&Egrave; il 7 luglio del 1974. All&rsquo;Olympiastadion di Monaco di Baviera si gioca l&rsquo;atto finale del mondiale tedesco che vede da un lato i padroni di casa della Germania Ovest e dall&rsquo;altro la formidabile Arancia Meccanica, l'Olanda di Rinus Michels e <a href="https://www.guerinsportivo.it/news/il-cuoio/2019/06/10-2187195/l_intervista_impossibile_johan_cruijff" target="_blank" rel="noopener">Johan Cruijff</a>. Gli Oranje hanno rivoluzionato il modo di giocare a calcio in quel torneo, con la loro manovra brillante che verr&agrave; ribattezzata nel tempo con la celebre perifrasi del calcio totale. Consapevoli della loro forza, gli Oranje partono in quarta: dopo appena due minuti Cruijff semina Vogts, viene atterrato in area da Hoeness e si procura un calcio di rigore. Dal dischetto <a href="https://www.guerinsportivo.it/news/il-cuoio/2021/09/15-4697664/johan_neeskens_il_tuttocampista_dell_olanda_del_calcio_totale_" target="_blank" rel="noopener">Neeskens</a> porta in vantaggio i suoi con un potentissimo tiro centrale. <h2 class="p1">Il duello tra Vogts e Cruijff</h2> Questo &egrave; l&rsquo;inizio, oltre che della partita, del duello personale tra Berti Vogts e Johan Cruijff, che durer&agrave; per tutto il match. In questo frangente il difensore tedesco si fa cogliere impreparato, ma per il resto della sfida non sbaglier&agrave; pi&ugrave; nulla. La sua marcatura a uomo sul numero 14 olandese riesce a far scemare pian piano l&rsquo;aggressivit&agrave; della formazione di Michels. Vogts pressa con sempre maggiore intensit&agrave;, costringendo Cruijff a indietreggiare fino alla linea della difesa per prendere il pallone. Senza il suo faro, la manovra Oranje inizia a perdere lucidit&agrave; e gli olandesi cominciano a vacillare. I tedeschi alla fine della ripresa hanno gi&agrave; ribaltato il risultato, grazie ai gol di Breitner (rigore) e M&uuml;ller. Il secondo tempo &egrave; un vero capolavoro difensivo: Vogts continua a non dare tregua al Pel&eacute; bianco fino al 90&rsquo; con un pressing asfissiante. La partita termina 2-1 e la Germania Ovest si laurea campione del mondo. Quella nazionale verr&agrave; ricordata da molti come quella di M&uuml;ller e Beckenbauer, ma la vittoria finale si deve in grandissima parte a un campione silenzioso, un difensore piccolo di statura ma dalle grandissime capacit&agrave; atletiche e dall&rsquo;ineguagliabile spirito di sacrificio: Berti Vogs. <h2 class="p1">Vogts, una carriera tra Moenchengladbach e nazionale tedesca</h2> Nato Hans Hubert Vogs a B&uuml;ttgen, nel cuore della Vestfalia, viene prelevato giovanissimo dal Borussia Moenchengladbach, con cui rester&agrave; per l&rsquo;intera carriera. Sar&agrave; il simbolo di quella squadra che durante gli anni &rsquo;70 accender&agrave; con il Bayern Monaco una delle rivalit&agrave; calcistiche pi&ugrave; belle dello scorso secolo. Con i Die Fohlen vince cinque campionati tedeschi, una coppa di Germania e due volte la Coppa UEFA, nel 1974-75 e nel 1978-79. Vero e proprio mastino difensivo, Vogts &egrave; un marcatore destro, uno degli interpreti migliori del ruolo, celebre per il suo tempismo perfetto nell&rsquo;anticipo e nel tackle in scivolata. Giocatore estremamente roccioso ma allo stesso tempo leale e corretto, ha partecipato attivamente a tutte le grandi vittorie della Germania Ovest e del Gladbach durante il corso degli anni &rsquo;70. <a href="https://www.guerinsportivo.it/video/il-cuoio/2021/06/02-4316946/podcast_-_europei_1972_la_prima_volta_della_germania_ovest" target="_blank" rel="noopener">Campione d&rsquo;Europa nel 1972</a> oltre che del mondo nel 1974, come abbiamo raccontato poco sopra, si ritira dal calcio giocato nel 1979 prima di intraprendere la carriera di allenatore. Vice di Beckenbauer nella fortunata spedizione di Italia &rsquo;90, da allenatore vince anche <a href="https://www.guerinsportivo.it/video/il-cuoio/2021/06/23-4409086/podcast_-_europei_1996_la_germania_trionfa_in_terra_inglese" target="_blank" rel="noopener">Euro &rsquo;96</a>, diventando l&rsquo;unico nella storia del calcio a essere riuscito a conquistare un campionato Europeo sia da calciatore che da allenatore.

        &Egrave; il 7 luglio del 1974. All&rsquo;Olympiastadion di Monaco di Baviera si gioca l&rsquo;atto finale del mondiale tedesco che vede da un lato i padroni di casa della Germania Ovest e dall&rsquo;altro la formidabile Arancia Meccanica, l'Olanda di Rinus Michels e Johan Cruijff. Gli Oranje hanno rivoluzionato il modo di giocare a calcio in quel torneo, con la loro manovra brillante che verr&agrave; ribattezzata nel tempo con la celebre perifrasi del calcio totale. Consapevoli della loro forza, gli Oranje partono in quarta: dopo appena due minuti Cruijff semina Vogts, viene atterrato in area da Hoeness e si procura un calcio di rigore. Dal dischetto Neeskens porta in vantaggio i suoi con un potentissimo tiro centrale. Il duello tra Vogts e Cruijff Questo &egrave; l&rsquo;inizio, oltre che della partita, del duello personale tra Berti Vogts e Johan Cruijff, che durer&agrave; per tutto il match. In questo frangente il difensore tedesco si fa cogliere impreparato, ma per il resto della sfida non sbaglier&agrave; pi&ugrave; nulla. La sua marcatura a uomo sul numero 14 olandese riesce a far scemare pian piano l&rsquo;aggressivit&agrave; della formazione di Michels. Vogts pressa con sempre maggiore intensit&agrave;, costringendo Cruijff a indietreggiare fino alla linea della difesa per prendere il pallone. Senza il suo faro, la manovra Oranje inizia a perdere lucidit&agrave; e gli olandesi cominciano a vacillare. I tedeschi alla fine della ripresa hanno gi&agrave; ribaltato il risultato, grazie ai gol di Breitner (rigore) e M&uuml;ller. Il secondo tempo &egrave; un vero capolavoro difensivo: Vogts continua a non dare tregua al Pel&eacute; bianco fino al 90&rsquo; con un pressing asfissiante. La partita termina 2-1 e la Germania Ovest si laurea campione del mondo. Quella nazionale verr&agrave; ricordata da molti come quella di M&uuml;ller e Beckenbauer, ma la vittoria finale si deve in grandissima parte a un campione silenzioso, un difensore piccolo di statura ma dalle grandissime capacit&agrave; atletiche e dall&rsquo;ineguagliabile spirito di sacrificio: Berti Vogs. Vogts, una carriera tra Moenchengladbach e nazionale tedesca Nato Hans Hubert Vogs a B&uuml;ttgen, nel cuore della Vestfalia, viene prelevato giovanissimo dal Borussia Moenchengladbach, con cui rester&agrave; per l&rsquo;intera carriera. Sar&agrave; il simbolo di quella squadra che durante gli anni &rsquo;70 accender&agrave; con il Bayern Monaco una delle rivalit&agrave; calcistiche pi&ugrave; belle dello scorso secolo. Con i Die Fohlen vince cinque campionati tedeschi, una coppa di Germania e due volte la Coppa UEFA, nel 1974-75 e nel 1978-79. Vero e proprio mastino difensivo, Vogts &egrave; un marcatore destro, uno degli interpreti migliori del ruolo, celebre per il suo tempismo perfetto nell&rsquo;anticipo e nel tackle in scivolata. Giocatore estremamente roccioso ma allo stesso tempo leale e corretto, ha partecipato attivamente a tutte le grandi vittorie della Germania Ovest e del Gladbach durante il corso degli anni &rsquo;70. Campione d&rsquo;Europa nel 1972 oltre che del mondo nel 1974, come abbiamo raccontato poco sopra, si ritira dal calcio giocato nel 1979 prima di intraprendere la carriera di allenatore. Vice di Beckenbauer nella fortunata spedizione di Italia &rsquo;90, da allenatore vince anche Euro &rsquo;96, diventando l&rsquo;unico nella storia del calcio a essere riuscito a conquistare un campionato Europeo sia da calciatore che da allenatore.        

Colonna del Moenchengladbach e della nazionale tedesca occidentale degli anni &lsquo;70, &egrave; l'unico ad aver vinto un Europeo sia da calciatore che da allenatore

Berti Vogts, il campione silenzioso che annullò Cruijff nel Mondiale 1974

Questa sera al Windsor Park di Belfast la Nazionale di Mancini si gioca il pass per i Mondiali di Qatar 2022. Proprio impressa nella data di oggi c&rsquo;&egrave; una sfida del passato, un precedente legato alle qualificazioni Mondiali che pu&ograve; far ben sperare i pi&ugrave; ottimisti. Il 15 novembre 1997, esattamente 24 anni fa, gli azzurri conquistavano la qualificazione per la Coppa del Mondo di Francia &rsquo;98. A differenza della partita odierna &ndash; ultima gara del girone C, dove ci troviamo in testa a pari punti con la Svizzera &ndash; nell&rsquo;accadde oggi del &rsquo;97 conquistammo il pass ai play-off e tra le mura amiche. <h2>Italia-Russia del 15 novembre 1997&nbsp;</h2> 15 novembre 1997, Stadio San Paolo, Napoli. Dopo l&rsquo;1-1 del 29 ottobre precedente &ndash; maturato sotto una fitta nevicata grazie alla rete di Vieri pareggiata da uno sfortunato autogol di Cannavaro, nella serata che aveva visto Gigi Buffon fare il suo esordio in Nazionale &ndash; un San Paolo gremito in ogni ordine di posto spinge gli azzurri verso la fase finale della Coppa del Mondo. L&rsquo;undici scelto dal Ct Cesare Maldini &egrave; cos&igrave; composto: Peruzzi in porta; Ferrara, Cannavaro, Costacurta, capitan Maldini e Pessotto in difesa; Di Matteo, Albertini e Dino Baggio&nbsp;a centrocampo; Ravanelli e Casiraghi in attacco. La gara, vista la pesante posta in palio, &egrave; bloccata. La Russia di Ignatiev &egrave; costretta a fare la partita: per passare deve vincere o quantomeno segnare sperando di concludere il match con un pareggio superiore all&rsquo;1-1. Gli attacchi ospiti, per&ograve;, sono sterili. La squadra di Maldini va vicina al vantaggio sugli sviluppi di un calcio di punizione: Albertini pesca Ferrara, il cui colpo di testa viene respinto da un prodigioso intervento di Ovcinnikov. Ravanelli prova poi a sfruttare un&rsquo;incertezza della difesa ospite, ma la sua conclusione &egrave; parata con i piedi dall&rsquo;estremo difensore russo. A togliere le castagne dal fuoco e regalare il pass Mondiale agli azzurri ci pensa l&rsquo;attaccante della Lazio Gigi Casiraghi. Al minuto 53 uno splendido lancio di Albertini lo pesca in profondit&agrave;. Il numero 9, senza nemmeno stoppare la sfera, la fa rimbalzare a terra un paio di volte per poi scaricarla con un gran sinistro nell&rsquo;angolino. Un gol bellissimo e importantissimo, l&rsquo;ultimo dei 13 segnati in maglia azzurra da Casiraghi. La Russia si riversa in avanti alla ricerca del disperato pareggio che porterebbe la gara ai supplementari, ma, grazie anche all&rsquo;ingresso di Nesta al posto di Pessotto, il muro italiano &egrave; invalicabile. 24 anni fa l&rsquo;1-0 ci port&ograve; al Mondiale: sperando che sia di buon auspicio, ricordiamoci anche che stasera potrebbe non bastare. &nbsp; &nbsp; &nbsp; &nbsp; &nbsp; &nbsp; &nbsp;

        Questa sera al Windsor Park di Belfast la Nazionale di Mancini si gioca il pass per i Mondiali di Qatar 2022. Proprio impressa nella data di oggi c&rsquo;&egrave; una sfida del passato, un precedente legato alle qualificazioni Mondiali che pu&ograve; far ben sperare i pi&ugrave; ottimisti. Il 15 novembre 1997, esattamente 24 anni fa, gli azzurri conquistavano la qualificazione per la Coppa del Mondo di Francia &rsquo;98. A differenza della partita odierna &ndash; ultima gara del girone C, dove ci troviamo in testa a pari punti con la Svizzera &ndash; nell&rsquo;accadde oggi del &rsquo;97 conquistammo il pass ai play-off e tra le mura amiche. Italia-Russia del 15 novembre 1997&nbsp; 15 novembre 1997, Stadio San Paolo, Napoli. Dopo l&rsquo;1-1 del 29 ottobre precedente &ndash; maturato sotto una fitta nevicata grazie alla rete di Vieri pareggiata da uno sfortunato autogol di Cannavaro, nella serata che aveva visto Gigi Buffon fare il suo esordio in Nazionale &ndash; un San Paolo gremito in ogni ordine di posto spinge gli azzurri verso la fase finale della Coppa del Mondo. L&rsquo;undici scelto dal Ct Cesare Maldini &egrave; cos&igrave; composto: Peruzzi in porta; Ferrara, Cannavaro, Costacurta, capitan Maldini e Pessotto in difesa; Di Matteo, Albertini e Dino Baggio&nbsp;a centrocampo; Ravanelli e Casiraghi in attacco. La gara, vista la pesante posta in palio, &egrave; bloccata. La Russia di Ignatiev &egrave; costretta a fare la partita: per passare deve vincere o quantomeno segnare sperando di concludere il match con un pareggio superiore all&rsquo;1-1. Gli attacchi ospiti, per&ograve;, sono sterili. La squadra di Maldini va vicina al vantaggio sugli sviluppi di un calcio di punizione: Albertini pesca Ferrara, il cui colpo di testa viene respinto da un prodigioso intervento di Ovcinnikov. Ravanelli prova poi a sfruttare un&rsquo;incertezza della difesa ospite, ma la sua conclusione &egrave; parata con i piedi dall&rsquo;estremo difensore russo. A togliere le castagne dal fuoco e regalare il pass Mondiale agli azzurri ci pensa l&rsquo;attaccante della Lazio Gigi Casiraghi. Al minuto 53 uno splendido lancio di Albertini lo pesca in profondit&agrave;. Il numero 9, senza nemmeno stoppare la sfera, la fa rimbalzare a terra un paio di volte per poi scaricarla con un gran sinistro nell&rsquo;angolino. Un gol bellissimo e importantissimo, l&rsquo;ultimo dei 13 segnati in maglia azzurra da Casiraghi. La Russia si riversa in avanti alla ricerca del disperato pareggio che porterebbe la gara ai supplementari, ma, grazie anche all&rsquo;ingresso di Nesta al posto di Pessotto, il muro italiano &egrave; invalicabile. 24 anni fa l&rsquo;1-0 ci port&ograve; al Mondiale: sperando che sia di buon auspicio, ricordiamoci anche che stasera potrebbe non bastare.  &nbsp; &nbsp; &nbsp; &nbsp; &nbsp; &nbsp; &nbsp;       

Dopo l&rsquo;1-1 dell&rsquo;andata, il 15 novembre 1997 al San Paolo di Napoli gli azzurri sconfissero la Russia grazie alla rete segnata da Gigi Casiraghi

24 anni fa l’Italia strappava il pass per il Mondiale di Francia ‘98

Di Roberto Mancini, Marcello Lippi ed Enzo Bearzot, i commissari tecnici che pi&ugrave; di recente hanno ottenuto dei trofei con la nazionale azzurra, sappiamo praticamente tutto. Le nebbie della storia, invece, hanno filtrato le imprese del primo allenatore che seppe guidare l&rsquo;Italia alla vittoria dei campionati del mondo del 1934 e del 1938: Vittorio Pozzo. Piemontese purosangue e dal forte sentimento patriottico, della straripante passione per il calcio che lo pervadeva riemp&igrave; tutta la sua vita, dapprima giocandolo e, successivamente, diventando allenatore, dirigente nonch&eacute; giornalista. Una poliedricit&agrave; frutto degli studi effettuati in giovent&ugrave; (che, tra l&rsquo;altro, gli permisero anche di lavorare alle dipendenze della Pirelli) grazie ai quali gir&ograve; l&rsquo;Europa: soggiorn&ograve; in Francia, Svizzera e Inghilterra, paese nel quale raccolse la maggior quantit&agrave; di informazioni sul calcio che contribu&igrave; alla sua formazione tecnica. I suoi successi, legati a un tempo ormai lontano e al vincolo che storicamente nutrono col periodo fascista, sono stati probabilmente sminuiti a lungo nella considerazione generale. Ma Vittorio Pozzo va sicuramente studiato come uno dei grandi artefici dell&rsquo;edificazione del calcio come fenomeno di massa nel nostro Paese: le vittorie dei Mondiali negli anni Trenta, intervallate dal successo alle Olimpiadi del 1936 (unica volta che l&rsquo;Italia &egrave; riuscita ad affermarsi nella manifestazione), consolidarono definitivamente il football come un&rsquo;espressione di costume che attirava l&rsquo;attenzione di qualsiasi strato sociale. Al commissario tecnico pi&ugrave; vincente della storia della Nazionale abbiamo immaginato di rivolgere qualche domanda proprio in occasione delle partite di qualificazione ai Mondiali del 2022. Pozzo, possiamo dire che la sua fu una vita avventurosa? "Non lo so, non mi interessa molto dare un aggettivo alla mia esistenza. Posso dire, per&ograve;, che tutto quello che ho fatto, l&rsquo;ho fatto con passione: il calciatore, l&rsquo;allenatore, il dirigente, il giornalista. Come dipendente aziendale forse ho avuto meno coinvolgimento emotivo. Ma in ogni caso ho sempre nutrito un fortissimo senso del dovere." Di fatto lei &egrave; stato il commissario tecnico della nazionale italiana per quasi mezzo secolo. "Non esageriamo! I primi due incarichi hanno avuto una durata molto breve. Alle Olimpiadi del 1912 ho guidato l&rsquo;Italia per due partite mentre il secondo mandato &egrave; durato qualche mese in occasione delle Olimpiadi del 1924." Per&ograve; dal 1929 al 1948 la conduzione dell&rsquo;Italia fu solo cosa sua. "S&igrave;, quello &egrave; stato il periodo in cui sono riuscito a lavorare con continuit&agrave; alla direzione tecnica della nazionale. Un periodo bellissimo, nel quale abbiamo dimostrato con orgoglio al mondo la forza degli italiani." Vuole ricordare, a chi non conosce la storia, cosa vinsero gli azzurri negli anni Trenta? "Con grande piacere! I Mondiali del 1934 e del 1938 innanzitutto. E poi le Olimpiadi del 1936. Ma questi sono successi che dovrebbero essere conosciuti da tutti coloro che seguono il calcio. Ci&ograve; che molti dimenticano sono le affermazioni del 1930 e del 1935 nella Coppa Internazionale, la competizione antesignana degli Europei. Insomma, eravamo davvero i pi&ugrave; forti di tutti in quel decennio." Pi&ugrave; forti anche degli inglesi? "In quel periodo gli inglesi non partecipavano alla coppa del mondo. Ma quando li incontrammo in quegli anni non fummo affatto inferiori: a Londra, pochi mesi dopo la vittoria del nostro primo Mondiale, perdemmo perch&eacute; fummo costretti a giocare in dieci la partita visto che Monti si ruppe un piede in un brutto scontro di gioco." Sta parlando della famosa Battaglia di Highbury? "S&igrave;, esattamente. Fu davvero una battaglia perch&eacute; dopo quello scontro nel quale Monti ebbe la peggio, i miei ragazzi non si fecero intimorire e cominciarono a reagire di conseguenza. Perdemmo 3-2 solo perch&eacute; Meazza fu sfortunato e colp&igrave; una traversa nel finale ma il nostro valore venne riconosciuto da tutti, tanto che i protagonisti di quell&rsquo;impresa vennero ribattezzati da Nicol&ograve; Carosio &ldquo;i leoni di Highbury&rdquo;. Fu una prestazione da veri campioni del mondo! Anche nel 1939 affrontammo gli inglesi senza perdere: a San Siro fin&igrave; 2-2. Peccato che la guerra imped&igrave; lo svolgimento dei Mondiali del 1942: sarebbe stato bello poter provare a ottenere la terza vittoria consecutiva!" Molti dissero che quella Nazionale era un supporto formidabile alla propaganda del regime fascista. "E io cosa ci posso fare? Il periodo era quello e a chiunque fosse toccato fare il CT dell&rsquo;Italia non sarebbe stato possibile non avere un rapporto col regime. N&eacute;, in qualche modo, essere affiancato ad esso. Del resto la nazionale di calcio rappresenta il Paese e negli anni Trenta in Italia c&rsquo;era il fascismo. Io cercai solo di fare il mio lavoro, di seguire la mia passione e di servire degnamente la mia patria: con la Nazionale come con gli Alpini. Cercai di lavorare al meglio delle mie capacit&agrave; e, per poter mantenere una sfera di autonomia decisionale quanto pi&ugrave; ampia possibile, rifiutai sempre di avere un riconoscimento economico per il mio incarico di selezionatore. Le ricordo che, ancora oggi, a quella squadra si fa riferimento come all&rsquo;Italia di Pozzo non di Mussolini." Eppure nel 1948, quando rassegn&ograve; le dimissioni per l&rsquo;ultima volta, il peso del suo passato si fece sentire. "&Egrave; vero in parte. C&rsquo;erano sicuramente molti che mi ritenevano compromesso col fascismo e pensavano che la mia immagine richiamava troppo da vicino quel periodo che si era chiuso definitivamente col referendum che aveva sancito la nuova forma repubblicana del nostro Stato. Ma ero criticato anche perch&eacute; le mie preferenze tattiche non convincevano pi&ugrave;: continuavo a considerare pi&ugrave; adatto al nostro calcio il mio &ldquo;metodo&rdquo; piuttosto che il &ldquo;sistema&rdquo; che, in Italia, praticava anche il Grande Torino." Perch&eacute;? "Il sistema era roba da inglesi: giocando col WM a centrocampo si aveva un uomo in meno. In Inghilterra, per&ograve;, per questioni climatiche e di altro genere i calciatori correvano di pi&ugrave; dei nostri e si potevano permettere l&rsquo;inferiorit&agrave; numerica. Da noi, per via del maggior caldo e di ulteriori elementi specifici che ci contraddistinguevano, certi ritmi non erano sostenibili. Ecco perch&eacute; ritenevo pi&ugrave; opportuno far giocare le mie squadre col WW: in quel modo si guadagnava un uomo in mezzo al campo. Il centromediano metodista era una combinazione tra uno stopper e un centrocampista di costruzione perch&eacute;, coi suoi lanci, faceva ripartire l&rsquo;azione con le ali. Un ruolo che Luisito Monti, ai Mondiali del 1934, svolse in maniera esemplare." A proposito di Monti: lui, come altri membri di quella Nazionale, era un oriundo. Come si giustificava questo fatto con la necessit&agrave; di valorizzare al massimo l&rsquo;italianit&agrave; che predicava il regime? "Erano ragazzi che potevano prestare servizio nell&rsquo;esercito: se potevano morire per l'Italia, potevano anche giocare per l'Italia." Dalla sua esperienza negli Alpini durante la prima guerra mondiale cosa mutu&ograve; nella gestione della Nazionale? "Tante cose: il senso della disciplina, del rigore morale, del rispetto delle regole e della modestia. Quando si doveva andare in ritiro sceglievo sempre dei luoghi che avessero nell&rsquo;essenzialit&agrave; uno dei loro tratti caratteristici. Mi piaceva organizzare tutto, dagli orari dei pasti e degli allenamenti ai momenti di riposo. Solo con regole ferree si pu&ograve; costruire un gruppo che funziona."&nbsp; In una carriera cos&igrave; piena di successi qual &egrave; stato il momento pi&ugrave; difficile che si &egrave; trovato ad affrontare? "Non fu una questione di campo. Quando l&rsquo;aereo del Grande Torino si schiant&ograve; a Superga mi tocc&ograve; dover riconoscere i resti dei giocatori periti in quell&rsquo;incidente. Erano i miei ragazzi, quelli che avevo portato in Nazionale: oh se li conoscevo! Fu uno strazio, un dolore immenso: un dovere che dovetti adempiere scarnificandomi fino all&rsquo;anima."

        Di Roberto Mancini, Marcello Lippi ed Enzo Bearzot, i commissari tecnici che pi&ugrave; di recente hanno ottenuto dei trofei con la nazionale azzurra, sappiamo praticamente tutto. Le nebbie della storia, invece, hanno filtrato le imprese del primo allenatore che seppe guidare l&rsquo;Italia alla vittoria dei campionati del mondo del 1934 e del 1938: Vittorio Pozzo. Piemontese purosangue e dal forte sentimento patriottico, della straripante passione per il calcio che lo pervadeva riemp&igrave; tutta la sua vita, dapprima giocandolo e, successivamente, diventando allenatore, dirigente nonch&eacute; giornalista. Una poliedricit&agrave; frutto degli studi effettuati in giovent&ugrave; (che, tra l&rsquo;altro, gli permisero anche di lavorare alle dipendenze della Pirelli) grazie ai quali gir&ograve; l&rsquo;Europa: soggiorn&ograve; in Francia, Svizzera e Inghilterra, paese nel quale raccolse la maggior quantit&agrave; di informazioni sul calcio che contribu&igrave; alla sua formazione tecnica. I suoi successi, legati a un tempo ormai lontano e al vincolo che storicamente nutrono col periodo fascista, sono stati probabilmente sminuiti a lungo nella considerazione generale. Ma Vittorio Pozzo va sicuramente studiato come uno dei grandi artefici dell&rsquo;edificazione del calcio come fenomeno di massa nel nostro Paese: le vittorie dei Mondiali negli anni Trenta, intervallate dal successo alle Olimpiadi del 1936 (unica volta che l&rsquo;Italia &egrave; riuscita ad affermarsi nella manifestazione), consolidarono definitivamente il football come un&rsquo;espressione di costume che attirava l&rsquo;attenzione di qualsiasi strato sociale. Al commissario tecnico pi&ugrave; vincente della storia della Nazionale abbiamo immaginato di rivolgere qualche domanda proprio in occasione delle partite di qualificazione ai Mondiali del 2022. Pozzo, possiamo dire che la sua fu una vita avventurosa?"Non lo so, non mi interessa molto dare un aggettivo alla mia esistenza. Posso dire, per&ograve;, che tutto quello che ho fatto, l&rsquo;ho fatto con passione: il calciatore, l&rsquo;allenatore, il dirigente, il giornalista. Come dipendente aziendale forse ho avuto meno coinvolgimento emotivo. Ma in ogni caso ho sempre nutrito un fortissimo senso del dovere." Di fatto lei &egrave; stato il commissario tecnico della nazionale italiana per quasi mezzo secolo."Non esageriamo! I primi due incarichi hanno avuto una durata molto breve. Alle Olimpiadi del 1912 ho guidato l&rsquo;Italia per due partite mentre il secondo mandato &egrave; durato qualche mese in occasione delle Olimpiadi del 1924." Per&ograve; dal 1929 al 1948 la conduzione dell&rsquo;Italia fu solo cosa sua. "S&igrave;, quello &egrave; stato il periodo in cui sono riuscito a lavorare con continuit&agrave; alla direzione tecnica della nazionale. Un periodo bellissimo, nel quale abbiamo dimostrato con orgoglio al mondo la forza degli italiani." Vuole ricordare, a chi non conosce la storia, cosa vinsero gli azzurri negli anni Trenta?"Con grande piacere! I Mondiali del 1934 e del 1938 innanzitutto. E poi le Olimpiadi del 1936. Ma questi sono successi che dovrebbero essere conosciuti da tutti coloro che seguono il calcio. Ci&ograve; che molti dimenticano sono le affermazioni del 1930 e del 1935 nella Coppa Internazionale, la competizione antesignana degli Europei. Insomma, eravamo davvero i pi&ugrave; forti di tutti in quel decennio." Pi&ugrave; forti anche degli inglesi?"In quel periodo gli inglesi non partecipavano alla coppa del mondo. Ma quando li incontrammo in quegli anni non fummo affatto inferiori: a Londra, pochi mesi dopo la vittoria del nostro primo Mondiale, perdemmo perch&eacute; fummo costretti a giocare in dieci la partita visto che Monti si ruppe un piede in un brutto scontro di gioco." Sta parlando della famosa Battaglia di Highbury?"S&igrave;, esattamente. Fu davvero una battaglia perch&eacute; dopo quello scontro nel quale Monti ebbe la peggio, i miei ragazzi non si fecero intimorire e cominciarono a reagire di conseguenza. Perdemmo 3-2 solo perch&eacute; Meazza fu sfortunato e colp&igrave; una traversa nel finale ma il nostro valore venne riconosciuto da tutti, tanto che i protagonisti di quell&rsquo;impresa vennero ribattezzati da Nicol&ograve; Carosio &ldquo;i leoni di Highbury&rdquo;. Fu una prestazione da veri campioni del mondo! Anche nel 1939 affrontammo gli inglesi senza perdere: a San Siro fin&igrave; 2-2. Peccato che la guerra imped&igrave; lo svolgimento dei Mondiali del 1942: sarebbe stato bello poter provare a ottenere la terza vittoria consecutiva!" Molti dissero che quella Nazionale era un supporto formidabile alla propaganda del regime fascista."E io cosa ci posso fare? Il periodo era quello e a chiunque fosse toccato fare il CT dell&rsquo;Italia non sarebbe stato possibile non avere un rapporto col regime. N&eacute;, in qualche modo, essere affiancato ad esso. Del resto la nazionale di calcio rappresenta il Paese e negli anni Trenta in Italia c&rsquo;era il fascismo. Io cercai solo di fare il mio lavoro, di seguire la mia passione e di servire degnamente la mia patria: con la Nazionale come con gli Alpini. Cercai di lavorare al meglio delle mie capacit&agrave; e, per poter mantenere una sfera di autonomia decisionale quanto pi&ugrave; ampia possibile, rifiutai sempre di avere un riconoscimento economico per il mio incarico di selezionatore. Le ricordo che, ancora oggi, a quella squadra si fa riferimento come all&rsquo;Italia di Pozzo non di Mussolini." Eppure nel 1948, quando rassegn&ograve; le dimissioni per l&rsquo;ultima volta, il peso del suo passato si fece sentire."&Egrave; vero in parte. C&rsquo;erano sicuramente molti che mi ritenevano compromesso col fascismo e pensavano che la mia immagine richiamava troppo da vicino quel periodo che si era chiuso definitivamente col referendum che aveva sancito la nuova forma repubblicana del nostro Stato. Ma ero criticato anche perch&eacute; le mie preferenze tattiche non convincevano pi&ugrave;: continuavo a considerare pi&ugrave; adatto al nostro calcio il mio &ldquo;metodo&rdquo; piuttosto che il &ldquo;sistema&rdquo; che, in Italia, praticava anche il Grande Torino." Perch&eacute;?"Il sistema era roba da inglesi: giocando col WM a centrocampo si aveva un uomo in meno. In Inghilterra, per&ograve;, per questioni climatiche e di altro genere i calciatori correvano di pi&ugrave; dei nostri e si potevano permettere l&rsquo;inferiorit&agrave; numerica. Da noi, per via del maggior caldo e di ulteriori elementi specifici che ci contraddistinguevano, certi ritmi non erano sostenibili. Ecco perch&eacute; ritenevo pi&ugrave; opportuno far giocare le mie squadre col WW: in quel modo si guadagnava un uomo in mezzo al campo. Il centromediano metodista era una combinazione tra uno stopper e un centrocampista di costruzione perch&eacute;, coi suoi lanci, faceva ripartire l&rsquo;azione con le ali. Un ruolo che Luisito Monti, ai Mondiali del 1934, svolse in maniera esemplare." A proposito di Monti: lui, come altri membri di quella Nazionale, era un oriundo. Come si giustificava questo fatto con la necessit&agrave; di valorizzare al massimo l&rsquo;italianit&agrave; che predicava il regime? "Erano ragazzi che potevano prestare servizio nell&rsquo;esercito: se potevano morire per l'Italia, potevano anche giocare per l'Italia." Dalla sua esperienza negli Alpini durante la prima guerra mondiale cosa mutu&ograve; nella gestione della Nazionale?"Tante cose: il senso della disciplina, del rigore morale, del rispetto delle regole e della modestia. Quando si doveva andare in ritiro sceglievo sempre dei luoghi che avessero nell&rsquo;essenzialit&agrave; uno dei loro tratti caratteristici. Mi piaceva organizzare tutto, dagli orari dei pasti e degli allenamenti ai momenti di riposo. Solo con regole ferree si pu&ograve; costruire un gruppo che funziona."&nbsp; In una carriera cos&igrave; piena di successi qual &egrave; stato il momento pi&ugrave; difficile che si &egrave; trovato ad affrontare?"Non fu una questione di campo. Quando l&rsquo;aereo del Grande Torino si schiant&ograve; a Superga mi tocc&ograve; dover riconoscere i resti dei giocatori periti in quell&rsquo;incidente. Erano i miei ragazzi, quelli che avevo portato in Nazionale: oh se li conoscevo! Fu uno strazio, un dolore immenso: un dovere che dovetti adempiere scarnificandomi fino all&rsquo;anima."       

Un nuovo appuntamento con la nostra rubrica, questa volta abbiamo immaginato di poter parlare con il leggendario Ct della Nazionale vincitrice dei Mondiali 1934 e 1938&nbsp;

L'intervista impossibile: Vittorio Pozzo

Italia e Belgio si affrontano per la 24esima volta nella storia: si gioca la "finalina", valida per il terzo e quarto posto della Nations League. &Egrave; l'ottavo scontro che conta tra le due nazionali: dopo sette gare amichevoli, disputate tra il 1913 e il 1952, il primo confronto in una grande competizione si concretizza nella Coppa del Mondo 1954. <h2>Lo strano criterio della fase a gironi del Mondiale 1954</h2> Sono passati poco pi&ugrave; di sei mesi dall'arrivo della televisione in Italia, quando la Nazionale e il Belgio si affrontano il 20 giugno 1954 al Cornaredo di Lugano, palcoscenico della partita valevole per il Gruppo 4 dei Mondiali svizzeri. &Egrave; la prima volta (e ad oggi anche l'unica) che Azzurri e belgi si incontrano in un match della Coppa del Mondo. Criteri strani, quelli scelti dalla FIFA per la rassegna elvetica: due squadre considerate le pi&ugrave; forti di ogni gruppo non si sarebbero incontrate e, per ogni girone da quattro, ogni nazionale avrebbe giocato solamente due partite: se la seconda e la terza fossero state a pari punti, allora via libera allo spareggio. L'Italia, allenata dal duo Lajos Czeizler-Angelo Schiavio, ha perso al debutto contro la Svizzera e non giocher&agrave; contro l'Inghilterra. Contro il Belgio, gli Azzurri sono quindi obbligati a vincere. <h2>Italia-Belgio 1954, dominio azzurro</h2> I nostri, che schierano in attacco l'interista Benito Lorenzi e i romanisti Carlo Galli-Egisto Pandolfini, dominano sin da subito. Il match si sblocca al 41' con un rigore di Pandolfini. Nella ripresa, Lorenzi mette al centro dalla sinistra e di testa Galli si tuffa e mette dentro. Al 58&rsquo;, quando il Belgio si &egrave; gi&agrave; arreso, arriva il tris con il tap-in vincente di Frignani, ala del Milan dal nome "esotico", Amleto. Al 78' ecco il poker a opera di "Veleno" Lorenzi. Per i belgi, solo la gioia del gol della bandiera, realizzato da Anoul. Gli Azzurri fanno festa: ancora non sanno che allo spareggio di qualificazione beccheranno, stavolta loro, 4 gol a 1 dalla Svizzera.

        Italia e Belgio si affrontano per la 24esima volta nella storia: si gioca la "finalina", valida per il terzo e quarto posto della Nations League. &Egrave; l'ottavo scontro che conta tra le due nazionali: dopo sette gare amichevoli, disputate tra il 1913 e il 1952, il primo confronto in una grande competizione si concretizza nella Coppa del Mondo 1954. Lo strano criterio della fase a gironi del Mondiale 1954 Sono passati poco pi&ugrave; di sei mesi dall'arrivo della televisione in Italia, quando la Nazionale e il Belgio si affrontano il 20 giugno 1954 al Cornaredo di Lugano, palcoscenico della partita valevole per il Gruppo 4 dei Mondiali svizzeri. &Egrave; la prima volta (e ad oggi anche l'unica) che Azzurri e belgi si incontrano in un match della Coppa del Mondo. Criteri strani, quelli scelti dalla FIFA per la rassegna elvetica: due squadre considerate le pi&ugrave; forti di ogni gruppo non si sarebbero incontrate e, per ogni girone da quattro, ogni nazionale avrebbe giocato solamente due partite: se la seconda e la terza fossero state a pari punti, allora via libera allo spareggio. L'Italia, allenata dal duo Lajos Czeizler-Angelo Schiavio, ha perso al debutto contro la Svizzera e non giocher&agrave; contro l'Inghilterra. Contro il Belgio, gli Azzurri sono quindi obbligati a vincere. Italia-Belgio 1954, dominio azzurro I nostri, che schierano in attacco l'interista Benito Lorenzi e i romanisti Carlo Galli-Egisto Pandolfini, dominano sin da subito. Il match si sblocca al 41' con un rigore di Pandolfini. Nella ripresa, Lorenzi mette al centro dalla sinistra e di testa Galli si tuffa e mette dentro. Al 58&rsquo;, quando il Belgio si &egrave; gi&agrave; arreso, arriva il tris con il tap-in vincente di Frignani, ala del Milan dal nome "esotico", Amleto. Al 78' ecco il poker a opera di "Veleno" Lorenzi. Per i belgi, solo la gioia del gol della bandiera, realizzato da Anoul. Gli Azzurri fanno festa: ancora non sanno che allo spareggio di qualificazione beccheranno, stavolta loro, 4 gol a 1 dalla Svizzera.       

Il 20 giugno di 67 anni fa gli Azzurri sconfissero i Diavoli Rossi in una partita della Coppa del Mondo in Svizzera: fu il primo precedente tra le due nazionali in una grande competizione

Italia-Belgio: nel 1954 un poker da Mondiale

Nella mente di molti italiani la data dell&rsquo;11 luglio crea un subbuglio che accarezza le vertigini della felicit&agrave;. Scoprire perch&eacute; non &egrave; compito da investigatori dell&rsquo;inconscio: &egrave; sufficiente avere qualche nozione di base delle vicende calcistiche del nostro Paese e risalire a quel giorno di 39 anni fa per ricostruire una storia fatta di eventi, immagini ed emozioni che segnarono la nostra vita.&nbsp; Il Governo Spadolini arrancava nei bollori dell&rsquo;estate sui sottili equilibri del pentapartito mentre molti ritardavano (o anticipavano) il rientro dai weekend vacanzieri per assistere all&rsquo;ultimo atto della cavalcata della Nazionale di Bearzot, diventata inopinatamente invincibile dopo aver schiantato sul suo cammino l&rsquo;Argentina campione in carica, il Brasile dei fuoriclasse e la Polonia. Ai ventidue che partirono dall&rsquo;Italia innervositi da polemiche sempre pi&ugrave; opprimenti mancava lo scalpo dei tedeschi per completare il percorso verso l&rsquo;immortalit&agrave;. L&rsquo;entusiasmo impazzito che percorreva da Nord a Sud la Penisola, quell&rsquo;11 luglio aveva raggiunto Madrid in un clima di euforia che aveva contagiato anche gli spagnoli, pronti a schierarsi con gli azzurri nella battaglia del tifo per affinit&agrave; di stampo neolatino. L&rsquo;idea della sconfitta usciva dall&rsquo;angolo&nbsp;dell&rsquo;impossibile solo grazie all&rsquo;afflato della scaramanzia, che non permetteva a Zoff e compagni di dichiararsi campioni prima di aver ottenuto il legittimo riconoscimento del risultato acquisito. &nbsp;Nemmeno l&rsquo;infortunio che costringe Graziani a uscire dopo pochi minuti e il rigore malamente fallito da Cabrini a met&agrave; del primo tempo riescono a cambiare il racconto di una favola che nella seconda frazione di gioco trova il modo di esprimere il suo preannunciato lieto fine: l&rsquo;immancabile rete di Rossi, la cannonata scagliata da Tardelli verso l&rsquo;angolo sinistro del ruvido Schumacher e l&rsquo;ultimo sigillo di Altobelli rendono vana la rabbia di Stielike e il gol della bandiera di Breitner. Il padre di oggi e il ragazzo di ieri si ritrovano questa domenica sull&rsquo;altalena dell&rsquo;11 luglio, sperando che la gioia che fu del secondo torni a donare al primo un lungo, indimenticabile abbraccio di felicit&agrave;.

        Nella mente di molti italiani la data dell&rsquo;11 luglio crea un subbuglio che accarezza le vertigini della felicit&agrave;. Scoprire perch&eacute; non &egrave; compito da investigatori dell&rsquo;inconscio: &egrave; sufficiente avere qualche nozione di base delle vicende calcistiche del nostro Paese e risalire a quel giorno di 39 anni fa per ricostruire una storia fatta di eventi, immagini ed emozioni che segnarono la nostra vita.&nbsp; Il Governo Spadolini arrancava nei bollori dell&rsquo;estate sui sottili equilibri del pentapartito mentre molti ritardavano (o anticipavano) il rientro dai weekend vacanzieri per assistere all&rsquo;ultimo atto della cavalcata della Nazionale di Bearzot, diventata inopinatamente invincibile dopo aver schiantato sul suo cammino l&rsquo;Argentina campione in carica, il Brasile dei fuoriclasse e la Polonia. Ai ventidue che partirono dall&rsquo;Italia innervositi da polemiche sempre pi&ugrave; opprimenti mancava lo scalpo dei tedeschi per completare il percorso verso l&rsquo;immortalit&agrave;. L&rsquo;entusiasmo impazzito che percorreva da Nord a Sud la Penisola, quell&rsquo;11 luglio aveva raggiunto Madrid in un clima di euforia che aveva contagiato anche gli spagnoli, pronti a schierarsi con gli azzurri nella battaglia del tifo per affinit&agrave; di stampo neolatino. L&rsquo;idea della sconfitta usciva dall&rsquo;angolo&nbsp;dell&rsquo;impossibile solo grazie all&rsquo;afflato della scaramanzia, che non permetteva a Zoff e compagni di dichiararsi campioni prima di aver ottenuto il legittimo riconoscimento del risultato acquisito. &nbsp;Nemmeno l&rsquo;infortunio che costringe Graziani a uscire dopo pochi minuti e il rigore malamente fallito da Cabrini a met&agrave; del primo tempo riescono a cambiare il racconto di una favola che nella seconda frazione di gioco trova il modo di esprimere il suo preannunciato lieto fine: l&rsquo;immancabile rete di Rossi, la cannonata scagliata da Tardelli verso l&rsquo;angolo sinistro del ruvido Schumacher e l&rsquo;ultimo sigillo di Altobelli rendono vana la rabbia di Stielike e il gol della bandiera di Breitner. Il padre di oggi e il ragazzo di ieri si ritrovano questa domenica sull&rsquo;altalena dell&rsquo;11 luglio, sperando che la gioia che fu del secondo torni a donare al primo un lungo, indimenticabile abbraccio di felicit&agrave;.       

L&rsquo;11 luglio 1982, a Madrid, gli azzurri vinsero il loro terzo Mondiale sconfiggendo in finale la Germania Ovest 3-1

L'appuntamento con la storia: Italia sul tetto del mondo

Ci sono immagini e momenti che pi&ugrave; di molti altri rimangono ben saldi nella nostra memoria collettiva. Quella di Cannavaro che alza al cielo di Berlino la Coppa del Mondo il 9 luglio del 2006 &egrave; senza nessun dubbio una di queste. Un&rsquo;immagine iconica, indelebile, fotogramma testimone eterno di una fantastica vittoria. Allo scoccare della mezzanotte sono ufficialmente passati ben 15 anni da quella mite serata mitteleuropea che ci ha permesso di salire sul tetto del mondo, incoronandoci campioni. In tutto questo tempo le parole sull&rsquo;impresa azzurra si sono sprecate, il nostro movimento calcio ha conosciuto un lento e inesorabile declino, ha toccato il fondo e poi ha rialzato la testa. Il nostro Paese, e il mondo intero dopotutto, sono cambiati radicalmente in questi 15 anni. Noi stessi abbiamo fatto altrettanto, le nostre interazioni sociali, il modo in cui viviamo, comunichiamo ed utilizziamo internet ci fa guardare indietro e pensare al 2006 come all&rsquo;et&agrave; della pietra. Eppure la notte di Berlino &egrave; fresca ed intatta nella nostra memoria, possiamo senza sforzi particolari ricordare e rivivere le altalenanti emozioni di quella sera, la paura e la sofferenza, l&rsquo;attesa e la speranza, la liberazione e la gioia. <o:p></o:p><o:p>&nbsp;</o:p> <h2>Il cammino trionfale e la semifinale di Dortmund</h2> <o:p></o:p><o:p>&nbsp;</o:p> Che quella spedizione in Germania fosse nata sotto una buona stella lo avevamo dapprima sperato, dopo tre partite del girone non eccellenti, poi sussurrato scaramanticamente dopo la vittoria in extremis sull&rsquo;Australia e poi capito in maniera definitiva dopo la semifinale di Dortmund. Si sa che quello italiano, oltre che di santi, poeti, eroi e navigatori, &egrave; anche un popolo di sognatori, un popolo che pu&ograve; passare molto rapidamente dalla grande esaltazione alla pi&ugrave; cupa disperazione. Per questo con ogni probabilit&agrave; l&rsquo;impresa del WestfalenStadion&nbsp;ha acquisito il suo pieno e totale significato solamente dopo la finale di Berlino. Senza l&rsquo;atto conclusivo, il trionfale cammino azzurro avrebbe rischiato ovviamente di rimanere incompiuto, mutilato e destinato a finire ben presto nel dimenticatoio. <o:p></o:p> <h2>La finale, la sofferenza e la gioia <o:p></o:p></h2> <o:p>&nbsp;</o:p> Gli azzurri arrivano a giocarsi la finale sicuri dei propri mezzi, ma di certo non da favoriti. I Bleus dall&rsquo;altra parte possono fare ancora affidamento sul loro vecchio e intramontabile numero 10, Zinedine Zidane. Non sanno che alla fine, croce e delizia, contribuir&agrave; alla disfatta rendendosi protagonista di un gesto orribile. Zizou fa 1-0 dal dischetto, rischiando un delizioso scavetto, poi impazzisce e rimedia un rosso per la celebre testata a Materazzi. Nel mezzo il pareggio del nostro numero 23 e tanta, tanta sofferenza. Ai calci di rigore l&rsquo;assenza del numero 10 transalpino forse fa la differenza. I nostri, glaciali dagli undici metri, segnano tutti. L&rsquo;ultimo &egrave; Fabio Grosso, che col suo mancino ci regala la gioia pi&ugrave; grande, la pazza gioia di essere italiani. <o:p>&nbsp;</o:p>

        Ci sono immagini e momenti che pi&ugrave; di molti altri rimangono ben saldi nella nostra memoria collettiva. Quella di Cannavaro che alza al cielo di Berlino la Coppa del Mondo il 9 luglio del 2006 &egrave; senza nessun dubbio una di queste. Un&rsquo;immagine iconica, indelebile, fotogramma testimone eterno di una fantastica vittoria. Allo scoccare della mezzanotte sono ufficialmente passati ben 15 anni da quella mite serata mitteleuropea che ci ha permesso di salire sul tetto del mondo, incoronandoci campioni. In tutto questo tempo le parole sull&rsquo;impresa azzurra si sono sprecate, il nostro movimento calcio ha conosciuto un lento e inesorabile declino, ha toccato il fondo e poi ha rialzato la testa. Il nostro Paese, e il mondo intero dopotutto, sono cambiati radicalmente in questi 15 anni. Noi stessi abbiamo fatto altrettanto, le nostre interazioni sociali, il modo in cui viviamo, comunichiamo ed utilizziamo internet ci fa guardare indietro e pensare al 2006 come all&rsquo;et&agrave; della pietra. Eppure la notte di Berlino &egrave; fresca ed intatta nella nostra memoria, possiamo senza sforzi particolari ricordare e rivivere le altalenanti emozioni di quella sera, la paura e la sofferenza, l&rsquo;attesa e la speranza, la liberazione e la gioia. &nbsp; Il cammino trionfale e la semifinale di Dortmund &nbsp; Che quella spedizione in Germania fosse nata sotto una buona stella lo avevamo dapprima sperato, dopo tre partite del girone non eccellenti, poi sussurrato scaramanticamente dopo la vittoria in extremis sull&rsquo;Australia e poi capito in maniera definitiva dopo la semifinale di Dortmund. Si sa che quello italiano, oltre che di santi, poeti, eroi e navigatori, &egrave; anche un popolo di sognatori, un popolo che pu&ograve; passare molto rapidamente dalla grande esaltazione alla pi&ugrave; cupa disperazione. Per questo con ogni probabilit&agrave; l&rsquo;impresa del WestfalenStadion&nbsp;ha acquisito il suo pieno e totale significato solamente dopo la finale di Berlino. Senza l&rsquo;atto conclusivo, il trionfale cammino azzurro avrebbe rischiato ovviamente di rimanere incompiuto, mutilato e destinato a finire ben presto nel dimenticatoio.  La finale, la sofferenza e la gioia  &nbsp; Gli azzurri arrivano a giocarsi la finale sicuri dei propri mezzi, ma di certo non da favoriti. I Bleus dall&rsquo;altra parte possono fare ancora affidamento sul loro vecchio e intramontabile numero 10, Zinedine Zidane. Non sanno che alla fine, croce e delizia, contribuir&agrave; alla disfatta rendendosi protagonista di un gesto orribile. Zizou fa 1-0 dal dischetto, rischiando un delizioso scavetto, poi impazzisce e rimedia un rosso per la celebre testata a Materazzi. Nel mezzo il pareggio del nostro numero 23 e tanta, tanta sofferenza. Ai calci di rigore l&rsquo;assenza del numero 10 transalpino forse fa la differenza. I nostri, glaciali dagli undici metri, segnano tutti. L&rsquo;ultimo &egrave; Fabio Grosso, che col suo mancino ci regala la gioia pi&ugrave; grande, la pazza gioia di essere italiani.  &nbsp;       

Esattamente 15 anni fa gli azzurri alzavano al cielo la Coppa del Mondo dopo un&rsquo;interminabile finale vinta ai rigori contro la Francia

9 luglio 2006: l’indimenticabile vittoria dell’Italia a Berlino

Il 9 luglio di 15 anni fa la nostra nazionale si aggiudicava la sua quarta Coppa del Mondo superando i Bleus ai calci di rigore

Italia-Francia 2006: il trionfo mondiale azzurro

22 giugno 1986: appuntamento con la storia. Quarti di finale della Coppa del Mondo. Lo Stadio Azteca brilla: la luce del sole &egrave; accecante, ma s&rsquo;incentra su un singolo giocatore, quello con la maglia numero dieci dell&rsquo;Argentina.&nbsp;L&rsquo;Albiceleste non &egrave; una squadra da titolo, ma in campo ha Diego Armando Maradona. Basta lui per mettere in ginocchio l&rsquo;Inghilterra.&nbsp;Due gol per la leggenda: il primo &egrave; un&rsquo;astuzia, un pugno teso verso il cielo che anticipa l&rsquo;uscita di Shilton, che schiaffeggia il regolamento del calcio e che penetra dritto dritto nello stomaco dei gentlemen inglesi, i quali rimangono attoniti davanti all&rsquo;esultanza di Diego. Maradona non ha finito: Enrique serve &ldquo;l'assist del secolo&rdquo;, un passaggio di cinque metri al Dies che riceve il pallone a 70 metri dalla porta. Parte. Nessuno lo pu&ograve; fermare. Dentro quel gol c&rsquo;&egrave; tutto: classe sopraffina, corsa, rabbia, orgoglio, genio. Gli inglesi non lo possono fermare, non hanno quella cattiveria ideologica per intervenire duramente sulle gambe di Maradona. Diego va: corre verso l&rsquo;infinito, incontrastato in direzione dell&rsquo;area di rigore avversaria. Salta tutta l&rsquo;Inghilterra, compresa la Thatcher, Primo ministro del Regno Unito che pochi anni prima aveva intrapreso la guerra alle Malvinas, nella quale pi&ugrave; di 600 argentini persero la vita per difendere un paio di rocce vicino all&rsquo;Antartide. Maradona ha appena segnato il gol del secolo. Per descriverlo non servono tante parole, basta una frase, pronunciata da Victor Hugo Morales, il telecronista di quella partita: &laquo;De qu&eacute; planeta viniste, barrilete cosmico!&raquo;.

        22 giugno 1986: appuntamento con la storia. Quarti di finale della Coppa del Mondo. Lo Stadio Azteca brilla: la luce del sole &egrave; accecante, ma s&rsquo;incentra su un singolo giocatore, quello con la maglia numero dieci dell&rsquo;Argentina.&nbsp;L&rsquo;Albiceleste non &egrave; una squadra da titolo, ma in campo ha Diego Armando Maradona. Basta lui per mettere in ginocchio l&rsquo;Inghilterra.&nbsp;Due gol per la leggenda: il primo &egrave; un&rsquo;astuzia, un pugno teso verso il cielo che anticipa l&rsquo;uscita di Shilton, che schiaffeggia il regolamento del calcio e che penetra dritto dritto nello stomaco dei gentlemen inglesi, i quali rimangono attoniti davanti all&rsquo;esultanza di Diego. Maradona non ha finito: Enrique serve &ldquo;l'assist del secolo&rdquo;, un passaggio di cinque metri al Dies che riceve il pallone a 70 metri dalla porta. Parte. Nessuno lo pu&ograve; fermare. Dentro quel gol c&rsquo;&egrave; tutto: classe sopraffina, corsa, rabbia, orgoglio, genio. Gli inglesi non lo possono fermare, non hanno quella cattiveria ideologica per intervenire duramente sulle gambe di Maradona. Diego va: corre verso l&rsquo;infinito, incontrastato in direzione dell&rsquo;area di rigore avversaria. Salta tutta l&rsquo;Inghilterra, compresa la Thatcher, Primo ministro del Regno Unito che pochi anni prima aveva intrapreso la guerra alle Malvinas, nella quale pi&ugrave; di 600 argentini persero la vita per difendere un paio di rocce vicino all&rsquo;Antartide. Maradona ha appena segnato il gol del secolo. Per descriverlo non servono tante parole, basta una frase, pronunciata da Victor Hugo Morales, il telecronista di quella partita: &laquo;De qu&eacute; planeta viniste, barrilete cosmico!&raquo;.       

Il 22 giugno 1986 El Pibe de Oro si carica sulle spalle tutta l'Argentina e annichilisce l'Inghilterra con due reti iconiche, entrate, in modo diverso, nella storia del calcio

Maradona vs Inghilterra, due gol per la leggenda

Cinquantasei anni dopo, l&rsquo;Italia torna a ospitare un campionato Mondiale di calcio. La prima e unica occasione in cui la Coppa del Mondo si era disputata nel nostro Paese risale al 1934, edizione che vide il primo storico trionfo degli azzurri guidati da Vittorio Pozzo. L&rsquo;8 giugno 1990, invece, prende il via il Mondiale delle Notti Magiche. <h2>La lunga vigilia di Italia &lsquo;90</h2> <h2>&nbsp;</h2> Ai nastri di partenza la nostra Nazionale non pu&ograve; non essere inserita tra le favorite. Oltre al grande vantaggio di giocare in casa, il nostro movimento calcistico domina l&rsquo;Europa: il Milan di Sacchi ha vinto la seconda Coppa dei Campioni consecutiva; la Juventus di Zoff si &egrave; aggiudicata la Coppa Uefa al termine di una finale tutta italiana contro la Fiorentina; la Sampdoria di Boskov ha appena trionfato in Coppa delle Coppe, vincendo il suo primo (e unico) trofeo internazionale. Spetta per&ograve; all&rsquo;Argentina campione in carica l&rsquo;onore di scendere in campo per prima. La Selecci&ograve;n dovrebbe giocare il suo girone tra il San Paolo di Napoli e il San Nicola di Bari, ma debutta a San Siro, stadio designato per la cerimonia d&rsquo;apertura. La squadra di Bilardo affronta il Camerun, schierando nell&rsquo;undici titolare ben due giocatori dell&rsquo;Udinese, Balbo e Sensini, e ovviamente Diego Armando Maradona: molti dei 73.780 spettatori presenti sono accorsi a Milano proprio per vedere le magie del Pibe, intento a trascinare l&rsquo;Argentina verso un altro trionfo Mondiale. <h2>Argentina-Camerun 1990: primo tempo</h2> &nbsp; Il fischietto francese Michel Vautrot, che i tifosi italiani ricordano per la direzione della semifinale di Coppa dei Campioni tra Roma e Dundee nel 1984, d&agrave; il via al Mondiale italiano. L&rsquo;Argentina si rende subito pericolosa con un paio di affondi che non vanno a buon fine. Al 21&rsquo; i Leoni Indomabili sfiorano il vantaggio: un traversone basso mette in difficolt&agrave; Basualdo, il centrocampista pasticcia mettendo fuori causa il portiere Pumpido con un tocco maldestro; quando la sfera sta per terminare in rete, Nestor Fabbri la butta miracolosamente in calcio d&rsquo;angolo. Sugli sviluppi del corner l&rsquo;Albiceleste riparte, la pelota arriva al Diez, che pur mancando lo stop riesce a liberarsi del diretto marcatore e lanciare in profondit&agrave; un pallone a mezzaria. In questo preciso istante arriva come un treno Victor N&rsquo;Dip, che colpisce Diego con un calcio Kamikaze in pieno petto. L&rsquo;argentino cade a terra, ma Vautrot, incredibilmente, estrae solo il cartellino giallo. La partita si incattivisce e il primo tempo regala solo un&rsquo;ultima chance agli africani, con la conclusione di Biyik respinta dai guantoni di Pumpido. <h2>La sorpresa arriva nel secondo tempo</h2> &nbsp; Bilardo prepara l&rsquo;assalto e a inizio ripresa manda in campo un attaccante, Caniggia, al posto di un difensore, Ruggeri. La mossa del selezionatore porta i suoi frutti al minuto 61, quando un&rsquo;accelerazione del Figlio del Vento provoca l&rsquo;espulsione diretta di Kana-Biyik. Il rosso sembra eccessivo, ma forse negli spogliatoi a Vautrot &egrave; stato segnalato l&rsquo;errore commesso nell&rsquo;episodio del calcio a Maradona. Il Camerun resta in 10 e la partita potrebbe prendere una strada ben delineata. Invece, come spesso accade nel calcio, succede il contrario. Al 67&rsquo;, sugli sviluppi di un calcio di punizione, la sfera s&rsquo;impenna. Fran&ccedil;ois Omam-Biyik salta e la impatta in cielo: il tentativo di opposizione del portiere Pumpido &egrave; a dir poco maldestro e, di fatto, accompagna la sfera in rete. Tra lo stupore di tutto il mondo, il Camerun &egrave; in vantaggio sull&rsquo;Argentina. La Selecci&ograve;n spreca una buona opportunit&agrave; con Balbo, che cicca di testa sul traversone dello scatenato Caniggia. Il numero 8 &egrave; l&rsquo;ultimo ostacolo che si frappone tra i Leoni Indomabili e un successo storico. &Egrave; ancora lui, dopo aver saltato tre avversari con un&rsquo;incredibile accelerazione, a provocare la seconda espulsione di giornata. Questa volta l&rsquo;intervento di Massing &egrave; duro e fuori tempo: il secondo giallo &egrave; sacrosanto. Nonostante la doppia inferiorit&agrave; numerica, il muro africano regge fino al triplice fischio. Il Mondiale delle Notti Magiche inizia con la sorpresa. &nbsp;

        Cinquantasei anni dopo, l&rsquo;Italia torna a ospitare un campionato Mondiale di calcio. La prima e unica occasione in cui la Coppa del Mondo si era disputata nel nostro Paese risale al 1934, edizione che vide il primo storico trionfo degli azzurri guidati da Vittorio Pozzo. L&rsquo;8 giugno 1990, invece, prende il via il Mondiale delle Notti Magiche. La lunga vigilia di Italia &lsquo;90 &nbsp; Ai nastri di partenza la nostra Nazionale non pu&ograve; non essere inserita tra le favorite. Oltre al grande vantaggio di giocare in casa, il nostro movimento calcistico domina l&rsquo;Europa: il Milan di Sacchi ha vinto la seconda Coppa dei Campioni consecutiva; la Juventus di Zoff si &egrave; aggiudicata la Coppa Uefa al termine di una finale tutta italiana contro la Fiorentina; la Sampdoria di Boskov ha appena trionfato in Coppa delle Coppe, vincendo il suo primo (e unico) trofeo internazionale. Spetta per&ograve; all&rsquo;Argentina campione in carica l&rsquo;onore di scendere in campo per prima. La Selecci&ograve;n dovrebbe giocare il suo girone tra il San Paolo di Napoli e il San Nicola di Bari, ma debutta a San Siro, stadio designato per la cerimonia d&rsquo;apertura. La squadra di Bilardo affronta il Camerun, schierando nell&rsquo;undici titolare ben due giocatori dell&rsquo;Udinese, Balbo e Sensini, e ovviamente Diego Armando Maradona: molti dei 73.780 spettatori presenti sono accorsi a Milano proprio per vedere le magie del Pibe, intento a trascinare l&rsquo;Argentina verso un altro trionfo Mondiale. Argentina-Camerun 1990: primo tempo &nbsp; Il fischietto francese Michel Vautrot, che i tifosi italiani ricordano per la direzione della semifinale di Coppa dei Campioni tra Roma e Dundee nel 1984, d&agrave; il via al Mondiale italiano. L&rsquo;Argentina si rende subito pericolosa con un paio di affondi che non vanno a buon fine. Al 21&rsquo; i Leoni Indomabili sfiorano il vantaggio: un traversone basso mette in difficolt&agrave; Basualdo, il centrocampista pasticcia mettendo fuori causa il portiere Pumpido con un tocco maldestro; quando la sfera sta per terminare in rete, Nestor Fabbri la butta miracolosamente in calcio d&rsquo;angolo. Sugli sviluppi del corner l&rsquo;Albiceleste riparte, la pelota arriva al Diez, che pur mancando lo stop riesce a liberarsi del diretto marcatore e lanciare in profondit&agrave; un pallone a mezzaria. In questo preciso istante arriva come un treno Victor N&rsquo;Dip, che colpisce Diego con un calcio Kamikaze in pieno petto. L&rsquo;argentino cade a terra, ma Vautrot, incredibilmente, estrae solo il cartellino giallo. La partita si incattivisce e il primo tempo regala solo un&rsquo;ultima chance agli africani, con la conclusione di Biyik respinta dai guantoni di Pumpido. La sorpresa arriva nel secondo tempo &nbsp; Bilardo prepara l&rsquo;assalto e a inizio ripresa manda in campo un attaccante, Caniggia, al posto di un difensore, Ruggeri. La mossa del selezionatore porta i suoi frutti al minuto 61, quando un&rsquo;accelerazione del Figlio del Vento provoca l&rsquo;espulsione diretta di Kana-Biyik. Il rosso sembra eccessivo, ma forse negli spogliatoi a Vautrot &egrave; stato segnalato l&rsquo;errore commesso nell&rsquo;episodio del calcio a Maradona. Il Camerun resta in 10 e la partita potrebbe prendere una strada ben delineata. Invece, come spesso accade nel calcio, succede il contrario. Al 67&rsquo;, sugli sviluppi di un calcio di punizione, la sfera s&rsquo;impenna. Fran&ccedil;ois Omam-Biyik salta e la impatta in cielo: il tentativo di opposizione del portiere Pumpido &egrave; a dir poco maldestro e, di fatto, accompagna la sfera in rete. Tra lo stupore di tutto il mondo, il Camerun &egrave; in vantaggio sull&rsquo;Argentina. La Selecci&ograve;n spreca una buona opportunit&agrave; con Balbo, che cicca di testa sul traversone dello scatenato Caniggia. Il numero 8 &egrave; l&rsquo;ultimo ostacolo che si frappone tra i Leoni Indomabili e un successo storico. &Egrave; ancora lui, dopo aver saltato tre avversari con un&rsquo;incredibile accelerazione, a provocare la seconda espulsione di giornata. Questa volta l&rsquo;intervento di Massing &egrave; duro e fuori tempo: il secondo giallo &egrave; sacrosanto. Nonostante la doppia inferiorit&agrave; numerica, il muro africano regge fino al triplice fischio. Il Mondiale delle Notti Magiche inizia con la sorpresa.  &nbsp;       

Nella gara inaugurale delle Notti Magiche, l'Albiceleste di Maradona perse 1-0 contro gli africani decimati dai cartellini rossi

Argentina-Camerun: il Mondiale di Italia '90 inizia con la sorpresa

Roma, 10 giugno 1934, Stadio del Partito Nazionale Fascista: &egrave; da questa data che &egrave; bello cominciare a raccontare la figura di Angelo Schiavio, miglior marcatore di tutti i tempi nella storia del Bologna, gloriosa figura non solo dei rossobl&ugrave;, unica squadra di cui vest&igrave; i colori nella nostra massima divisione, ma anche della nazionale italiana, di cui faceva parte ai Mondiali del 1934. Edizione importante non solo perch&eacute; era la prima alla quale partecipavano gli Azzurri, ma anche perch&eacute;, essendo l&rsquo;Italia il paese organizzatore, portava con s&eacute; l&rsquo;interesse politico del governo di Mussolini ad arrivare alla vittoria per fini propagandistici.&nbsp; <h2>Ai Mondiali del '34</h2> In uno stadio pieno di spettatori che sono arrivati a spendere sessanta lire per varcare gli ingressi, arroventato da un clima gi&agrave; oltremodo estivo, Italia e Cecoslovacchia scendono in campo per contendersi la coppa. Lo stato maggiore del nostro governo &egrave; allineato in tribuna, dove il Duce siede proprio accanto al presidente della FIFA. Partita alla quale la nostra nazionale non arriva favorita, incrinata da un gol di Puc che a poco pi&ugrave; di un quarto d&rsquo;ora dalla fine allontana l&rsquo;Italia dal suo obiettivo, rimesso a fuoco solo dal pareggio di Orsi arrivato all&rsquo;81&rsquo;. Servono i tempi supplementari per decretare la vincitrice; serve il carattere indomito di Angelino Schiavio a mettere alle spalle del monumento Planicka il gol che ci consente di agguantare la nostra prima coppa del mondo, nonostante la fatica che lo fa stramazzare esausto al suolo, che si confonde con la gioia e l&rsquo;emozione condivisa con compagni e tifosi, ormai fusi e confusi dalla felicit&agrave; che si irradia sul campo al pari del caldo obnubilante. &Egrave; l&rsquo;ultimo gol del Mondiale, l&rsquo;ultimo di Schiavio con la maglia azzurra, indossata anch&rsquo;essa per l&rsquo;ultima volta in quell&rsquo;occasione. Angelo ha 29 anni e raggiunge il momento apicale di una carriera cominciata poco pi&ugrave; di dieci anni prima in Promozione nelle file della Fortitudo Bologna. Gli rimangono ancora quattro stagioni da giocare, di cui le ultime due, a guardare presente e reti del suo personale tabellino, vissute da comparsa.&nbsp; <h2>Eroe al Bologna</h2> &nbsp;Ma fa ancora in tempo a vincere da protagonista il primo scudetto che interrompe la cinquina di affermazioni della Juventus degli anni Trenta. Sono 9 le sue marcature in quell&rsquo;annata 1935-36, &egrave; ancora lui il centravanti di quel Bologna &ldquo;che tremare il mondo fa&rdquo;. Ma torniamo indietro, alla prima esperienza con la Fortitudo. Basta il tempo di una stagione per farsi notare dal Bologna Football Club, col quale esordisce nella prima gara ufficiale il 28 gennaio 1923. &Egrave; un vero e proprio debutto in societ&agrave;: avversaria la Juventus, schiantata 4-1 pur senza segnare. Angelo non ha ancora compiuto diciott&rsquo;anni, un&rsquo;et&agrave; alla quale ha rischiato di non arrivare: a sei mesi, infatti, la sua vita era in pericolo per un enfisema polmonare, curato dal professor Bartolo Nigrisoli con un intervento alla schiena effettuato senza anestesia che gli provocher&agrave; un dolore al quale sar&agrave; riconoscente per il resto della sua lunga vita.&nbsp; <h2>In campo&nbsp;</h2> &Egrave; l&rsquo;ultimo di otto fratelli, l&rsquo;unico nato a Bologna da una famiglia di commercianti lombardi poi trasferitisi nel capoluogo emiliano, l&rsquo;unico a dedicarsi con passione all&rsquo;inseguimento del pallone. E quindi va bene il calcio, ma solo dopo l&rsquo;attivit&agrave; di famiglia: nei primi anni giovanili Angelo, con la squadra, si allena esclusivamente un giorno a settimana, il gioved&igrave;. Gli altri deve farlo da solo: alla mattina, prima di andare a lavorare, corre. La sera, finito con l&rsquo;attivit&agrave; di famiglia, termina la giornata in palestra. Forse &egrave; anche per questo che, pur non essendo un colosso, trover&agrave; nella reattivit&agrave; fisica un punto di forza del suo modo di giocare che, nella narrazione tramandata dai suoi contemporanei, lo fa apparire addirittura un antesignano di Cristiano Ronaldo. Chi lo vide scendere in campo, infatti, lo raccontava di palleggio sicuro, dotato di un incedere di corsa leggermente oscillante che, in velocit&agrave;, lo rendeva difficilmente contenibile dai difensori opponenti. Oltretutto aveva uno scatto pronto in grado di costruire movimenti potenti e veloci che lo portavano a tiri simili a fucilate, spesso a coronamento di azioni impostate su dribbling ben riusciti. Insomma, un attaccante a tutto tondo che non aveva paura a fronteggiare anche le battaglie pi&ugrave; rudi nelle arene di campi ancora imperfetti.&nbsp; <h2>La rivalit&agrave; con Monti&nbsp;</h2> &Egrave; passata alla storia la sua feroce rivalit&agrave; con Luisito Monti, soprannominato in Argentina &ldquo;El doble ancho&rdquo; (&ldquo;Armadio a due ante&rdquo;) per la sua ruvida forza fisica, fatta di scontri senza esclusione di colpi, che cominci&ograve; il giorno di ferragosto del 1929, quando il Bologna era in tourn&eacute;e in Sudamerica e Monti sottopose alle sue cure il frizzante Angelo. Ancor pi&ugrave; rusticano il duello che vide i due protagonisti nel corso di Juventus-Bologna del 1&deg; maggio 1932, quando El doble ancho rifil&ograve; una zampata sul ginocchio a uno Schiavio gi&agrave; a terra. Episodi che portarono i due a coltivare una reciproca acredine che solo la saggezza e la capacit&agrave; di mediazione di Vittorio Pozzo riusc&igrave; in qualche modo a ricomporre al fine di avere a disposizione entrambi in quel Mondiale del 1934. <h2>Amore in rossobl&ugrave;</h2> Angelo era fatto cos&igrave;, era generoso per natura: per il Bologna gioc&ograve; quasi sempre senza percepire alcun ingaggio (al netto delle ultime stagioni, quando ottenne qualche premio e gli venne data una Lancia); fuori dal campo era impossibile riuscire a pagargli il conto al ristorante. Del resto ebbe modo di dichiararlo lui stesso: pur di giocare nel Bologna avrebbe pagato di tasca sua. Un&rsquo;affermazione che anni dopo spinse un altro monumento della storia rossobl&ugrave; ad omaggiarlo: &ldquo;A uno cos&igrave; non gli portavo neanche le scarpe&rdquo;, ebbe a dire di lui Giacomo Bulgarelli. Forse il riconoscimento pi&ugrave; alto alla figura di Angelo Schiavio dopo la vittoria della coppa del mondo del 1934.

        Roma, 10 giugno 1934, Stadio del Partito Nazionale Fascista: &egrave; da questa data che &egrave; bello cominciare a raccontare la figura di Angelo Schiavio, miglior marcatore di tutti i tempi nella storia del Bologna, gloriosa figura non solo dei rossobl&ugrave;, unica squadra di cui vest&igrave; i colori nella nostra massima divisione, ma anche della nazionale italiana, di cui faceva parte ai Mondiali del 1934. Edizione importante non solo perch&eacute; era la prima alla quale partecipavano gli Azzurri, ma anche perch&eacute;, essendo l&rsquo;Italia il paese organizzatore, portava con s&eacute; l&rsquo;interesse politico del governo di Mussolini ad arrivare alla vittoria per fini propagandistici.&nbsp; Ai Mondiali del '34 In uno stadio pieno di spettatori che sono arrivati a spendere sessanta lire per varcare gli ingressi, arroventato da un clima gi&agrave; oltremodo estivo, Italia e Cecoslovacchia scendono in campo per contendersi la coppa. Lo stato maggiore del nostro governo &egrave; allineato in tribuna, dove il Duce siede proprio accanto al presidente della FIFA. Partita alla quale la nostra nazionale non arriva favorita, incrinata da un gol di Puc che a poco pi&ugrave; di un quarto d&rsquo;ora dalla fine allontana l&rsquo;Italia dal suo obiettivo, rimesso a fuoco solo dal pareggio di Orsi arrivato all&rsquo;81&rsquo;. Servono i tempi supplementari per decretare la vincitrice; serve il carattere indomito di Angelino Schiavio a mettere alle spalle del monumento Planicka il gol che ci consente di agguantare la nostra prima coppa del mondo, nonostante la fatica che lo fa stramazzare esausto al suolo, che si confonde con la gioia e l&rsquo;emozione condivisa con compagni e tifosi, ormai fusi e confusi dalla felicit&agrave; che si irradia sul campo al pari del caldo obnubilante. &Egrave; l&rsquo;ultimo gol del Mondiale, l&rsquo;ultimo di Schiavio con la maglia azzurra, indossata anch&rsquo;essa per l&rsquo;ultima volta in quell&rsquo;occasione. Angelo ha 29 anni e raggiunge il momento apicale di una carriera cominciata poco pi&ugrave; di dieci anni prima in Promozione nelle file della Fortitudo Bologna. Gli rimangono ancora quattro stagioni da giocare, di cui le ultime due, a guardare presente e reti del suo personale tabellino, vissute da comparsa.&nbsp; Eroe al Bologna &nbsp;Ma fa ancora in tempo a vincere da protagonista il primo scudetto che interrompe la cinquina di affermazioni della Juventus degli anni Trenta. Sono 9 le sue marcature in quell&rsquo;annata 1935-36, &egrave; ancora lui il centravanti di quel Bologna &ldquo;che tremare il mondo fa&rdquo;. Ma torniamo indietro, alla prima esperienza con la Fortitudo. Basta il tempo di una stagione per farsi notare dal Bologna Football Club, col quale esordisce nella prima gara ufficiale il 28 gennaio 1923. &Egrave; un vero e proprio debutto in societ&agrave;: avversaria la Juventus, schiantata 4-1 pur senza segnare. Angelo non ha ancora compiuto diciott&rsquo;anni, un&rsquo;et&agrave; alla quale ha rischiato di non arrivare: a sei mesi, infatti, la sua vita era in pericolo per un enfisema polmonare, curato dal professor Bartolo Nigrisoli con un intervento alla schiena effettuato senza anestesia che gli provocher&agrave; un dolore al quale sar&agrave; riconoscente per il resto della sua lunga vita.&nbsp; In campo&nbsp; &Egrave; l&rsquo;ultimo di otto fratelli, l&rsquo;unico nato a Bologna da una famiglia di commercianti lombardi poi trasferitisi nel capoluogo emiliano, l&rsquo;unico a dedicarsi con passione all&rsquo;inseguimento del pallone. E quindi va bene il calcio, ma solo dopo l&rsquo;attivit&agrave; di famiglia: nei primi anni giovanili Angelo, con la squadra, si allena esclusivamente un giorno a settimana, il gioved&igrave;. Gli altri deve farlo da solo: alla mattina, prima di andare a lavorare, corre. La sera, finito con l&rsquo;attivit&agrave; di famiglia, termina la giornata in palestra. Forse &egrave; anche per questo che, pur non essendo un colosso, trover&agrave; nella reattivit&agrave; fisica un punto di forza del suo modo di giocare che, nella narrazione tramandata dai suoi contemporanei, lo fa apparire addirittura un antesignano di Cristiano Ronaldo. Chi lo vide scendere in campo, infatti, lo raccontava di palleggio sicuro, dotato di un incedere di corsa leggermente oscillante che, in velocit&agrave;, lo rendeva difficilmente contenibile dai difensori opponenti. Oltretutto aveva uno scatto pronto in grado di costruire movimenti potenti e veloci che lo portavano a tiri simili a fucilate, spesso a coronamento di azioni impostate su dribbling ben riusciti. Insomma, un attaccante a tutto tondo che non aveva paura a fronteggiare anche le battaglie pi&ugrave; rudi nelle arene di campi ancora imperfetti.&nbsp; La rivalit&agrave; con Monti&nbsp; &Egrave; passata alla storia la sua feroce rivalit&agrave; con Luisito Monti, soprannominato in Argentina &ldquo;El doble ancho&rdquo; (&ldquo;Armadio a due ante&rdquo;) per la sua ruvida forza fisica, fatta di scontri senza esclusione di colpi, che cominci&ograve; il giorno di ferragosto del 1929, quando il Bologna era in tourn&eacute;e in Sudamerica e Monti sottopose alle sue cure il frizzante Angelo. Ancor pi&ugrave; rusticano il duello che vide i due protagonisti nel corso di Juventus-Bologna del 1&deg; maggio 1932, quando El doble ancho rifil&ograve; una zampata sul ginocchio a uno Schiavio gi&agrave; a terra. Episodi che portarono i due a coltivare una reciproca acredine che solo la saggezza e la capacit&agrave; di mediazione di Vittorio Pozzo riusc&igrave; in qualche modo a ricomporre al fine di avere a disposizione entrambi in quel Mondiale del 1934. Amore in rossobl&ugrave; Angelo era fatto cos&igrave;, era generoso per natura: per il Bologna gioc&ograve; quasi sempre senza percepire alcun ingaggio (al netto delle ultime stagioni, quando ottenne qualche premio e gli venne data una Lancia); fuori dal campo era impossibile riuscire a pagargli il conto al ristorante. Del resto ebbe modo di dichiararlo lui stesso: pur di giocare nel Bologna avrebbe pagato di tasca sua. Un&rsquo;affermazione che anni dopo spinse un altro monumento della storia rossobl&ugrave; ad omaggiarlo: &ldquo;A uno cos&igrave; non gli portavo neanche le scarpe&rdquo;, ebbe a dire di lui Giacomo Bulgarelli. Forse il riconoscimento pi&ugrave; alto alla figura di Angelo Schiavio dopo la vittoria della coppa del mondo del 1934.       

Miglior marcatore di tutti i tempi nella storia rossobl&ugrave;, con cui vinse quattro scudetti, centravanti della formazione che "tremare il mondo fa", il suo gol alla Cecoslovacchia permise agli Azzurri di Vittorio Pozzo di laurearsi campioni del mondo nel 1934

Angelo Schiavio: dal Bologna al tetto Mondiale

La Svezia pu&ograve; fare a meno di Zlatan Ibrahimovic al Mondiale? Domanda nata dopo l&rsquo;incredibile, con il senno sia di prima sia di poi, qualificazione ottenuta nel playoff contro l&rsquo;Italia e rilanciata dalle iniziative di marketing del trentasettenne trasversalissimo (senza maglia e senza bandiera, come i veri eroi) campione, l&rsquo;ultima delle quali ha riguardato un bookmaker che gli ha ispirato un gioco di parole circa la sua presenza in Russia. Una frase (&ldquo;Le possibilit&agrave; che io giochi al Mondiale sono tendenti al cielo&rdquo;) volutamente ambigua, visto che pu&ograve; essere letta come grandi probabilit&agrave; di esserci ma anche come grande quota per la sua convocazione e quindi bassa probabilit&agrave;. Ma al di l&agrave; di questi giochetti, che comunque per Ibra e Raiola fanno girare il tassametro e non di poco, rimangono i discorsi umani e calcistici. Quelli del primo tipo riguardano l&rsquo;orgoglio: dopo il ritiro post Euro 2016 ad Ibrahimovic, che considerava con ragione la Svezia una nazionale di serie B e con poche chance di qualificazione in un girone dove c&rsquo;erano Francia e Olanda, &egrave; tornata la voglia del pi&ugrave; grande palcoscenico del pianeta per chiudere in bellezza la sua carriera internazionale e poi tirare avanti fino a quando pu&ograve; nei Galaxy, magari poi in Cina. Il punto &egrave; che ritiene che, per il suo status e per quello che ha fatto per la nazionale svedese in passato (62 gol in 116 partite, due ottavi di finale mondiali nel 2002 e nel 2006), ritiene che la sua presenza debba essere richiesta. Il commissario svedese Janne Andersson, consapevole del potere mediatico di Ibra, astutamente non gli ha mai chiuso le porte ma ritiene che debba essere il giocatore a fare il primo passo. Insomma, non vediamo ostacoli insormontabili.&nbsp; Poi c&rsquo;&egrave; l&rsquo;aspetto sportivo, perch&eacute; sembra che stiamo parlando dell&rsquo;Ibra di sempre quando invece l&rsquo;Ibra di sempre non si &egrave; ancora ripreso dall&rsquo;infortunio al legamento crociato che di fatto ha chiuso la sua storia con il Manchester United. Le poche partite giocate quest&rsquo;anno in Premier League (da ricordare in particolare il derby di andata con il City) sono state penose prima di bloccarsi di nuovo e di sbarcare nella MLS dove finora ha segnato tre gol in tre partite che abbiamo visto tutti (i gol, non le partite per cui servono stomaci forti) ma che di per se non dicono se l&rsquo;Ibra attuale sia almeno un parente dell&rsquo;Ibra di una volta. A suo favore gioca la qualit&agrave; delle punte della nazionale di Andersson, nei 180 minuti con l&rsquo;Italia di Ventura capaci di mezzo tiro in porta in totale. Toivonen e Berg hanno cinque anni meno di Ibra ma sembrano pi&ugrave; ex di lui, mentre il pi&ugrave; giovane ma molto pi&ugrave; grezzo Guidetti &egrave; solo da qualche settimana che &egrave; tornato titolare nell&rsquo;Alaves. Interessante la stagione di Thelin nel Beveren, il meno peggio fra tutti questi attaccanti fisicati sembra proprio lui. Tornando alla scommessa, Ibra convocato al Mondiale sarebbe da giocare.&nbsp;

La Svezia pu&ograve; fare a meno di Zlatan Ibrahimovic al Mondiale? Domanda nata dopo l&rsquo;incredibile, con il senno sia di prima sia di poi, qualificazione ottenuta nel playoff contro l&rsquo;Italia e rilanciata dalle iniziative di marketing del trentasettenne trasversalissimo (senza maglia e senza bandiera, come i veri eroi) campione, l&rsquo;ultima delle quali ha riguardato un bookmaker che gli ha ispirato un gioco di parole circa la sua presenza in Russia. Una frase (&ldquo;Le possibilit&agrave; che io giochi al Mondiale sono tendenti al cielo&rdquo;) volutamente ambigua, visto che pu&ograve; essere letta come grandi probabilit&agrave; di esserci ma anche come grande quota per la sua convocazione e quindi bassa probabilit&agrave;. Ma al di l&agrave; di questi giochetti, che comunque per Ibra e Raiola fanno girare il tassametro e non di poco, rimangono i discorsi umani e calcistici.  Quelli del primo tipo riguardano l&rsquo;orgoglio: dopo il ritiro post Euro 2016 ad Ibrahimovic, che considerava con ragione la Svezia una nazionale di serie B e con poche chance di qualificazione in un girone dove c&rsquo;erano Francia e Olanda, &egrave; tornata la voglia del pi&ugrave; grande palcoscenico del pianeta per chiudere in bellezza la sua carriera internazionale e poi tirare avanti fino a quando pu&ograve; nei Galaxy, magari poi in Cina. Il punto &egrave; che ritiene che, per il suo status e per quello che ha fatto per la nazionale svedese in passato (62 gol in 116 partite, due ottavi di finale mondiali nel 2002 e nel 2006), ritiene che la sua presenza debba essere richiesta. Il commissario svedese Janne Andersson, consapevole del potere mediatico di Ibra, astutamente non gli ha mai chiuso le porte ma ritiene che debba essere il giocatore a fare il primo passo. Insomma, non vediamo ostacoli insormontabili.&nbsp;  Poi c&rsquo;&egrave; l&rsquo;aspetto sportivo, perch&eacute; sembra che stiamo parlando dell&rsquo;Ibra di sempre quando invece l&rsquo;Ibra di sempre non si &egrave; ancora ripreso dall&rsquo;infortunio al legamento crociato che di fatto ha chiuso la sua storia con il Manchester United. Le poche partite giocate quest&rsquo;anno in Premier League (da ricordare in particolare il derby di andata con il City) sono state penose prima di bloccarsi di nuovo e di sbarcare nella MLS dove finora ha segnato tre gol in tre partite che abbiamo visto tutti (i gol, non le partite per cui servono stomaci forti) ma che di per se non dicono se l&rsquo;Ibra attuale sia almeno un parente dell&rsquo;Ibra di una volta. A suo favore gioca la qualit&agrave; delle punte della nazionale di Andersson, nei 180 minuti con l&rsquo;Italia di Ventura capaci di mezzo tiro in porta in totale. Toivonen e Berg hanno cinque anni meno di Ibra ma sembrano pi&ugrave; ex di lui, mentre il pi&ugrave; giovane ma molto pi&ugrave; grezzo Guidetti &egrave; solo da qualche settimana che &egrave; tornato titolare nell&rsquo;Alaves. Interessante la stagione di Thelin nel Beveren, il meno peggio fra tutti questi attaccanti fisicati sembra proprio lui. Tornando alla scommessa, Ibra convocato al Mondiale sarebbe da giocare.&nbsp; 

Fra tweet e marketing, la marcia di avvicinamento del campione svedese a Russia 2018 &egrave; iniziata. Il problema &egrave; che sia lui sia il c.t. Andersson pretendono che sia l&#39;altro a fare il primo passo...

Scommettere su Ibrahimovic

In Nuova Zelanda il calcio non &egrave; certo lo sport nazionale, veniva e viene senza dubbio dietro a rugby (union ma anche league), vela e cricket. Questo non toglie che tutti gli sportivi neozelandesi considerino il 10 gennaio 1982 una data fondamentale nella storia del paese. Quel giorno gli All Whites conquistarono infatti la loro prima qualificazione a un Mondiale battendo la Cina in un drammatico spareggio, disputato in partita unica a Singapore e vinto 2-1, gol di Wooddin e Rufer. Diciamo drammatico non per caricare di enfasi una qualificazione che era ed &egrave; comunque importante per tutti, ma perch&eacute; di fatto la squadra allenata da John Adshead gioc&ograve; in trasferta in uno stadio quasi totalmente cinese e contro una FIFA (ci sono le immagini) che avrebbe evidentemente gradito un grande paese come la Cina entrare nel primo Mondiale a 24 squadre dopo l&rsquo;allargamento deciso da Havelange. Invece la ventiquattresima qualificata per Spagna &#39;82 (il sorteggio dei gironi sarebbe avvenuto una settimana dopo) fu la Nuova Zelanda. La Nuova Zelanda era arrivata a quello spareggio superando un primo girone dove c&rsquo;era anche l&rsquo;Australia e un secondo dove c&rsquo;erano il Kuwait di Carlos Alberto Parreira, che si sarebbe qualificato come primo, Cina e Arabia Saudita. Seconda a pari punti e con la stessa differenza reti della Cina, lanciando un giovanissimo Wynton Rufer, che negli anni Ottanta avrebbe giocato in Svizzera prima di fare ottime cose al Werder Brema. In Spagna gli All Whites si sarebbero poi comportati con grande dignit&agrave;, nonostante l&rsquo;infortunio di Grant Turner, all&rsquo;epoca insieme a Sumner e a Wooddin la loro stella, prima dell&#39;esplosione di Rufer. Sotto di tre gol dopo mezz&rsquo;ora, alla Rosaleda di Malaga sfiorarono una clamorosa rimonta contro la Scozia di Dalglish e Souness, allenata da Jock Stein, perdendo poi 5-2. Sempre a Malaga fecero soffrire l&rsquo;Unione Sovietica di Dasaev e Blokhin nel primo tempo e poi persero 3-0. Infine al Villamarin di Siviglia quasi non toccarono palla nel 4-0 in favore del Brasile forse pi&ugrave; brasiliano, ma evidentemente non pi&ugrave; forte, di sempre: fu la festa del quadrato magico Falc&atilde;o-Cerezo-Socrates-Zico, che Tel&eacute; Santana aveva introdotto la partita prima, contro la Scozia. Pur con i suoi limiti tecnici la Nuova Zelanda sembr&ograve; una delle squadre fisicamente meglio messe fra le 24 del Mondiale, merito forse anche dei metodi di Adshead che nel ritiro di Marbella aveva imposto allenamenti all&rsquo;alba e ritirata serale ad ore da convento, ben conoscendo lo spirito semidilettantistico dei suoi. Quasi tutti con esperienze calcistiche limitate alla Nuova Zelanda o al massimo all&rsquo;Australia, con qualche provino in squadre inglesi ma poco di pi&ugrave;. Rufer a parte, di tutt&rsquo;altro livello medio era la squadra del Mondiale 2010, quella che pareggi&ograve; contro la disastrosa seconda Italia di Lippi, allenata da quel Ricki Herbert che nel 1982 era stato protagonista in campo come difensore. Una squadra che non ha fatto diventare il calcio sport nazionale, ma che rimarr&agrave; per sempre. &nbsp;

In Nuova Zelanda il calcio non &egrave; certo lo sport nazionale, veniva e viene senza dubbio dietro a rugby (union ma anche league), vela e cricket. Questo non toglie che tutti gli sportivi neozelandesi considerino il 10 gennaio 1982 una data fondamentale nella storia del paese. Quel giorno gli All Whites conquistarono infatti la loro prima qualificazione a un Mondiale battendo la Cina in un drammatico spareggio, disputato in partita unica a Singapore e vinto 2-1, gol di Wooddin e Rufer. Diciamo drammatico non per caricare di enfasi una qualificazione che era ed &egrave; comunque importante per tutti, ma perch&eacute; di fatto la squadra allenata da John Adshead gioc&ograve; in trasferta in uno stadio quasi totalmente cinese e contro una FIFA (ci sono le immagini) che avrebbe evidentemente gradito un grande paese come la Cina entrare nel primo Mondiale a 24 squadre dopo l&rsquo;allargamento deciso da Havelange. Invece la ventiquattresima qualificata per Spagna &#39;82 (il sorteggio dei gironi sarebbe avvenuto una settimana dopo) fu la Nuova Zelanda.  La Nuova Zelanda era arrivata a quello spareggio superando un primo girone dove c&rsquo;era anche l&rsquo;Australia e un secondo dove c&rsquo;erano il Kuwait di Carlos Alberto Parreira, che si sarebbe qualificato come primo, Cina e Arabia Saudita. Seconda a pari punti e con la stessa differenza reti della Cina, lanciando un giovanissimo Wynton Rufer, che negli anni Ottanta avrebbe giocato in Svizzera prima di fare ottime cose al Werder Brema. In Spagna gli All Whites si sarebbero poi comportati con grande dignit&agrave;, nonostante l&rsquo;infortunio di Grant Turner, all&rsquo;epoca insieme a Sumner e a Wooddin la loro stella, prima dell&#39;esplosione di Rufer. Sotto di tre gol dopo mezz&rsquo;ora, alla Rosaleda di Malaga sfiorarono una clamorosa rimonta contro la Scozia di Dalglish e Souness, allenata da Jock Stein, perdendo poi 5-2. Sempre a Malaga fecero soffrire l&rsquo;Unione Sovietica di Dasaev e Blokhin nel primo tempo e poi persero 3-0. Infine al Villamarin di Siviglia quasi non toccarono palla nel 4-0 in favore del Brasile forse pi&ugrave; brasiliano, ma evidentemente non pi&ugrave; forte, di sempre: fu la festa del quadrato magico Falc&atilde;o-Cerezo-Socrates-Zico, che Tel&eacute; Santana aveva introdotto la partita prima, contro la Scozia.  Pur con i suoi limiti tecnici la Nuova Zelanda sembr&ograve; una delle squadre fisicamente meglio messe fra le 24 del Mondiale, merito forse anche dei metodi di Adshead che nel ritiro di Marbella aveva imposto allenamenti all&rsquo;alba e ritirata serale ad ore da convento, ben conoscendo lo spirito semidilettantistico dei suoi. Quasi tutti con esperienze calcistiche limitate alla Nuova Zelanda o al massimo all&rsquo;Australia, con qualche provino in squadre inglesi ma poco di pi&ugrave;. Rufer a parte, di tutt&rsquo;altro livello medio era la squadra del Mondiale 2010, quella che pareggi&ograve; contro la disastrosa seconda Italia di Lippi, allenata da quel Ricki Herbert che nel 1982 era stato protagonista in campo come difensore. Una squadra che non ha fatto diventare il calcio sport nazionale, ma che rimarr&agrave; per sempre. &nbsp; 

Il 10 gennaio del 1982 gli All Whites conquistarono per la prima volta l&#39;accesso alla fase finale di un Mondiale, battendo la Cina nello spareggio...

Il giorno in cui inizi&ograve; la Nuova Zelanda

Ad Abu Dhabi la squadra di Zidane si aggiudica il Mondiale per&nbsp;Club sconfiggendo i brasiliani del Gremio in finale: decide una punizione di Cristiano Ronaldo che festeggia nel migliore dei modi il suo quinto Pallone d&#39;oro

Real Madrid sul tetto del mondo

Quella che inizia oggi, con la partita fra Auckland City e Al Jazira, &egrave; probabilmente la penultima edizione della Coppa del Mondo per club con questo discutibile format, che con vari aggiustamenti dura dal 2005 (da non dimenticare l&rsquo;edizione del 2000, quando ancora comunque c&rsquo;era l&rsquo;Intercontinentale). Si ritorna negli Emirati Arabi dopo sette anni, dall&rsquo;edizione che l&rsquo;Inter ai tempi allenata da Benitez vinse battendo in finale il Mazembe, e nel sostanziale disinteresse del resto del pianeta (tifosi delle sette squadre coinvolte a parte) ci si trasciner&agrave; verso la finale fra Real Madrid e una fra Gremio e Pachuca. Le sorprese sono ovviamente sempre possibili, perch&eacute; in 13 edizioni per tre volte &egrave; arrivata in finale una squadra al di fuori di Europa e Sudamerica: &egrave; stato cos&igrave; con i congolesi del Mazembe, i marocchini del Raja Casablanca e l&rsquo;anno scorso con il Kashima Antlers, che davanti al pubblico di casa ha fatto soffrire fino ai tempi supplementari Cristiano Ronaldo e compagni, sfiorando una storica impresa. Ma pi&ugrave; del presente &egrave; interessante il futuro delineato da Gianni Infantino, che ha ripreso una vecchia idea di Blatter ma la presenter&agrave; senza spaventare le UEFA e la sua Champions League. Niente di ufficiale, ma anche niente di segreto visto che il format della nuova competizione &egrave; gi&agrave; stato valutato da sponsor ed esperti di diritti televisivi. Dopo l&rsquo;edizione del 2018, ancora negli Emirati Arabi e ancora con sette squadre, ci si prenderanno tre anni di stop per ripartire nel 2021. 24 squadre, di cui la met&agrave; europee e qualificate in base al rendimento delle ultime quattro stagioni in Champions e gironi ancora da definire (quattro da sei squadre o otto da tre?) ma con lo scopo di arrivare ai quarti di finale schierando il meglio del mondo. Facile prevedere un dominio europeo, ma le cose davvero interessanti sono due: la cadenza, quadriennale e non pi&ugrave; annuale, in modo da non inflazionare il prodotto (che poi &egrave; il segreto di un Mondiale o di un&rsquo;Olimpiade), e il periodo della prima edizione, che ancora non &egrave; stato scelto. Giocare in dicembre una competizione inevitabilmente lunga, visto che come minimo la squadra vincitrice dovrebbe disputare cinque partite, metterebbe subito l&rsquo;Europa contro la FIFA. Giocare in giugno significherebbe invece distruggere la gi&agrave; traballante Confederations Cup, che di sicuro non si giocher&agrave; in Qatar a meno di non spostarla in dicembre (ma Infantino &egrave; contrario) come il Mondiale del 2022.&nbsp; Certo &egrave; che la FIFA vuole per la prima volta mettere seriamente il suo cappello sul calcio di club, dopo la pur gloriosa era dell&rsquo;Intercontinentale (che la FIFA riconosceva, ma non organizzava) e questi ultimi anni di tran tran sperando che alla fine alzasse la coppa un calciatore da copertina.

        Quella che inizia oggi, con la partita fra Auckland City e Al Jazira, &egrave; probabilmente la penultima edizione della Coppa del Mondo per club con questo discutibile format, che con vari aggiustamenti dura dal 2005 (da non dimenticare l&rsquo;edizione del 2000, quando ancora comunque c&rsquo;era l&rsquo;Intercontinentale). Si ritorna negli Emirati Arabi dopo sette anni, dall&rsquo;edizione che l&rsquo;Inter ai tempi allenata da Benitez vinse battendo in finale il Mazembe, e nel sostanziale disinteresse del resto del pianeta (tifosi delle sette squadre coinvolte a parte) ci si trasciner&agrave; verso la finale fra Real Madrid e una fra Gremio e Pachuca. Le sorprese sono ovviamente sempre possibili, perch&eacute; in 13 edizioni per tre volte &egrave; arrivata in finale una squadra al di fuori di Europa e Sudamerica: &egrave; stato cos&igrave; con i congolesi del Mazembe, i marocchini del Raja Casablanca e l&rsquo;anno scorso con il Kashima Antlers, che davanti al pubblico di casa ha fatto soffrire fino ai tempi supplementari Cristiano Ronaldo e compagni, sfiorando una storica impresa. Ma pi&ugrave; del presente &egrave; interessante il futuro delineato da Gianni Infantino, che ha ripreso una vecchia idea di Blatter ma la presenter&agrave; senza spaventare le UEFA e la sua Champions League. Niente di ufficiale, ma anche niente di segreto visto che il format della nuova competizione &egrave; gi&agrave; stato valutato da sponsor ed esperti di diritti televisivi. Dopo l&rsquo;edizione del 2018, ancora negli Emirati Arabi e ancora con sette squadre, ci si prenderanno tre anni di stop per ripartire nel 2021. 24 squadre, di cui la met&agrave; europee e qualificate in base al rendimento delle ultime quattro stagioni in Champions e gironi ancora da definire (quattro da sei squadre o otto da tre?) ma con lo scopo di arrivare ai quarti di finale schierando il meglio del mondo. Facile prevedere un dominio europeo, ma le cose davvero interessanti sono due: la cadenza, quadriennale e non pi&ugrave; annuale, in modo da non inflazionare il prodotto (che poi &egrave; il segreto di un Mondiale o di un&rsquo;Olimpiade), e il periodo della prima edizione, che ancora non &egrave; stato scelto. Giocare in dicembre una competizione inevitabilmente lunga, visto che come minimo la squadra vincitrice dovrebbe disputare cinque partite, metterebbe subito l&rsquo;Europa contro la FIFA. Giocare in giugno significherebbe invece distruggere la gi&agrave; traballante Confederations Cup, che di sicuro non si giocher&agrave; in Qatar a meno di non spostarla in dicembre (ma Infantino &egrave; contrario) come il Mondiale del 2022.&nbsp; Certo &egrave; che la FIFA vuole per la prima volta mettere seriamente il suo cappello sul calcio di club, dopo la pur gloriosa era dell&rsquo;Intercontinentale (che la FIFA riconosceva, ma non organizzava) e questi ultimi anni di tran tran sperando che alla fine alzasse la coppa un calciatore da copertina.       

Negli Emirati Arabi comincia il torneo a sette squadre che vede il Real Madrid come grande favorito, davanti a Gremio e Pachuca. Ma dal 2021 ci sar&agrave; una vera svolta...

Il penultimo finto Mondiale per club

Il manifesto ufficiale della Coppa del Mondo 2018 &egrave; stato finalmente mostrato al pubblico e la sorpresa &egrave; che nell&rsquo;opera di Igor Gurovich ci sia un calciatore vero: l&rsquo;uomo raffigurato altri non &egrave; che Lev Jascin, protagonista di tre Mondiali (mentre nel 1970 fu solo riserva) con la maglia dell&rsquo;Unione Sovietica, campione europeo ed olimpico, e a tutt&rsquo;oggi unico portiere ad avere mai vinto il Pallone d&rsquo;Oro, nel 1963. Una scelta logica ma anche imposta dall&rsquo;alto, come il presidente del comitato organizzatore Vitaly Mutko (proprio l&rsquo;ex ministro dello sport coinvolto nel caso dell&rsquo;antidoping di stato tarocco) ha fatto tra le righe capire. La nazionale russa attuale &egrave; penosa e soltanto un sorteggio fortunato potrebbe darle qualche chance di passare agli ottavi di finale, cos&igrave; ci si aggrappa al passato, cosa che pericolosamente inizia ad accadere anche da noi. Gurovich, che essendo cinquantenne ha fatto in tempo a respirare una certa aria, ha spiegato che il manifesto si ispira al Costruttivismo sovietico: quindi in sostanza all&rsquo;arte degli anni Venti, anche se il movimento che rifiutava l&rsquo;arte fine a s&eacute; stessa, puntando sempre su un messaggio politico-sociale, era nato quando al potere c&rsquo;erano ancora i Romanov. Certo &egrave; che in nessuno dei venti Mondiali finora giocati un calciatore specifico era stato messo come simbolo della manifestazione. In due casi, per Uruguay 1930 e Svizzera 1954, era stato usato un portiere stilizzato, in altri quattro (Italia 1934, Germania 1974, Argentina 1978 e Usa 1994) un calciatore anonimo, anche se per il 1978 qualcuno ha voluto vederci Ardiles che abbracciava Luque, per il resto si &egrave; sempre giocato sul banale mondo che &egrave; come una palla o viceversa, con due guizzi: lo stadio-Colosseo di Italia &rsquo;90 e soprattutto il manifesto surrealista di Mir&ograve; per Spagna 1982. Insomma, un altro record per Jascin ma per la Russia forse una caduta di stile visto che nessuno prima aveva osato mettere un campione di casa, sia pure del passato e internazionalmente condiviso, come simbolo del torneo di tutti.

Il manifesto ufficiale della Coppa del Mondo 2018 &egrave; stato finalmente mostrato al pubblico e la sorpresa &egrave; che nell&rsquo;opera di Igor Gurovich ci sia un calciatore vero: l&rsquo;uomo raffigurato altri non &egrave; che Lev Jascin, protagonista di tre Mondiali (mentre nel 1970 fu solo riserva) con la maglia dell&rsquo;Unione Sovietica, campione europeo ed olimpico, e a tutt&rsquo;oggi unico portiere ad avere mai vinto il Pallone d&rsquo;Oro, nel 1963. Una scelta logica ma anche imposta dall&rsquo;alto, come il presidente del comitato organizzatore Vitaly Mutko (proprio l&rsquo;ex ministro dello sport coinvolto nel caso dell&rsquo;antidoping di stato tarocco) ha fatto tra le righe capire. La nazionale russa attuale &egrave; penosa e soltanto un sorteggio fortunato potrebbe darle qualche chance di passare agli ottavi di finale, cos&igrave; ci si aggrappa al passato, cosa che pericolosamente inizia ad accadere anche da noi. Gurovich, che essendo cinquantenne ha fatto in tempo a respirare una certa aria, ha spiegato che il manifesto si ispira al Costruttivismo sovietico: quindi in sostanza all&rsquo;arte degli anni Venti, anche se il movimento che rifiutava l&rsquo;arte fine a s&eacute; stessa, puntando sempre su un messaggio politico-sociale, era nato quando al potere c&rsquo;erano ancora i Romanov. Certo &egrave; che in nessuno dei venti Mondiali finora giocati un calciatore specifico era stato messo come simbolo della manifestazione. In due casi, per Uruguay 1930 e Svizzera 1954, era stato usato un portiere stilizzato, in altri quattro (Italia 1934, Germania 1974, Argentina 1978 e Usa 1994) un calciatore anonimo, anche se per il 1978 qualcuno ha voluto vederci Ardiles che abbracciava Luque, per il resto si &egrave; sempre giocato sul banale mondo che &egrave; come una palla o viceversa, con due guizzi: lo stadio-Colosseo di Italia &rsquo;90 e soprattutto il manifesto surrealista di Mir&ograve; per Spagna 1982. Insomma, un altro record per Jascin ma per la Russia forse una caduta di stile visto che nessuno prima aveva osato mettere un campione di casa, sia pure del passato e internazionalmente condiviso, come simbolo del torneo di tutti. 

Il manifesto ufficiale di Russia 2018 ha l&#39;immagine di quello che &egrave; considerato il miglior portiere di tutti i tempi. Prima volta di un giocatore, in ventuno edizioni...

L&#39;ultimo record di Lev Jascin

La pur doverosa autoflagellazione post Svezia, facilitata dal fatto di avere il minimo sindacale di orgoglio nazionale, non deve far dimenticare che l&rsquo;Italia &egrave; la quattordicesima squadra del mondo. Non lo diciamo noi al bar ma lo afferma ranking FIFA appena uscito, che sar&agrave; discutibile finch&eacute; vogliamo ma &egrave; comunque basato su risultati. Significativo che la Svezia sia diciottesima, in una graduatoria che non premia soltanto l&rsquo;ultima impressione ma il lavoro di un quadriennio. Poi i numeri sanno spesso essere ironici, visto che gli azzurri non pi&ugrave; di Ventura sono in risalita di una posizione rispetto al quindicesimo posto di ottobre. Il Mondiale vuole essere, in teoria, una festa globale del calcio e non una sfilata delle migliori 32 squadre del pianeta in senso stretto, per questo ci sta che delle prime 32 nazionali stiano a casa, rispetto a Russia 2018, la bellezza di 11: Cile (decimo!), Italia, Galles (posizione numero 19), Olanda (20), Stati Uniti (24), Irlanda del Nord (24 ex aequo), Slovacchia (28), Austria (29), Paraguay (30), Irlanda e Scozia (32, ex aequo con l&rsquo;Iran). In senso sportivo sono quindi 10 le intruse, anzi 9 visto che l&rsquo;Iran fa parte del terzetto al trentaduesimo posto: Serbia (37),&nbsp; Australia (39), Marocco (40), Nigeria (50), Giappone (55), Panama (56) , Corea del Sud (59), Arabia Saudita (63) e Russia (65). I padroni di casa, qualificati di diritto, sono quindi i pi&ugrave; intrusi di tutti. Per loro, nona nazionale del mondo nel 2012 quando la allenava Dick Advocaat, una caduta libera iniziata con Capello e arrivata fino ai giorni nostri. Pu&ograve; essere utile ricordare i criteri con cui viene compilata questa classifica: non algoritmi misteriosi ideati da Google, ma una semplice somma di due medie punti. Per ogni nazionale si prendono infatti in considerazione la media punti nelle partite giocate negli ultimi 12 mesi e la media punti nelle partite nei tre anni precedenti dando pi&ugrave; valore al terzo anno rispetto al secondo e al secondo rispetto al primo. I punti sono per cos&igrave; dire &lsquo;ponderati&rsquo; attraverso una formula. Che &egrave; la seguente: punti validi per il ranking uguale punti puri (cio&egrave; 3, 1 o 0) moltiplicati per un coefficiente di importanza della partita (dal minimo delle amichevoli, 1, al massimo dei Mondiali, 4, con vari livelli intermedi) moltiplicati per la forza dell&rsquo;avversario (data dalla posizione nel ranking FIFA in quel momento) e per un coefficiente di valore della confederazione a cui l&rsquo;avversaria appartiene (coefficiente dato dal rendimento negli ultimi tre Mondiali). Scritto in formula &egrave; pi&ugrave; semplice, fidatevi, noi volevamo soltanto sottolineare che il ranking FIFA si basa su dati oggettivi. Affermare che l&rsquo;Italia e il calcio italiano siano totalmente da buttare, per un playoff preparato malissimo sotto ogni profilo e con colpe evidenti, &egrave; quindi pura demagogia.

La pur doverosa autoflagellazione post Svezia, facilitata dal fatto di avere il minimo sindacale di orgoglio nazionale, non deve far dimenticare che l&rsquo;Italia &egrave; la quattordicesima squadra del mondo. Non lo diciamo noi al bar ma lo afferma ranking FIFA appena uscito, che sar&agrave; discutibile finch&eacute; vogliamo ma &egrave; comunque basato su risultati. Significativo che la Svezia sia diciottesima, in una graduatoria che non premia soltanto l&rsquo;ultima impressione ma il lavoro di un quadriennio. Poi i numeri sanno spesso essere ironici, visto che gli azzurri non pi&ugrave; di Ventura sono in risalita di una posizione rispetto al quindicesimo posto di ottobre.  Il Mondiale vuole essere, in teoria, una festa globale del calcio e non una sfilata delle migliori 32 squadre del pianeta in senso stretto, per questo ci sta che delle prime 32 nazionali stiano a casa, rispetto a Russia 2018, la bellezza di 11: Cile (decimo!), Italia, Galles (posizione numero 19), Olanda (20), Stati Uniti (24), Irlanda del Nord (24 ex aequo), Slovacchia (28), Austria (29), Paraguay (30), Irlanda e Scozia (32, ex aequo con l&rsquo;Iran). In senso sportivo sono quindi 10 le intruse, anzi 9 visto che l&rsquo;Iran fa parte del terzetto al trentaduesimo posto: Serbia (37),&nbsp; Australia (39), Marocco (40), Nigeria (50), Giappone (55), Panama (56) , Corea del Sud (59), Arabia Saudita (63) e Russia (65). I padroni di casa, qualificati di diritto, sono quindi i pi&ugrave; intrusi di tutti. Per loro, nona nazionale del mondo nel 2012 quando la allenava Dick Advocaat, una caduta libera iniziata con Capello e arrivata fino ai giorni nostri.  Pu&ograve; essere utile ricordare i criteri con cui viene compilata questa classifica: non algoritmi misteriosi ideati da Google, ma una semplice somma di due medie punti. Per ogni nazionale si prendono infatti in considerazione la media punti nelle partite giocate negli ultimi 12 mesi e la media punti nelle partite nei tre anni precedenti dando pi&ugrave; valore al terzo anno rispetto al secondo e al secondo rispetto al primo. I punti sono per cos&igrave; dire &lsquo;ponderati&rsquo; attraverso una formula. Che &egrave; la seguente: punti validi per il ranking uguale punti puri (cio&egrave; 3, 1 o 0) moltiplicati per un coefficiente di importanza della partita (dal minimo delle amichevoli, 1, al massimo dei Mondiali, 4, con vari livelli intermedi) moltiplicati per la forza dell&rsquo;avversario (data dalla posizione nel ranking FIFA in quel momento) e per un coefficiente di valore della confederazione a cui l&rsquo;avversaria appartiene (coefficiente dato dal rendimento negli ultimi tre Mondiali). Scritto in formula &egrave; pi&ugrave; semplice, fidatevi, noi volevamo soltanto sottolineare che il ranking FIFA si basa su dati oggettivi. Affermare che l&rsquo;Italia e il calcio italiano siano totalmente da buttare, per un playoff preparato malissimo sotto ogni profilo e con colpe evidenti, &egrave; quindi pura demagogia. 

Nonostante tutto ci&ograve; che &egrave; successo, l&#39;Italia &egrave; la quattordicesima nazionale nel ranking FIFA. E su 32 squadre al Mondiale ci saranno ben 9 intruse, con la Russia padrona di casa che sar&agrave; la pi&ugrave; intrusa di tutte...

Ventura e le intruse di Russia 2018

Lorenzo Insigne &egrave; la nuova certezza assoluta del calcio italiano, nel senso che il &lsquo;Metti Insigne&rsquo; pronunciato da De Rossi a San Siro nella memoria storica degli appassionati diventer&agrave; la sicurezza che con Insigne in campo il muro svedese sarebbe stato sfondato e adesso l&rsquo;Italia sarebbe ai Mondiali. Certo &egrave; che dopo partite come quella con lo Shakhtar viene da chiedersi come mai l&rsquo;attaccante del Napoli non sia mai stato davvero considerato un punto fermo della Nazionale nonostante sia nel giro giusto fin dai tempi di Prandelli, che lo port&ograve; anche al Mondiale brasiliano, facendolo giocare nella sfortunata partita contro il Costarica, causa dell&rsquo;eliminazione azzurra al primo turno pi&ugrave; di quella successiva con l&rsquo;Uruguay. Nella testa di Prandelli era una buona alternativa, un ragazzo di grande talento ma che sapeva stare al suo posto. Adesso il tiro a Ventura &egrave; facile, ma va detto che nemmeno il rimpianto condottiero Conte ha mai avuto un grande trasporto per Insigne: per un anno e mezzo non lo ha mai utilizzato, in parte a causa di un grave infortunio, recuperandolo poco prima dell&rsquo;Europeo in Francia e inserendolo dalla panchina. Anche in quel caso Insigne non ha fatto polemiche (del resto &egrave; riuscito ad accettare anche lo stato confusionale del Ventura degli ultimi due mesi) ed ha sfruttato bene, con qualit&agrave;, i minuti che Conte gli ha concesso nelle partite senza domani con Spagna e Germania. Con l&rsquo;ultimo c.t. dopo un anno di tira e molla, fra infortuni e scarso entusiasmo di entrambi, &egrave; diventato titolare, per rimanerlo, soltanto sei mesi fa in occasione della partita con il Liechtenstein. Senza quasi mai entusiasmare, comunque. Tutto questo fino all&rsquo;inspiegabile e troppo spiegato quarto d&rsquo;ora (con indicazioni tattiche approssimative da parte di Ventura) in 180&rsquo; con la Svezia. Per caratteristiche tecniche, e nonostante la solita retorica sulla fantasia che va lasciata libera le sue caratteristiche sono molto precise, Insigne piace soprattutto agli allenatori da 4-3-3: quindi non a Prandelli, non a Conte e nemmeno a Ventura che di moduli in carriera ne ha cambiati tanti e il 4-3-3 lo ha sempre messo all&rsquo;ultimo posto. Fin troppo facile ricordare che gli allenatori pi&ugrave; da Insigne nella carriera di Insigne siano stati Zeman, che letteralmente lo invent&ograve; a Foggia e a Pescara, e Sarri. Mentre con Mazzarri e Benitez (ma in questo caso anche per la rottura del crociato) le cose hanno funzionato meno. Considerazioni che non tolgono nulla al valore del giocatore, solo per dire che non stiamo parlando di un Messi che una confraternita di allenatori cattivi ha voluto ostracizzare ma di un ottimo giocatore che in certi contesti funziona e in altri no.&nbsp;

Lorenzo Insigne &egrave; la nuova certezza assoluta del calcio italiano, nel senso che il &lsquo;Metti Insigne&rsquo; pronunciato da De Rossi a San Siro nella memoria storica degli appassionati diventer&agrave; la sicurezza che con Insigne in campo il muro svedese sarebbe stato sfondato e adesso l&rsquo;Italia sarebbe ai Mondiali. Certo &egrave; che dopo partite come quella con lo Shakhtar viene da chiedersi come mai l&rsquo;attaccante del Napoli non sia mai stato davvero considerato un punto fermo della Nazionale nonostante sia nel giro giusto fin dai tempi di Prandelli, che lo port&ograve; anche al Mondiale brasiliano, facendolo giocare nella sfortunata partita contro il Costarica, causa dell&rsquo;eliminazione azzurra al primo turno pi&ugrave; di quella successiva con l&rsquo;Uruguay. Nella testa di Prandelli era una buona alternativa, un ragazzo di grande talento ma che sapeva stare al suo posto.  Adesso il tiro a Ventura &egrave; facile, ma va detto che nemmeno il rimpianto condottiero Conte ha mai avuto un grande trasporto per Insigne: per un anno e mezzo non lo ha mai utilizzato, in parte a causa di un grave infortunio, recuperandolo poco prima dell&rsquo;Europeo in Francia e inserendolo dalla panchina. Anche in quel caso Insigne non ha fatto polemiche (del resto &egrave; riuscito ad accettare anche lo stato confusionale del Ventura degli ultimi due mesi) ed ha sfruttato bene, con qualit&agrave;, i minuti che Conte gli ha concesso nelle partite senza domani con Spagna e Germania. Con l&rsquo;ultimo c.t. dopo un anno di tira e molla, fra infortuni e scarso entusiasmo di entrambi, &egrave; diventato titolare, per rimanerlo, soltanto sei mesi fa in occasione della partita con il Liechtenstein. Senza quasi mai entusiasmare, comunque. Tutto questo fino all&rsquo;inspiegabile e troppo spiegato quarto d&rsquo;ora (con indicazioni tattiche approssimative da parte di Ventura) in 180&rsquo; con la Svezia.  Per caratteristiche tecniche, e nonostante la solita retorica sulla fantasia che va lasciata libera le sue caratteristiche sono molto precise, Insigne piace soprattutto agli allenatori da 4-3-3: quindi non a Prandelli, non a Conte e nemmeno a Ventura che di moduli in carriera ne ha cambiati tanti e il 4-3-3 lo ha sempre messo all&rsquo;ultimo posto. Fin troppo facile ricordare che gli allenatori pi&ugrave; da Insigne nella carriera di Insigne siano stati Zeman, che letteralmente lo invent&ograve; a Foggia e a Pescara, e Sarri. Mentre con Mazzarri e Benitez (ma in questo caso anche per la rottura del crociato) le cose hanno funzionato meno. Considerazioni che non tolgono nulla al valore del giocatore, solo per dire che non stiamo parlando di un Messi che una confraternita di allenatori cattivi ha voluto ostracizzare ma di un ottimo giocatore che in certi contesti funziona e in altri no.&nbsp; 

Il trascinatore del Napoli in Champions League, grande escluso di Ventura nello spareggio con la Svezia, &egrave; uno di quei giocatori che in certi contesti tattici sembrano fenomeni e in altri un po&#39; meno

Insigne il campione del 4-3-3

La vita e il Mondiale continuano anche dopo Italia-Svezia, nonostante prestazioni di Insigne come quella con lo Shakhtar siano una pugnalata. La testa di tutto il pianeta &egrave; al sorteggio dei gironi, il primo di dicembre a Mosca (al Cremlino...). A fare da &#39;valletti&#39; a Gary Lineker e alla giornalista Maria&nbsp;Komandnaya&nbsp;otto campioni del passato, tutti conosciutissimi dal pubblico pi&ugrave; giovane: alcuni per il mito che li accompagna (Maradona e Banks), altri perch&eacute; effettivamente hanno giocato fino a poche stagioni fa: Cannavaro, Blanc, Cafu, Forlan, Puyol&hellip; il meno conosciuto degli otto &egrave; senza ombra di dubbio Nikita Simonian, che ha il torto di essere stato grande quando la televisione era poco diffusa e soprattutto di esserlo stato nell&rsquo;URSS degli anni Cinquanta, dove tutto era avvolto dal mistero. <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Nikita_Simonjan">Le statistiche dicono molto</a> ma non tutto del grande attaccante dello Spartak Mosca, attuale vicepresidente onorario (avendo 91 anni) della federazione russa. Simonian arriv&ograve; in nazionale a quasi 30 anni: fu nella squadra che conquist&ograve; l&rsquo;oro olimpico a Melbourne 1956, battendo in finale la Jugoslavia che era una delle poche altre squadre decenti in corsa (si era nell&rsquo;epoca del finto dilettantismo, per quanto riguarda i paesi dell&rsquo;Est europeo), quella che aveva come leader Jascin e Netto, ma soprattutto, da capitano, in quella che stup&igrave; tutti ai Mondiali di due anni dopo in Svezia, prima partecipazione sovietica al torneo pi&ugrave; importante di tutti. Simonian segn&ograve; nel 2-2 iniziale contro un&rsquo;Inghilterra dimezzata dal disastro di Monaco, poi dopo il 2-0 all&rsquo;Austria ci fu la sconfitta contro il Brasile dove esordiva nel torneo il minorenne Pel&eacute;. I sovietici vinsero lo spareggio con l&rsquo;Inghilterra e nei quarti, nello storico Rasunda di Solna, furono piegati 2-0 dai padroni di casa che schieravano Liedholm, Skoglund, Gren e soprattutto un Hamrin in forma eccezionale. Fu quella l&rsquo;ultima partita in nazionale di Simonian, che avrebbe avuto una bella carriera da allenatore, soprattutto nel suo Spartak e nell&rsquo;Ararat Yerevan. Poca fortuna con l&rsquo;URSS da allenatore, che prese in mano per un paio d&rsquo;anni dopo l&rsquo;elminazione nelle qualificazioni per Argentina 1978, costruendola intorno a Blokhin e a un giovanissimo Bessonov, portandola spesso in ritiro a Coverciano e diventando amico di Azeglio Vicini. Ottime cose invece avrebbe fatto da dirigente, di fatto diretto superiore e consigliere di Valery Lobanovsky. Un grande dello sport sovietico, fa impressione dirlo.

La vita e il Mondiale continuano anche dopo Italia-Svezia, nonostante prestazioni di Insigne come quella con lo Shakhtar siano una pugnalata. La testa di tutto il pianeta &egrave; al sorteggio dei gironi, il primo di dicembre a Mosca (al Cremlino...). A fare da &#39;valletti&#39; a Gary Lineker e alla giornalista Maria&nbsp;Komandnaya&nbsp;otto campioni del passato, tutti conosciutissimi dal pubblico pi&ugrave; giovane: alcuni per il mito che li accompagna (Maradona e Banks), altri perch&eacute; effettivamente hanno giocato fino a poche stagioni fa: Cannavaro, Blanc, Cafu, Forlan, Puyol&hellip; il meno conosciuto degli otto &egrave; senza ombra di dubbio Nikita Simonian, che ha il torto di essere stato grande quando la televisione era poco diffusa e soprattutto di esserlo stato nell&rsquo;URSS degli anni Cinquanta, dove tutto era avvolto dal mistero. Le statistiche dicono molto ma non tutto del grande attaccante dello Spartak Mosca, attuale vicepresidente onorario (avendo 91 anni) della federazione russa. Simonian arriv&ograve; in nazionale a quasi 30 anni: fu nella squadra che conquist&ograve; l&rsquo;oro olimpico a Melbourne 1956, battendo in finale la Jugoslavia che era una delle poche altre squadre decenti in corsa (si era nell&rsquo;epoca del finto dilettantismo, per quanto riguarda i paesi dell&rsquo;Est europeo), quella che aveva come leader Jascin e Netto, ma soprattutto, da capitano, in quella che stup&igrave; tutti ai Mondiali di due anni dopo in Svezia, prima partecipazione sovietica al torneo pi&ugrave; importante di tutti. Simonian segn&ograve; nel 2-2 iniziale contro un&rsquo;Inghilterra dimezzata dal disastro di Monaco, poi dopo il 2-0 all&rsquo;Austria ci fu la sconfitta contro il Brasile dove esordiva nel torneo il minorenne Pel&eacute;. I sovietici vinsero lo spareggio con l&rsquo;Inghilterra e nei quarti, nello storico Rasunda di Solna, furono piegati 2-0 dai padroni di casa che schieravano Liedholm, Skoglund, Gren e soprattutto un Hamrin in forma eccezionale. Fu quella l&rsquo;ultima partita in nazionale di Simonian, che avrebbe avuto una bella carriera da allenatore, soprattutto nel suo Spartak e nell&rsquo;Ararat Yerevan. Poca fortuna con l&rsquo;URSS da allenatore, che prese in mano per un paio d&rsquo;anni dopo l&rsquo;elminazione nelle qualificazioni per Argentina 1978, costruendola intorno a Blokhin e a un giovanissimo Bessonov, portandola spesso in ritiro a Coverciano e diventando amico di Azeglio Vicini. Ottime cose invece avrebbe fatto da dirigente, di fatto diretto superiore e consigliere di Valery Lobanovsky. Un grande dello sport sovietico, fa impressione dirlo. 

Il pi&ugrave; anziano degli otto &#39;valletti&#39; di Lineker al sorteggio mondiale sar&agrave; l&#39;ex grande attaccante e allenatore dell&#39;Unione Sovietica...

La mano sovietica di Simonian

Fra gli spettatori pi&ugrave; interessati del disastro azzurro nello spareggio mondiale contro la Svezia c&rsquo;era di sicuro Zlatan Ibrahimovic, pochi giorni prima del suo rientro in campo con il Manchester United, sabato scorso contro il Newcastle. Perch&eacute; Janne Andersen ha un bel dire che la sua nazionale per Russia 2018 &egrave; gi&agrave; fatta, ma rimane il fatto che il livello medio dei suoi attaccanti &egrave; scadente e in ogni caso di molto inferiore a quello degli altri reparti: il meno peggio, Marcus Berg, gioca negli Emirati Arabi, e gli altri tre (Toivonen, Guidetti e Thelin) troverebbero a fatica un posto anche nella fascia bassa della nostra serie A. Insomma, i media svedesi non hanno giustamente perso tempo facendosi la fatidica domanda: Ibra andr&agrave; ai Mondiali? Partiamo dalla fine, cio&egrave; dall&rsquo;infortunio sub&igrave;to contro l&rsquo;Anderlecht in Europa League che lo ha tenuto lontano dal campo per sette mesi. Lo stesso Ibra, togliendosi per qualche minuto la sua maschera, ha spiegato che il problema ai legamenti del ginocchio &egrave; stato pi&ugrave; grave di quanto lui pensasse, non dal punto di vista medico ma da quello psicologico: forse, ma&nbsp; lui non ha detto, il trentaseienne capocannoniere nella storia della nazionale svedese (62 gol) ha per la prima volta pensato al dopo-calcio. Questo non gli ha impedito di rientrare con quasi due mesi di anticipo rispetto al previsto, per s&eacute; stesso ma anche per dare una mano a un Manchester United 8 punti in classifica dietro al City e alle prese con altre situazioni mediche complicate (su tutte Pogba). Un club al quale dopo poco pi&ugrave; di un anno (e 28 gol) Ibra sembra pi&ugrave; legato che ad altre realt&agrave; in cui &egrave; stato grande, non fosse altro che perch&eacute; il rinnovo del contratto l&rsquo;ha firmato in agosto, da infortunato. Venendo alla nazionale, l&rsquo;Ibra tifoso di Solna (a fianco di Mourinho: chiss&agrave; cosa avranno detto della grande prova di Lindelof, di solito scadente nello United&hellip;) e l&rsquo;Ibra twittante (&ldquo;We are Sweden&rdquo;) pochi minuti dopo l&rsquo;impresa di San Siro sta lanciando evidenti messaggi al c.t., anche se non si abbasser&agrave; mai a chiedere un posto in squadra. &Egrave; ovvio che il lavoro sporco lo faranno i media svedesi, gli appassionati di tutto il mondo e magari la stessa FIFA, affamata di personaggi in un Mondiale che ha perso grandi mercati televisivi come Cina, Stati Uniti e, diciamolo, Italia. Nel dopo Italia-Svezia la prima uscita sul tema da parte di Andersson non &egrave; stata felicissima: &ldquo;Incredibile, stiamo ancora parlando di un giocatore che lasciato la Svezia un anno e mezzo fa&hellip; Comunque adesso la squadra gioca diversamente rispetto a quando c&rsquo;era lui&rdquo;. L&rsquo;emozione del momento gli ha di sicuro fatto dimenticare che stiamo parlando del leader di 2 Mondiali, 4 Europei, del secondo sportivo svedese di tutti i tempi dietro Bjorn Borg, ma soprattutto di uno che per la nazionale ha sempre dato l&rsquo;anima lanciando un messaggio importantissimo: nel calcio di club vado dove mi pagano meglio e ho le opportunit&agrave; migliori, sono fra l&#39;altro l&rsquo;unico a dirlo apertamente, ma la nazionale &egrave; un&rsquo;altra cosa. La storia personale di Andersson (carriera inesistente come calciatore e modesta come allenatore fino al titolo nazionale con il Norrk&ouml;ping due anni fa) porta a pensare che non sappia e non voglia gestire giocatori come Ibra, ma da qui a giugno tante cose possono succedere.&nbsp;

Fra gli spettatori pi&ugrave; interessati del disastro azzurro nello spareggio mondiale contro la Svezia c&rsquo;era di sicuro Zlatan Ibrahimovic, pochi giorni prima del suo rientro in campo con il Manchester United, sabato scorso contro il Newcastle. Perch&eacute; Janne Andersen ha un bel dire che la sua nazionale per Russia 2018 &egrave; gi&agrave; fatta, ma rimane il fatto che il livello medio dei suoi attaccanti &egrave; scadente e in ogni caso di molto inferiore a quello degli altri reparti: il meno peggio, Marcus Berg, gioca negli Emirati Arabi, e gli altri tre (Toivonen, Guidetti e Thelin) troverebbero a fatica un posto anche nella fascia bassa della nostra serie A. Insomma, i media svedesi non hanno giustamente perso tempo facendosi la fatidica domanda: Ibra andr&agrave; ai Mondiali?  Partiamo dalla fine, cio&egrave; dall&rsquo;infortunio sub&igrave;to contro l&rsquo;Anderlecht in Europa League che lo ha tenuto lontano dal campo per sette mesi. Lo stesso Ibra, togliendosi per qualche minuto la sua maschera, ha spiegato che il problema ai legamenti del ginocchio &egrave; stato pi&ugrave; grave di quanto lui pensasse, non dal punto di vista medico ma da quello psicologico: forse, ma&nbsp; lui non ha detto, il trentaseienne capocannoniere nella storia della nazionale svedese (62 gol) ha per la prima volta pensato al dopo-calcio. Questo non gli ha impedito di rientrare con quasi due mesi di anticipo rispetto al previsto, per s&eacute; stesso ma anche per dare una mano a un Manchester United 8 punti in classifica dietro al City e alle prese con altre situazioni mediche complicate (su tutte Pogba). Un club al quale dopo poco pi&ugrave; di un anno (e 28 gol) Ibra sembra pi&ugrave; legato che ad altre realt&agrave; in cui &egrave; stato grande, non fosse altro che perch&eacute; il rinnovo del contratto l&rsquo;ha firmato in agosto, da infortunato.  Venendo alla nazionale, l&rsquo;Ibra tifoso di Solna (a fianco di Mourinho: chiss&agrave; cosa avranno detto della grande prova di Lindelof, di solito scadente nello United&hellip;) e l&rsquo;Ibra twittante (&ldquo;We are Sweden&rdquo;) pochi minuti dopo l&rsquo;impresa di San Siro sta lanciando evidenti messaggi al c.t., anche se non si abbasser&agrave; mai a chiedere un posto in squadra. &Egrave; ovvio che il lavoro sporco lo faranno i media svedesi, gli appassionati di tutto il mondo e magari la stessa FIFA, affamata di personaggi in un Mondiale che ha perso grandi mercati televisivi come Cina, Stati Uniti e, diciamolo, Italia. Nel dopo Italia-Svezia la prima uscita sul tema da parte di Andersson non &egrave; stata felicissima: &ldquo;Incredibile, stiamo ancora parlando di un giocatore che lasciato la Svezia un anno e mezzo fa&hellip; Comunque adesso la squadra gioca diversamente rispetto a quando c&rsquo;era lui&rdquo;. L&rsquo;emozione del momento gli ha di sicuro fatto dimenticare che stiamo parlando del leader di 2 Mondiali, 4 Europei, del secondo sportivo svedese di tutti i tempi dietro Bjorn Borg, ma soprattutto di uno che per la nazionale ha sempre dato l&rsquo;anima lanciando un messaggio importantissimo: nel calcio di club vado dove mi pagano meglio e ho le opportunit&agrave; migliori, sono fra l&#39;altro l&rsquo;unico a dirlo apertamente, ma la nazionale &egrave; un&rsquo;altra cosa. La storia personale di Andersson (carriera inesistente come calciatore e modesta come allenatore fino al titolo nazionale con il Norrk&ouml;ping due anni fa) porta a pensare che non sappia e non voglia gestire giocatori come Ibra, ma da qui a giugno tante cose possono succedere.&nbsp; 

Il fuoriclasse svedese &egrave; appena rientrato con il Manchester United, dopo sette mesi di assenza per infortunio, ed il c.t. Andersson inizia ad avvertire una certa pressione mediatica...

L&#39;ultimo Mondiale di Ibrahimovic

Dopo l&rsquo;infausto esito di Italia-Svezia sono in molti adesso a chiedere le dimissioni di Carlo Tavecchio, in certi casi anche qualcuno che ha contribuito alla sua elezione. La domanda sorge quindi spontanea: premesso che nemmeno nel 1958, visto che il Mondiale era a 16 squadre e non a 32, il fallimento azzurro &egrave; stato paragonabile a quello di oggi, quanti presidenti della FIGC si sono dimessi dopo un Mondiale andato male dal punto di vista sportivo? Ottorino Barassi&nbsp;cerc&ograve; di resistere a ben tre Mondiali andati male: Brasile 1950, Svizzera 1954 e anche Svezia 1958 dove l&rsquo;Italia non and&ograve;. Forte del suo lunghissimo e anche glorioso passato, da segretario generale FIGC nel 1934 e nel 1938 (dell&rsquo;edizione italiana fu anche responsabile organizzativo), ma soprattutto noto per avere evitato (nascondendola in casa, in una scatola da scarpe) che la Coppa Rimet finisse nella mani dei nazisti, Barassi cerc&ograve; di resistere anche oltre il 1958, ma il presidente del CONI Giulio Onesti procedette al commissariamento della federazione mettendo al suo posto Bruno Zauli, che veniva dall&rsquo;atletica ma che in un anno di calcio riusc&igrave; a portare a termine riforme importanti (su tutte la divisione fra professionisti, semiprofessionisti e dilettanti). Dopo il biennio di Umberto Agnelli, presidente della FIGC (e in contemporanea anche della Juventus) fino al 1961, arriv&ograve; al vertice Giovanni Pasquale che riusc&igrave; a resistere a Cile 1962, nonostante come guida tecnica insieme a Giovanni Ferrari avesse imposto il suo amico Paolo Mazza, presidente della Spal. Una spedizione preparata malissimo, quella cilena, in cui alla fine le formazioni erano fatte dai giornalisti. Pasquale non si dimise nemmeno dopo la famosa Corea di Middlesbrough, tirando a campare un altro anno: a lui si devono la serie A a 16 squadre e il blocco all&rsquo;acquisto degli stranieri, che arriv&ograve; comunque prima del Mondiale 1966 e non ne fu quindi una conseguenza. Un politico di razza come Artemio Franchi super&ograve; senza imbarazzi Germania 1974 (pag&ograve; Valcareggi), mentre nel 1986 come commissario straordinario e nel 2002 come presidente il numero uno della FIGC era lo stesso, Franco Carraro. E arriviamo cos&igrave; a Giancarlo Abete, avanti in scioltezza dopo Sudafrica 2010, ma pronto invece alle dimissioni dopo il Mondiale brasiliano: a tutt&rsquo;oggi l&rsquo;unico presidente della federcalcio ad essersi dimesso per motivi sportivi &egrave; stato lui. Detto questo, il lavoro di un presidente di federazione, ma anche di un allenatore, non si dovrebbe giudicare per un tiro fuori di un centimetro: tutta il futuro del calcio italiano dipender&agrave; quindi dal palo di Darmian a Solna?

Dopo l&rsquo;infausto esito di Italia-Svezia sono in molti adesso a chiedere le dimissioni di Carlo Tavecchio, in certi casi anche qualcuno che ha contribuito alla sua elezione. La domanda sorge quindi spontanea: premesso che nemmeno nel 1958, visto che il Mondiale era a 16 squadre e non a 32, il fallimento azzurro &egrave; stato paragonabile a quello di oggi, quanti presidenti della FIGC si sono dimessi dopo un Mondiale andato male dal punto di vista sportivo? Ottorino Barassi&nbsp;cerc&ograve; di resistere a ben tre Mondiali andati male: Brasile 1950, Svizzera 1954 e anche Svezia 1958 dove l&rsquo;Italia non and&ograve;. Forte del suo lunghissimo e anche glorioso passato, da segretario generale FIGC nel 1934 e nel 1938 (dell&rsquo;edizione italiana fu anche responsabile organizzativo), ma soprattutto noto per avere evitato (nascondendola in casa, in una scatola da scarpe) che la Coppa Rimet finisse nella mani dei nazisti, Barassi cerc&ograve; di resistere anche oltre il 1958, ma il presidente del CONI Giulio Onesti procedette al commissariamento della federazione mettendo al suo posto Bruno Zauli, che veniva dall&rsquo;atletica ma che in un anno di calcio riusc&igrave; a portare a termine riforme importanti (su tutte la divisione fra professionisti, semiprofessionisti e dilettanti). Dopo il biennio di Umberto Agnelli, presidente della FIGC (e in contemporanea anche della Juventus) fino al 1961, arriv&ograve; al vertice Giovanni Pasquale che riusc&igrave; a resistere a Cile 1962, nonostante come guida tecnica insieme a Giovanni Ferrari avesse imposto il suo amico Paolo Mazza, presidente della Spal. Una spedizione preparata malissimo, quella cilena, in cui alla fine le formazioni erano fatte dai giornalisti. Pasquale non si dimise nemmeno dopo la famosa Corea di Middlesbrough, tirando a campare un altro anno: a lui si devono la serie A a 16 squadre e il blocco all&rsquo;acquisto degli stranieri, che arriv&ograve; comunque prima del Mondiale 1966 e non ne fu quindi una conseguenza. Un politico di razza come Artemio Franchi super&ograve; senza imbarazzi Germania 1974 (pag&ograve; Valcareggi), mentre nel 1986 come commissario straordinario e nel 2002 come presidente il numero uno della FIGC era lo stesso, Franco Carraro. E arriviamo cos&igrave; a Giancarlo Abete, avanti in scioltezza dopo Sudafrica 2010, ma pronto invece alle dimissioni dopo il Mondiale brasiliano: a tutt&rsquo;oggi l&rsquo;unico presidente della federcalcio ad essersi dimesso per motivi sportivi &egrave; stato lui. Detto questo, il lavoro di un presidente di federazione, ma anche di un allenatore, non si dovrebbe giudicare per un tiro fuori di un centimetro: tutta il futuro del calcio italiano dipender&agrave; quindi dal palo di Darmian a Solna? 

Mentre gli allenatori sono saltati subito, nella storia italiana quasi mai &egrave; successo che il capo della federazione lasciasse volontariamente per un Mondiale andato male. L&#39;unico caso dopo Brasile 2014...

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