto anche in Italia il Brasile and&ograve; senza lottare, perch&eacute; nel suo gruppo di qualificazione c'erano soltanto due (!) squadre e una (il Per&ugrave;)&nbsp;delle due&nbsp;si ritir&ograve;... Stessa musica nel 1938, con l'Argentina che si chiam&ograve; fuori prima ancora di giocare. Nel 1950 il Brasile era paese ospitante, come tutti (soprattutto in Uruguay) ricordano, cos&igrave; soltanto dal quinto Mondiale la Selec&atilde;o dovette sudarsi la partecipazione. Dominio in un girone con Paraguay, Cile e Per&ugrave;, quindi viaggio in Svizzera.  La storia ha quasi dimenticato che all'edizione del 1958, quella che di fatto ha creato il mito del Brasile, lo squadrone i all'epoca allenato da Osvaldo Brand&atilde;o si qualific&ograve; quasi per miracolo nel suo gironcino Conmebol, da cui si era ritirato il Venezuela. Divennero quindi decisive le due partite con il Per&ugrave;: nella prima, a Lima, i padroni di casa dominarono e soltanto un gol di Indio (fra l'altro l'ultimo vivente della Selec&atilde;o 1954, mentre stiamo scrivendo queste righe) port&ograve; il match in pareggio. Per la squadra che rispetto a quella vista poi in Svezia non aveva ancora Vav&agrave; e Pel&eacute; (e nemmeno Altafini) ritorno faticosissimo e risolto soltanto da un gol di Did&igrave;.  Nel 1962 e 1966 ovviamente la presenza alla fase finale fu da detentori, mentre la qualificazione del 1970 fu difficile almeno quanto quella del 1958. Continuava a non esserci il girone unico sudamericano come oggi, e il Brasile dovette vedersela con Paraguay, Colombia e Venezuela. Fu dura e all'ultima partita contro il Paraguay il Brasile di Saldanha era avanti di un solo punto: pi&ugrave; volte si sfior&ograve; un altro Maracanazo, poi un gol di Pel&eacute; a 10 minuti dalla fine mand&ograve; tutti (tranne Saldanha) in Messico. Per il 1978 due i gironi da superare, con Paraguay prima e Per&ugrave; dopo che furono ossi duri. Grande scioltezza per il 1982 e il 1986, fatica per Italia '90 (con il famoso caso Rojas), tutto facile nel per 1994, 2002, 2006, 2010 e, come si &egrave; visto, 2018. Ricapitolando: su 21 edizioni del Mondiale in 9 il Brasile si &egrave; qualificato senza bisogno di giocare, in 8 si &egrave; qualificato facilmente e soltanto in in 4 con qualche rischio. Il Mondiale &egrave; la sua casa naturale ed in fondo anche la nostra (ma diciamolo sottovoce).

Il Mondiale casa del Brasile

ASIA: GIAPPONE MEGLIO DI TUTTI, COREA DEL NORD ELIMINATA In questa tornata di qualificazioni, &egrave; terminata la fase a gironi della zona asiatica. Mondiale gi&agrave; finito per la Corea del Nord - presente a Sudafrica 2010 - rimasta fuori dal lotto delle migliori seconde. Stessa sorte &egrave; toccata a Giordania, Oman e Libano, che quattro anni fa avevano raggiunto la &ldquo;final 10&rdquo;. Il 12 aprile verranno sorteggiati i due gruppi da sei squadre, nei quali le prime due staccheranno il biglietto per la Russia e le due terze andranno allo spareggio (e la vincente avr&agrave; diritto di partecipare allo spareggio succcessivo, contro una squadra della zona Concacaf). Le dodici squadre che prenderanno parte al sorteggio sono Iran, Giappone, Corea del Sud, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Australia, Cina, Iraq, Uzbekistan, Qatar, Siria e Thailandia, con queste ultime quattro alla ricerca della prima qualificazione della loro storia. Regine di questa fase appena conclusa sono la Corea del Sud con sette successi su sette (ha fatto una partita in meno a causa della squalifica del Kuwait) e il Giappone, che con sette vittorie e un pari &egrave; la squadra che ha totalizzato pi&ugrave; punti (ventidue). Senza sconfitte anche Arabia Saudita (prima nel girone A) e Iran (prima nel D), che hanno chiuso con sei vittorie e due pareggi e Thailandia e Iraq nel girone F, che per&ograve; prevedeva soltanto sei gare. Ottima performance del Qatar: un solo k.o., ottenuto per altro a qualificazione ormai raggiunta. <a href="http://cdn.guerinsportivo.it/images/2016/03/30/giappone.jpg"><img class=" size-full wp-image-32141 aligncenter" src="http://cdn.guerinsportivo.it/images/2016/03/30/giappone.jpg" alt="Giappone" width="738" height="415" /></a> NORDAMERICA: AVANTI MESSICO E COSTA RICA Spostandoci nella zona del Nord e Centro America, ecco la qualificazione matematica per il prossimo turno per Messico e Costa Rica. I messicani hanno vinto i due incontri contro il Canada, issandosi a quota dodici punti nel raggruppamento A, che comprende anche Honduras ed El Salvador: con due turni da giocare, &egrave; piena bagarre per l&rsquo;altro posto-qualificazione. Al momento Honduras e Canada sono a quattro, El Salvador &egrave; a due. Nel gruppo B, la Costa Rica arriva a dieci punti, frutto di un 1-1 in Giamaica e di un rotondo 3-0, ancora contro i giamaicani, terzi a -3 da Panama. Infine, nel girone C, si &egrave; consumata la clamorosa caduta degli Usa in Guatemala (2-0), prima della netta rivincita casalinga di pochi giorni dopo (4-0). In testa c&rsquo;&egrave; il Trinidad e Tobago, con dieci punti. In seconda posizione, gli Stati Uniti (a sette) dovranno difendere la lunghezza di vantaggio sul Guatemala negli ultimi due turni. La fase successiva vedr&agrave; sfidarsi in un girone da sei squadre, le vincenti e le seconde di questi tre gironi ancora in corso: le prime tre andranno al Mondiale, la quarta dovr&agrave; vedersela contro una sudamericana. <a href="http://cdn.guerinsportivo.it/images/2016/03/30/stati-uniti.jpg"><img class=" size-full wp-image-32142 aligncenter" src="http://cdn.guerinsportivo.it/images/2016/03/30/stati-uniti.jpg" alt="Stati Uniti" width="738" height="415" /></a> SUDAMERICA: URUGUAY ED ECUADOR IN TESTA Gli occhi erano per&ograve; puntati soprattutto sul Sudamerica, dove si sono giocate la quinta e la sesta giornata del maxigirone di qualificazione, nel quale le prime quattro classificate festeggeranno la qualificazione e la quinta dovr&agrave; ricorrere agli spareggi intercontinentali. Nella quinta giornata, non si sono registrate vittorie casalinghe: l&rsquo;Uruguay ha strappato un bel 2-2 al Brasile, recuperando con Cavani e Suarez il doppio svantaggio maturato grazie alle reti di Douglas Costa e Augusto. L&rsquo;Argentina ha vinto in Cile, cogliendo una vittoria pesantissima nell&rsquo;economia del girone, mentre la Colombia ha vinto 3-2 in Bolivia. Oltre a quello di Brasile-Uruguay, si sono registrati anche i 2-2 di Per&ugrave;-Venezuela (il classico pareggio che non serve a nessuno, visto il gi&agrave; notevole ritardo accumulato da queste due compagini) e quello tra Ecuador e Paraguay. Nella sesta giornata, altro 2-2 dei brasiliani, questa volta in Paraguay e questa volta con la rimonta eseguita e non subita: Olivera (79&rsquo;) e Dani Alves (92&rsquo;) hanno rimesso in piedi un match nato male, con i gol di Lezcano e Benitez a spaventare la formazione di Dunga. Al momento, a sei diciottesimi del percorso, la Sele&ccedil;ao si ritrova in sesta posizione, con due vittorie, tre pareggi e una sconfitta. Ha di che sorridere l&rsquo;Uruguay, che in questi giorni riservati alle nazionali si &egrave; accaparrato quattro punti (dopo il 2-2 in Brasile &egrave; arrivato l&rsquo;1-0 sul Per&ugrave;, a firma di Cavani) e soprattutto la testa della classifica, al pari con l&rsquo;Ecuador, parso in calo (2-2 casalingo col Paraguay, come detto sopra, e sconfitta in Colombia). Bene anche l&rsquo;Argentina, in netta ripresa e capace di collezionare due vittorie su due (nel 2-0 alla Bolivia, <a href="http://blog.guerinsportivo.it/blog/guerin-sportivo/2016/03/30/lionel-messi-i-cinquanta-gol-dello-straniero" target="_blank">Messi ha festeggiato i cinquanta gol in nazionale</a>). Due successi anche per la Colombia. C&rsquo;&egrave; ancora parecchio da giocare e la classifica non ha ancora grande significato, ma ad ogni modo, vale la pena riportarla: Uruguay ed Ecuador 13, Argentina 11, Cile e Colombia 10, Brasile e Paraguay 9, Per&ugrave; 4, Bolivia 3, Venezuela 1. Nessuno pu&ograve; rilassarsi, mentre la situazione &egrave; gi&agrave; gravemente compromessa per le ultime tre della classifica, non a caso quelle che da pi&ugrave; tempo mancano ad un Mondiale (&egrave; il caso del Per&ugrave;, assente dal 1982, e della Bolivia, mancante a una fase finale dal 1994) o che non si sono mai qualificate (il Venezuela fanalino di coda). Giovanni Del Bianco

ASIA: GIAPPONE MEGLIO DI TUTTI, COREA DEL NORD ELIMINATA  In questa tornata di qualificazioni, &egrave; terminata la fase a gironi della zona asiatica.  Mondiale gi&agrave; finito per la Corea del Nord - presente a Sudafrica 2010 - rimasta fuori dal lotto delle migliori seconde. Stessa sorte &egrave; toccata a Giordania, Oman e Libano, che quattro anni fa avevano raggiunto la &ldquo;final 10&rdquo;.  Il 12 aprile verranno sorteggiati i due gruppi da sei squadre, nei quali le prime due staccheranno il biglietto per la Russia e le due terze andranno allo spareggio (e la vincente avr&agrave; diritto di partecipare allo spareggio succcessivo, contro una squadra della zona Concacaf).  Le dodici squadre che prenderanno parte al sorteggio sono Iran, Giappone, Corea del Sud, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Australia, Cina, Iraq, Uzbekistan, Qatar, Siria e Thailandia, con queste ultime quattro alla ricerca della prima qualificazione della loro storia.  Regine di questa fase appena conclusa sono la Corea del Sud con sette successi su sette (ha fatto una partita in meno a causa della squalifica del Kuwait) e il Giappone, che con sette vittorie e un pari &egrave; la squadra che ha totalizzato pi&ugrave; punti (ventidue). Senza sconfitte anche Arabia Saudita (prima nel girone A) e Iran (prima nel D), che hanno chiuso con sei vittorie e due pareggi e Thailandia e Iraq nel girone F, che per&ograve; prevedeva soltanto sei gare. Ottima performance del Qatar: un solo k.o., ottenuto per altro a qualificazione ormai raggiunta.    NORDAMERICA: AVANTI MESSICO E COSTA RICA  Spostandoci nella zona del Nord e Centro America, ecco la qualificazione matematica per il prossimo turno per Messico e Costa Rica. I messicani hanno vinto i due incontri contro il Canada, issandosi a quota dodici punti nel raggruppamento A, che comprende anche Honduras ed El Salvador: con due turni da giocare, &egrave; piena bagarre per l&rsquo;altro posto-qualificazione. Al momento Honduras e Canada sono a quattro, El Salvador &egrave; a due.  Nel gruppo B, la Costa Rica arriva a dieci punti, frutto di un 1-1 in Giamaica e di un rotondo 3-0, ancora contro i giamaicani, terzi a -3 da Panama.  Infine, nel girone C, si &egrave; consumata la clamorosa caduta degli Usa in Guatemala (2-0), prima della netta rivincita casalinga di pochi giorni dopo (4-0). In testa c&rsquo;&egrave; il Trinidad e Tobago, con dieci punti. In seconda posizione, gli Stati Uniti (a sette) dovranno difendere la lunghezza di vantaggio sul Guatemala negli ultimi due turni.  La fase successiva vedr&agrave; sfidarsi in un girone da sei squadre, le vincenti e le seconde di questi tre gironi ancora in corso: le prime tre andranno al Mondiale, la quarta dovr&agrave; vedersela contro una sudamericana.    SUDAMERICA: URUGUAY ED ECUADOR IN TESTA  Gli occhi erano per&ograve; puntati soprattutto sul Sudamerica, dove si sono giocate la quinta e la sesta giornata del maxigirone di qualificazione, nel quale le prime quattro classificate festeggeranno la qualificazione e la quinta dovr&agrave; ricorrere agli spareggi intercontinentali. Nella quinta giornata, non si sono registrate vittorie casalinghe: l&rsquo;Uruguay ha strappato un bel 2-2 al Brasile, recuperando con Cavani e Suarez il doppio svantaggio maturato grazie alle reti di Douglas Costa e Augusto. L&rsquo;Argentina ha vinto in Cile, cogliendo una vittoria pesantissima nell&rsquo;economia del girone, mentre la Colombia ha vinto 3-2 in Bolivia. Oltre a quello di Brasile-Uruguay, si sono registrati anche i 2-2 di Per&ugrave;-Venezuela (il classico pareggio che non serve a nessuno, visto il gi&agrave; notevole ritardo accumulato da queste due compagini) e quello tra Ecuador e Paraguay. Nella sesta giornata, altro 2-2 dei brasiliani, questa volta in Paraguay e questa volta con la rimonta eseguita e non subita: Olivera (79&rsquo;) e Dani Alves (92&rsquo;) hanno rimesso in piedi un match nato male, con i gol di Lezcano e Benitez a spaventare la formazione di Dunga. Al momento, a sei diciottesimi del percorso, la Sele&ccedil;ao si ritrova in sesta posizione, con due vittorie, tre pareggi e una sconfitta. Ha di che sorridere l&rsquo;Uruguay, che in questi giorni riservati alle nazionali si &egrave; accaparrato quattro punti (dopo il 2-2 in Brasile &egrave; arrivato l&rsquo;1-0 sul Per&ugrave;, a firma di Cavani) e soprattutto la testa della classifica, al pari con l&rsquo;Ecuador, parso in calo (2-2 casalingo col Paraguay, come detto sopra, e sconfitta in Colombia). Bene anche l&rsquo;Argentina, in netta ripresa e capace di collezionare due vittorie su due (nel 2-0 alla Bolivia, Messi ha festeggiato i cinquanta gol in nazionale). Due successi anche per la Colombia. C&rsquo;&egrave; ancora parecchio da giocare e la classifica non ha ancora grande significato, ma ad ogni modo, vale la pena riportarla: Uruguay ed Ecuador 13, Argentina 11, Cile e Colombia 10, Brasile e Paraguay 9, Per&ugrave; 4, Bolivia 3, Venezuela 1. Nessuno pu&ograve; rilassarsi, mentre la situazione &egrave; gi&agrave; gravemente compromessa per le ultime tre della classifica, non a caso quelle che da pi&ugrave; tempo mancano ad un Mondiale (&egrave; il caso del Per&ugrave;, assente dal 1982, e della Bolivia, mancante a una fase finale dal 1994) o che non si sono mai qualificate (il Venezuela fanalino di coda).  Giovanni Del Bianco

Russia 2018, il punto sulle qualificazioni

(cliccate sulle classifiche per ingrandirle) ARGENTINA. Doppietta del Boca Juniors, che, rafforzato a met&agrave; stagione dall&rsquo;arrivo di Tevez, si aggiudica sia il maxicampionato a trenta squadre, sia la Coppa. Oltre al Boca, si qualificano alla Libertadores San Lorenzo, Rosario Central (suo il cannoniere del campionato, Marco Ruben, con 21 gol segnati), Racing, River Plate e Hurac&aacute;n. Retrocedono Nueva Chicago e Crucero del Norte (in base al calcolo delle ultime quattro stagioni). <a href="http://blog.guerinsportivo.it/wp-content/uploads/2015/12/argentina1.jpg"><img class=" size-large wp-image-30998 aligncenter" src="http://cdn.guerinsportivo.it/images/2015/12/31/argentina1-970x546.jpg" alt="argentina1" width="940" height="529" /></a> BOLIVIA. Due tornei separati, che hanno visto le vittorie del Bolivar in quello che era il Clausura del 2014-15 e dello Sport Boys Warnes nell&rsquo;Apertura 2015-16. Per i primi, &egrave; il ventesimo titolo della loro storia; per i secondi si tratta invece di una dolce prima volta. In Bolivia non &egrave; prevista una coppa nazionale. <a href="http://blog.guerinsportivo.it/wp-content/uploads/2015/12/bolivia.jpg"><img class=" size-large wp-image-30995 aligncenter" src="http://cdn.guerinsportivo.it/images/2015/12/31/bolivia-970x546.jpg" alt="bolivia" width="940" height="529" /></a> <a href="http://blog.guerinsportivo.it/wp-content/uploads/2015/12/bolivia2.jpg"><img class=" size-large wp-image-30996 aligncenter" src="http://cdn.guerinsportivo.it/images/2015/12/31/bolivia2-970x546.jpg" alt="bolivia2" width="940" height="529" /></a>BRASILE. Titolo al Corinthians, che non ha avuto troppi problemi a tenersi a debita distanza le inseguitrici Atl&eacute;tico Mineiro e Gr&ecirc;mio, distanziate di dodici e tredici punti. Queste ultime due, assieme a San Paolo e Palmeiras, parteciperanno alla Copa Libertadores. In coda, fa rumore la retrocessione del Vasco da Gama. Cannoniere della stagione l&rsquo;ex milanista Ricardo Oliveira, ora in forza al Santos. <a href="http://blog.guerinsportivo.it/wp-content/uploads/2015/12/brasile.jpg"><img class=" size-large wp-image-30999 aligncenter" src="http://cdn.guerinsportivo.it/images/2015/12/31/brasile-970x546.jpg" alt="brasile" width="940" height="529" /></a>CILE. Nella prima parte del 2015, la storia pi&ugrave; bella &egrave; stata quella scritta dal Cobresal (<a href="http://blog.guerinsportivo.it/blog/guerin-sportivo/2015/04/28/lincredibile-impresa-del-cobresal" target="_blank">ce ne eravamo gi&agrave; occupati</a>). Una vittoria storica per un club che in passato aveva vinto solo una Coppa del Cile. Nell'Apertura del 2015-16, il torneo &egrave; tornato sul "classico", con la vittoria del Colo Colo, che si &egrave; visto sfumare la doppietta, perdendo ai rigori la finale di Coppa, contro l'Universidad de Chile, che ha salvato cos&igrave; una stagione anonima. <a href="http://blog.guerinsportivo.it/wp-content/uploads/2015/12/cile.jpg"><img class=" size-large wp-image-31000 aligncenter" src="http://cdn.guerinsportivo.it/images/2015/12/31/cile-970x546.jpg" alt="cile" width="940" height="529" /></a> <a href="http://blog.guerinsportivo.it/wp-content/uploads/2015/12/cile2.jpg"><img class=" size-large wp-image-31001 aligncenter" src="http://cdn.guerinsportivo.it/images/2015/12/31/cile2-970x546.jpg" alt="cile2" width="940" height="529" /></a> COLOMBIA. In Colombia i due tornei prevedono una final eight, che ovviamente pu&ograve; capovolgere l&rsquo;esito della regular season. &Egrave;&nbsp;il caso del torneo Apertura: l&rsquo;Atl&eacute;tico Huila, che aveva chiuso il girone in testa, non ha nemmeno preso parte alla finale. Il titolo &egrave; andato al Deportivo Cali, che ha vinto con un 2-1 complessivo la finale contro l&rsquo;Independiente Medellin. Il Clausura invece &egrave; andato all&rsquo;Atl&eacute;tico Nacional, bravo a confermarsi nei play-off, dopo la vittoria del girone. La festa &egrave; scoppiata dopo la vittoria ai rigori contro il Junior, che dal canto suo si &egrave; consolato con la Copa Aguila. <a href="http://blog.guerinsportivo.it/wp-content/uploads/2015/12/colombia.jpg"><img class=" size-large wp-image-31003 aligncenter" src="http://cdn.guerinsportivo.it/images/2015/12/31/colombia-970x546.jpg" alt="colombia" width="940" height="529" /></a> <a href="http://blog.guerinsportivo.it/wp-content/uploads/2015/12/colombia2.jpg"><img class=" size-large wp-image-31004 aligncenter" src="http://cdn.guerinsportivo.it/images/2015/12/31/colombia2-970x546.jpg" alt="colombia2" width="940" height="529" /></a>ECUADOR. Girone d&rsquo;andata alla Ldu Quito, con l&rsquo;Emelec dietro di due punti. Girone di ritorno all&rsquo;Emelec, con la Ldu Quito distanziata di una lunghezza. Per assegnare il titolo, in Ecuador, si affrontano le vincenti dei due gironi e a spuntarla &egrave; stata l&rsquo;Emelec: forte del 3-1 casalingo, al club di Guayaquil &egrave; bastato lo 0-0 nel ritorno, per laurearsi campione per la terza volta consecutiva. Decisive le 25 reti di Miller Bola&ntilde;os, capocannoniere del campionato. <a href="http://blog.guerinsportivo.it/wp-content/uploads/2015/12/ecuador1.jpg"><img class=" size-large wp-image-31007 aligncenter" src="http://cdn.guerinsportivo.it/images/2015/12/31/ecuador1-970x546.jpg" alt="ecuador1" width="940" height="529" /></a> PARAGUAY. Apertura al Cerro Porte&ntilde;o, Clausura all&rsquo;Olimpia Asuncion. Questi i verdetti del calcio paraguaiano per il 2015. In particolare &egrave; stato il Clausura a tenere i tifosi col fiato sospeso: per assegnare il titolo si &egrave; dovuto ricorrere allo spareggio tra Olimpia e Cerro Porte&ntilde;o, appaiate a 44 punti. E qua, l&rsquo;hanno spuntata i bianconeri per 2-1 (alla fine &egrave; stato decisivo l&rsquo;autogol di Diego Lugano). <a href="http://blog.guerinsportivo.it/wp-content/uploads/2015/12/paraguay1.jpg"><img class=" size-large wp-image-31010 aligncenter" src="http://cdn.guerinsportivo.it/images/2015/12/31/paraguay1-970x546.jpg" alt="paraguay1" width="940" height="529" /></a> <a href="http://blog.guerinsportivo.it/wp-content/uploads/2015/12/paraguay2.jpg"><img class=" size-large wp-image-31009 aligncenter" src="http://cdn.guerinsportivo.it/images/2015/12/31/paraguay2-970x546.jpg" alt="paraguay2" width="940" height="529" /></a>PER&Ugrave;. Il Descentralizado prevede due gironi, andata e ritorno, le vincenti dei quali, unite alla miglior piazzata complessiva e alla vincitrice del Torneo del Inca, danno vita alla &ldquo;final four&rdquo;. Il Melgar ha vinto il titolo prevalendo contro lo Sporting Cristal con un gol al 90&rsquo; nella finale di ritorno. E non &egrave; stato l&rsquo;unico momento di pathos della stagione: per vincere il girone di ritorno &egrave; servito lo spareggio contro il Real Garcilaso, con annessa coda dei rigori. <a href="http://blog.guerinsportivo.it/wp-content/uploads/2015/12/peru1.jpg"><img class=" size-large wp-image-31013 aligncenter" src="http://cdn.guerinsportivo.it/images/2015/12/31/peru1-970x546.jpg" alt="peru1" width="940" height="529" /></a>URUGUAY. Si &egrave; rinnovata l&rsquo;eterna lotta tra Nacional e Pe&ntilde;arol. I gialloneri in questo 2015 hanno vinto entrambe le tornate, ma non si sono assicurati nessun titolo. Infatti, hanno perso la finale contro il Nacional (che aveva conquistato l&rsquo;Apertura 2014-15), nell&rsquo;incontro che chiudeva la vecchia stagione. E per ora, si sono garantiti la finale del 2015-16, avendo gi&agrave; vinto l&rsquo;Apertura. Il Clausura di inizio 2016 servir&agrave; a determinare gli sfidanti di Forlan e compagni. <a href="http://blog.guerinsportivo.it/wp-content/uploads/2015/12/uruguay.jpg"><img class=" size-large wp-image-31014 aligncenter" src="http://cdn.guerinsportivo.it/images/2015/12/31/uruguay-970x546.jpg" alt="uruguay" width="940" height="529" /></a> <a href="http://blog.guerinsportivo.it/wp-content/uploads/2015/12/uruguay02.jpg"><img class=" size-large wp-image-31016 aligncenter" src="http://cdn.guerinsportivo.it/images/2015/12/31/uruguay02-970x546.jpg" alt="uruguay02" width="940" height="529" /></a>VENEZUELA. Stesso discorso del campionato uruguaiano. Il Deportivo T&aacute;chira si &egrave; laureato Campione del Venezuela dopo aver vinto il Clausura 2014-15 e lo spareggio contro il Trujillanos, vincitore dell&rsquo;Apertura. Il Deportivo La Guaira &egrave; stato invece la rivelazione della seconda parte dell&rsquo;anno solare: ha vinto infatti la Coppa contro il Lara e si &egrave; presa l&rsquo;Apertura del 2015-16, assicurandosi un posto nella finale nazionale che si svolger&agrave; la prossima primavera. <a href="http://blog.guerinsportivo.it/wp-content/uploads/2015/12/venezuela.jpg"><img class=" size-large wp-image-31018 aligncenter" src="http://cdn.guerinsportivo.it/images/2015/12/31/venezuela-970x546.jpg" alt="venezuela" width="940" height="529" /></a> <a href="http://blog.guerinsportivo.it/wp-content/uploads/2015/12/venezuela2.jpg"><img class=" size-large wp-image-31019 aligncenter" src="http://cdn.guerinsportivo.it/images/2015/12/31/venezuela2-970x546.jpg" alt="venezuela2" width="940" height="529" /></a> a cura di Giovanni Del Bianco

(cliccate sulle classifiche per ingrandirle)  ARGENTINA. Doppietta del Boca Juniors, che, rafforzato a met&agrave; stagione dall&rsquo;arrivo di Tevez, si aggiudica sia il maxicampionato a trenta squadre, sia la Coppa. Oltre al Boca, si qualificano alla Libertadores San Lorenzo, Rosario Central (suo il cannoniere del campionato, Marco Ruben, con 21 gol segnati), Racing, River Plate e Hurac&aacute;n. Retrocedono Nueva Chicago e Crucero del Norte (in base al calcolo delle ultime quattro stagioni).     BOLIVIA. Due tornei separati, che hanno visto le vittorie del Bolivar in quello che era il Clausura del 2014-15 e dello Sport Boys Warnes nell&rsquo;Apertura 2015-16. Per i primi, &egrave; il ventesimo titolo della loro storia; per i secondi si tratta invece di una dolce prima volta. In Bolivia non &egrave; prevista una coppa nazionale.   BRASILE. Titolo al Corinthians, che non ha avuto troppi problemi a tenersi a debita distanza le inseguitrici Atl&eacute;tico Mineiro e Gr&ecirc;mio, distanziate di dodici e tredici punti. Queste ultime due, assieme a San Paolo e Palmeiras, parteciperanno alla Copa Libertadores. In coda, fa rumore la retrocessione del Vasco da Gama. Cannoniere della stagione l&rsquo;ex milanista Ricardo Oliveira, ora in forza al Santos.  CILE. Nella prima parte del 2015, la storia pi&ugrave; bella &egrave; stata quella scritta dal Cobresal (ce ne eravamo gi&agrave; occupati). Una vittoria storica per un club che in passato aveva vinto solo una Coppa del Cile. Nell'Apertura del 2015-16, il torneo &egrave; tornato sul "classico", con la vittoria del Colo Colo, che si &egrave; visto sfumare la doppietta, perdendo ai rigori la finale di Coppa, contro l'Universidad de Chile, che ha salvato cos&igrave; una stagione anonima.     COLOMBIA. In Colombia i due tornei prevedono una final eight, che ovviamente pu&ograve; capovolgere l&rsquo;esito della regular season. &Egrave;&nbsp;il caso del torneo Apertura: l&rsquo;Atl&eacute;tico Huila, che aveva chiuso il girone in testa, non ha nemmeno preso parte alla finale. Il titolo &egrave; andato al Deportivo Cali, che ha vinto con un 2-1 complessivo la finale contro l&rsquo;Independiente Medellin. Il Clausura invece &egrave; andato all&rsquo;Atl&eacute;tico Nacional, bravo a confermarsi nei play-off, dopo la vittoria del girone. La festa &egrave; scoppiata dopo la vittoria ai rigori contro il Junior, che dal canto suo si &egrave; consolato con la Copa Aguila.   ECUADOR. Girone d&rsquo;andata alla Ldu Quito, con l&rsquo;Emelec dietro di due punti. Girone di ritorno all&rsquo;Emelec, con la Ldu Quito distanziata di una lunghezza. Per assegnare il titolo, in Ecuador, si affrontano le vincenti dei due gironi e a spuntarla &egrave; stata l&rsquo;Emelec: forte del 3-1 casalingo, al club di Guayaquil &egrave; bastato lo 0-0 nel ritorno, per laurearsi campione per la terza volta consecutiva. Decisive le 25 reti di Miller Bola&ntilde;os, capocannoniere del campionato.    PARAGUAY. Apertura al Cerro Porte&ntilde;o, Clausura all&rsquo;Olimpia Asuncion. Questi i verdetti del calcio paraguaiano per il 2015. In particolare &egrave; stato il Clausura a tenere i tifosi col fiato sospeso: per assegnare il titolo si &egrave; dovuto ricorrere allo spareggio tra Olimpia e Cerro Porte&ntilde;o, appaiate a 44 punti. E qua, l&rsquo;hanno spuntata i bianconeri per 2-1 (alla fine &egrave; stato decisivo l&rsquo;autogol di Diego Lugano).   PER&Ugrave;. Il Descentralizado prevede due gironi, andata e ritorno, le vincenti dei quali, unite alla miglior piazzata complessiva e alla vincitrice del Torneo del Inca, danno vita alla &ldquo;final four&rdquo;. Il Melgar ha vinto il titolo prevalendo contro lo Sporting Cristal con un gol al 90&rsquo; nella finale di ritorno. E non &egrave; stato l&rsquo;unico momento di pathos della stagione: per vincere il girone di ritorno &egrave; servito lo spareggio contro il Real Garcilaso, con annessa coda dei rigori.  URUGUAY. Si &egrave; rinnovata l&rsquo;eterna lotta tra Nacional e Pe&ntilde;arol. I gialloneri in questo 2015 hanno vinto entrambe le tornate, ma non si sono assicurati nessun titolo. Infatti, hanno perso la finale contro il Nacional (che aveva conquistato l&rsquo;Apertura 2014-15), nell&rsquo;incontro che chiudeva la vecchia stagione. E per ora, si sono garantiti la finale del 2015-16, avendo gi&agrave; vinto l&rsquo;Apertura. Il Clausura di inizio 2016 servir&agrave; a determinare gli sfidanti di Forlan e compagni.   VENEZUELA. Stesso discorso del campionato uruguaiano. Il Deportivo T&aacute;chira si &egrave; laureato Campione del Venezuela dopo aver vinto il Clausura 2014-15 e lo spareggio contro il Trujillanos, vincitore dell&rsquo;Apertura. Il Deportivo La Guaira &egrave; stato invece la rivelazione della seconda parte dell&rsquo;anno solare: ha vinto infatti la Coppa contro il Lara e si &egrave; presa l&rsquo;Apertura del 2015-16, assicurandosi un posto nella finale nazionale che si svolger&agrave; la prossima primavera.     a cura di Giovanni Del Bianco

Le regine del Sudamerica

Cosa sono in fondo 20 partite in un piccolo club ad inizio carriera, in confronto con oltre 1200 incontri disputati con un&rsquo;altra maglia? Rog&eacute;rio Ceni &egrave; tuttora una bandiera del S&atilde;o Paulo e dell&rsquo;intero calcio brasiliano. Portiere atipico: &egrave; maggiormente conosciuto per i suoi gol realizzati, ad oggi 129 in gare ufficiali, pi&ugrave; del doppio di qualsiasi altro numero uno. Rog&eacute;rio M&uuml;cke Ceni nasce a Pato Branco, nello stato brasiliano del Paran&aacute;, il 22 gennaio 1973. Gi&agrave; in tenera et&agrave;, Rog&eacute;rio si avvicina allo sport. Dapprima si applica con ottimi risultati alla pallavolo. Poi, vira il suo talento sul calcio ed entra nel Sinop, piccolo sodalizio dello stato del Mato Grosso. Probabilmente la pallavolo ne &ldquo;provoca&rdquo; il ruolo di portiere. Cos&igrave;, nel 1990, disputa 20 partite dimostrando buone qualit&agrave;, lanciato dal tecnico Nilo Neves. Alterna nei primi tempi il pallone ad un impiego in banca. Quando, in quello stesso anno, viene segnalato al S&atilde;o Paulo, nessuno immagina l&rsquo;inizio di una storia infinita. Dapprima quarto portiere, scala gradualmente le gerarchie ed arriva al debutto ufficiale nel 1993. Proprio in quell&rsquo;annata, partecipa alla prestigiosa accoppiata Libertadores-Intercontinentale. La partenza del numero uno Zetti lo catapulta definitivamente tra i pali del club paulista. Ottimo portiere, tecnicamente dotato e provvisto di notevole personalit&agrave;, Rog&eacute;rio Ceni si fa notare presto anche per una caratteristica atipica: gli piace calciare le punizioni ed i rigori. Ed in maniera efficace&hellip;tanto che dal 1997 diventa il battitore designato della squadra. Non si tratta di una stravaganza: Rog&eacute;rio segna! Non solamente per le reti, attira l&rsquo;attenzione della Nazionale brasiliana con cui debutta contro il Messico nella Confederations Cup. Il suo rapporto con la Sele&ccedil;&atilde;o subisce subito uno stop: ha la cattiva idea di tagliare i capelli ad alcuni compagni senza permesso, e Zagalo non lo convoca pi&ugrave;. In seguito ritorner&agrave; in verdeoro, per 17 presenze totali, ma sempre come riserva di Marcos, Dida e Julio C&eacute;sar. Nel 2002 prende parte alla vittoria iridata brasiliana in Asia e 4 anni pi&ugrave; tardi al suo secondo Mondiale. Con il S&atilde;o Paulo ha finora conquistato 26 trofei, a livello nazionale ed internazionale. Ma lui, il portiere-goleador per antonomasia, ha concentrato le attenzioni su di s&eacute; disseminando la carriera di reti, polverizzando il fantasma di un grande come Chilavert fermatosi a soli (!) 62 gol. Il primo successo personale arriv&ograve; su punizione il 15 febbraio 1997 contro l&rsquo;Uni&atilde;o S&atilde;o Jo&atilde;o. Da allora ha segnato 61 volte su punizione, 69 su rigore ed una su azione. Totale: 129 gol, parlando solo di quelli realizzati in gare ufficiali. E la lista &egrave; destinata ad essere incrementata, visto che il nostro Rog&eacute;rio non si rassegna ad appendere i guanti al chiodo e difende ancora con onore la sua porta a 42 anni. Impossibile elencare tutti i record di longevit&agrave;, presenze e reti da lui conquistati. Semplicemente leggendario. Fabio Ornano Gi&agrave; pubblicati: <a href="http://blog.guerinsportivo.it/calcio/2015/07/31/bandiere-al-vento-tony-adams" target="_blank">Tony Adams</a>, <a href="http://blog.guerinsportivo.it/calcio/2015/08/08/bandiere-al-vento-aurelio-scagnellato" target="_blank">Aurelio Scagnellato</a>, <a href="http://blog.guerinsportivo.it/blog/guerin-sportivo/2015/08/15/bandiere-al-vento-ricardo-bochini" target="_blank">Ricardo Bochini</a>, <a href="http://blog.guerinsportivo.it/calcio/2015/08/22/bandiere-al-vento-giovanni-de-pra" target="_blank">Giovanni De Pr&agrave;</a>, <a href="http://blog.guerinsportivo.it/calcio/2015/08/29/bandiere-al-vento-sandro-mazzola" target="_blank">Sandro Mazzola</a>, <a href="http://blog.guerinsportivo.it/calcio/2015/09/05/bandiere-al-vento-julen-guerrero" target="_blank">Julen Guerrero</a>, <a href="http://blog.guerinsportivo.it/calcio/2015/09/12/bandiere-al-vento-franco-baresi" target="_blank">Franco Baresi</a>, <a href="http://blog.guerinsportivo.it/calcio/2015/09/19/bandiere-al-vento-santiago-bernabeu" target="_blank">Santiago Bernab&eacute;u</a>, <a href="http://blog.guerinsportivo.it/calcio/2015/09/26/bandiere-al-vento-angelo-schiavio" target="_blank">Angelo Schiavio</a>, <a href="http://blog.guerinsportivo.it/calcio/2015/10/03/bandiere-al-vento-lev-jascin" target="_blank">Lev Jascin</a>, <a href="http://blog.guerinsportivo.it/calcio/2015/10/10/bandiere-al-vento-giampiero-boniperti" target="_blank">Giampiero Boniperti</a>, <a href="http://blog.guerinsportivo.it/calcio/2015/10/17/bandiere-al-vento-gary-neville-ryan-giggs-e-paul-scholes" target="_blank">Gary Neville, Ryan Giggs e Paul Scholes</a>, <a href="http://blog.guerinsportivo.it/calcio/2015/10/24/bandiere-al-vento-nilton-santos" target="_blank">Nilton Santos</a>, <a href="http://blog.guerinsportivo.it/calcio/2015/10/31/bandiere-al-vento-i-campioni-della-gloriosa-pro-vercelli" target="_blank">i campioni della Pro Vercelli</a>, <a href="http://blog.guerinsportivo.it/blog/guerin-sportivo/2015/11/07/bandiere-al-vento-giacomo-bulgarelli" target="_blank">Giacomo Bulgarelli</a>.

Cosa sono in fondo 20 partite in un piccolo club ad inizio carriera, in confronto con oltre 1200 incontri disputati con un&rsquo;altra maglia? Rog&eacute;rio Ceni &egrave; tuttora una bandiera del S&atilde;o Paulo e dell&rsquo;intero calcio brasiliano. Portiere atipico: &egrave; maggiormente conosciuto per i suoi gol realizzati, ad oggi 129 in gare ufficiali, pi&ugrave; del doppio di qualsiasi altro numero uno. Rog&eacute;rio M&uuml;cke Ceni nasce a Pato Branco, nello stato brasiliano del Paran&aacute;, il 22 gennaio 1973. Gi&agrave; in tenera et&agrave;, Rog&eacute;rio si avvicina allo sport. Dapprima si applica con ottimi risultati alla pallavolo. Poi, vira il suo talento sul calcio ed entra nel Sinop, piccolo sodalizio dello stato del Mato Grosso. Probabilmente la pallavolo ne &ldquo;provoca&rdquo; il ruolo di portiere. Cos&igrave;, nel 1990, disputa 20 partite dimostrando buone qualit&agrave;, lanciato dal tecnico Nilo Neves. Alterna nei primi tempi il pallone ad un impiego in banca. Quando, in quello stesso anno, viene segnalato al S&atilde;o Paulo, nessuno immagina l&rsquo;inizio di una storia infinita. Dapprima quarto portiere, scala gradualmente le gerarchie ed arriva al debutto ufficiale nel 1993. Proprio in quell&rsquo;annata, partecipa alla prestigiosa accoppiata Libertadores-Intercontinentale. La partenza del numero uno Zetti lo catapulta definitivamente tra i pali del club paulista. Ottimo portiere, tecnicamente dotato e provvisto di notevole personalit&agrave;, Rog&eacute;rio Ceni si fa notare presto anche per una caratteristica atipica: gli piace calciare le punizioni ed i rigori. Ed in maniera efficace&hellip;tanto che dal 1997 diventa il battitore designato della squadra. Non si tratta di una stravaganza: Rog&eacute;rio segna! Non solamente per le reti, attira l&rsquo;attenzione della Nazionale brasiliana con cui debutta contro il Messico nella Confederations Cup. Il suo rapporto con la Sele&ccedil;&atilde;o subisce subito uno stop: ha la cattiva idea di tagliare i capelli ad alcuni compagni senza permesso, e Zagalo non lo convoca pi&ugrave;. In seguito ritorner&agrave; in verdeoro, per 17 presenze totali, ma sempre come riserva di Marcos, Dida e Julio C&eacute;sar. Nel 2002 prende parte alla vittoria iridata brasiliana in Asia e 4 anni pi&ugrave; tardi al suo secondo Mondiale. Con il S&atilde;o Paulo ha finora conquistato 26 trofei, a livello nazionale ed internazionale. Ma lui, il portiere-goleador per antonomasia, ha concentrato le attenzioni su di s&eacute; disseminando la carriera di reti, polverizzando il fantasma di un grande come Chilavert fermatosi a soli (!) 62 gol. Il primo successo personale arriv&ograve; su punizione il 15 febbraio 1997 contro l&rsquo;Uni&atilde;o S&atilde;o Jo&atilde;o. Da allora ha segnato 61 volte su punizione, 69 su rigore ed una su azione. Totale: 129 gol, parlando solo di quelli realizzati in gare ufficiali. E la lista &egrave; destinata ad essere incrementata, visto che il nostro Rog&eacute;rio non si rassegna ad appendere i guanti al chiodo e difende ancora con onore la sua porta a 42 anni. Impossibile elencare tutti i record di longevit&agrave;, presenze e reti da lui conquistati. Semplicemente leggendario.  Fabio Ornano  Gi&agrave; pubblicati: Tony Adams, Aurelio Scagnellato, Ricardo Bochini, Giovanni De Pr&agrave;, Sandro Mazzola, Julen Guerrero, Franco Baresi, Santiago Bernab&eacute;u, Angelo Schiavio, Lev Jascin, Giampiero Boniperti, Gary Neville, Ryan Giggs e Paul Scholes, Nilton Santos, i campioni della Pro Vercelli, Giacomo Bulgarelli.

Bandiere al vento / Rog&eacute;rio Ceni

Quando un giocatore &egrave; stato soprannominato &ldquo;Enciclopedia&rdquo;, c&rsquo;&egrave; poco da fare. Bisogna inchinarsi alla grandezza di Nilton Santos, leggendario terzino della Nazionale brasiliana due volte campione del mondo e simbolo del Botafogo. Nato a Rio de Janeiro il 16 maggio 1925, Nilton Reis dos Santos venne scoperto come calciatore da un ufficiale aeronautico durante il servizio militare. Il suo approdo al calcio vero &egrave; arrivato in ritardo, a 23 anni compiuti. Ad assicurarsi le sue prestazioni &egrave; stato il Botafogo, dove si &egrave; disimpegnato da subito come terzino sinistro. Con grandi risultati, visto che in breve tempo ha guadagnato la maglia da titolare della Nazionale: il suo debutto ufficiale avvenne a San Paolo il 17 aprile 1949 contro la Colombia, gara valida per la Copa Am&eacute;rica poi conquistata. Nell&rsquo;estate seguente prese parte al primo dei suoi 4 Mondiali, testimone del tragico Maracanazo. Una maglia, quella della Sele&ccedil;&atilde;o, mai pi&ugrave; abbandonata per lasciare solo le briciole ai colleghi di ruolo. Cement&ograve; negli anni una formidabile accoppiata di terzini con l&rsquo;altro Santos, Djalma, che contribu&igrave; alla favolosa epoca d&rsquo;oro del Brasile a cavallo tra gli anni &rsquo;50 e &rsquo;60. Durante la Rimet 1958 si rivel&ograve; al mondo grazie ad un meraviglioso gol all&rsquo;Austria, dribblando gran parte degli avversari. La sua tecnica perfetta, abbinata ad un&rsquo;incredibile conoscenza del gioco, gli valsero l&rsquo;appellativo di &ldquo;Enciclopedia&rdquo;. Un soprannome che non ha bisogno di ulteriori spiegazioni. Con il Brasile ha conquistato anche 6 Ta&ccedil;a Oswaldo Cruz, una Coppa Rio Branco, un Campionato Panamericano, 3 Ta&ccedil;a O&rsquo;Higgins ed una Ta&ccedil;a do Atlantico. Con il club della vita, il Botafogo, ha invece trionfato 4 volte nel Campionato carioca e collezionando altri trofei nazionali ed internazionali. Con il sodalizio bianconero ha collezionato 729 presenze totali tra il 1948 ed il 1964, a cui vanno affiancate le 75 gare ufficiali (con 3 reti) con il Brasile. Viene ricordato anche in versione baffuta, soprattutto a fine anni Cinquanta. Inserito, neanche a dirlo, nella Hall of Fame del calcio verdeoro, Nilton Santos &egrave; scomparso il 27 novembre 2013 all&rsquo;et&agrave; di 88 anni. Scrisse l&rsquo;autobiografia &ldquo;Minha bola, minha vida&rdquo; (Pallone mio, la mia vita), libro per il quale Pel&eacute; si espresse sul vecchio compagno in questi termini: &ldquo;Per me &egrave; motivo di grande orgoglio far parte del libro di un tale fuoriclasse e di una grande persona come Nilton Santos. Con la sua qualit&agrave; calcistica, non ha avuto eguali. La maniera attuale di interpretare il ruolo di laterale offensivo, lui la fece conoscere gi&agrave; nel 1958 ad alto livello. Per ci&ograve; dico alle generazioni future che &egrave; stato un onore per me aver difeso affianco a lui i colori del Brasile nella Sele&ccedil;&atilde;o&rdquo;. Fabio Ornano Gi&agrave; pubblicati: <a href="http://blog.guerinsportivo.it/calcio/2015/07/31/bandiere-al-vento-tony-adams" target="_blank">Tony Adams</a>, <a href="http://blog.guerinsportivo.it/calcio/2015/08/08/bandiere-al-vento-aurelio-scagnellato" target="_blank">Aurelio Scagnellato</a>, <a href="http://blog.guerinsportivo.it/blog/guerin-sportivo/2015/08/15/bandiere-al-vento-ricardo-bochini" target="_blank">Ricardo Bochini</a>, <a href="http://blog.guerinsportivo.it/calcio/2015/08/22/bandiere-al-vento-giovanni-de-pra" target="_blank">Giovanni De Pr&agrave;</a>, <a href="http://blog.guerinsportivo.it/calcio/2015/08/29/bandiere-al-vento-sandro-mazzola" target="_blank">Sandro Mazzola</a>, <a href="http://blog.guerinsportivo.it/calcio/2015/09/05/bandiere-al-vento-julen-guerrero" target="_blank">Julen Guerrero</a>, <a href="http://blog.guerinsportivo.it/calcio/2015/09/12/bandiere-al-vento-franco-baresi" target="_blank">Franco Baresi</a>, <a href="http://blog.guerinsportivo.it/calcio/2015/09/19/bandiere-al-vento-santiago-bernabeu" target="_blank">Santiago Bernab&eacute;u</a>, <a href="http://blog.guerinsportivo.it/calcio/2015/09/26/bandiere-al-vento-angelo-schiavio" target="_blank">Angelo Schiavio</a>, <a href="http://blog.guerinsportivo.it/calcio/2015/10/03/bandiere-al-vento-lev-jascin" target="_blank">Lev Jascin</a>, <a href="http://blog.guerinsportivo.it/calcio/2015/10/10/bandiere-al-vento-giampiero-boniperti" target="_blank">Giampiero Boniperti</a>, <a href="http://blog.guerinsportivo.it/calcio/2015/10/17/bandiere-al-vento-gary-neville-ryan-giggs-e-paul-scholes" target="_blank">Gary Neville, Ryan Giggs e Paul Scholes</a>.

Quando un giocatore &egrave; stato soprannominato &ldquo;Enciclopedia&rdquo;, c&rsquo;&egrave; poco da fare. Bisogna inchinarsi alla grandezza di Nilton Santos, leggendario terzino della Nazionale brasiliana due volte campione del mondo e simbolo del Botafogo. Nato a Rio de Janeiro il 16 maggio 1925, Nilton Reis dos Santos venne scoperto come calciatore da un ufficiale aeronautico durante il servizio militare. Il suo approdo al calcio vero &egrave; arrivato in ritardo, a 23 anni compiuti. Ad assicurarsi le sue prestazioni &egrave; stato il Botafogo, dove si &egrave; disimpegnato da subito come terzino sinistro. Con grandi risultati, visto che in breve tempo ha guadagnato la maglia da titolare della Nazionale: il suo debutto ufficiale avvenne a San Paolo il 17 aprile 1949 contro la Colombia, gara valida per la Copa Am&eacute;rica poi conquistata. Nell&rsquo;estate seguente prese parte al primo dei suoi 4 Mondiali, testimone del tragico Maracanazo. Una maglia, quella della Sele&ccedil;&atilde;o, mai pi&ugrave; abbandonata per lasciare solo le briciole ai colleghi di ruolo. Cement&ograve; negli anni una formidabile accoppiata di terzini con l&rsquo;altro Santos, Djalma, che contribu&igrave; alla favolosa epoca d&rsquo;oro del Brasile a cavallo tra gli anni &rsquo;50 e &rsquo;60. Durante la Rimet 1958 si rivel&ograve; al mondo grazie ad un meraviglioso gol all&rsquo;Austria, dribblando gran parte degli avversari. La sua tecnica perfetta, abbinata ad un&rsquo;incredibile conoscenza del gioco, gli valsero l&rsquo;appellativo di &ldquo;Enciclopedia&rdquo;. Un soprannome che non ha bisogno di ulteriori spiegazioni. Con il Brasile ha conquistato anche 6 Ta&ccedil;a Oswaldo Cruz, una Coppa Rio Branco, un Campionato Panamericano, 3 Ta&ccedil;a O&rsquo;Higgins ed una Ta&ccedil;a do Atlantico. Con il club della vita, il Botafogo, ha invece trionfato 4 volte nel Campionato carioca e collezionando altri trofei nazionali ed internazionali. Con il sodalizio bianconero ha collezionato 729 presenze totali tra il 1948 ed il 1964, a cui vanno affiancate le 75 gare ufficiali (con 3 reti) con il Brasile. Viene ricordato anche in versione baffuta, soprattutto a fine anni Cinquanta. Inserito, neanche a dirlo, nella Hall of Fame del calcio verdeoro, Nilton Santos &egrave; scomparso il 27 novembre 2013 all&rsquo;et&agrave; di 88 anni. Scrisse l&rsquo;autobiografia &ldquo;Minha bola, minha vida&rdquo; (Pallone mio, la mia vita), libro per il quale Pel&eacute; si espresse sul vecchio compagno in questi termini: &ldquo;Per me &egrave; motivo di grande orgoglio far parte del libro di un tale fuoriclasse e di una grande persona come Nilton Santos. Con la sua qualit&agrave; calcistica, non ha avuto eguali. La maniera attuale di interpretare il ruolo di laterale offensivo, lui la fece conoscere gi&agrave; nel 1958 ad alto livello. Per ci&ograve; dico alle generazioni future che &egrave; stato un onore per me aver difeso affianco a lui i colori del Brasile nella Sele&ccedil;&atilde;o&rdquo;.  Fabio Ornano  Gi&agrave; pubblicati: Tony Adams, Aurelio Scagnellato, Ricardo Bochini, Giovanni De Pr&agrave;, Sandro Mazzola, Julen Guerrero, Franco Baresi, Santiago Bernab&eacute;u, Angelo Schiavio, Lev Jascin, Giampiero Boniperti, Gary Neville, Ryan Giggs e Paul Scholes.

Bandiere al vento / Nilton Santos

Siamo ancora coinvolti emotivamente dal tentativo del Milan di regalargli numero e posto di Shevchenko per parlare di una sua seconda giovinezza. Ricardo Oliveira oggi ha 35 anni e dopo la lunga vacanza negli Emirati &egrave; tornato di nuovo in Brasile, nel Santos, dove &egrave; riuscito a suon di gol nell'impresa - piccola proprio perch&eacute; si parla dei carioca - di ricevere una telefonata dal CT della Sele&ccedil;&atilde;o, Dunga. Quanto sia discreto il Brasileir&atilde;o non lo scopriamo di certo oggi e non sorprende poi tanto trovare l'ex attaccante rossonero in cima alla lista dei cannonieri. Se poi aggiungete che in terza posizione figura il 'Cammello' Lucas Pratto - l'ex Genoa che in Argentina spacciavano per il nuovo Martin Palermo - il gioco &egrave; fatto. Si parlava poc'anzi di piccola impresa in relazione al fatto che chiunque abbia la cittadinanza brasiliana pu&ograve; a buon ragione sognare un posto in Nazionale, soprattutto nel reparto avanzato e nel periodo storico che ha voltato le spalle all'ultimo vero "9", Ronaldo. Facendo un discorso generale, dopo il 2006 - escludiamo la partita d'addio del Fenomeno contro la Romania di cinque anni pi&ugrave; tardi - il nulla che &egrave; passato tra le mani dei vari Dunga, Menezes e Scolari &egrave; spropositato e non inferiore a quello affrontato da selezioni ben pi&ugrave; modeste. A essere clementi, potremmo anche togliere dalla lista Luis Fabiano che negli anni di Siviglia qualcosa di buono ha mostrato. Ma il resto, per chi come il Brasile vive nella colpa di partire sempre tra le favorite in ogni competizione, &egrave; imbarazzante. La staffetta tra Fred e J&ocirc; ha allontanato i curiosi che si apprestavano al loro primo appuntamento con un Mondiale di calcio, l'immeritato viaggio di Diego Tardelli dal ridente campionato cinese all'ultima Copa Am&eacute;rica giocata in terra cilena ha destabilizzato chi nell'album delle figurine faceva il confronto con l'Argentina e vedeva Aguero, Tevez o Higuain. E sono situazioni del genere che suggeriscono di riannodare i fili del 'cosa avrebbe potuto dare', con l'esempio di Pato e quello pi&ugrave; doloroso di Adriano. In realt&agrave; il 'Papero', seppur lontano anni luce dall'idea che ci aveva messo in testa all'epoca di Milano, resta ancora in corsa per una maglia - da vestire sensibilmente sapendo di non aver fatto il grande passo complici i ripetuti guai muscolari - mentre la fulgida ascesa e la drammatica caduta dell'Imperatore &egrave; un qualcosa che facciamo ancora oggi fatica ad accettare. Quanto talento buttato nei sanitari di Appiano Gentile. Ci sarebbe anche da riprendere la questione di Diego Costa e del &laquo;sono brasiliano, ma vincer&ograve; con la Spagna&raquo; per&ograve; fa troppo ridere. @damorirne

Siamo ancora coinvolti emotivamente dal tentativo del Milan di regalargli numero e posto di Shevchenko per parlare di una sua seconda giovinezza. Ricardo Oliveira oggi ha 35 anni e dopo la lunga vacanza negli Emirati &egrave; tornato di nuovo in Brasile, nel Santos, dove &egrave; riuscito a suon di gol nell'impresa - piccola proprio perch&eacute; si parla dei carioca - di ricevere una telefonata dal CT della Sele&ccedil;&atilde;o, Dunga. Quanto sia discreto il Brasileir&atilde;o non lo scopriamo di certo oggi e non sorprende poi tanto trovare l'ex attaccante rossonero in cima alla lista dei cannonieri. Se poi aggiungete che in terza posizione figura il 'Cammello' Lucas Pratto - l'ex Genoa che in Argentina spacciavano per il nuovo Martin Palermo - il gioco &egrave; fatto. Si parlava poc'anzi di piccola impresa in relazione al fatto che chiunque abbia la cittadinanza brasiliana pu&ograve; a buon ragione sognare un posto in Nazionale, soprattutto nel reparto avanzato e nel periodo storico che ha voltato le spalle all'ultimo vero "9", Ronaldo. Facendo un discorso generale, dopo il 2006 - escludiamo la partita d'addio del Fenomeno contro la Romania di cinque anni pi&ugrave; tardi - il nulla che &egrave; passato tra le mani dei vari Dunga, Menezes e Scolari &egrave; spropositato e non inferiore a quello affrontato da selezioni ben pi&ugrave; modeste. A essere clementi, potremmo anche togliere dalla lista Luis Fabiano che negli anni di Siviglia qualcosa di buono ha mostrato. Ma il resto, per chi come il Brasile vive nella colpa di partire sempre tra le favorite in ogni competizione, &egrave; imbarazzante. La staffetta tra Fred e J&ocirc; ha allontanato i curiosi che si apprestavano al loro primo appuntamento con un Mondiale di calcio, l'immeritato viaggio di Diego Tardelli dal ridente campionato cinese all'ultima Copa Am&eacute;rica giocata in terra cilena ha destabilizzato chi nell'album delle figurine faceva il confronto con l'Argentina e vedeva Aguero, Tevez o Higuain. E sono situazioni del genere che suggeriscono di riannodare i fili del 'cosa avrebbe potuto dare', con l'esempio di Pato e quello pi&ugrave; doloroso di Adriano. In realt&agrave; il 'Papero', seppur lontano anni luce dall'idea che ci aveva messo in testa all'epoca di Milano, resta ancora in corsa per una maglia - da vestire sensibilmente sapendo di non aver fatto il grande passo complici i ripetuti guai muscolari - mentre la fulgida ascesa e la drammatica caduta dell'Imperatore &egrave; un qualcosa che facciamo ancora oggi fatica ad accettare. Quanto talento buttato nei sanitari di Appiano Gentile. Ci sarebbe anche da riprendere la questione di Diego Costa e del &laquo;sono brasiliano, ma vincer&ograve; con la Spagna&raquo; per&ograve; fa troppo ridere.  @damorirne

Ricardo Oliveira si aggiunge al nulla dell'attacco brasiliano

Il deus ex machina del Maracanazo, la sciagura pi&ugrave; grande che sia mai stata concepita su un terreno di gioco, ha voluto richiamare a s&eacute; con delle leggi non scritte e quanto mai misteriose l'ultimo attore ancora in vita di quel 16 luglio 1950. Alcides Ghiggia &egrave; tornato in tempo, con il pi&ugrave; elegante degli abiti, per brindare e festeggiare insieme a Obdulio, esattamente 65 anni dopo quello che &egrave;, con tutta probabilit&agrave;, l'incontro che maggiormente presta i propri connotati alla letteratura mondiale del pallone. Camminano controvento alle meccaniche celesti e ridono perch&eacute; sanno ormai di avere un'intera vita per saldare nella purezza del loro respiro sportivo l'attimo in cui realmente capirono che avrebbero battuto il Brasile e sarebbero diventati, ribaltando ogni pronostico, i campioni del mondo. Non esistono storie del genere, si fa fatica soltanto a pensarle. Eppure, da qualche parte, forse nascosta nei meandri di un enigma che non si presta a soluzione, deve pur esserci una sceneggiatura - battuta dopo battuta, anno dopo anno, rete dopo rete - gi&agrave; scritta e stampata, da distribuire agli adepti del f&uacute;tbol. Alcides Ghiggia, in un pomeriggio di inizio millennio, stando alla prosa sportiva, si trova all'ufficio arrivi dell'aeroporto di Rio. Gli si fa incontro una ragazza. Lui consegna educatamente i documenti, lei d&agrave; un'occhiatina alla carta d'identit&agrave;, poi si guarda intorno. Sembra un po' spiazzata. - &laquo;Signorina, c'&egrave; qualcosa che non va?&raquo; - &laquo;Ma...lei &egrave; Ghiggia?&raquo; - &laquo;S&igrave;&raquo; - &laquo;Quello del '50?&raquo; - &laquo;S&igrave;, sono io, ma ormai &egrave; passato tanto di quel tempo...&raquo; - &laquo;No, non per noi. Qui (indicando il cuore, ndr) fa ancora male&raquo; L'Everest emotivo dell'uruguaiano, a dispetto della logica, non &egrave; stato il Maracan&atilde;. Nel novembre del 2013 il Centenario di Montevideo, lo stadio di casa, gli ha regalato festante l'ovazione mai ricevuta per la rete del secolo. Entra in campo con la camiseta che &egrave; quella della Nazionale odierna, ma il numero, il 7, &egrave; lo stesso di allora. Tiene stretto sotto al braccio sinistro il bastone, &egrave; forte il peso degli anni. Prende la parola, gli occhi diventano sempre pi&ugrave; lucidi. Partono gli applausi e con loro, sul maxischermo, la pellicola sbiadita del Maracanazo. Piange, Ghiggia. E noi con lui. @damorirne

Il deus ex machina del Maracanazo, la sciagura pi&ugrave; grande che sia mai stata concepita su un terreno di gioco, ha voluto richiamare a s&eacute; con delle leggi non scritte e quanto mai misteriose l'ultimo attore ancora in vita di quel 16 luglio 1950. Alcides Ghiggia &egrave; tornato in tempo, con il pi&ugrave; elegante degli abiti, per brindare e festeggiare insieme a Obdulio, esattamente 65 anni dopo quello che &egrave;, con tutta probabilit&agrave;, l'incontro che maggiormente presta i propri connotati alla letteratura mondiale del pallone. Camminano controvento alle meccaniche celesti e ridono perch&eacute; sanno ormai di avere un'intera vita per saldare nella purezza del loro respiro sportivo l'attimo in cui realmente capirono che avrebbero battuto il Brasile e sarebbero diventati, ribaltando ogni pronostico, i campioni del mondo. Non esistono storie del genere, si fa fatica soltanto a pensarle. Eppure, da qualche parte, forse nascosta nei meandri di un enigma che non si presta a soluzione, deve pur esserci una sceneggiatura - battuta dopo battuta, anno dopo anno, rete dopo rete - gi&agrave; scritta e stampata, da distribuire agli adepti del f&uacute;tbol.  Alcides Ghiggia, in un pomeriggio di inizio millennio, stando alla prosa sportiva, si trova all'ufficio arrivi dell'aeroporto di Rio. Gli si fa incontro una ragazza. Lui consegna educatamente i documenti, lei d&agrave; un'occhiatina alla carta d'identit&agrave;, poi si guarda intorno. Sembra un po' spiazzata.  - &laquo;Signorina, c'&egrave; qualcosa che non va?&raquo;  - &laquo;Ma...lei &egrave; Ghiggia?&raquo;  - &laquo;S&igrave;&raquo;  - &laquo;Quello del '50?&raquo;  - &laquo;S&igrave;, sono io, ma ormai &egrave; passato tanto di quel tempo...&raquo;  - &laquo;No, non per noi. Qui (indicando il cuore, ndr) fa ancora male&raquo;  L'Everest emotivo dell'uruguaiano, a dispetto della logica, non &egrave; stato il Maracan&atilde;. Nel novembre del 2013 il Centenario di Montevideo, lo stadio di casa, gli ha regalato festante l'ovazione mai ricevuta per la rete del secolo. Entra in campo con la camiseta che &egrave; quella della Nazionale odierna, ma il numero, il 7, &egrave; lo stesso di allora. Tiene stretto sotto al braccio sinistro il bastone, &egrave; forte il peso degli anni. Prende la parola, gli occhi diventano sempre pi&ugrave; lucidi. Partono gli applausi e con loro, sul maxischermo, la pellicola sbiadita del Maracanazo. Piange, Ghiggia. E noi con lui.  @damorirne

Ghiggia, il Maracanazo e il volere del destino

[gallery link="file" ids="26399,26398,26397,26396,26395,26394,26393,26392,26391,26390,26389,26388,26387,26386,26385,26384,26383,26382,26381,26380,26379,26377,26376,26375,26374,26373,26372,26371,26370,26369,26368,26367"] Quattro squadre superano quindi il primo turno e si preparano ad affrontarsi in un girone all'italiana per decidere la classifica conclusiva. Mai come in questo caso una competizione appare gi&agrave; decisa ancor prima del fischio d'inizio: erano ormai trascorsi quattro anni da quando la Fifa aveva assegnato il Mondiale alla C.B.D., e nonostante le difficolt&agrave; incontrate tutto era filato alla perfezione. La statuetta dorata che avrebbe premiato i campioni del mondo luccicava gi&agrave; negli occhi di un intero popolo: la storia, una volta tanto, pareva scritta in partenza. Il calendario delle partite mette in programma, al primo round, il confronto tra Brasile e Svezia e quello (pi&ugrave; equilibrato, sulla carta), tra Uruguay e Spagna. L'esordio degli &laquo;auriverdes&raquo; conferma ci&ograve; che tutti si attendevano ma che, nella prima fase, non era stato verificato sino in fondo. Il samba dei padroni di casa stordisce subito la pur compatta formazione scandinava: la &laquo;diagonal&raquo; assicura sulla propria bont&agrave; di schema e Ademir, &laquo;punta de lanza&raquo;, si scatena con un superbo poker, cui si aggiungono la doppietta di Chico ed un acuto di Maneca. Pi&ugrave; arduo il compito degli &laquo;orientales&raquo; contro le &laquo;furie rosse&raquo; spagnole. Gli iberici si dimostrano formazione quadrata e di grande caparbiet&agrave;. Segna Ghiggia alla mezz'ora, fulminando Ramallets dopo un'azione in &laquo;pared&raquo; (triangolo) con P&eacute;rez. La reazione della Spagna non si fa attendere e il cerbero Basora, centravanti del Barcellona, rovescia la situazione nel giro di soli dieci minuti. La &laquo;Celeste&raquo; era giunta al Mondiale in posizione di &laquo;outsider&raquo;, e una sua eventuale sconfitta non avrebbe stupito pi&ugrave; di tanto gli osservatori. A met&agrave; della ripresa sale in cattedra Obdulio Varela: la &laquo;garra&raquo; fatta uomo d&agrave; il &laquo;la&raquo; alla riscossa siglando personalmente il pari con un'imprendibile fucilata dal limite. La formula, che prevede tre partite per ogni squadra, pone di fronte al secondo turno Brasile ed Uruguay: il destino ci mette per&ograve; lo zampino e il big-match, per ragioni di cassetta, viene rinviato all'ultima giornata. &laquo;Quel&raquo; Brasile avrebbe fatto polpette di &laquo;quell'&raquo; Uruguay. Ma bast&ograve; un semplice spostamento di date per provocare il primo, grande terremoto nella storia del calcio. Il 3 luglio si disputano quindi Brasile-Spagna ed Uruguay-Svezia. E come qualche giorno indietro, la furia brasiliana si avventa sugli avversari: sette gol ad uno sono pi&ugrave; eloquenti di qualsiasi discorso. Sul prato del Maracan&agrave; si assiste ad uno spettacolo di inusitata eleganza, tanto perfetto da fare invidia ai manuali di football: non uno, tra coloro che seguono la Rimet come tecnici, giornalisti o semplici appassionati, &egrave; pi&ugrave; disposto a scommettere un centesimo sulla mancata vittoria dei brasiliani. Al Pacaembu, nel frattempo, l'Uruguay si scopre forte: sotto di un gol di fronte al feroce contropiede svedese, la &laquo;Celeste&raquo; smette l'abito della modestia e si trasforma in una compagine riccamente convinta nei propri mezzi. E Ornar Miguez a firmare la rimonta: prima corregge di testa una corta respinta di Svensson poi recupera un pallone sfuggito alla presa del portiere per il 3-2 finale. Tutto avviene negli ultimi tredici minuti di gioco: in caso di successo svedese, il conto sarebbe gi&agrave; stato chiuso. E invece Brasile-Uruguay si tramuta in una specie molto particolare di finalissima: alla Sele&ccedil;&agrave;o &egrave; sufficiente il pari, e dopo le performances con Svezia e Spagna non si profila all'orizzonte altro tipo di risultato che la vittoria degli ospitanti. Tra il 13 e il 16 luglio il Paese si addobba per la grande festa: vengono fatte preparare undici limousine che riportano ognuna sulla fiancata il nome dei singoli eroi, da Barbosa a Chico.&nbsp;Si organizzano nei minimi dettagli le sfilate per le strade di Rio, come per un gigantesco carnevale del fut&eacute;bol. Una nazione intera si identifica negli uomini in giallo-verde, che a loro volta sono pronti per entrare nella galleria degli eterni. Nelle ore precedenti il match prende il via una vera e propria guerra psicologica nei confronti degli ospiti: ovunque essi si avventurino, trovano ad accoglierli sempre un &laquo;4&raquo;: &egrave; il numero dei palloni predestinati a terminare alle spalle di Maspoli. Gli stessi dirigenti della AUF rimangono impressionati al punto da perdere la fiducia nei propri giocatori: nella riunione prima della partita si dichiareranno soddisfatti anche di un'onorevole sconfitta con un paio di gol. &laquo;Juancito&raquo; L&ograve;pez il Ct e Obdulio Varela &laquo;El Jefe&raquo; si ribellano ad una tale arrendevolezza: erano entrambi finissimi psicologi, capaci di estrarre il meglio da chiunque. Ed &egrave; proprio Obdulio (la sua fama &egrave; tanto grande che ancor oggi viene chiamato con il solo nome di battesimo) a caricare i compagni con parole semplici ma penetranti come raggi X. Un esempio: a Ornar Miguez, durante il percorso tra spogliatoi e campo, sussurra in un orecchio: &laquo;Non vedi che faccia da stupido ha il loro portiere? Vorresti farmi credere che proprio tu non sei in grado di segnargli almeno due gol?&raquo; e ancora a Schubert Gambetta, il mediano che aveva rimpiazzato l'infortunato J.C. GonzaIcs, aveva detto un paio di giorni prima: &laquo;Tu dovrai marcare Chico. Se gli fai toccare anche solo un pallone, poi dovrai vedertela con me di persona&raquo;. Cos&igrave; detto era esploso in una grossa risata. Morale, Gambetta si sent&igrave; talmente tranquillo da addormentarsi su una sedia negli spogliatoi un'ora prima dell'inizio del match. Dall'hotel Paysandu in cui sono alloggiati, gli &laquo;orientales&raquo; scendono sereni all'Estadio Municipal, dove gi&agrave; dalle prime ore del giorno si erano dati appuntamento duecentomila fanatici vestiti di giallo e verde. I &laquo;vestuarioS)) dello stadio sono in condizioni pietose, e cos&igrave; i componenti della &laquo;Celeste&raquo; si recano in un vicino parco per ammazzare il tempo in attesa di rientrare nell'impianto. Il cesello psicologico di Obdulio trova compimento in una frase: &laquo;Ragazzi, oggi ho una gran voglia di correre&raquo;. E come un segnale, il dissotterramento dell'ascia di guerra: la pattuglia torna al Maracan&agrave; convinta di uscire con la Rimet tra le mani. All'entrata in campo dei ventidue gli spalti si trasformano in un tappeto multicolore, e quando l'inglese Reader d&agrave; il via alla gara, la sfida diviene ben presto una battaglia. Miguez colpisce un palo in contropiede, ma nessuno tra i brasiliani si rende conto del pericolo scampato. Bigode falcia un paio di volte Ghiggia ma all'accenno dell'ennesimo intervento sulle caviglie l'oriundo si ricorda degli ammonimenti di Varela e colpisce per primo. Gambetta tiene fede alle promesse e gioca una partita a s&eacute; con Chico: tra i due volano scintille. I primi quarantacinque minuti scivolano via con parecchie emozioni ma senza gol: ci pensa Fria&ccedil;a, in apertura di ripresa, in conclusione di un fulmineo contrattacco, ad aprire le marcature. Il gol, finalmente, sblocca la situazione, non solo sul piano del punteggio: la rete &egrave; validissima ma Obdulio, con grande intelligenza, raccoglie il pallone e insegue il direttore di gara, protestando per chiss&agrave; quale irregolarit&agrave;. Varela sa benissimo di non aver nulla cui appigliarsi, ma cos&igrave; facendo tiene in apprensione avversari e pubblico, &ldquo;gelandone&rdquo; l'entusiasmo. La vittima predestinata non pare aver scampo: quattrocentomila mani si allungano sulla Coppa, che tuttavia &egrave; come una saponetta bagnata. Al ventunesimo la ruota si ferma e prende a girare dalla parte opposta: Obdulio allarga sulla destra per Ghiggia, il quale supera Bigode e centra per l'accorrente Schiaffino. Pepe prende la mira e fa secco Barbosa, apparso un po' distratto nell'occasione. L' 1-1 &egrave; ancora favorevole alla Sele&ccedil;ao, che per&ograve; non accetta l'umiliazione del pareggio e continua a giocare per vincere. Ricorda Ornar Miguez: &laquo;Quel giorno era scritto che dovessimo vincere noi, non temevamo n&eacute; Dio n&eacute; demonio. Se Maspoli avesse giocato da centravanti, avrebbe segnato due gol, e se io avessi giocato in porta, avrei parato due rigori&raquo;. Gli ultimi venti minuti segnano la fine del sogno brasiliano: qualsiasi azione gli uruguaiani decidano di intraprendere costituisce un pericolo per Barbosa. A undici minuti dal termine, il colpo del KO. Alcides Ghiggia raccont&ograve; cos&igrave; il momento cruciale del Mondiale: &laquo;Vedo Julio P&eacute;rez liberarsi di un avversario in dribbling. Scatto sulla destra quando lui mi lancia in un corridoio libero. Il mio angolo di penetrazione era abbastanza basso rispetto alla linea di fondo: quando vedo il terzino avvicinarsi a me, decido di tirare. Barbosa, per prevenire un eventuale cross, si sposta leggermente sulla propria destra e lascia uno spazio sufficiente tra s&eacute; e il palo. Chiudo gli occhi, batto con tutta l'energia che ho in corpo, e quando li riapro vedo il pallone in rete. In quel momento, diventiamo campioni del mondo&raquo;. Mancano dieci minuti alla fine. Il Brasile si getta disperatamente in avanti, annaspando come chi sta affondando nelle sabbie mobili. Varela urla come un ossesso, guidando i suoi compagni senza danni al novantesimo. Ultima emozione: quando Reader fischia tre volte girando le spalle all'azione, solo Gambetta se ne accorge. L'azione &egrave; da calcio d'angolo: sullo spiovente il mediano dal baffetto appena accennato blocca il pallone con le due mani e lo porta al petto. Passa un secondo interminabile, ma &egrave; tutto vero, da una parte e dall'altra. I pochi tifosi venuti da Montevideo scendono in campo con le bandiere al collo. Nella confusione, la Coppa sparisce, forse sottratta da mani gelose. Obdulio tuona: &laquo;Con o senza la Coppa, i campioni siamo noi&raquo;. Il giovane Monin, al debutto in Nazionale, scoppia a piangere mentre qualcuno fa sparire il pallone. Pi&ugrave; tardi, negli spogliatoi, l'arbitro inglese lo reclama come souvenir, e Varela gliene sottopone tre: Reader sceglie quello pi&ugrave; consumato. Obdulio lo guarda allora con un ghigno beffardo stampato sul viso: il prezioso cimelio finir&agrave; a Montevideo ... Sugli spalti, &egrave; l'Apocalisse: una decina di tifosi viene colpita da infarto, ovunque si scatenano risse furibonde e la notte &egrave; contrassegnata dal furore delle sirene delle ambulanze. La leggenda racconta che la mattina avanti gli inservienti trovarono in curva un ragazzo che, con la testa tra le mani, stava singhiozzando pensando a ci&ograve; che era avvenuto. &laquo;Nunca mais&raquo;: fu il titolo della &laquo;Gazeta Esportiva&raquo; sulla finale. &laquo;Mai pi&ugrave;&raquo;: ci fu chi scrisse di un intervento divino in favore degli orientales. In realt&agrave;, la vittoria fu il frutto di un'ottima impostazione di gioco, indipendente dallo schieramento degli avversari, e dei proverbiali &laquo;attributi&raquo; del calciatore rioplatense. A Montevideo, giustamente, essa venne dipinta come un trionfo della volont&agrave; dell'uomo. Ed &egrave; probabilmente la versione pi&ugrave; aderente ai fatti. Dall'archivio del Guerin Sportivo

[gallery link="file" ids="26399,26398,26397,26396,26395,26394,26393,26392,26391,26390,26389,26388,26387,26386,26385,26384,26383,26382,26381,26380,26379,26377,26376,26375,26374,26373,26372,26371,26370,26369,26368,26367"]  Quattro squadre superano quindi il primo turno e si preparano ad affrontarsi in un girone all'italiana per decidere la classifica conclusiva. Mai come in questo caso una competizione appare gi&agrave; decisa ancor prima del fischio d'inizio: erano ormai trascorsi quattro anni da quando la Fifa aveva assegnato il Mondiale alla C.B.D., e nonostante le difficolt&agrave; incontrate tutto era filato alla perfezione. La statuetta dorata che avrebbe premiato i campioni del mondo luccicava gi&agrave; negli occhi di un intero popolo: la storia, una volta tanto, pareva scritta in partenza. Il calendario delle partite mette in programma, al primo round, il confronto tra Brasile e Svezia e quello (pi&ugrave; equilibrato, sulla carta), tra Uruguay e Spagna.  L'esordio degli &laquo;auriverdes&raquo; conferma ci&ograve; che tutti si attendevano ma che, nella prima fase, non era stato verificato sino in fondo. Il samba dei padroni di casa stordisce subito la pur compatta formazione scandinava: la &laquo;diagonal&raquo; assicura sulla propria bont&agrave; di schema e Ademir, &laquo;punta de lanza&raquo;, si scatena con un superbo poker, cui si aggiungono la doppietta di Chico ed un acuto di Maneca. Pi&ugrave; arduo il compito degli &laquo;orientales&raquo; contro le &laquo;furie rosse&raquo; spagnole. Gli iberici si dimostrano formazione quadrata e di grande caparbiet&agrave;. Segna Ghiggia alla mezz'ora, fulminando Ramallets dopo un'azione in &laquo;pared&raquo; (triangolo) con P&eacute;rez. La reazione della Spagna non si fa attendere e il cerbero Basora, centravanti del Barcellona, rovescia la situazione nel giro di soli dieci minuti. La &laquo;Celeste&raquo; era giunta al Mondiale in posizione di &laquo;outsider&raquo;, e una sua eventuale sconfitta non avrebbe stupito pi&ugrave; di tanto gli osservatori. A met&agrave; della ripresa sale in cattedra Obdulio Varela: la &laquo;garra&raquo; fatta uomo d&agrave; il &laquo;la&raquo; alla riscossa siglando personalmente il pari con un'imprendibile fucilata dal limite.  La formula, che prevede tre partite per ogni squadra, pone di fronte al secondo turno Brasile ed Uruguay: il destino ci mette per&ograve; lo zampino e il big-match, per ragioni di cassetta, viene rinviato all'ultima giornata. &laquo;Quel&raquo; Brasile avrebbe fatto polpette di &laquo;quell'&raquo; Uruguay. Ma bast&ograve; un semplice spostamento di date per provocare il primo, grande terremoto nella storia del calcio. Il 3 luglio si disputano quindi Brasile-Spagna ed Uruguay-Svezia. E come qualche giorno indietro, la furia brasiliana si avventa sugli avversari: sette gol ad uno sono pi&ugrave; eloquenti di qualsiasi discorso. Sul prato del Maracan&agrave; si assiste ad uno spettacolo di inusitata eleganza, tanto perfetto da fare invidia ai manuali di football: non uno, tra coloro che seguono la Rimet come tecnici, giornalisti o semplici appassionati, &egrave; pi&ugrave; disposto a scommettere un centesimo sulla mancata vittoria dei brasiliani.  Al Pacaembu, nel frattempo, l'Uruguay si scopre forte: sotto di un gol di fronte al feroce contropiede svedese, la &laquo;Celeste&raquo; smette l'abito della modestia e si trasforma in una compagine riccamente convinta nei propri mezzi. E Ornar Miguez a firmare la rimonta: prima corregge di testa una corta respinta di Svensson poi recupera un pallone sfuggito alla presa del portiere per il 3-2 finale. Tutto avviene negli ultimi tredici minuti di gioco: in caso di successo svedese, il conto sarebbe gi&agrave; stato chiuso. E invece Brasile-Uruguay si tramuta in una specie molto particolare di finalissima: alla Sele&ccedil;&agrave;o &egrave; sufficiente il pari, e dopo le performances con Svezia e Spagna non si profila all'orizzonte altro tipo di risultato che la vittoria degli ospitanti.  Tra il 13 e il 16 luglio il Paese si addobba per la grande festa: vengono fatte preparare undici limousine che riportano ognuna sulla fiancata il nome dei singoli eroi, da Barbosa a Chico.&nbsp;Si organizzano nei minimi dettagli le sfilate per le strade di Rio, come per un gigantesco carnevale del fut&eacute;bol. Una nazione intera si identifica negli uomini in giallo-verde, che a loro volta sono pronti per entrare nella galleria degli eterni. Nelle ore precedenti il match prende il via una vera e propria guerra psicologica nei confronti degli ospiti: ovunque essi si avventurino, trovano ad accoglierli sempre un &laquo;4&raquo;: &egrave; il numero dei palloni predestinati a terminare alle spalle di Maspoli. Gli stessi dirigenti della AUF rimangono impressionati al punto da perdere la fiducia nei propri giocatori: nella riunione prima della partita si dichiareranno soddisfatti anche di un'onorevole sconfitta con un paio di gol.  &laquo;Juancito&raquo; L&ograve;pez il Ct e Obdulio Varela &laquo;El Jefe&raquo; si ribellano ad una tale arrendevolezza: erano entrambi finissimi psicologi, capaci di estrarre il meglio da chiunque. Ed &egrave; proprio Obdulio (la sua fama &egrave; tanto grande che ancor oggi viene chiamato con il solo nome di battesimo) a caricare i compagni con parole semplici ma penetranti come raggi X. Un esempio: a Ornar Miguez, durante il percorso tra spogliatoi e campo, sussurra in un orecchio: &laquo;Non vedi che faccia da stupido ha il loro portiere? Vorresti farmi credere che proprio tu non sei in grado di segnargli almeno due gol?&raquo; e ancora a Schubert Gambetta, il mediano che aveva rimpiazzato l'infortunato J.C. GonzaIcs, aveva detto un paio di giorni prima: &laquo;Tu dovrai marcare Chico. Se gli fai toccare anche solo un pallone, poi dovrai vedertela con me di persona&raquo;. Cos&igrave; detto era esploso in una grossa risata. Morale, Gambetta si sent&igrave; talmente tranquillo da addormentarsi su una sedia negli spogliatoi un'ora prima dell'inizio del match. Dall'hotel Paysandu in cui sono alloggiati, gli &laquo;orientales&raquo; scendono sereni all'Estadio Municipal, dove gi&agrave; dalle prime ore del giorno si erano dati appuntamento duecentomila fanatici vestiti di giallo e verde. I &laquo;vestuarioS)) dello stadio sono in condizioni pietose, e cos&igrave; i componenti della &laquo;Celeste&raquo; si recano in un vicino parco per ammazzare il tempo in attesa di rientrare nell'impianto. Il cesello psicologico di Obdulio trova compimento in una frase: &laquo;Ragazzi, oggi ho una gran voglia di correre&raquo;.  E come un segnale, il dissotterramento dell'ascia di guerra: la pattuglia torna al Maracan&agrave; convinta di uscire con la Rimet tra le mani. All'entrata in campo dei ventidue gli spalti si trasformano in un tappeto multicolore, e quando l'inglese Reader d&agrave; il via alla gara, la sfida diviene ben presto una battaglia. Miguez colpisce un palo in contropiede, ma nessuno tra i brasiliani si rende conto del pericolo scampato. Bigode falcia un paio di volte Ghiggia ma all'accenno dell'ennesimo intervento sulle caviglie l'oriundo si ricorda degli ammonimenti di Varela e colpisce per primo. Gambetta tiene fede alle promesse e gioca una partita a s&eacute; con Chico: tra i due volano scintille. I primi quarantacinque minuti scivolano via con parecchie emozioni ma senza gol: ci pensa Fria&ccedil;a, in apertura di ripresa, in conclusione di un fulmineo contrattacco, ad aprire le marcature. Il gol, finalmente, sblocca la situazione, non solo sul piano del punteggio: la rete &egrave; validissima ma Obdulio, con grande intelligenza, raccoglie il pallone e insegue il direttore di gara, protestando per chiss&agrave; quale irregolarit&agrave;. Varela sa benissimo di non aver nulla cui appigliarsi, ma cos&igrave; facendo tiene in apprensione avversari e pubblico, &ldquo;gelandone&rdquo; l'entusiasmo. La vittima predestinata non pare aver scampo: quattrocentomila mani si allungano sulla Coppa, che tuttavia &egrave; come una saponetta bagnata. Al ventunesimo la ruota si ferma e prende a girare dalla parte opposta: Obdulio allarga sulla destra per Ghiggia, il quale supera Bigode e centra per l'accorrente Schiaffino. Pepe prende la mira e fa secco Barbosa, apparso un po' distratto nell'occasione. L' 1-1 &egrave; ancora favorevole alla Sele&ccedil;ao, che per&ograve; non accetta l'umiliazione del pareggio e continua a giocare per vincere.  Ricorda Ornar Miguez: &laquo;Quel giorno era scritto che dovessimo vincere noi, non temevamo n&eacute; Dio n&eacute; demonio. Se Maspoli avesse giocato da centravanti, avrebbe segnato due gol, e se io avessi giocato in porta, avrei parato due rigori&raquo;. Gli ultimi venti minuti segnano la fine del sogno brasiliano: qualsiasi azione gli uruguaiani decidano di intraprendere costituisce un pericolo per Barbosa. A undici minuti dal termine, il colpo del KO. Alcides Ghiggia raccont&ograve; cos&igrave; il momento cruciale del Mondiale: &laquo;Vedo Julio P&eacute;rez liberarsi di un avversario in dribbling. Scatto sulla destra quando lui mi lancia in un corridoio libero. Il mio angolo di penetrazione era abbastanza basso rispetto alla linea di fondo: quando vedo il terzino avvicinarsi a me, decido di tirare. Barbosa, per prevenire un eventuale cross, si sposta leggermente sulla propria destra e lascia uno spazio sufficiente tra s&eacute; e il palo. Chiudo gli occhi, batto con tutta l'energia che ho in corpo, e quando li riapro vedo il pallone in rete. In quel momento, diventiamo campioni del mondo&raquo;.  Mancano dieci minuti alla fine. Il Brasile si getta disperatamente in avanti, annaspando come chi sta affondando nelle sabbie mobili. Varela urla come un ossesso, guidando i suoi compagni senza danni al novantesimo. Ultima emozione: quando Reader fischia tre volte girando le spalle all'azione, solo Gambetta se ne accorge. L'azione &egrave; da calcio d'angolo: sullo spiovente il mediano dal baffetto appena accennato blocca il pallone con le due mani e lo porta al petto. Passa un secondo interminabile, ma &egrave; tutto vero, da una parte e dall'altra. I pochi tifosi venuti da Montevideo scendono in campo con le bandiere al collo. Nella confusione, la Coppa sparisce, forse sottratta da mani gelose. Obdulio tuona: &laquo;Con o senza la Coppa, i campioni siamo noi&raquo;. Il giovane Monin, al debutto in Nazionale, scoppia a piangere mentre qualcuno fa sparire il pallone. Pi&ugrave; tardi, negli spogliatoi, l'arbitro inglese lo reclama come souvenir, e Varela gliene sottopone tre: Reader sceglie quello pi&ugrave; consumato. Obdulio lo guarda allora con un ghigno beffardo stampato sul viso: il prezioso cimelio finir&agrave; a Montevideo ... Sugli spalti, &egrave; l'Apocalisse: una decina di tifosi viene colpita da infarto, ovunque si scatenano risse furibonde e la notte &egrave; contrassegnata dal furore delle sirene delle ambulanze. La leggenda racconta che la mattina avanti gli inservienti trovarono in curva un ragazzo che, con la testa tra le mani, stava singhiozzando pensando a ci&ograve; che era avvenuto. &laquo;Nunca mais&raquo;: fu il titolo della &laquo;Gazeta Esportiva&raquo; sulla finale. &laquo;Mai pi&ugrave;&raquo;: ci fu chi scrisse di un intervento divino in favore degli orientales. In realt&agrave;, la vittoria fu il frutto di un'ottima impostazione di gioco, indipendente dallo schieramento degli avversari, e dei proverbiali &laquo;attributi&raquo; del calciatore rioplatense. A Montevideo, giustamente, essa venne dipinta come un trionfo della volont&agrave; dell'uomo. Ed &egrave; probabilmente la versione pi&ugrave; aderente ai fatti.  Dall'archivio del Guerin Sportivo

16 luglio 1950, il giorno del Maracanazo

A un anno dalla disfatta del Brasile contro la Germania, cerchiamo di capire cosa &egrave; cambiato nella Sele&ccedil;ao, osservando quali uomini sono stati &ldquo;potati&rdquo; e quali sono rimasti nei ranghi della formazione titolare, e dando un&rsquo;occhiata ai risultati ottenuti da Dunga, richiamato sulla panchina verdeoro e subentrato a Scolari, nonostante i risultati del secondo siano superiori a quelli del primo. Felip&atilde;o ha vinto un Mondiale e concluso in semifinale l&rsquo;altro. Il modo drammatico con cui si &egrave; concluso il torneo casalingo, forse la pagina pi&ugrave; nera della storia del calcio brasiliano, ha fatto gridare al fallimento (e in effetti lo &egrave; stato, tanto da coniare il termine Mineirazo, che richiama il Maracana&ccedil;o del &lsquo;50), ma nelle due edizioni precedenti, con Carlos Alberto Parreira (vincitore nel 1994: in Brasile amano i grandi ritorni) e con Dunga, la corsa si era fermata ai quarti di finale, dunque un passo prima rispetto al 2014. Ad ogni modo, mai i verdeoro avevano subito sette gol in una sola gara, non perdevano in casa da dodici anni e mai una semifinale si era risolta con uno scarto simile. Julio Cesar in porta; Maicon, David Luiz, Dante e Marcelo in difesa; Fernandinho e Luiz Gustavo in mediana; il trio Hulk-Oscar-Bernard sulla trequarti; Fred di punta. Questa la formazione scelta un anno fa da Scolari nel match contro Lahm e compagni. Decisioni piuttosto obbligate, alla luce delle assenze di Neymar (sostituito da Bernard) per infortunio e di Thiago Silva (rimpiazzato da Dante) per squalifica. La pietra dello scandalo era la presenza di Fred, fedelissimo del tecnico e non amato invece dai tifosi brasiliani (l&rsquo;alternativa sarebbe stata comunque J&ocirc;, non esattamente Romario). E gi&agrave; alla vigilia del torneo, avevano fatto parecchio discutere le assenze di Miranda e Luis Filipe, difensori titolari dell&rsquo;Atl&eacute;tico Madrid appena laureatosi Campione di Spagna e arrampicatosi fino alla finale di Champions League. Il Mondiale casalingo era stato vissuto intensamente dai giocatori, carichi di pressioni e quasi alle lacrime durante le esecuzioni degli inni nazionali, un po&rsquo; in tutte le partite. Pi&ugrave; che togliersi le tensioni di dosso, i brasiliani si caricavano sempre pi&ugrave; di responsabilit&agrave; e la testa era sgombera sola a sprazzi. Sul campo si procedeva avanti tra aiutini arbitrali (vedi l&rsquo;esordio con la Croazia) e colpi di fortuna (come il legno colpito dal cileno Pinilla all&rsquo;ultimo secondo dei supplementari, all&rsquo;altezza degli ottavi). Il gioco latitava, ma in un modo o nell&rsquo;altro, di strada se ne era percorsa. La sfida dei quarti contro la Colombia aveva estromesso poi dalla rassegna Neymar, per una forte botta alla schiena dopo un contrasto con Zu&ntilde;iga, e Thiago Silva. Due elementi imprescindibili in un undici balbettante, soprattutto perch&eacute; in semifinale arrivava una Germania in forma smagliante e al massimo della sua lucentezza. Felip&atilde;o aveva fino a quel momento un dolce ricordo della squadra tedesca: al Mondiale del 2002 la sconfisse in finale. Ma se in quell&rsquo;occasione la sua squadra arrivava a Yokohama con una formazione stellare (c&rsquo;erano Ronaldo, Roberto Carlos, Ronaldinho, Rivaldo e Cafu) e i teutonici come una rivelazione, questa volta i rapporti di forza erano invertiti: l&rsquo;undici di L&ouml;w si presentava da favorito all&rsquo;appuntamento, forte di un organico&nbsp; privo di punti deboli. Il Brasile, pieno di dubbi, nascosti sotto il tappeto nelle uscite precedenti. Merito dei futuri Campioni del Mondo fu quello di smascherarli tutti, premendo sull&rsquo;acceleratore sin dalle prime battute di gioco. I verdeoro, non aspettandosi forse tale veemenza, si sciolsero immediatamente ed entrarono nella storia, ma in senso negativo. All&rsquo;11&rsquo; M&uuml;ller sblocc&ograve; la gara, al 23&rsquo; Klose raddoppi&ograve; soffiando il record di reti nella storia dei Mondiali a Ronaldo (beffa nella beffa), poi tocc&ograve; a Kroos entrare nel tabellino dei marcatori con due reti in due minuti, e al 29&rsquo; ecco la gloria personale per Khedira. Dopo mezz&rsquo;ora, il punteggio recitava implacabilmente: Brasile 0, Germania 5. Partita finita. Tedeschi in giubilo, brasiliani con sentimenti misti tra pianti e rabbia. Il sogno di archiviare il Maracana&ccedil;o lasci&ograve; posto a un incubo ancor pi&ugrave; spaventoso. Nella ripresa, la Germania trover&agrave; altre due reti con Sch&uuml;rrle, si manger&agrave; l&rsquo;8-0 con &Ouml;zil e subir&agrave; nel capovolgimento di fronte la rete della bandiera di Oscar. Brasileunogermaniasette. Salt&ograve; subito la testa di Scolari, destinato a un altro capitombolo nella finale del terzo posto. I giornali uscirono con titoli luttuosi o pagine bianche come a dire: &ldquo;Siamo senza parole&rdquo;. Il 22 luglio, venne presentato il Dunga-bis. All&rsquo;ex regista di Pisa, Fiorentina e Pescara, fu assegnato il compito di ricostruire un nuovo gruppo sulle macerie di un ciclo chiuso in modo tragico. Dopo un anno, possiamo gi&agrave; intravedere cosa &egrave; cambiato, anche se nella Copa Am&eacute;rica da poco conclusa, &egrave; andato in scena di nuovo un Brasile a tinte fosche, poco spettacolare, imperniato sulla classe di Neymar, tanto da uscire di scena ancora una volta a seguito dell&rsquo;assenza del suo fuoriclasse (espulso dopo il match con la Colombia, quando nella prima gara, contro il Per&ugrave;, aveva segnato e offerto l&rsquo;assist del gol-vittoria a Costa). Non &egrave; cambiato il modulo, Dunga si sta ancora affidando al 4-2-3-1. Sono cambiati invece molti interpreti. In porta, Julio Cesar &egrave; stato avvicendato da Jefferson. In difesa, sono stati finalmente scelti Miranda (al posto di David Luiz) e Filipe Luis (per Marcelo), schierati rispettivamente al centro e a sinistra; Thiago Silva, assente con la Germania ma ovviamente imprescindibile gi&agrave; ai tempi di Scolari, &egrave; stato confermato il leader del reparto arretrato, mentre a destra si &egrave; riappropiato della fascia Dani Alves. In mediana, sarebbe stato confermato il duo Luiz Gustavo-Fernandinho, che tutto sommato non naufrag&ograve; agli scorsi Mondiali, ma il primo, amato gi&agrave; da Scolari, non ha preso parte alla competizione cilena per infortunio. Al suo posto, ha giocato il trentenne Elias, centrocampista del Corinthians. In avanti, la sorpresa maggiore arriva dalla presenza di Robinho. Un vero punto interrogativo. Dopo il forfait di Neymar, l&rsquo;ex milanista si &egrave; preso pure una maglia da titolare, venendo usato a sinistra nel tridente, comprensivo anche di Willian e dell&rsquo;ex nerazzurro Coutinho, altro volto nuovo della gestione. Tagliati rispetto a un&rsquo;estate fa i trequartisti Oscar (per un infortunio un po&rsquo; sospetto) e Hulk (scelta tecnica). Quest&rsquo;ultimo in particolare sembra poco gradito a Dunga, che pare snobbarlo. Cos&igrave; come sono stati snobbati alcuni elementi forse meritevoli di considerazione, tra cui il laziale Felipe Anderson. In avanti restano i problemi. Silurato Fred (quello che ha giocato pochi scampoli in Copa Am&eacute;rica era un altro), non si riesce a trovare una punta pura. L&rsquo;attaccante del Fluminense &egrave; stato rimpiazzato da Firmino, altro volto del Liverpool - al pari di Coutinho - a cui &egrave; approdato questa estate per 40 milioni di euro. All&rsquo;Hoffenheim si alternava tra attacco e trequarti, in Copa Am&eacute;rica &egrave; stato sempre utilizzato come riferimento offensivo, venendo preferito a Diego Tardelli, anche lui non un vero 9. Il torneo concluso con l&rsquo;eliminazione ai rigori contro il Paraguay (come nell&rsquo;edizione precedente e allo stesso turno, i quarti) ha alimentato i malumori, ma almeno questa volta non ci sono stati drammi e non solo perch&eacute; i giochi sono finiti con punteggi umani. Dopo un crollo come quello del 2014 &egrave; lecito dare un po&rsquo; di tempo a un nuovo Ct. E soprattutto, al Mondiale si arrivava carichi di aspettative, in Copa Am&eacute;rica con una rassegnazione che un intero Paese vuole dimenticare. Giovanni Del Bianco @g_delbianco

A un anno dalla disfatta del Brasile contro la Germania, cerchiamo di capire cosa &egrave; cambiato nella Sele&ccedil;ao, osservando quali uomini sono stati &ldquo;potati&rdquo; e quali sono rimasti nei ranghi della formazione titolare, e dando un&rsquo;occhiata ai risultati ottenuti da Dunga, richiamato sulla panchina verdeoro e subentrato a Scolari, nonostante i risultati del secondo siano superiori a quelli del primo. Felip&atilde;o ha vinto un Mondiale e concluso in semifinale l&rsquo;altro. Il modo drammatico con cui si &egrave; concluso il torneo casalingo, forse la pagina pi&ugrave; nera della storia del calcio brasiliano, ha fatto gridare al fallimento (e in effetti lo &egrave; stato, tanto da coniare il termine Mineirazo, che richiama il Maracana&ccedil;o del &lsquo;50), ma nelle due edizioni precedenti, con Carlos Alberto Parreira (vincitore nel 1994: in Brasile amano i grandi ritorni) e con Dunga, la corsa si era fermata ai quarti di finale, dunque un passo prima rispetto al 2014. Ad ogni modo, mai i verdeoro avevano subito sette gol in una sola gara, non perdevano in casa da dodici anni e mai una semifinale si era risolta con uno scarto simile. Julio Cesar in porta; Maicon, David Luiz, Dante e Marcelo in difesa; Fernandinho e Luiz Gustavo in mediana; il trio Hulk-Oscar-Bernard sulla trequarti; Fred di punta. Questa la formazione scelta un anno fa da Scolari nel match contro Lahm e compagni. Decisioni piuttosto obbligate, alla luce delle assenze di Neymar (sostituito da Bernard) per infortunio e di Thiago Silva (rimpiazzato da Dante) per squalifica. La pietra dello scandalo era la presenza di Fred, fedelissimo del tecnico e non amato invece dai tifosi brasiliani (l&rsquo;alternativa sarebbe stata comunque J&ocirc;, non esattamente Romario). E gi&agrave; alla vigilia del torneo, avevano fatto parecchio discutere le assenze di Miranda e Luis Filipe, difensori titolari dell&rsquo;Atl&eacute;tico Madrid appena laureatosi Campione di Spagna e arrampicatosi fino alla finale di Champions League.  Il Mondiale casalingo era stato vissuto intensamente dai giocatori, carichi di pressioni e quasi alle lacrime durante le esecuzioni degli inni nazionali, un po&rsquo; in tutte le partite. Pi&ugrave; che togliersi le tensioni di dosso, i brasiliani si caricavano sempre pi&ugrave; di responsabilit&agrave; e la testa era sgombera sola a sprazzi. Sul campo si procedeva avanti tra aiutini arbitrali (vedi l&rsquo;esordio con la Croazia) e colpi di fortuna (come il legno colpito dal cileno Pinilla all&rsquo;ultimo secondo dei supplementari, all&rsquo;altezza degli ottavi). Il gioco latitava, ma in un modo o nell&rsquo;altro, di strada se ne era percorsa. La sfida dei quarti contro la Colombia aveva estromesso poi dalla rassegna Neymar, per una forte botta alla schiena dopo un contrasto con Zu&ntilde;iga, e Thiago Silva. Due elementi imprescindibili in un undici balbettante, soprattutto perch&eacute; in semifinale arrivava una Germania in forma smagliante e al massimo della sua lucentezza.  Felip&atilde;o aveva fino a quel momento un dolce ricordo della squadra tedesca: al Mondiale del 2002 la sconfisse in finale. Ma se in quell&rsquo;occasione la sua squadra arrivava a Yokohama con una formazione stellare (c&rsquo;erano Ronaldo, Roberto Carlos, Ronaldinho, Rivaldo e Cafu) e i teutonici come una rivelazione, questa volta i rapporti di forza erano invertiti: l&rsquo;undici di L&ouml;w si presentava da favorito all&rsquo;appuntamento, forte di un organico&nbsp; privo di punti deboli. Il Brasile, pieno di dubbi, nascosti sotto il tappeto nelle uscite precedenti. Merito dei futuri Campioni del Mondo fu quello di smascherarli tutti, premendo sull&rsquo;acceleratore sin dalle prime battute di gioco. I verdeoro, non aspettandosi forse tale veemenza, si sciolsero immediatamente ed entrarono nella storia, ma in senso negativo.  All&rsquo;11&rsquo; M&uuml;ller sblocc&ograve; la gara, al 23&rsquo; Klose raddoppi&ograve; soffiando il record di reti nella storia dei Mondiali a Ronaldo (beffa nella beffa), poi tocc&ograve; a Kroos entrare nel tabellino dei marcatori con due reti in due minuti, e al 29&rsquo; ecco la gloria personale per Khedira. Dopo mezz&rsquo;ora, il punteggio recitava implacabilmente: Brasile 0, Germania 5. Partita finita. Tedeschi in giubilo, brasiliani con sentimenti misti tra pianti e rabbia. Il sogno di archiviare il Maracana&ccedil;o lasci&ograve; posto a un incubo ancor pi&ugrave; spaventoso. Nella ripresa, la Germania trover&agrave; altre due reti con Sch&uuml;rrle, si manger&agrave; l&rsquo;8-0 con &Ouml;zil e subir&agrave; nel capovolgimento di fronte la rete della bandiera di Oscar. Brasileunogermaniasette. Salt&ograve; subito la testa di Scolari, destinato a un altro capitombolo nella finale del terzo posto. I giornali uscirono con titoli luttuosi o pagine bianche come a dire: &ldquo;Siamo senza parole&rdquo;.  Il 22 luglio, venne presentato il Dunga-bis. All&rsquo;ex regista di Pisa, Fiorentina e Pescara, fu assegnato il compito di ricostruire un nuovo gruppo sulle macerie di un ciclo chiuso in modo tragico. Dopo un anno, possiamo gi&agrave; intravedere cosa &egrave; cambiato, anche se nella Copa Am&eacute;rica da poco conclusa, &egrave; andato in scena di nuovo un Brasile a tinte fosche, poco spettacolare, imperniato sulla classe di Neymar, tanto da uscire di scena ancora una volta a seguito dell&rsquo;assenza del suo fuoriclasse (espulso dopo il match con la Colombia, quando nella prima gara, contro il Per&ugrave;, aveva segnato e offerto l&rsquo;assist del gol-vittoria a Costa). Non &egrave; cambiato il modulo, Dunga si sta ancora affidando al 4-2-3-1. Sono cambiati invece molti interpreti. In porta, Julio Cesar &egrave; stato avvicendato da Jefferson. In difesa, sono stati finalmente scelti Miranda (al posto di David Luiz) e Filipe Luis (per Marcelo), schierati rispettivamente al centro e a sinistra; Thiago Silva, assente con la Germania ma ovviamente imprescindibile gi&agrave; ai tempi di Scolari, &egrave; stato confermato il leader del reparto arretrato, mentre a destra si &egrave; riappropiato della fascia Dani Alves. In mediana, sarebbe stato confermato il duo Luiz Gustavo-Fernandinho, che tutto sommato non naufrag&ograve; agli scorsi Mondiali, ma il primo, amato gi&agrave; da Scolari, non ha preso parte alla competizione cilena per infortunio. Al suo posto, ha giocato il trentenne Elias, centrocampista del Corinthians. In avanti, la sorpresa maggiore arriva dalla presenza di Robinho. Un vero punto interrogativo. Dopo il forfait di Neymar, l&rsquo;ex milanista si &egrave; preso pure una maglia da titolare, venendo usato a sinistra nel tridente, comprensivo anche di Willian e dell&rsquo;ex nerazzurro Coutinho, altro volto nuovo della gestione. Tagliati rispetto a un&rsquo;estate fa i trequartisti Oscar (per un infortunio un po&rsquo; sospetto) e Hulk (scelta tecnica). Quest&rsquo;ultimo in particolare sembra poco gradito a Dunga, che pare snobbarlo. Cos&igrave; come sono stati snobbati alcuni elementi forse meritevoli di considerazione, tra cui il laziale Felipe Anderson.  In avanti restano i problemi. Silurato Fred (quello che ha giocato pochi scampoli in Copa Am&eacute;rica era un altro), non si riesce a trovare una punta pura. L&rsquo;attaccante del Fluminense &egrave; stato rimpiazzato da Firmino, altro volto del Liverpool - al pari di Coutinho - a cui &egrave; approdato questa estate per 40 milioni di euro. All&rsquo;Hoffenheim si alternava tra attacco e trequarti, in Copa Am&eacute;rica &egrave; stato sempre utilizzato come riferimento offensivo, venendo preferito a Diego Tardelli, anche lui non un vero 9.  Il torneo concluso con l&rsquo;eliminazione ai rigori contro il Paraguay (come nell&rsquo;edizione precedente e allo stesso turno, i quarti) ha alimentato i malumori, ma almeno questa volta non ci sono stati drammi e non solo perch&eacute; i giochi sono finiti con punteggi umani. Dopo un crollo come quello del 2014 &egrave; lecito dare un po&rsquo; di tempo a un nuovo Ct. E soprattutto, al Mondiale si arrivava carichi di aspettative, in Copa Am&eacute;rica con una rassegnazione che un intero Paese vuole dimenticare.  Giovanni Del Bianco @g_delbianco

74 risultati per 'brasile'