Un autentico istrione del pallone. Come calciatore e come allenatore. Tanto mondo, visto e vissuto attraverso il calcio; forse per questo non mise mai del tutto le radici da nessuna parte. Basti dire che fu allenatore del Real Madrid, per due stagioni, quando la maglia blanca la indossavano Di Stefano, Kopa, Puskas, Gento e Santamaria.<o:p></o:p> <h2>L'arrivo in Italia&nbsp;</h2> A portarlo in Italia dalla Spagna era stato l&rsquo;intermediario Felix Latronico. Alla Fiorentina nell&rsquo;agosto 1959. Un inizio brillante. Ma a Firenze non ebbe vita facile, per colpa di frizioni tra dirigenti, nonostante avesse al primo anno (1959-60) portato la Viola a classificarsi seconda dietro la Juventus in campionato e finalista in Coppa Italia sempre contro i bianconeri. Dalla Fiorentina al Bari, ma dopo un anno rientrava nel giro dei grandi club italiani, ingaggiato dalla Roma, con contratto per due anni. Nella Roma allora militavano cinque sudamericani: come il campione del mondo el 1950 Schiaffino, il brasiliano Da Costa e tre argentini: Manfredini, Angelillo e Lojacono. &ldquo;Yiyo&rdquo;, questo il suo soprannome, con metodo e cultura del lavoro riusc&igrave; a disciplinare dei fuoriclasse dalla vita sregolata e a ottenere un alto rendimento atletico. Nel 1961 la Roma vinse, prima e unica squadra italiana, la Coppa delle Fiere battendo in finale il Birmingham. <o:p></o:p> <h2></h2> <h2>L'ingiustizia</h2> Dalla Roma al Milan (nel 1963), dove Carniglia eredit&ograve; da Nereo Rocco e Gipo Viani una squadra campione d&rsquo;Europa. Gli tocca subito la doppia finale di Coppa Intercontinentale contro il Santos. Una finale in cui fu consumato uno dei pi&ugrave; grandi furti della storia del calcio. Protagonista l&rsquo;arbitro argentino Juan Brozzi. La fece cos&igrave; grossa che venne immediatamente radiato come arbitro dalla Fifa. &ldquo;Fu la maggiore ingiustizia che ho patito in vita mia&rdquo;. Dal Milan al Bologna, chiamato a sostituire Manlio Scopigno alla sesta di campionato, ma stava attraversando un periodo di crisi. &ldquo;Yiyo&rdquo;, come sempre ha fatto in tutte le squadre che ha diretto, prese il toro per le corna e riusc&igrave; a raddrizzare la squadra rossobl&ugrave;. Era la stagione 1965-66 e il Bologna si classific&ograve; secondo dietro l&rsquo;Inter, giungendo, la stagione successiva, ai quarti di Coppa delle Fiere contro il Leeds. Infine, dal Bologna alla Juventus (stagione 1969-70). Ma l&rsquo;esperienza con i bianconeri torinesi non fu felice.<o:p></o:p> <h2>I trionfi di Carniglia</h2> &ldquo;Yiyo&rdquo; era stato in assoluto un uomo vincente. Con il Boca Juniors ha vinto due scudetti argentini: prima come giocatore, poi come general manager (allenatore Marzolini), quando nel Boca gioc&ograve; Diego Maradona. Il suo grande cruccio &egrave; non aver vinto la Coppa Intercontinentale. Quando era al Real Madrid, questo trofeo non era stato ancora istituito. Questo era Luis Carniglia, scomparso nel giugno del 2001; un uomo di calcio che sarebbe riduttivo ricordare soltanto dicendo che era un duro come allenatore. Un uomo dal carattere aspro, per alcuni aspetti, ma straordinariamente franco, gran conoscitore del calcio a tutte le latitudini. Un personaggio tutto di un pezzo, quanto a principi, ma duttile nel plasmare le proprie idee circa il calcio in base ai giocatori che si ritrovava a guidare.

        Un autentico istrione del pallone. Come calciatore e come allenatore. Tanto mondo, visto e vissuto attraverso il calcio; forse per questo non mise mai del tutto le radici da nessuna parte. Basti dire che fu allenatore del Real Madrid, per due stagioni, quando la maglia blanca la indossavano Di Stefano, Kopa, Puskas, Gento e Santamaria. L'arrivo in Italia&nbsp; A portarlo in Italia dalla Spagna era stato l&rsquo;intermediario Felix Latronico. Alla Fiorentina nell&rsquo;agosto 1959. Un inizio brillante. Ma a Firenze non ebbe vita facile, per colpa di frizioni tra dirigenti, nonostante avesse al primo anno (1959-60) portato la Viola a classificarsi seconda dietro la Juventus in campionato e finalista in Coppa Italia sempre contro i bianconeri. Dalla Fiorentina al Bari, ma dopo un anno rientrava nel giro dei grandi club italiani, ingaggiato dalla Roma, con contratto per due anni. Nella Roma allora militavano cinque sudamericani: come il campione del mondo el 1950 Schiaffino, il brasiliano Da Costa e tre argentini: Manfredini, Angelillo e Lojacono. &ldquo;Yiyo&rdquo;, questo il suo soprannome, con metodo e cultura del lavoro riusc&igrave; a disciplinare dei fuoriclasse dalla vita sregolata e a ottenere un alto rendimento atletico. Nel 1961 la Roma vinse, prima e unica squadra italiana, la Coppa delle Fiere battendo in finale il Birmingham.   L'ingiustizia Dalla Roma al Milan (nel 1963), dove Carniglia eredit&ograve; da Nereo Rocco e Gipo Viani una squadra campione d&rsquo;Europa. Gli tocca subito la doppia finale di Coppa Intercontinentale contro il Santos. Una finale in cui fu consumato uno dei pi&ugrave; grandi furti della storia del calcio. Protagonista l&rsquo;arbitro argentino Juan Brozzi. La fece cos&igrave; grossa che venne immediatamente radiato come arbitro dalla Fifa. &ldquo;Fu la maggiore ingiustizia che ho patito in vita mia&rdquo;. Dal Milan al Bologna, chiamato a sostituire Manlio Scopigno alla sesta di campionato, ma stava attraversando un periodo di crisi. &ldquo;Yiyo&rdquo;, come sempre ha fatto in tutte le squadre che ha diretto, prese il toro per le corna e riusc&igrave; a raddrizzare la squadra rossobl&ugrave;. Era la stagione 1965-66 e il Bologna si classific&ograve; secondo dietro l&rsquo;Inter, giungendo, la stagione successiva, ai quarti di Coppa delle Fiere contro il Leeds. Infine, dal Bologna alla Juventus (stagione 1969-70). Ma l&rsquo;esperienza con i bianconeri torinesi non fu felice.  I trionfi di Carniglia &ldquo;Yiyo&rdquo; era stato in assoluto un uomo vincente. Con il Boca Juniors ha vinto due scudetti argentini: prima come giocatore, poi come general manager (allenatore Marzolini), quando nel Boca gioc&ograve; Diego Maradona. Il suo grande cruccio &egrave; non aver vinto la Coppa Intercontinentale. Quando era al Real Madrid, questo trofeo non era stato ancora istituito. Questo era Luis Carniglia, scomparso nel giugno del 2001; un uomo di calcio che sarebbe riduttivo ricordare soltanto dicendo che era un duro come allenatore. Un uomo dal carattere aspro, per alcuni aspetti, ma straordinariamente franco, gran conoscitore del calcio a tutte le latitudini. Un personaggio tutto di un pezzo, quanto a principi, ma duttile nel plasmare le proprie idee circa il calcio in base ai giocatori che si ritrovava a guidare.        

Il leggendario allenatore argentino, dopo aver vinto con il Real, approd&ograve; in Italia. Nel 1961 guid&ograve; i giallorossi alla vittoria in Coppa delle Fiere. Lo fece con due Coppe dalle Grandi Orecchie gi&agrave; in bacheca, esattamente come potrebbe fare lo Special One

Carniglia come Mourinho: due Coppe Campioni e poi la finale con la Roma

&ldquo;Noi vogliamo cantare l&rsquo;amor del pericolo, l&rsquo;abitudine all&rsquo;energia e alla temerit&agrave;. Il coraggio, l&rsquo;audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia. Noi vogliamo distruggere i musei&rdquo;. Il Manifesto del Futurismo scritto da Filippo Tommaso Marinetti usc&igrave; per la prima volta sulla Gazzetta dell&rsquo;Emilia di Bologna il 6 febbraio del 1909. I suoi toni incendiari e polemici non trovarono per&ograve; nei confini della Penisola l&rsquo;eco che avrebbero meritato. Fu solo con la pubblicazione del Manifeste su Le Figaro che le idee dei futuristi esplosero sulla scena artistica, filosofica e politica internazionale. Parigi, d&rsquo;altra parte, non &egrave; uguale a Bologna, n&eacute; a Napoli (dove apparve il manifesto il 6 febbraio sul Pungolo), Mantova, Verona e Trieste. Detto altrimenti: la forza di un messaggio non la fa (solo) il messaggio, ma il contesto. Mourinho l&rsquo;ha capito, a Sarri non &egrave; mai importato. 8 luglio 2021, quando tutto ha inizio: i tifosi della Roma festeggiano Jos&egrave; Mourinho a Piazza Venezia <h2>Mourinho, tifoso fin da subito</h2> Fin dal principio. Cio&egrave; dal 4 maggio del 2021, quando la Roma annuncia Jos&eacute; Mourinho come nuovo allenatore dei giallorossi a partire dalla stagione 2021/22. Neanche una settimana prima (29 aprile) la Roma di Fonseca aveva disperso il patrimonio del primo tempo (1-2) di Old Trafford contro lo United prendendone cinque nel secondo tempo in semifinale di Europa League. L&rsquo;annuncio della Roma, a pochi giorni da quella disfatta, &egrave; scioccante e insieme elettrizzante per tutti. Dagli addetti ai lavori ai tifosi &ndash; non solo quelli della Roma &ndash;, i Friedkin lanciano un segnale: &egrave; finito il tempo delle chiacchiere, il dittatore di Set&uacute;bal si prepara a sovvertire l&rsquo;ordine costituito. I suoi riti, la sua gestualit&agrave; e le sue dichiarazioni lo proveranno. &nbsp; Annunciato dal club giallorosso, Mourinho pubblica una foto ritraente il tecnico portoghese con in alto a destra lo stemma della Roma: &laquo;Ringrazio la famiglia Friedkin per avermi scelto a guidare questo grande Club e per avermi reso parte della loro visione. [&hellip;] L&rsquo;incredibile passione dei tifosi della Roma mi ha convinto ad accettare. [&hellip;] Daje Roma!&raquo;. Mourinho tifoso, dunque, fin da subito &ndash; come mostra una foto pubblicata lo stesso giorno (4 maggio 2021) con la nuova cover dello Special One: un sintetico quanto efficace JM in giallo ocra, con lo sfondo rosso porpora. La stessa enfasi imperiale che Mourinho mostrer&agrave; in tutta la sua forza comunicativa ed espressiva il giorno della presentazione ufficiale al Campidoglio: &laquo;Perch&eacute; sono qui? Sono vicino alla statua di Marco Aurelio, se non sbaglio nulla viene dal nulla e nulla ritorna al nulla&raquo;. &nbsp; Quella dello Special One &egrave; una solennit&agrave; a misura di tifoso, perch&eacute; accanto a certe dichiarazioni Mourinho affianca il post dedicato a Totti (&laquo;quanto mi sarebbe piaciuto allenarti; #UnCapitano&raquo; ) e l&rsquo;arrivo a Trigoria (6 luglio) a bordo di una Vespa rivestita dei colori giallorossi. I tifosi impazziscono, e lo idolatrano fin da subito. Mourinho &egrave; il prolungamento ideale &ndash; e idolatrico, come direbbe Feuerbach &ndash; del tifoso romanista. Il suo volto &egrave; ovunque: sulle prime pagine dei giornali, sui social, persino sulle mura della citt&agrave;. La stessa che nel frattempo, nella sua met&agrave; biancoceleste, guardava con curiosit&agrave; ed entusiasmo, ma anche con timore, al nuovo allenatore della Lazio Maurizio Sarri (annunciato sul sito del club, dopo l&rsquo;emoticon della sigaretta pubblicato dall&rsquo;account Twitter ufficiale dello stesso, il 28 maggio del 2021). Quella che conduce l&rsquo;allenatore toscano a Roma &egrave; una trattativa estenuante, ricca di colpi di scena e dichiarazioni rubate alla voce dei protagonisti. Persino dopo l&rsquo;annuncio. Sarri e Mourinho si salutano prima del derby di andata, vinto 3-2 dai biancocelesti (26/09/2021) <h2>Sarri, l'antidivo</h2> La prima dichiarazione ufficiale alla stampa dell&rsquo;ex allenatore di Juventus, Chelsea e Napoli, dopo 332 giorni di silenzio, non &egrave; sui social &ndash; Sarri non li possiede neanche &ndash; n&eacute; ai microfoni del club capitolino, ma all&rsquo;amico ed esperto di calciomercato Alfredo Pedull&agrave;, al quale concede un&rsquo;intervista esclusiva su Sportitalia il 5 luglio del 2021. &Egrave; un Sarri elegante, slanciato, abbronzato e con l&rsquo;immancabile sigaretta tra indice e medio, quello che risponde alle domande di Pedull&agrave;. Il quale chiede a Sarri, prima di tutto, come abbia impiegato il tempo durante l&rsquo;anno sabatico: &laquo;Niente di particolare, sono stato con la famiglia, ho letto tantissimo. Ho visto tante partite e ho fatto la cosa che mi piace di pi&ugrave;, visto tante corse ciclistiche. Vengo da una famiglia di ciclisti. Mio nonno lo faceva e mio padre &egrave; stato corridore professionista. &Egrave; una passione di famiglia&raquo;. &nbsp; Poi, quando Pedull&agrave; lo costringe a tornare a parlare di calcio, lui risponde: &laquo;Ho visto tanto calcio, ma non tantissimo. &Egrave; stato un anno particolare, stare fuori non mi &egrave; pesato molto. Che tristezza gli stadi vuoti, la situazione non mi faceva venire voglia di tornare particolarmente&raquo;.&nbsp;&Egrave; un tasto sul quale Sarri batter&agrave; fin da subito. Il rapporto coi tifosi, reso pi&ugrave; difficile del previsto dal riacutizzarsi dell&rsquo;anti-lotitismo atavico della Curva Nord, &egrave; sincero e schietto (ma non per questo idilliaco). Rispondendo a chi gli chiede (9 luglio 2021, giorno della presentazione ufficiale a Formello) cosa ne pensi della febbre social vissuta dai tifosi prima e dopo il suo arrivo, rivela di aver atteso con grande serenit&agrave; la firma del contratto: &laquo;non sono un frequentatore di social. Per me i tifosi sono quelli che mi si presentano fisicamente davanti e ancora non li ho visti. So che sono contenti del mio arrivo e questo mi fa estremamente piacere&raquo;. &nbsp; Dopo il derby di ritorno, perso malamente dalla sua Lazio (3-0), rimane colpito dal sostegno dei tifosi nella (successiva) sfida contro il Sassuolo: &laquo;La Lazio non si pu&ograve; capire cos&rsquo;&egrave; dall&rsquo;esterno. Vivendola dentro d&agrave; emozioni forti, oggi siamo entrati in campo fra gli applausi nonostante il derby perso. Ho una responsabilit&agrave; enorme visto l&rsquo;affetto che riceviamo. Io qui sto bene e mi piace vivere la Lazio&raquo;.&nbsp;Poi, per&ograve;, la Lazio &egrave; anche e soprattutto la societ&agrave; &ndash; d&rsquo;altronde Sarri, presentandosi in conferenza, parla di &ldquo;stimoli&rdquo; positivi e &ldquo;societ&agrave; ideale al momento giusto&rdquo; &ndash; quindi Lotito, Tare, i magazzinieri e la rosa. Sarri usa tre parole &ndash; tanto invise a Bruno Giordano, che verso l&rsquo;allenatore toscano ha <a href="https://www.corrieredellosport.it/news/calcio/serie-a/lazio/2022/04/19-92020124/lazio_giordano_critica_sarri_inammissibile_difendere_cosi_stagione_deludente_" title="Bruno Giordano critica Sarri" target="_blank" rel="noopener">pi&ugrave; volte</a> alzato la voce nelle radio capitoline &ndash;: &ldquo;anno di transizione&rdquo;. Mourinho, ribaltandone l&rsquo;antifona, tuona: &laquo;nessuna promessa, solo fatti&raquo;. Maurizio Sarri ad Auronzo di Cadore, poco dopo l'annuncio, nella sua veste preferita: quella di allenatore di campo <h2>Il rapporto con i tifosi</h2> Che Sarri abbia bisogno di pi&ugrave; tempo, d&rsquo;altronde, &egrave; cosa nota &ndash; lo sa anche Lotito, che poteva risparmiarsi di annunciarne il rinnovo a dicembre, senza poi metter davvero mano al portafoglio. Mourinho, al contrario, &egrave; un uomo dell&rsquo;azione. &Egrave; l&rsquo;attualismo luterano e kierkegaardiano che grida: &ldquo;deciditi!&rdquo;. Nessuna teoria, nessuna teologia. Come capire altrimenti lo sfogo di Mou in seguito al 6-1 fuori casa col Bodo? &laquo;Se si potesse giocare sempre con gli stessi lo farei&raquo;, dice senza alcun problema, riprendendo una topica gi&agrave; utilizzata ai tempi dell&rsquo;Inter in una situazione simile. Solo un ingenuo poteva credere che Mourinho avesse <a href="https://www.rivistacontrasti.it/mourinho-jose-dittatore-roma-giocatori-esclusi-tribuna/" title="Mourinho il dittatore" target="_blank" rel="noopener">perso il controllo</a> della situazione. Al contrario, la stava riacchiappando per i capelli, dandogli uno slancio nuovo e, per certi versi, decisivo. Il raggiungimento della finale di Conference League dopo il doppio &ndash; travolgente, per le sensazioni vissute all&rsquo;Olimpico &ndash; confronto con il Leicester, ne &egrave; la pi&ugrave; fulgida e inequivocabile testimonianza. Appena finita la partita con le foxes, Mourinho si &egrave; lasciato andare ad un pianto liberatorio, per poi rivolgersi alla tribuna e alla (sua) gente in preda ad uno stato quasi mistico. D&rsquo;altra parte, i 70.000 dell&rsquo;Olimpico li aveva chiamati lui. Non per&ograve; a &laquo;tifare, ma [a] scendere in campo&raquo;. Un vecchio coro dell&rsquo;altra curva di Roma, la Nord laziale, cantava &laquo;mister facce entr&agrave;&raquo;. Ma stavolta i romanisti in campo ci sono entrati per davvero. E allora forse iniziano ad avere un senso gli entusiasmi di inizio estate, le batoste invernali, le trasferte in massa, i pienoni dell&rsquo;Olimpico &ndash; che quest&rsquo;anno, sponda giallorossa, ha dilaniato ogni precedente record. &nbsp; Il senso si chiama Jos&eacute; Mourinho, un uomo dato per &ldquo;bollito, finito&rdquo;, quantomeno &ldquo;in calo&rdquo;, che ha legato con Roma in un modo speciale, come lui stesso ha ammesso: &laquo;Mi scuso con lo studio, ma sono stanco e voglio andare a casa. &Egrave; una vittoria della famiglia, non solo di quella che era in campo e in panchina ma di quella allo stadio. Questo &egrave; il nostro merito pi&ugrave; grande: l&rsquo;empatia, questo senso di famiglia&raquo;.&nbsp;Lo stesso che Sarri non &egrave; riuscito a creare con la piazza biancoceleste &ndash; ancora troppo scossa dall&rsquo;addio del giocatore allenatore fratello tifoso Simone Inzaghi, che di famiglia parlava una volta ogni due dichiarazioni. Mourinho festeggia la vittoria con il Leicester, verso&nbsp;i tifosi, battendosi la mano sul cuore (e sullo stemma della Roma) <h2>Roma-Lazio, sulla comunicazione non c'&egrave; partita</h2> E qui ritorna, sempre e di nuovo, il discorso sulla comunicazione. Sarri parla, d&rsquo;accordo. Ma come? Non ha social &ndash; che nel 2022 pu&ograve; essere un limite. Non ha presenza scenica, n&eacute; la verve polemica del mago di Setubal &ndash; che spesso e volentieri lo ha stuzzicato, parlando della Lazio di Sarri come di una squadra &ldquo;piccola&rdquo;, dell&rsquo;allenatore della Lazio come di un pantofolaro con la sigaretta in bocca, mentre Mou e la sua Roma faticavano per i campi di mezza Europa. &laquo;Stimo Mourinho, mi sta molto simpatico. Ma non cado in queste provocazioni&raquo;, rispondeva il tecnico toscano allontanando anzitempo le (splendide, vitali) polemiche. Qui non si tratta di trovare &ldquo;lo stile comunicativo&rdquo; proprio di Maurizio Sarri. Sarri, semplicemente, non comunica. &nbsp; Alla Lazio, &ldquo;la parte di Mourinho&rdquo; la svolge Lotito &ndash; con tutti i danni del caso. Alla Roma, all&rsquo;opposto, i Friedkin parlano poco &ndash; non parlano mai &ndash; e agiscono parecchio. Il compito di parlare alla gente, di toccare certe corde dell&rsquo;animo giallorosso, ce lo ha solo ed esclusivamente lo Special One. Con gli arbitri, con gli avversari (pi&ugrave; o meno immaginari, non ha importanza), con i tifosi (persino quelli dell&rsquo;Inter, che non lo hanno mai dimenticato). Sarri &egrave; un grande allenatore, uno straordinario tecnico di campo. Un grande conoscitore di calcio. Ma come lui stesso disse in una celebre intervista ottobrina, non di questo calcio: &laquo;[questo calcio] non mi appartiene pi&ugrave;, io sono un allenatore di campo&raquo;. &nbsp; E ancora: &laquo;Tutti i mesi facciamo 7 partite in 19 giorni, i restanti 11 i giocatori sono in Nazionale quindi si allenano pi&ugrave; in Nazionale che con noi. Non siamo pi&ugrave; di fronte al calcio, a uno sport, siamo di fronte a uno show in cui mi sembra che tutti i partecipanti tentino di spremere soldi agli appassionati di calcio, ma non siamo pi&ugrave; di fronte a uno sport. Probabilmente io sono vecchio per questo tipo di calcio, nel senso che mi sono innamorato di un altro tipo di calcio&raquo;. Una frase profonda, ma emblematica. In attesa che la stagione dia il proprio inequivocabile verdetto, la sfida tra Sarri e Mou a livello comunicativo non ha un vincitore perch&eacute; non ha due partecipanti. Ne ha uno solo, che si &egrave; preso la scena della piazza pi&ugrave; difficile d&rsquo;Italia a livello gestionale. L&rsquo;altro, finch&eacute; non far&agrave; (davvero) parlare il campo, dobbiamo considerarlo fuori dai giochi. A cura di:&nbsp; <a href="https://www.rivistacontrasti.it/" rel="noopener" target="_blank"><img src="https://www.guerinsportivo.it/assets/img/contrasti-right.jpg" /></a>

        &ldquo;Noi vogliamo cantare l&rsquo;amor del pericolo, l&rsquo;abitudine all&rsquo;energia e alla temerit&agrave;. Il coraggio, l&rsquo;audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia. Noi vogliamo distruggere i musei&rdquo;. Il Manifesto del Futurismo scritto da Filippo Tommaso Marinetti usc&igrave; per la prima volta sulla Gazzetta dell&rsquo;Emilia di Bologna il 6 febbraio del 1909. I suoi toni incendiari e polemici non trovarono per&ograve; nei confini della Penisola l&rsquo;eco che avrebbero meritato. Fu solo con la pubblicazione del Manifeste su Le Figaro che le idee dei futuristi esplosero sulla scena artistica, filosofica e politica internazionale. Parigi, d&rsquo;altra parte, non &egrave; uguale a Bologna, n&eacute; a Napoli (dove apparve il manifesto il 6 febbraio sul Pungolo), Mantova, Verona e Trieste. Detto altrimenti: la forza di un messaggio non la fa (solo) il messaggio, ma il contesto. Mourinho l&rsquo;ha capito, a Sarri non &egrave; mai importato.  8 luglio 2021, quando tutto ha inizio: i tifosi della Roma festeggiano Jos&egrave; Mourinho a Piazza Venezia  Mourinho, tifoso fin da subito Fin dal principio. Cio&egrave; dal 4 maggio del 2021, quando la Roma annuncia Jos&eacute; Mourinho come nuovo allenatore dei giallorossi a partire dalla stagione 2021/22. Neanche una settimana prima (29 aprile) la Roma di Fonseca aveva disperso il patrimonio del primo tempo (1-2) di Old Trafford contro lo United prendendone cinque nel secondo tempo in semifinale di Europa League. L&rsquo;annuncio della Roma, a pochi giorni da quella disfatta, &egrave; scioccante e insieme elettrizzante per tutti. Dagli addetti ai lavori ai tifosi &ndash; non solo quelli della Roma &ndash;, i Friedkin lanciano un segnale: &egrave; finito il tempo delle chiacchiere, il dittatore di Set&uacute;bal si prepara a sovvertire l&rsquo;ordine costituito. I suoi riti, la sua gestualit&agrave; e le sue dichiarazioni lo proveranno. &nbsp; Annunciato dal club giallorosso, Mourinho pubblica una foto ritraente il tecnico portoghese con in alto a destra lo stemma della Roma: &laquo;Ringrazio la famiglia Friedkin per avermi scelto a guidare questo grande Club e per avermi reso parte della loro visione. [&hellip;] L&rsquo;incredibile passione dei tifosi della Roma mi ha convinto ad accettare. [&hellip;] Daje Roma!&raquo;. Mourinho tifoso, dunque, fin da subito &ndash; come mostra una foto pubblicata lo stesso giorno (4 maggio 2021) con la nuova cover dello Special One: un sintetico quanto efficace JM in giallo ocra, con lo sfondo rosso porpora. La stessa enfasi imperiale che Mourinho mostrer&agrave; in tutta la sua forza comunicativa ed espressiva il giorno della presentazione ufficiale al Campidoglio: &laquo;Perch&eacute; sono qui? Sono vicino alla statua di Marco Aurelio, se non sbaglio nulla viene dal nulla e nulla ritorna al nulla&raquo;. &nbsp; Quella dello Special One &egrave; una solennit&agrave; a misura di tifoso, perch&eacute; accanto a certe dichiarazioni Mourinho affianca il post dedicato a Totti (&laquo;quanto mi sarebbe piaciuto allenarti; #UnCapitano&raquo; ) e l&rsquo;arrivo a Trigoria (6 luglio) a bordo di una Vespa rivestita dei colori giallorossi. I tifosi impazziscono, e lo idolatrano fin da subito. Mourinho &egrave; il prolungamento ideale &ndash; e idolatrico, come direbbe Feuerbach &ndash; del tifoso romanista. Il suo volto &egrave; ovunque: sulle prime pagine dei giornali, sui social, persino sulle mura della citt&agrave;. La stessa che nel frattempo, nella sua met&agrave; biancoceleste, guardava con curiosit&agrave; ed entusiasmo, ma anche con timore, al nuovo allenatore della Lazio Maurizio Sarri (annunciato sul sito del club, dopo l&rsquo;emoticon della sigaretta pubblicato dall&rsquo;account Twitter ufficiale dello stesso, il 28 maggio del 2021). Quella che conduce l&rsquo;allenatore toscano a Roma &egrave; una trattativa estenuante, ricca di colpi di scena e dichiarazioni rubate alla voce dei protagonisti. Persino dopo l&rsquo;annuncio.  Sarri e Mourinho si salutano prima del derby di andata, vinto 3-2 dai biancocelesti (26/09/2021)  Sarri, l'antidivo La prima dichiarazione ufficiale alla stampa dell&rsquo;ex allenatore di Juventus, Chelsea e Napoli, dopo 332 giorni di silenzio, non &egrave; sui social &ndash; Sarri non li possiede neanche &ndash; n&eacute; ai microfoni del club capitolino, ma all&rsquo;amico ed esperto di calciomercato Alfredo Pedull&agrave;, al quale concede un&rsquo;intervista esclusiva su Sportitalia il 5 luglio del 2021. &Egrave; un Sarri elegante, slanciato, abbronzato e con l&rsquo;immancabile sigaretta tra indice e medio, quello che risponde alle domande di Pedull&agrave;. Il quale chiede a Sarri, prima di tutto, come abbia impiegato il tempo durante l&rsquo;anno sabatico: &laquo;Niente di particolare, sono stato con la famiglia, ho letto tantissimo. Ho visto tante partite e ho fatto la cosa che mi piace di pi&ugrave;, visto tante corse ciclistiche. Vengo da una famiglia di ciclisti. Mio nonno lo faceva e mio padre &egrave; stato corridore professionista. &Egrave; una passione di famiglia&raquo;. &nbsp; Poi, quando Pedull&agrave; lo costringe a tornare a parlare di calcio, lui risponde: &laquo;Ho visto tanto calcio, ma non tantissimo. &Egrave; stato un anno particolare, stare fuori non mi &egrave; pesato molto. Che tristezza gli stadi vuoti, la situazione non mi faceva venire voglia di tornare particolarmente&raquo;.&nbsp;&Egrave; un tasto sul quale Sarri batter&agrave; fin da subito. Il rapporto coi tifosi, reso pi&ugrave; difficile del previsto dal riacutizzarsi dell&rsquo;anti-lotitismo atavico della Curva Nord, &egrave; sincero e schietto (ma non per questo idilliaco). Rispondendo a chi gli chiede (9 luglio 2021, giorno della presentazione ufficiale a Formello) cosa ne pensi della febbre social vissuta dai tifosi prima e dopo il suo arrivo, rivela di aver atteso con grande serenit&agrave; la firma del contratto: &laquo;non sono un frequentatore di social. Per me i tifosi sono quelli che mi si presentano fisicamente davanti e ancora non li ho visti. So che sono contenti del mio arrivo e questo mi fa estremamente piacere&raquo;. &nbsp; Dopo il derby di ritorno, perso malamente dalla sua Lazio (3-0), rimane colpito dal sostegno dei tifosi nella (successiva) sfida contro il Sassuolo: &laquo;La Lazio non si pu&ograve; capire cos&rsquo;&egrave; dall&rsquo;esterno. Vivendola dentro d&agrave; emozioni forti, oggi siamo entrati in campo fra gli applausi nonostante il derby perso. Ho una responsabilit&agrave; enorme visto l&rsquo;affetto che riceviamo. Io qui sto bene e mi piace vivere la Lazio&raquo;.&nbsp;Poi, per&ograve;, la Lazio &egrave; anche e soprattutto la societ&agrave; &ndash; d&rsquo;altronde Sarri, presentandosi in conferenza, parla di &ldquo;stimoli&rdquo; positivi e &ldquo;societ&agrave; ideale al momento giusto&rdquo; &ndash; quindi Lotito, Tare, i magazzinieri e la rosa. Sarri usa tre parole &ndash; tanto invise a Bruno Giordano, che verso l&rsquo;allenatore toscano ha pi&ugrave; volte alzato la voce nelle radio capitoline &ndash;: &ldquo;anno di transizione&rdquo;. Mourinho, ribaltandone l&rsquo;antifona, tuona: &laquo;nessuna promessa, solo fatti&raquo;.  Maurizio Sarri ad Auronzo di Cadore, poco dopo l'annuncio, nella sua veste preferita: quella di allenatore di campo  Il rapporto con i tifosi Che Sarri abbia bisogno di pi&ugrave; tempo, d&rsquo;altronde, &egrave; cosa nota &ndash; lo sa anche Lotito, che poteva risparmiarsi di annunciarne il rinnovo a dicembre, senza poi metter davvero mano al portafoglio. Mourinho, al contrario, &egrave; un uomo dell&rsquo;azione. &Egrave; l&rsquo;attualismo luterano e kierkegaardiano che grida: &ldquo;deciditi!&rdquo;. Nessuna teoria, nessuna teologia. Come capire altrimenti lo sfogo di Mou in seguito al 6-1 fuori casa col Bodo? &laquo;Se si potesse giocare sempre con gli stessi lo farei&raquo;, dice senza alcun problema, riprendendo una topica gi&agrave; utilizzata ai tempi dell&rsquo;Inter in una situazione simile. Solo un ingenuo poteva credere che Mourinho avesse perso il controllo della situazione. Al contrario, la stava riacchiappando per i capelli, dandogli uno slancio nuovo e, per certi versi, decisivo. Il raggiungimento della finale di Conference League dopo il doppio &ndash; travolgente, per le sensazioni vissute all&rsquo;Olimpico &ndash; confronto con il Leicester, ne &egrave; la pi&ugrave; fulgida e inequivocabile testimonianza.  Appena finita la partita con le foxes, Mourinho si &egrave; lasciato andare ad un pianto liberatorio, per poi rivolgersi alla tribuna e alla (sua) gente in preda ad uno stato quasi mistico. D&rsquo;altra parte, i 70.000 dell&rsquo;Olimpico li aveva chiamati lui. Non per&ograve; a &laquo;tifare, ma [a] scendere in campo&raquo;. Un vecchio coro dell&rsquo;altra curva di Roma, la Nord laziale, cantava &laquo;mister facce entr&agrave;&raquo;. Ma stavolta i romanisti in campo ci sono entrati per davvero. E allora forse iniziano ad avere un senso gli entusiasmi di inizio estate, le batoste invernali, le trasferte in massa, i pienoni dell&rsquo;Olimpico &ndash; che quest&rsquo;anno, sponda giallorossa, ha dilaniato ogni precedente record. &nbsp; Il senso si chiama Jos&eacute; Mourinho, un uomo dato per &ldquo;bollito, finito&rdquo;, quantomeno &ldquo;in calo&rdquo;, che ha legato con Roma in un modo speciale, come lui stesso ha ammesso: &laquo;Mi scuso con lo studio, ma sono stanco e voglio andare a casa. &Egrave; una vittoria della famiglia, non solo di quella che era in campo e in panchina ma di quella allo stadio. Questo &egrave; il nostro merito pi&ugrave; grande: l&rsquo;empatia, questo senso di famiglia&raquo;.&nbsp;Lo stesso che Sarri non &egrave; riuscito a creare con la piazza biancoceleste &ndash; ancora troppo scossa dall&rsquo;addio del giocatore allenatore fratello tifoso Simone Inzaghi, che di famiglia parlava una volta ogni due dichiarazioni.  Mourinho festeggia la vittoria con il Leicester, verso&nbsp;i tifosi, battendosi la mano sul cuore (e sullo stemma della Roma)  Roma-Lazio, sulla comunicazione non c'&egrave; partita E qui ritorna, sempre e di nuovo, il discorso sulla comunicazione. Sarri parla, d&rsquo;accordo. Ma come? Non ha social &ndash; che nel 2022 pu&ograve; essere un limite. Non ha presenza scenica, n&eacute; la verve polemica del mago di Setubal &ndash; che spesso e volentieri lo ha stuzzicato, parlando della Lazio di Sarri come di una squadra &ldquo;piccola&rdquo;, dell&rsquo;allenatore della Lazio come di un pantofolaro con la sigaretta in bocca, mentre Mou e la sua Roma faticavano per i campi di mezza Europa. &laquo;Stimo Mourinho, mi sta molto simpatico. Ma non cado in queste provocazioni&raquo;, rispondeva il tecnico toscano allontanando anzitempo le (splendide, vitali) polemiche. Qui non si tratta di trovare &ldquo;lo stile comunicativo&rdquo; proprio di Maurizio Sarri. Sarri, semplicemente, non comunica. &nbsp; Alla Lazio, &ldquo;la parte di Mourinho&rdquo; la svolge Lotito &ndash; con tutti i danni del caso. Alla Roma, all&rsquo;opposto, i Friedkin parlano poco &ndash; non parlano mai &ndash; e agiscono parecchio. Il compito di parlare alla gente, di toccare certe corde dell&rsquo;animo giallorosso, ce lo ha solo ed esclusivamente lo Special One. Con gli arbitri, con gli avversari (pi&ugrave; o meno immaginari, non ha importanza), con i tifosi (persino quelli dell&rsquo;Inter, che non lo hanno mai dimenticato). Sarri &egrave; un grande allenatore, uno straordinario tecnico di campo. Un grande conoscitore di calcio. Ma come lui stesso disse in una celebre intervista ottobrina, non di questo calcio: &laquo;[questo calcio] non mi appartiene pi&ugrave;, io sono un allenatore di campo&raquo;. &nbsp; E ancora: &laquo;Tutti i mesi facciamo 7 partite in 19 giorni, i restanti 11 i giocatori sono in Nazionale quindi si allenano pi&ugrave; in Nazionale che con noi. Non siamo pi&ugrave; di fronte al calcio, a uno sport, siamo di fronte a uno show in cui mi sembra che tutti i partecipanti tentino di spremere soldi agli appassionati di calcio, ma non siamo pi&ugrave; di fronte a uno sport. Probabilmente io sono vecchio per questo tipo di calcio, nel senso che mi sono innamorato di un altro tipo di calcio&raquo;. Una frase profonda, ma emblematica. In attesa che la stagione dia il proprio inequivocabile verdetto, la sfida tra Sarri e Mou a livello comunicativo non ha un vincitore perch&eacute; non ha due partecipanti. Ne ha uno solo, che si &egrave; preso la scena della piazza pi&ugrave; difficile d&rsquo;Italia a livello gestionale. L&rsquo;altro, finch&eacute; non far&agrave; (davvero) parlare il campo, dobbiamo considerarlo fuori dai giochi.  A cura di:&nbsp;        

Come i due allenatori hanno conquistato (o deluso) la piazza romana

Il linguaggio di Mourinho e il dialetto di Sarri

Mourinho si &egrave; guadagnato non diciamo l&rsquo;immortalit&agrave; ma ulteriori bonus giallorossi s&igrave;, distruggendo la Lazio nel derby e dando sostanza ad una stagione in cui una Roma non attrezzata per la lotta Champions alla fine ha fatto il massimo. Come risultati, si intende, perch&eacute; il resto &egrave; tutto da asteriscare. Certo nel mondo dell&rsquo;ultima impressione che &egrave; quella che conta un derby vinto 3-0 ha il suo peso, senza contare le immagini iconiche dello Special One che &lsquo;allena&rsquo; la Curva Sud e le decisioni nette, alla Mourinho, come quella di escludere Zaniolo senza bisogno di pretesti fisici o tattici. Un peso che dall&rsquo;altra parte rischia di schiacciare Sarri non tanto per la Lazio della stagione in corso ma per quella che verr&agrave;: la linea Lotito-Tare funziona meglio con l&rsquo;allenatore-gestore, cosa che Sarri non &egrave; e non sar&agrave; mai. Dalla seconda met&agrave; del secondo tempo nel derby del 5 febbraio alla partita di sabato scorso con la Fiorentina: in un mese e mezzo l&rsquo;Inter ha fatto di tutto per uscire dalla lotta per lo scudetto e adesso ci &egrave; quasi riuscita. Calo atletico complessivo, con poche eccezioni (Dumfries e Perisic), attaccanti che sbagliano lo sbagliabile per motivi di et&agrave; o loro limiti, alternative quasi mai all&rsquo;altezza dei titolari ed in qualche caso, come Sensi per Brozovic, lasciate partire da Marotta con leggerezza. Insomma, l'Inter che nonostante la cessione dei due pi&ugrave; forti giocava meglio dell'Inter di Conte &egrave; scomparsa. E nonostante questo la squadra di Simone Inzaghi ha anche in questo periodo giocato a volte un calcio decente, facendo una bella figura con il Liverpool, e tutto sommato non &egrave; fuori dai giochi. Per&ograve; la visione delle partite, pi&ugrave; delle statistiche, dice che l&rsquo;Inter &egrave; in riserva, per non dire crollata, senza nemmeno provare ad attuare piano B. Magari la sosta mondiale le far&agrave; bene, ma non si vede perch&eacute; dovrebbe fare male a Milan e Napoli. O alla Juventus, dopo il disastro in Champions vittoriosa sulla Salernitana e ormai a un punto ai nerazzurri, sia pure con il solito asterisco di Bologna-Inter da recuperare. Ma quello ancora pi&ugrave; grosso di Juventus-Inter alla ripresa dopo gli spareggi mondiali. A Cagliari una partita dagli highlights ingannevoli, perch&eacute; &egrave; vero che nel finale invece di pareggiare Pavoletti ha colpito la traversa, ma &egrave; ancora pi&ugrave; vero che il Milan ha dominato una partita insidiosa contro una squadra per forza di cose (la retrocessione &egrave; a 3 punti) stramotivata. I rossoneri di Pioli hanno costruito molto e rischiato poco: Kalulu e Tomori quasi perfetti, potrebbero diventare gli insospettabili uomini scudetto ancor pi&ugrave; di Hernandez e Le&atilde;o. Mazzarri si &egrave; lamentato per un fallo da rigore di Maignan su Lovato: al di l&agrave; delle moviole fuori tempo massimo, perch&eacute; poi ogni episodio di contatto pu&ograve; essere visto diversamente, colpisce sempre la differenza di riscontro mediatico. Un conto &egrave; 51-49, un altro 100-0: basti pensare allo stesso episodio a maglie invertite, senza andare sui massimi sistemi. Difficile che Casini possa fare qualcosa in questo senso, non &egrave; che possieda giornali e televisioni, anche se il fatto che non l&rsquo;abbiano votato Juventus, Inter, Milan e Roma lascia ben sperare. Meno bene del Milan ha giocato il Napoli, che con l&rsquo;Udinese l&rsquo;ha raddrizzata grazie a Mertens ma soprattutto ad Osimhen, uno dei pochi attaccanti della Serie A da altissima Champions League: uno pagato tanto che vale tantissimo. La rosa di Spalletti &egrave; per valore medio dei singoli superiore a quella di Pioli, ma ormai siamo in una fase in cui queste considerazioni contano meno del carattere e, diciamolo perch&eacute; vale per tutti, dell'impegno delle avversarie senza obbiettivi. In coda la Sampdoria ha dato un senso a tutta la sua stagione battendo il Venezia e andando a pi&ugrave; 7 sulla squadra di Zanetti e sul Genoa, che alla fine &egrave; riuscito a vincere una partita, con il Torino. Dando per spacciata la Salernitana, le altre due retrocesse usciranno dal terzetto Cagliari-Venezia-Genoa, con il Genoa che da qualche giornata sembra la squadra pi&ugrave; in palla. Comincia la settimana pi&ugrave; importante per il calcio italiano negli ultimi quattro anni, chiss&agrave; quali discorsi faremo dopo. In base al risultato, ovviamente: s&igrave;, perch&eacute; nel mondo in cui tutti mettono le mani avanti con il mitico &lsquo;progetto&rsquo; conter&agrave; soltanto quello. Stiamo parlando della competizione pi&ugrave; importante di tutte, quella che fa la differenza fra la gloria eterna ed i riconoscimenti del presente. Detto questo, non si sono registrati suicidi per le eliminazioni europee di Juventus, Inter, Milan, eccetera, n&eacute; ci saranno per un fallimento degli azzurri: in un momento storico come questo, a maggior ragione, evitiamo di vedere drammi nel calcio. Per&ograve; siamo di fronte a quei &lsquo;Di qua o di l&agrave;&rsquo; generazionali che soltanto un Mondiale di calcio sintetizza. In concreto a preoccupare &egrave; la difesa, con Donnarumma contestato al PSG e tanti infortunati fra centrali e laterali: forse Palermo ci restituir&agrave; un po&rsquo; quel clima da notti magiche che l&rsquo;anno scorso aiut&ograve; tantissimo nel girone, poi per&ograve; Mancini e i giocatori dovranno metterci del loro.

        Mourinho si &egrave; guadagnato non diciamo l&rsquo;immortalit&agrave; ma ulteriori bonus giallorossi s&igrave;, distruggendo la Lazio nel derby e dando sostanza ad una stagione in cui una Roma non attrezzata per la lotta Champions alla fine ha fatto il massimo. Come risultati, si intende, perch&eacute; il resto &egrave; tutto da asteriscare. Certo nel mondo dell&rsquo;ultima impressione che &egrave; quella che conta un derby vinto 3-0 ha il suo peso, senza contare le immagini iconiche dello Special One che &lsquo;allena&rsquo; la Curva Sud e le decisioni nette, alla Mourinho, come quella di escludere Zaniolo senza bisogno di pretesti fisici o tattici. Un peso che dall&rsquo;altra parte rischia di schiacciare Sarri non tanto per la Lazio della stagione in corso ma per quella che verr&agrave;: la linea Lotito-Tare funziona meglio con l&rsquo;allenatore-gestore, cosa che Sarri non &egrave; e non sar&agrave; mai. Dalla seconda met&agrave; del secondo tempo nel derby del 5 febbraio alla partita di sabato scorso con la Fiorentina: in un mese e mezzo l&rsquo;Inter ha fatto di tutto per uscire dalla lotta per lo scudetto e adesso ci &egrave; quasi riuscita. Calo atletico complessivo, con poche eccezioni (Dumfries e Perisic), attaccanti che sbagliano lo sbagliabile per motivi di et&agrave; o loro limiti, alternative quasi mai all&rsquo;altezza dei titolari ed in qualche caso, come Sensi per Brozovic, lasciate partire da Marotta con leggerezza. Insomma, l'Inter che nonostante la cessione dei due pi&ugrave; forti giocava meglio dell'Inter di Conte &egrave; scomparsa. E nonostante questo la squadra di Simone Inzaghi ha anche in questo periodo giocato a volte un calcio decente, facendo una bella figura con il Liverpool, e tutto sommato non &egrave; fuori dai giochi. Per&ograve; la visione delle partite, pi&ugrave; delle statistiche, dice che l&rsquo;Inter &egrave; in riserva, per non dire crollata, senza nemmeno provare ad attuare piano B. Magari la sosta mondiale le far&agrave; bene, ma non si vede perch&eacute; dovrebbe fare male a Milan e Napoli. O alla Juventus, dopo il disastro in Champions vittoriosa sulla Salernitana e ormai a un punto ai nerazzurri, sia pure con il solito asterisco di Bologna-Inter da recuperare. Ma quello ancora pi&ugrave; grosso di Juventus-Inter alla ripresa dopo gli spareggi mondiali. A Cagliari una partita dagli highlights ingannevoli, perch&eacute; &egrave; vero che nel finale invece di pareggiare Pavoletti ha colpito la traversa, ma &egrave; ancora pi&ugrave; vero che il Milan ha dominato una partita insidiosa contro una squadra per forza di cose (la retrocessione &egrave; a 3 punti) stramotivata. I rossoneri di Pioli hanno costruito molto e rischiato poco: Kalulu e Tomori quasi perfetti, potrebbero diventare gli insospettabili uomini scudetto ancor pi&ugrave; di Hernandez e Le&atilde;o. Mazzarri si &egrave; lamentato per un fallo da rigore di Maignan su Lovato: al di l&agrave; delle moviole fuori tempo massimo, perch&eacute; poi ogni episodio di contatto pu&ograve; essere visto diversamente, colpisce sempre la differenza di riscontro mediatico. Un conto &egrave; 51-49, un altro 100-0: basti pensare allo stesso episodio a maglie invertite, senza andare sui massimi sistemi. Difficile che Casini possa fare qualcosa in questo senso, non &egrave; che possieda giornali e televisioni, anche se il fatto che non l&rsquo;abbiano votato Juventus, Inter, Milan e Roma lascia ben sperare. Meno bene del Milan ha giocato il Napoli, che con l&rsquo;Udinese l&rsquo;ha raddrizzata grazie a Mertens ma soprattutto ad Osimhen, uno dei pochi attaccanti della Serie A da altissima Champions League: uno pagato tanto che vale tantissimo. La rosa di Spalletti &egrave; per valore medio dei singoli superiore a quella di Pioli, ma ormai siamo in una fase in cui queste considerazioni contano meno del carattere e, diciamolo perch&eacute; vale per tutti, dell'impegno delle avversarie senza obbiettivi. In coda la Sampdoria ha dato un senso a tutta la sua stagione battendo il Venezia e andando a pi&ugrave; 7 sulla squadra di Zanetti e sul Genoa, che alla fine &egrave; riuscito a vincere una partita, con il Torino. Dando per spacciata la Salernitana, le altre due retrocesse usciranno dal terzetto Cagliari-Venezia-Genoa, con il Genoa che da qualche giornata sembra la squadra pi&ugrave; in palla. Comincia la settimana pi&ugrave; importante per il calcio italiano negli ultimi quattro anni, chiss&agrave; quali discorsi faremo dopo. In base al risultato, ovviamente: s&igrave;, perch&eacute; nel mondo in cui tutti mettono le mani avanti con il mitico &lsquo;progetto&rsquo; conter&agrave; soltanto quello. Stiamo parlando della competizione pi&ugrave; importante di tutte, quella che fa la differenza fra la gloria eterna ed i riconoscimenti del presente. Detto questo, non si sono registrati suicidi per le eliminazioni europee di Juventus, Inter, Milan, eccetera, n&eacute; ci saranno per un fallimento degli azzurri: in un momento storico come questo, a maggior ragione, evitiamo di vedere drammi nel calcio. Per&ograve; siamo di fronte a quei &lsquo;Di qua o di l&agrave;&rsquo; generazionali che soltanto un Mondiale di calcio sintetizza. In concreto a preoccupare &egrave; la difesa, con Donnarumma contestato al PSG e tanti infortunati fra centrali e laterali: forse Palermo ci restituir&agrave; un po&rsquo; quel clima da notti magiche che l&rsquo;anno scorso aiut&ograve; tantissimo nel girone, poi per&ograve; Mancini e i giocatori dovranno metterci del loro.       

Il derby del futuro, la scomparsa dell'Inter, la forza del Milan, il Napoli di Osimhen e una settimana generazionale.&nbsp;

Il bonus di Mourinho

&Egrave; sempre stato un one man show Jos&egrave; Mourinho. Chi non ricorda la sua prima conferenza stampa nel giorno della sua presentazione da allenatore dell&rsquo;Inter? Oltre ad affrontare i media sfoggiando un quasi perfetto italiano delizi&oacute; i presenti con risposte che forse nessun allenatore prima del portoghese aveva dato. La pi&ugrave; nota fu quel &ldquo;Io non sono un pirla&rdquo; che se ancora oggi, a distanza di oltre un decennio la digitiamo su Google esce immediatamente.&nbsp; &Egrave; sempre stato maledettamente geniale e maledettamente vincente. Ha alzato trofei con quasi tutte le squadre che ha allenato e oggi, a 58 anni, vuole ripetersi a Roma. Dal giorno della sua firma si &egrave; subito calato a 360&deg; nel progetto Roma, senza fare promesse impossibili da mantenere (vincere subito...) e cercando di creare un rapporto con la gente.&nbsp; <h2>E&#39; sempre lo stesso Mourinho</h2> Nel giorno di presentazione di Mourinho&nbsp;alla Roma, che la societ&agrave; ha organizzato in pompa magna nella splendida cornice della Terrazza Caffarelli in Campidoglio, l&#39;allenatore portoghese cita subito Marco Aurelio: &quot;Nulla viene dal nulla, come nulla ritorna nel nulla&quot;. Ha promesso di voler costruire insieme alla societ&agrave; un progetto credibile e sostenibile, ha parlato come lui sa fare in modo chiaro e diretto e ha regalato anche uno show nello show alzandosi per togliere le tende che facevano rumore in sala stampa. Prima ancora della sua presentazione in molti si sono chiesti se Mourinho fosse lo stesso Mourinho che regal&ograve; il triplete all&#39;Inter, se avesse ancora la voglia di combattere e la stessa grinta che in pochi allenatori hanno dimostrato di avere. Pi&ugrave; di qualcuno in queste prime giornate di campionato lo ha&nbsp;criticato per il suo essere troppo &quot;gentile&quot; o forse &quot;poco antipatico&quot; ma la realt&agrave; &egrave; che una delle sue principali peculiarit&agrave; che lo ha sempre contraddistinto non l&#39;ha persa. L&#39;allenatore portoghese &egrave; bravissimo a&nbsp;far parlare di se (e non della sqaudra) nei momenti di difficolt&agrave;. Il suo ripetere davanti alle telecamere che ha bisogno di rinforzi perch&egrave; ha solamente pochi giocatori da schierare e che a molti pu&ograve; sembrare un&#39;alibi non &egrave; altro che la sua&nbsp;volont&agrave; di&nbsp;distogliere l&#39;attenzione dal campo. Insomma il solito Mourinho, si con qualche anno in pi&ugrave;, ma con la sua stessa voglia di difendere &quot;i suoi uomini&quot; dentro ma sprattutto fuori dal campo e soprattutto in una piazza tanto difficile come &egrave; Roma.

&Egrave; sempre stato un one man show Jos&egrave; Mourinho. Chi non ricorda la sua prima conferenza stampa nel giorno della sua presentazione da allenatore dell&rsquo;Inter? Oltre ad affrontare i media sfoggiando un quasi perfetto italiano delizi&oacute; i presenti con risposte che forse nessun allenatore prima del portoghese aveva dato. La pi&ugrave; nota fu quel &ldquo;Io non sono un pirla&rdquo; che se ancora oggi, a distanza di oltre un decennio la digitiamo su Google esce immediatamente.&nbsp; &Egrave; sempre stato maledettamente geniale e maledettamente vincente. Ha alzato trofei con quasi tutte le squadre che ha allenato e oggi, a 58 anni, vuole ripetersi a Roma. Dal giorno della sua firma si &egrave; subito calato a 360&deg; nel progetto Roma, senza fare promesse impossibili da mantenere (vincere subito...) e cercando di creare un rapporto con la gente.&nbsp;    E&#39; sempre lo stesso Mourinho  Nel giorno di presentazione di Mourinho&nbsp;alla Roma, che la societ&agrave; ha organizzato in pompa magna nella splendida cornice della Terrazza Caffarelli in Campidoglio, l&#39;allenatore portoghese cita subito Marco Aurelio: &quot;Nulla viene dal nulla, come nulla ritorna nel nulla&quot;. Ha promesso di voler costruire insieme alla societ&agrave; un progetto credibile e sostenibile, ha parlato come lui sa fare in modo chiaro e diretto e ha regalato anche uno show nello show alzandosi per togliere le tende che facevano rumore in sala stampa. Prima ancora della sua presentazione in molti si sono chiesti se Mourinho fosse lo stesso Mourinho che regal&ograve; il triplete all&#39;Inter, se avesse ancora la voglia di combattere e la stessa grinta che in pochi allenatori hanno dimostrato di avere. Pi&ugrave; di qualcuno in queste prime giornate di campionato lo ha&nbsp;criticato per il suo essere troppo &quot;gentile&quot; o forse &quot;poco antipatico&quot; ma la realt&agrave; &egrave; che una delle sue principali peculiarit&agrave; che lo ha sempre contraddistinto non l&#39;ha persa. L&#39;allenatore portoghese &egrave; bravissimo a&nbsp;far parlare di se (e non della sqaudra) nei momenti di difficolt&agrave;. Il suo ripetere davanti alle telecamere che ha bisogno di rinforzi perch&egrave; ha solamente pochi giocatori da schierare e che a molti pu&ograve; sembrare un&#39;alibi non &egrave; altro che la sua&nbsp;volont&agrave; di&nbsp;distogliere l&#39;attenzione dal campo. Insomma il solito Mourinho, si con qualche anno in pi&ugrave;, ma con la sua stessa voglia di difendere &quot;i suoi uomini&quot; dentro ma sprattutto fuori dal campo e soprattutto in una piazza tanto difficile come &egrave; Roma. 

Il portoghese &egrave; tornato ad allenare in Italia dopo 11 anni; i Friedkin hanno voluto fortemente il portoghese per rilanciare la ambizioni della Roma &nbsp;

Mourinho, come non &egrave; cambiato lo Special One

Anche dopo il disastro in Norvegia contro il Bod&oslash;/Glimt, un 6-1 che guardando al valore degli avversari e non solo ai numeri &egrave; la pi&ugrave; grande disfatta europea nella storia della Roma, Mourinho non &egrave; certo fuori dalla Conference League anche se il suo stato d&rsquo;animo &egrave; quello di un allenatore che mai prima di questa partita aveva subito 6 gol in 90 minuti. Lo Special One si &egrave; preso tutte le colpe, almeno a parole, ma facendo capire di avere messo in campo apposta una sorta di formazione sperimentale, con due soli titolari. Cosa da lui pi&ugrave; volte sottolineata, come a voler evidenziare il basso valore complessivo della rosa. Chiss&agrave; come saranno contenti i Friedkin e Tiago Pinto&hellip; Ma al di l&agrave; delle parole, quanto vale la rosa della Roma? O, per essere ancora pi&ugrave; precisi, quanto valgono i giocatori della Roma che Mourinho non &lsquo;vede&rsquo; pi&ugrave;? Secondo Transfermarkt i giocatori della Roma hanno un valore di mercato di 429,5 milioni di euro: si va dai 45 milioni, ovviamente teorici fino a quando qualcuno non li tira effettivamente fuori per l&rsquo;acquisto, di Lorenzo Pellegrini, fino ai 2 milioni di Darboe, per citare giocatori in campo ieri e non gente di fatto fuori rosa come Santon e Fazio. La rosa del Bod&oslash;/Glimt varrebbe invece meno di 15 milioni complessivi, pi&ugrave; o meno la valutazione del solo Villar. Insomma, la Roma B non sar&agrave; all&rsquo;altezza della Roma A, cosa comunque discutibile visti i tanti giocatori che con Fonseca facevano bene e ora sono quasi spariti, ma certo non &egrave; una squadra che possa essere asfaltata dal Bod&oslash;/Glimt. Anche perch&eacute; la storia europea di Mourinho parla chiaro: negli ultimi vent&rsquo;anni in qualsiasi competizione internazionale affrontata &egrave; sempre riuscito ad arrivare alla fase ad eliminazione diretta: 2 vittorie (con Porto e Inter) &nbsp;e 6 semifinali in Champions League, una vittoria in Coppa UEFA con il Porto ed una in Europa League con il Manchester United, comunque mai meno degli ottavi di finale tranne una volta agli inizi con il Porto. &Egrave; anche per questo che l&rsquo;allenatore portoghese &egrave; quello che ha vissuto peggio di tutti questa figuraccia, magari utile a farsi prendere i giocatori desiderati ma che comunque rimarr&agrave; nella memoria.&nbsp;

Anche dopo il disastro in Norvegia contro il Bod&oslash;/Glimt, un 6-1 che guardando al valore degli avversari e non solo ai numeri &egrave; la pi&ugrave; grande disfatta europea nella storia della Roma, Mourinho non &egrave; certo fuori dalla Conference League anche se il suo stato d&rsquo;animo &egrave; quello di un allenatore che mai prima di questa partita aveva subito 6 gol in 90 minuti. Lo Special One si &egrave; preso tutte le colpe, almeno a parole, ma facendo capire di avere messo in campo apposta una sorta di formazione sperimentale, con due soli titolari. Cosa da lui pi&ugrave; volte sottolineata, come a voler evidenziare il basso valore complessivo della rosa. Chiss&agrave; come saranno contenti i Friedkin e Tiago Pinto&hellip;  Ma al di l&agrave; delle parole, quanto vale la rosa della Roma? O, per essere ancora pi&ugrave; precisi, quanto valgono i giocatori della Roma che Mourinho non &lsquo;vede&rsquo; pi&ugrave;? Secondo Transfermarkt i giocatori della Roma hanno un valore di mercato di 429,5 milioni di euro: si va dai 45 milioni, ovviamente teorici fino a quando qualcuno non li tira effettivamente fuori per l&rsquo;acquisto, di Lorenzo Pellegrini, fino ai 2 milioni di Darboe, per citare giocatori in campo ieri e non gente di fatto fuori rosa come Santon e Fazio. La rosa del Bod&oslash;/Glimt varrebbe invece meno di 15 milioni complessivi, pi&ugrave; o meno la valutazione del solo Villar. Insomma, la Roma B non sar&agrave; all&rsquo;altezza della Roma A, cosa comunque discutibile visti i tanti giocatori che con Fonseca facevano bene e ora sono quasi spariti, ma certo non &egrave; una squadra che possa essere asfaltata dal Bod&oslash;/Glimt.  Anche perch&eacute; la storia europea di Mourinho parla chiaro: negli ultimi vent&rsquo;anni in qualsiasi competizione internazionale affrontata &egrave; sempre riuscito ad arrivare alla fase ad eliminazione diretta: 2 vittorie (con Porto e Inter) &nbsp;e 6 semifinali in Champions League, una vittoria in Coppa UEFA con il Porto ed una in Europa League con il Manchester United, comunque mai meno degli ottavi di finale tranne una volta agli inizi con il Porto. &Egrave; anche per questo che l&rsquo;allenatore portoghese &egrave; quello che ha vissuto peggio di tutti questa figuraccia, magari utile a farsi prendere i giocatori desiderati ma che comunque rimarr&agrave; nella memoria.&nbsp; 

La disfatta con il Bod&oslash;/Glimt e le parole dell&#39;allenatore hanno aperto il dibattito sul reale valore della rosa giallorossa, al di l&agrave; dei titolari...

Il valore della Roma e di Mourinho

Juventus-Roma &egrave; una di quelle classiche che hanno fatto la storia del calcio italiano: nella storia della serie A i giallorossi sono stati l&rsquo;avversario pi&ugrave; frequente (174 partite) dei bianconeri, meno dell&rsquo;Inter ma pi&ugrave; del Milan e di tutte le altre squadre. Il bilancio prima della sfida di domenica sera dice 83 vittorie della Juventus, 41 della Roma e 50 pareggi. Se invece guardiamo al bilancio della sfide fra Allegri e Mourinho la situazione si ribalta: nei non tanti, in totale 8, confronti diretti l&rsquo;attuale allenatore della Roma ha vinto 4 volte, contro le 2 di Allegri e 2 pareggi. <div class="videoWrapper"> <div class="dugout-video dugout-embed-eyJrZXkiOiJON3lrenJnTSIsInAiOiJndWVyaW5zcG9ydGl2byIsInBsIjoiIn0=">&nbsp;</div> <script type="text/javascript" src="https://embed.dugout.com/v3.1/guerinsportivo.js"></script></div> Una storia interessante, che va al di l&agrave; dei freddi numeri e che parte il 10 gennaio 2009 a San Siro, con il pareggio fra l&rsquo;Inter del gi&agrave; celebrato Mourinho ed il Cagliari dell&rsquo;emergente Allegri, all&rsquo;epoca considerato allenatore da progetto mentre oggi &egrave; quasi l&rsquo;icona del calcio all&rsquo;italiana, resultadista e poco altro. Era l&rsquo;Inter della stagione pre-Triplete, che aveva in Ibrahimovic il leader, e fu proprio l&rsquo;attuale milanista a pareggiare il gol di Acquafresca. Nella partita di ritorno, il 24 maggio, ai gol di Ibra e di Acquafresca si aggiunse quello di Cossu, dando ad Allegri una di quelle vittorie da copertina che un anno dopo su scelta di Galliani gli avrebbero fatto guadagnare la panchina del Milan al posto di Leonardo. Nella stagione seguente altre due sfide dirette in campionato, per&ograve; con due vittorie di Mourinho: 2-1 a Cagliari il 20 settembre 2009, con una doppietta di Milito a ribaltare il rigore di Jeda, e 3-0 a San Siro il 7 febbraio 2010, gol di Pandev, Samuel e di quel Milito in missione in una squadra gi&agrave; di suo in missione. Se queste prime quattro partite sono da asteriscare, perch&eacute; le rose e gli obbiettivi di Cagliari e Inter erano troppo diversi, non altrettanto si pu&ograve; dire delle 4 sfide con Allegri alla guida di un grande club. Partito Mourinho per Madrid proprio nel 2010, subito Allegri se lo ritrov&ograve; contro nella fase a gironi della Champions League: il 19 ottobre al Bernabeu il Real vinse 2-0 grazie ai gol di Cristiano Ronaldo e Ozil, mentre il ritorno del 3 novembre a San Siro regal&ograve; uno spettacolare 2-2. Higuain per un Real che in attacco aveva anche Cristiano Ronaldo, Ozil e Di Maria, con Benzema (!) panchinaro, doppietta del trentottenne Pippo Inzaghi e pareggio definitivo di Pedro Leon. Da allora i casi della vita e della Champions hanno voluto che quasi mai Allegri e Mourinho si trovassero faccia a faccia in campo: una cosa abbastanza curiosa, visto che solo negli ultimi due anni uno dei due (Allegri) &egrave; stato totalmente inattivo. Arriviamo cos&igrave; alla fase a gironi della Champions League 2018-19, l&rsquo;ultima della prima vita juventina di Allegri, con l&rsquo;impresa bianconera all&rsquo;Old Trafford contro il Manchester United allenato da Mourinho: quel 23 ottobre il gol della vittoria fu di Paulo Dybala, contro avversari che avevano gi&agrave; Pogba come leader ed al centro dell&rsquo;attacco Romelu Lukaku&hellip; Per Mourinho la rivincita sarebbe arrivata il 7 novembre all&rsquo;Allianz Stadium: vantaggio bianconero con Cristiano Ronaldo, poi pareggio di Mata e vittoria dei Red Devils con autorete di Alex Sandro. Una partita rimasta nella memoria con un&rsquo;immagine iconica, quella delle orecchie mostrate da Mourinho al pubblico. Insomma, in rapporto alle loro grandi e lunghe carriere Allegri e Mourinho si sono finora incrociati poco. Hanno stima reciuproca, essendo la loro visione del calcio molto simile, ma proprio per questo non potranno mai amarsi.

Juventus-Roma &egrave; una di quelle classiche che hanno fatto la storia del calcio italiano: nella storia della serie A i giallorossi sono stati l&rsquo;avversario pi&ugrave; frequente (174 partite) dei bianconeri, meno dell&rsquo;Inter ma pi&ugrave; del Milan e di tutte le altre squadre. Il bilancio prima della sfida di domenica sera dice 83 vittorie della Juventus, 41 della Roma e 50 pareggi. Se invece guardiamo al bilancio della sfide fra Allegri e Mourinho la situazione si ribalta: nei non tanti, in totale 8, confronti diretti l&rsquo;attuale allenatore della Roma ha vinto 4 volte, contro le 2 di Allegri e 2 pareggi.   &nbsp;   Una storia interessante, che va al di l&agrave; dei freddi numeri e che parte il 10 gennaio 2009 a San Siro, con il pareggio fra l&rsquo;Inter del gi&agrave; celebrato Mourinho ed il Cagliari dell&rsquo;emergente Allegri, all&rsquo;epoca considerato allenatore da progetto mentre oggi &egrave; quasi l&rsquo;icona del calcio all&rsquo;italiana, resultadista e poco altro. Era l&rsquo;Inter della stagione pre-Triplete, che aveva in Ibrahimovic il leader, e fu proprio l&rsquo;attuale milanista a pareggiare il gol di Acquafresca. Nella partita di ritorno, il 24 maggio, ai gol di Ibra e di Acquafresca si aggiunse quello di Cossu, dando ad Allegri una di quelle vittorie da copertina che un anno dopo su scelta di Galliani gli avrebbero fatto guadagnare la panchina del Milan al posto di Leonardo. Nella stagione seguente altre due sfide dirette in campionato, per&ograve; con due vittorie di Mourinho: 2-1 a Cagliari il 20 settembre 2009, con una doppietta di Milito a ribaltare il rigore di Jeda, e 3-0 a San Siro il 7 febbraio 2010, gol di Pandev, Samuel e di quel Milito in missione in una squadra gi&agrave; di suo in missione.  Se queste prime quattro partite sono da asteriscare, perch&eacute; le rose e gli obbiettivi di Cagliari e Inter erano troppo diversi, non altrettanto si pu&ograve; dire delle 4 sfide con Allegri alla guida di un grande club. Partito Mourinho per Madrid proprio nel 2010, subito Allegri se lo ritrov&ograve; contro nella fase a gironi della Champions League: il 19 ottobre al Bernabeu il Real vinse 2-0 grazie ai gol di Cristiano Ronaldo e Ozil, mentre il ritorno del 3 novembre a San Siro regal&ograve; uno spettacolare 2-2. Higuain per un Real che in attacco aveva anche Cristiano Ronaldo, Ozil e Di Maria, con Benzema (!) panchinaro, doppietta del trentottenne Pippo Inzaghi e pareggio definitivo di Pedro Leon. Da allora i casi della vita e della Champions hanno voluto che quasi mai Allegri e Mourinho si trovassero faccia a faccia in campo: una cosa abbastanza curiosa, visto che solo negli ultimi due anni uno dei due (Allegri) &egrave; stato totalmente inattivo.  Arriviamo cos&igrave; alla fase a gironi della Champions League 2018-19, l&rsquo;ultima della prima vita juventina di Allegri, con l&rsquo;impresa bianconera all&rsquo;Old Trafford contro il Manchester United allenato da Mourinho: quel 23 ottobre il gol della vittoria fu di Paulo Dybala, contro avversari che avevano gi&agrave; Pogba come leader ed al centro dell&rsquo;attacco Romelu Lukaku&hellip; Per Mourinho la rivincita sarebbe arrivata il 7 novembre all&rsquo;Allianz Stadium: vantaggio bianconero con Cristiano Ronaldo, poi pareggio di Mata e vittoria dei Red Devils con autorete di Alex Sandro. Una partita rimasta nella memoria con un&rsquo;immagine iconica, quella delle orecchie mostrate da Mourinho al pubblico. Insomma, in rapporto alle loro grandi e lunghe carriere Allegri e Mourinho si sono finora incrociati poco. Hanno stima reciuproca, essendo la loro visione del calcio molto simile, ma proprio per questo non potranno mai amarsi. 

La sfida dello Stadium &egrave; anche quella fra due allenatori che nonostante le lunghe carriere si sono incrociati relativamente poco. Ma sempre con scintille, al di l&agrave; del gesto delle orecchie di tre anni fa...

Juventus-Roma, rarit&agrave; di Allegri-Mourinho

Il 12 settembre contro il Sassuolo una panchina da record per il nuovo allenator della Roma

Mille volte Mourinho

Vincere una Champions League non &egrave; mai solo una questione di fortuna. Anche se il 26 maggio 2004 molti osservatori, trovandosi a commentare la vittoria finale del Porto sul Monaco alla Veltins Arena di Gelsenkirchen, pensarono che quella squadra composta da buoni giocatori ma non da fuoriclasse assoluti avesse avuto la sua buona dose di grazia dal fato. Considerazione non solo opinabile ma, soprattutto, contraddetta dai fatti, visto che quella squadra guidata da Jos&egrave; Mourinho sulla vetta d&rsquo;Europa ci arriv&ograve; dopo un cammino che veniva da lontano. L&rsquo;uomo di Setubal aveva preso le redini dei Drag&otilde;es nel corso della stagione 2001-02, sostituendo l&rsquo;esonerato Machado. Assistito da un altro futuro big delle panchine, Andr&egrave; Villas-Boas, Mourinho ottiene un terzo posto sul quale costruisce idee e programmi per andare oltre. La stagione successiva il Porto ruba la scena delle competizioni alle quali partecipa, vincendo praticamente tutto: campionato, coppa nazionale e Coppa Uefa. Per il quarantenne tecnico sono le prove generali in formato ridotto di quello che riuscir&agrave; a compiere sette anni pi&ugrave; tardi con la squadra di campioni che gli metter&agrave; a disposizione la voglia di gloria di Massimo Moratti. Quel Porto &egrave; una squadra sicuramente con meno mezzi ma che si regge su principi solidi: una rosa che fa ricorso agli stranieri solo quanto basta (su tutti il russo Alenitchev, vecchia conoscenza del calcio italiano, e il brasiliano Derlei) e uno spirito di corpo che consente di colmare il gap tecnico con compagini pi&ugrave; quotate. Forse non tanto in patria, dove la vittoria del campionato arriva con un distacco di undici punti sugli storici rivali del Benfica che non ha bisogno di analisi approfondite, quanto in Europa, dove il Porto giunge in finale dopo aver perentoriamente rimosso dalla corsa al titolo la Lazio di Roberto Mancini.&nbsp; <h2>Il preludio della vittoria&nbsp;</h2> A Siviglia, il 21 maggio 2003, i Drag&otilde;es affrontano il Celtic di Henrik Larsson, futuro attaccante del Barcellona, che sulla strada per la finale ha cancellato dal torneo Stoccarda, Liverpool e Boavista. Squadra tosta, fisica e determinata, che viene abbattuta nei supplementari con un gol di Derlei. &Egrave; il primo segnale di una statura tecnica e carismatica che vedr&agrave; il suo pieno compimento l&rsquo;anno successivo, quando nove undicesimi della squadra scesa in campo dal primo minuto a Siviglia usciranno dagli spogliatoi della Veltins Arena di Gelsenkirchen per andare a vincere la coppa dalle grandi orecchie. Ragazzi di buon talento, che giocano in armonia, responsabilizzati e resi consapevoli da quell&rsquo;allenatore che, per quanto ambizioso, nella notte andalusa forse la Champions gi&agrave; la sogna ma di certo non pu&ograve; ancora sentirla cos&igrave; vicina. Nello spazio di appena dodici mesi e qualche giorno, un&rsquo;avventura impossibile trova il tempo per diventare il racconto di un sogno che, partita dopo partita, si trasforma nella realt&agrave; di un nome impresso per sempre sull&rsquo;albo d&rsquo;oro della competizione europea per club pi&ugrave; gloriosa.&nbsp; <h2>La strada verso la gloria</h2> Un viaggio che comincia a settembre nel girone eliminatorio dove il secondo posto alle spalle dei Galacticos del Real Madrid &egrave; poco pi&ugrave; che una formalit&agrave;: Olympique Marsiglia e Partizan non possono impensierire i vincitori della Coppa UEFA. Il regolamento &egrave; cambiato: per la prima volta dal 1991 il passaggio del primo turno porta immediatamente alla fase a eliminazione diretta. Rimossa, quindi, l&rsquo;esperienza della seconda fase a gironi, il Porto viene accoppiato al Manchester United di Sir Alex Ferguson. Non &egrave; una sfida semplice ma un doppio match nel quale una eventuale qualificazione significherebbe avere la piena consapevolezza di poter arrivare in fondo alla competizione, fino alla fine. Ed &egrave; proprio alla fine, all&rsquo;ultimo minuto della partita di ritorno, che il Porto supera l&rsquo;ostacolo pi&ugrave; alto del suo cammino, al termine di 180 minuti che meritano un racconto a parte, nel quale un pizzico di buona sorte gioca il suo inevitabile ruolo, che mai viene meno in una storia di successo. Quella fatalit&agrave; positiva che, anche se indirettamente, torna a sostenere gli uomini di Mourinho nei quarti di finale prendendo le sembianze del Deportivo La Coruna, guarda caso stessa maglia del Porto, che in un incredibile doppio match toglie dalla competizione il Milan campione in carica (nonch&eacute; vincitore contro il Porto, pochi mesi prima, nella finale della Supercoppa Uefa) dopo aver perso 4-1 all&rsquo;andata. I galiziani, in semifinale, lasciano un pertugio al passaggio dei portoghesi (un rigore di Derlei &egrave; l&rsquo;unico gol delle due partite), che dopo un anno tornano a disputare una finale europea.&nbsp; <h2>L&rsquo;ultimo atto di uno splendido cammino</h2> Anzi: la finale, quella con l&rsquo;iniziale maiuscola, quella che lascia il segno per sempre nella mente dei tifosi e nell&rsquo;anima dei giocatori. Una finale inedita, quella col Monaco allenato da Didier Deschamps, nella quale, dopo un inizio favorevole ai ragazzi del Principato, il Porto gioca al gatto col topo: 3-0 senza appello (gol di Carlos Alberto, Deco e Alenitchev) apice di un cammino iniziato due anni e mezzo prima e arrivato a compimento con un&rsquo;accelerazione impossibile che riporta in citt&agrave; quel fremito di vittoria gi&agrave; vibrato 17 anni prima col tacco di Allah.

        Vincere una Champions League non &egrave; mai solo una questione di fortuna. Anche se il 26 maggio 2004 molti osservatori, trovandosi a commentare la vittoria finale del Porto sul Monaco alla Veltins Arena di Gelsenkirchen, pensarono che quella squadra composta da buoni giocatori ma non da fuoriclasse assoluti avesse avuto la sua buona dose di grazia dal fato. Considerazione non solo opinabile ma, soprattutto, contraddetta dai fatti, visto che quella squadra guidata da Jos&egrave; Mourinho sulla vetta d&rsquo;Europa ci arriv&ograve; dopo un cammino che veniva da lontano. L&rsquo;uomo di Setubal aveva preso le redini dei Drag&otilde;es nel corso della stagione 2001-02, sostituendo l&rsquo;esonerato Machado. Assistito da un altro futuro big delle panchine, Andr&egrave; Villas-Boas, Mourinho ottiene un terzo posto sul quale costruisce idee e programmi per andare oltre. La stagione successiva il Porto ruba la scena delle competizioni alle quali partecipa, vincendo praticamente tutto: campionato, coppa nazionale e Coppa Uefa. Per il quarantenne tecnico sono le prove generali in formato ridotto di quello che riuscir&agrave; a compiere sette anni pi&ugrave; tardi con la squadra di campioni che gli metter&agrave; a disposizione la voglia di gloria di Massimo Moratti. Quel Porto &egrave; una squadra sicuramente con meno mezzi ma che si regge su principi solidi: una rosa che fa ricorso agli stranieri solo quanto basta (su tutti il russo Alenitchev, vecchia conoscenza del calcio italiano, e il brasiliano Derlei) e uno spirito di corpo che consente di colmare il gap tecnico con compagini pi&ugrave; quotate. Forse non tanto in patria, dove la vittoria del campionato arriva con un distacco di undici punti sugli storici rivali del Benfica che non ha bisogno di analisi approfondite, quanto in Europa, dove il Porto giunge in finale dopo aver perentoriamente rimosso dalla corsa al titolo la Lazio di Roberto Mancini.&nbsp;   Il preludio della vittoria&nbsp;   A Siviglia, il 21 maggio 2003, i Drag&otilde;es affrontano il Celtic di Henrik Larsson, futuro attaccante del Barcellona, che sulla strada per la finale ha cancellato dal torneo Stoccarda, Liverpool e Boavista. Squadra tosta, fisica e determinata, che viene abbattuta nei supplementari con un gol di Derlei. &Egrave; il primo segnale di una statura tecnica e carismatica che vedr&agrave; il suo pieno compimento l&rsquo;anno successivo, quando nove undicesimi della squadra scesa in campo dal primo minuto a Siviglia usciranno dagli spogliatoi della Veltins Arena di Gelsenkirchen per andare a vincere la coppa dalle grandi orecchie. Ragazzi di buon talento, che giocano in armonia, responsabilizzati e resi consapevoli da quell&rsquo;allenatore che, per quanto ambizioso, nella notte andalusa forse la Champions gi&agrave; la sogna ma di certo non pu&ograve; ancora sentirla cos&igrave; vicina. Nello spazio di appena dodici mesi e qualche giorno, un&rsquo;avventura impossibile trova il tempo per diventare il racconto di un sogno che, partita dopo partita, si trasforma nella realt&agrave; di un nome impresso per sempre sull&rsquo;albo d&rsquo;oro della competizione europea per club pi&ugrave; gloriosa.&nbsp;   La strada verso la gloria   Un viaggio che comincia a settembre nel girone eliminatorio dove il secondo posto alle spalle dei Galacticos del Real Madrid &egrave; poco pi&ugrave; che una formalit&agrave;: Olympique Marsiglia e Partizan non possono impensierire i vincitori della Coppa UEFA. Il regolamento &egrave; cambiato: per la prima volta dal 1991 il passaggio del primo turno porta immediatamente alla fase a eliminazione diretta. Rimossa, quindi, l&rsquo;esperienza della seconda fase a gironi, il Porto viene accoppiato al Manchester United di Sir Alex Ferguson. Non &egrave; una sfida semplice ma un doppio match nel quale una eventuale qualificazione significherebbe avere la piena consapevolezza di poter arrivare in fondo alla competizione, fino alla fine. Ed &egrave; proprio alla fine, all&rsquo;ultimo minuto della partita di ritorno, che il Porto supera l&rsquo;ostacolo pi&ugrave; alto del suo cammino, al termine di 180 minuti che meritano un racconto a parte, nel quale un pizzico di buona sorte gioca il suo inevitabile ruolo, che mai viene meno in una storia di successo. Quella fatalit&agrave; positiva che, anche se indirettamente, torna a sostenere gli uomini di Mourinho nei quarti di finale prendendo le sembianze del Deportivo La Coruna, guarda caso stessa maglia del Porto, che in un incredibile doppio match toglie dalla competizione il Milan campione in carica (nonch&eacute; vincitore contro il Porto, pochi mesi prima, nella finale della Supercoppa Uefa) dopo aver perso 4-1 all&rsquo;andata. I galiziani, in semifinale, lasciano un pertugio al passaggio dei portoghesi (un rigore di Derlei &egrave; l&rsquo;unico gol delle due partite), che dopo un anno tornano a disputare una finale europea.&nbsp;  L&rsquo;ultimo atto di uno splendido cammino   Anzi: la finale, quella con l&rsquo;iniziale maiuscola, quella che lascia il segno per sempre nella mente dei tifosi e nell&rsquo;anima dei giocatori. Una finale inedita, quella col Monaco allenato da Didier Deschamps, nella quale, dopo un inizio favorevole ai ragazzi del Principato, il Porto gioca al gatto col topo: 3-0 senza appello (gol di Carlos Alberto, Deco e Alenitchev) apice di un cammino iniziato due anni e mezzo prima e arrivato a compimento con un&rsquo;accelerazione impossibile che riporta in citt&agrave; quel fremito di vittoria gi&agrave; vibrato 17 anni prima col tacco di Allah.          

Nel 2004 lo Special One sal&igrave; sul tetto d'Europa con la squadra portoghese partendo da outsider

Il capolavoro di Mourinho: la Champions League con il Porto

La Roma ha messo a segno un colpo a sensazione, ingaggiando Jos&egrave; Mourinho per le prossime tre stagioni, fino al 2024. Un&#39;operazione, quella dei Friedkin, di grandissimo impatto mediatico e che serve anche a far digerire ai tifosi giallorossi una stagione deludente, peraltro in parte imputabile alle situazioni trovate. Addio quindi a Fonseca, gi&agrave; ufficializzato. Ma questo non toglie che tutto il mondo adesso parli di Mourinho alla Roma visto che a dispetto delle ultime stagioni, e soprattutto delle due ultime mezze stagioni al Tottenham, il cinquantottenne portoghese sia forse l&#39;allenatore pi&ugrave; riconoscibile al mondo. In Italia manca dai tempi del Triplete con l&#39;Inter, quindi dal 2010: da allora tre stagioni al Real Madrid, due e mezzo come seconda vita al Chelsea, due e mezzo al Manchester United e poi il Tottenham, con il primo anno ben raccontato da &#39;All or nothing&#39;, la serie di Amazon. Negli ultimi 11 anni Mourinho ha quindi vinto una Premier League, una Liga, una Europa League, due Coppe di Lega inglese, una Coppa di Spagna e una Supercoppa di Spagna, sfiorando altri trofei e comunque sempre da protagonista in due realt&agrave; di pesi massimi come la Liga e la Premier League. Certo soprattutto in Inghilterra ha abbassato i toni ed &egrave; sembrato quasi un parente del Mourinho interista, ma la Roma lo ha ingaggiato sia pensando alla sua immagine internazionale sia alla sua capacit&agrave; di trascinare un ambiente. Per la Serie A un grandissimo ritorno, per certo versi simile a quello di un anno fa di Ibrahimovic con il Milan.

La Roma ha messo a segno un colpo a sensazione, ingaggiando Jos&egrave; Mourinho per le prossime tre stagioni, fino al 2024. Un&#39;operazione, quella dei Friedkin, di grandissimo impatto mediatico e che serve anche a far digerire ai tifosi giallorossi una stagione deludente, peraltro in parte imputabile alle situazioni trovate. Addio quindi a Fonseca, gi&agrave; ufficializzato. Ma questo non toglie che tutto il mondo adesso parli di Mourinho alla Roma visto che a dispetto delle ultime stagioni, e soprattutto delle due ultime mezze stagioni al Tottenham, il cinquantottenne portoghese sia forse l&#39;allenatore pi&ugrave; riconoscibile al mondo. In Italia manca dai tempi del Triplete con l&#39;Inter, quindi dal 2010: da allora tre stagioni al Real Madrid, due e mezzo come seconda vita al Chelsea, due e mezzo al Manchester United e poi il Tottenham, con il primo anno ben raccontato da &#39;All or nothing&#39;, la serie di Amazon. Negli ultimi 11 anni Mourinho ha quindi vinto una Premier League, una Liga, una Europa League, due Coppe di Lega inglese, una Coppa di Spagna e una Supercoppa di Spagna, sfiorando altri trofei e comunque sempre da protagonista in due realt&agrave; di pesi massimi come la Liga e la Premier League. Certo soprattutto in Inghilterra ha abbassato i toni ed &egrave; sembrato quasi un parente del Mourinho interista, ma la Roma lo ha ingaggiato sia pensando alla sua immagine internazionale sia alla sua capacit&agrave; di trascinare un ambiente. Per la Serie A un grandissimo ritorno, per certo versi simile a quello di un anno fa di Ibrahimovic con il Milan. 

La societ&agrave; giallorossa ha ingaggiato per le prossime tre stagioni lo Special One, reduce dall&#39;esonero al Tottenham ma ancora con una grandissima immagine in tutto il mondo...

Roma, Mourinho nuovo allenatore

Chiss&agrave; se quei 43 scissionisti, che la sera del 9 marzo 1908 si ritrovarono al ristorante L'Orologio per brindare alla nascita dell'FC Internazionale, avrebbero mai immaginato cosa sarebbe diventata la loro neonata creatura in Italia e nel mondo. A 113 anni da quel giorno di autunno i nerazzurri si ritrovano ad alzare nuovamente i calici al cielo, stavolta per festeggiare lo scudetto numero 19 della loro storia. Una storia gloriosa, fatta di trofei e personaggi che rimarranno per sempre nella leggenda. Conte come Resegotti, Weisz, Cargnelli, Foni, Herrera, Invernizzi, Bersellini, Trapattoni, Mancini e Mourinho, gli altri allenatori che hanno conquistato il titolo di campione d'Italia con i colori nerazzurri. <h2>&Egrave; dell'Inter il primo campionato a girone unico</h2> Il primo alloro per l'Inter arriva nel 1910, quando la squadra chiude il girone al primo posto con 25 punti, gli stessi della Pro Vercelli. Per decidere il vincitore &egrave; necessario uno spareggio che andr&agrave; in scena il 24 aprile a Vercelli per via della migliore differenza reti. I piemontesi, per&ograve;, protestano in quanto alcuni calciatori sono impegnati lo stesso giorno in un torneo militare, mandano in campo la Primavera e l'Inter trionfa per 10-3. Per tornare a vincere in campionato bisogna aspettare dieci anni esatti (1919-20), quando la squadra guidata da Resegotti in panchina e Virgilio Fossati in campo supera nella finalissima il Livorno per 3-2. La tradizione dei trionfi interisti a fine decennio si rinnova anche nel 1929-30 con la conquista del primo campionato a girone unico. Stavolta i protagonisti sono Arpad Weisz, inventore del Metodo, e Giuseppe Meazza. Pepin in campo fa quello che vuole, diventando ben presto uno degli attaccanti pi&ugrave; forti della storia del calcio italiano. &Egrave; lo scudetto dell'Ambrosiana. S&igrave;, perch&eacute; l'8 settembre 1928 l'Inter si fonde con l'Unione Sportiva Milanese e assume la nuova denominazione. Dopo il dominio della Juve, che vince per cinque anni consecutivi, e i due scudetti del Bologna, i nerazzurri trionfano di nuovo nel 1938 e nel 1940. <h2>L'Inter di Foni: "Veleno" e difesa</h2> A dominare gli anni 40' nel calcio italiano &egrave; il Grande Torino, che finir&agrave; la propria corsa tragicamente sulla collina di Superga il 4 maggio 1949. L'Inter si riprende il suo spazio all'inizio del decennio successivo, quando Masseroni chiama in panchina Foni. Alfredo, da buon ex difensore, arretra il terzino Blason nel ruolo di libero alle spalle di Giovannini e Giacomazzi e lascia le chiavi dell'attacco in mano a un tridente da sogno: Nyers e Skoglund larghi, il mitico Lorenzi, detto Veleno, in mezzo. Solidit&agrave; difensiva e cinismo in avanti portano i nerazzurri a vincere lo scudetto nel 1953 e nel &lsquo;54. <h2>La Grande Inter di Herrera e Angelo Moratti</h2> Un anno dopo un cambio epocale. Il petroliere Angelo Moratti diventa il nuovo presidente e fin da subito fa capire quale sono le sue intenzioni: offre 400 milioni a Pel&eacute; e nel 1957 ingaggia Antonio Valentin Angelillo, giovane dal baffo sottile e dal capello cotonato che sulla palla danza come un ballerino di tango. Per vincere, per&ograve;, c'&egrave; bisogno di lui, il Mago Helenio Herrera, quello che trasformer&agrave; l'Inter nella Grande Inter e che nel giro di cinque anni, dal 1962 al 1967, far&agrave; incetta di trofei in Italia e nel mondo: tre scudetti (1963, 1965 e 1966, quello della stella), due Coppe dei Campioni e due Coppe Intercontinentali strappate entrambe all'Independiente. E cos&igrave;, mentre il mondo piange la morte di Papa Giovanni XXIII (3 giugno 1963) e di John Kennedy (22 novembre dello stesso anno), i tifosi nerazzurri si godono l'era di Sarti, Burgnich, Facchetti... L'Inter di Herrera e Angelo Moratti &egrave; nella storia, nella leggenda, nel mito. <h2>Da Invernizzi e Bersellini allo scudetto dei record con il Trap</h2> Un altro Herrera, dopo la parentesi Foni nella stagione 1968-69, si posiziona al timone dell'Inter: si tratta di Heriberto. La sua esperienza sulla panchina dell'Inter dura fino alle prime giornate del 1971 quando Fraizzoli, nuovo presidente, dopo un avvio con il freno a mano tirato, decide di sostituirlo con il tecnico della Primavera Giovanni Invernizzi. "Robiolina"&nbsp;recupera terreno e a fine stagione conquista il tricolore. I nerazzurri tornano a gioire, come quasi da tradizione, a inizio decennio (1979-80) con il Sergente di Ferro Eugenio Bersellini in panchina e Beccalossi in campo. Intanto, vengono riaperte le frontiere e l'Inter inizia a parlare tedesco. I tifosi sognano con Rummenigge, ma &egrave; con Matth&auml;us e Brehme che vincono. Il Panzer inventa calcio, Zenga abbassa la saracinesca, Bergomi e Ferri non lasciano passare nemmeno l'aria, Berti galoppa come un moderno centrocampista box to box, Serena e Diaz la mettono dentro. L'Inter del Trap &egrave; una macchina infallibile, e abbattendo ogni record si porta a casa lo scudetto 1988-89. <h2>Il "Risorgimento" di Mancini e l'apoteosi con Mourinho</h2> Gli anni '90 regalano ai tifosi nerazzurri il ritorno al timone della famiglia Moratti, con Massimo che acquista il club nel 1995, e lo sbarco di un alieno: il Fenomeno, Ronaldo. Il campo non regala i trofei che una rosa straordinaria meriterebbe, e gli unici trionfi arrivano in Coppa Uefa: 1991, 1994 e 1998. Per tornare a vincere lo scudetto bisogna aspettare Roberto Mancini, che guida i nerazzurri al successo dal 2006 al 2008. Poi l'arrivo di Jos&eacute; Mourinho. Lo Special One mette la firma su altri due scudetti e regala ai tifosi la stagione pi&ugrave; Pazza di sempre, quella 2009-10. L'Inter &egrave; di nuovo sul tetto del mondo come con Helenio Herrera, conquista il Triplete e corona il sogno di quei 43 scissionisti che diedero inizio a un sogno chiamato Internazionale.&nbsp;

        Chiss&agrave; se quei 43 scissionisti, che la sera del 9 marzo 1908 si ritrovarono al ristorante L'Orologio per brindare alla nascita dell'FC Internazionale, avrebbero mai immaginato cosa sarebbe diventata la loro neonata creatura in Italia e nel mondo. A 113 anni da quel giorno di autunno i nerazzurri si ritrovano ad alzare nuovamente i calici al cielo, stavolta per festeggiare lo scudetto numero 19 della loro storia. Una storia gloriosa, fatta di trofei e personaggi che rimarranno per sempre nella leggenda. Conte come Resegotti, Weisz, Cargnelli, Foni, Herrera, Invernizzi, Bersellini, Trapattoni, Mancini e Mourinho, gli altri allenatori che hanno conquistato il titolo di campione d'Italia con i colori nerazzurri. &Egrave; dell'Inter il primo campionato a girone unico Il primo alloro per l'Inter arriva nel 1910, quando la squadra chiude il girone al primo posto con 25 punti, gli stessi della Pro Vercelli. Per decidere il vincitore &egrave; necessario uno spareggio che andr&agrave; in scena il 24 aprile a Vercelli per via della migliore differenza reti. I piemontesi, per&ograve;, protestano in quanto alcuni calciatori sono impegnati lo stesso giorno in un torneo militare, mandano in campo la Primavera e l'Inter trionfa per 10-3. Per tornare a vincere in campionato bisogna aspettare dieci anni esatti (1919-20), quando la squadra guidata da Resegotti in panchina e Virgilio Fossati in campo supera nella finalissima il Livorno per 3-2. La tradizione dei trionfi interisti a fine decennio si rinnova anche nel 1929-30 con la conquista del primo campionato a girone unico. Stavolta i protagonisti sono Arpad Weisz, inventore del Metodo, e Giuseppe Meazza. Pepin in campo fa quello che vuole, diventando ben presto uno degli attaccanti pi&ugrave; forti della storia del calcio italiano. &Egrave; lo scudetto dell'Ambrosiana. S&igrave;, perch&eacute; l'8 settembre 1928 l'Inter si fonde con l'Unione Sportiva Milanese e assume la nuova denominazione. Dopo il dominio della Juve, che vince per cinque anni consecutivi, e i due scudetti del Bologna, i nerazzurri trionfano di nuovo nel 1938 e nel 1940. L'Inter di Foni: "Veleno" e difesa A dominare gli anni 40' nel calcio italiano &egrave; il Grande Torino, che finir&agrave; la propria corsa tragicamente sulla collina di Superga il 4 maggio 1949. L'Inter si riprende il suo spazio all'inizio del decennio successivo, quando Masseroni chiama in panchina Foni. Alfredo, da buon ex difensore, arretra il terzino Blason nel ruolo di libero alle spalle di Giovannini e Giacomazzi e lascia le chiavi dell'attacco in mano a un tridente da sogno: Nyers e Skoglund larghi, il mitico Lorenzi, detto Veleno, in mezzo. Solidit&agrave; difensiva e cinismo in avanti portano i nerazzurri a vincere lo scudetto nel 1953 e nel &lsquo;54.  La Grande Inter di Herrera e Angelo Moratti Un anno dopo un cambio epocale. Il petroliere Angelo Moratti diventa il nuovo presidente e fin da subito fa capire quale sono le sue intenzioni: offre 400 milioni a Pel&eacute; e nel 1957 ingaggia Antonio Valentin Angelillo, giovane dal baffo sottile e dal capello cotonato che sulla palla danza come un ballerino di tango. Per vincere, per&ograve;, c'&egrave; bisogno di lui, il Mago Helenio Herrera, quello che trasformer&agrave; l'Inter nella Grande Inter e che nel giro di cinque anni, dal 1962 al 1967, far&agrave; incetta di trofei in Italia e nel mondo: tre scudetti (1963, 1965 e 1966, quello della stella), due Coppe dei Campioni e due Coppe Intercontinentali strappate entrambe all'Independiente. E cos&igrave;, mentre il mondo piange la morte di Papa Giovanni XXIII (3 giugno 1963) e di John Kennedy (22 novembre dello stesso anno), i tifosi nerazzurri si godono l'era di Sarti, Burgnich, Facchetti... L'Inter di Herrera e Angelo Moratti &egrave; nella storia, nella leggenda, nel mito.  Da Invernizzi e Bersellini allo scudetto dei record con il Trap Un altro Herrera, dopo la parentesi Foni nella stagione 1968-69, si posiziona al timone dell'Inter: si tratta di Heriberto. La sua esperienza sulla panchina dell'Inter dura fino alle prime giornate del 1971 quando Fraizzoli, nuovo presidente, dopo un avvio con il freno a mano tirato, decide di sostituirlo con il tecnico della Primavera Giovanni Invernizzi. "Robiolina"&nbsp;recupera terreno e a fine stagione conquista il tricolore. I nerazzurri tornano a gioire, come quasi da tradizione, a inizio decennio (1979-80) con il Sergente di Ferro Eugenio Bersellini in panchina e Beccalossi in campo. Intanto, vengono riaperte le frontiere e l'Inter inizia a parlare tedesco. I tifosi sognano con Rummenigge, ma &egrave; con Matth&auml;us e Brehme che vincono. Il Panzer inventa calcio, Zenga abbassa la saracinesca, Bergomi e Ferri non lasciano passare nemmeno l'aria, Berti galoppa come un moderno centrocampista box to box, Serena e Diaz la mettono dentro. L'Inter del Trap &egrave; una macchina infallibile, e abbattendo ogni record si porta a casa lo scudetto 1988-89. Il "Risorgimento" di Mancini e l'apoteosi con Mourinho Gli anni '90 regalano ai tifosi nerazzurri il ritorno al timone della famiglia Moratti, con Massimo che acquista il club nel 1995, e lo sbarco di un alieno: il Fenomeno, Ronaldo. Il campo non regala i trofei che una rosa straordinaria meriterebbe, e gli unici trionfi arrivano in Coppa Uefa: 1991, 1994 e 1998. Per tornare a vincere lo scudetto bisogna aspettare Roberto Mancini, che guida i nerazzurri al successo dal 2006 al 2008. Poi l'arrivo di Jos&eacute; Mourinho. Lo Special One mette la firma su altri due scudetti e regala ai tifosi la stagione pi&ugrave; Pazza di sempre, quella 2009-10. L'Inter &egrave; di nuovo sul tetto del mondo come con Helenio Herrera, conquista il Triplete e corona il sogno di quei 43 scissionisti che diedero inizio a un sogno chiamato Internazionale.&nbsp;       

I nerazzurri conquistano il 19&deg; tricolore della loro storia. Tutti i trionfi e i personaggi che hanno segnato le stagioni d&rsquo;oro del club

Scudetto Inter, da Herrera e Mourinho a Conte: è festa grande!

Il 22 maggio del 2010 sar&agrave; per i tifosi interisti per sempre il giorno, anzi la sera, del Triplete, con la Champions League vinta dopo avere conquistato Coppa Italia e scudetto. Ad oggi l&rsquo;ultima Champions vinta da un club italiano, ma la statistica &egrave; oggettiva mentre tutt&rsquo;ora senza una vera spiegazione rimane l&rsquo;addio di Mourinho alla panchina dell&rsquo;Inter per andare al Real Madrid. Non certo per i soldi, visto che in quel momento i nerazzurri erano in grado di pagare chiunque ai livelli pi&ugrave; alti. Oltretutto per andare in un ambiente come quello del Real, poco amante dei tecnici-guru, un ambiente in cui le sconfitte sono sempre colpa dell&rsquo;allenatore e le vittorie merito dei giocatori. Al di l&agrave; delle voci di mercato, di Mourinho al Real Madrid si inizia a parlare concretamente a fine aprile, quando Marca scrive che l&rsquo;allenatore poprtoghese al 95% cambier&agrave; squadra. L&rsquo;Inter prima in classifica con 2 punti sulla Roma si sta preparando alla partita con la Lazio, terzultima giornata di campionato. Mourinho ha il contratto anche per le stagioni successive, fino al 2012, ma &egrave; un contratto con un clausola liberatoria per entrambe le parti. Florentino Perez &egrave; in pressing: l&rsquo;anno prima ha fatto spese mostruose (Cristiano Ronaldo e Kak&agrave;, per dirne due, oltre a Benzema, Xabi Alonso e altri) ma vede sempre da dietro il Barcellona di Guardiola. Si va avanti fra sussurri e indiscrezioni fino alla conquista della Coppa Italia, poi l&rsquo;11 maggio un fatto decisivo: Moratti si stizzisce per avere appreso dai giornali di Mourinho al Real, non per il fatto in s&eacute; (gi&agrave; l&#39;anno prima Mourinho sembrava intenzionato a partire) ma perch&eacute; la clausola liberatoria aveva proprio il senso di essere onesti nel momento dell&rsquo;addio. Quel giorno l&rsquo;Inter fa un comunicato per dire che non ha preso contatti con altri allenatori, che Mourinho ha un contratto fino al 2012 e che bisogna comunque pensare allo scudetto, rimane da giocare l&rsquo;ultima partita a Siena, e alla Champions League. Mourinho risponde, a mezzo stampa, al comunicato, sostenendo di non avere preso contatti con alcun club e che la sua testa &egrave; comunque su Siena e Bayern. Vera soltanto la seconda affermazione. Moratti confida che il futuro di Mourinho all&rsquo;Inter si decider&agrave; dopo la finale di Madrid, ma non sembra crederci troppo. E a dirla tutta non ha intenzione di fare le barricate per trattenerlo: sentir parlare in continuazione di &lsquo;Inter di Mourinho&rsquo; non gli fa piacere. Dopo la vittoria di Siena, domenica 16 maggio, Mourinho spiega che il problema non &egrave; l&rsquo;Inter ma il calcio italiano con i suoi potentati, i suoi veleni. Un concetto ribadito proprio il 22 maggio, dopo la finale vinta con il Bayern Monaco: &ldquo;Non me ne vado dall&rsquo;Inter, ma dal calcio italiano&rdquo;. &Egrave; una mezza verit&agrave;, perch&eacute; in realt&agrave; Mourinho considera il Real Madrid il punto di arrivo nella carriera di un allenatore e non ne fa una questione di soldi. Quanto ai veleni, il famoso &#39;rumore dei nemici&#39;, sono a volte un problema ma pi&ugrave; spesso ancora la sua benzina, ci&ograve; che d&agrave; la carica a lui e alle sue squadre.&nbsp;La sera di luned&igrave; 24 maggio Mourinho va a cena con Moratti: non c&rsquo;&egrave; molto di cui discutere, c&rsquo;&egrave; solo da salutarsi con l&rsquo;imbarazzo di non sapersi spiegare bene il perch&eacute;. Il Real pagher&agrave; la clausola rescissoria e Mourinho non torner&agrave; pi&ugrave; all&rsquo;Inter.

Il 22 maggio del 2010 sar&agrave; per i tifosi interisti per sempre il giorno, anzi la sera, del Triplete, con la Champions League vinta dopo avere conquistato Coppa Italia e scudetto. Ad oggi l&rsquo;ultima Champions vinta da un club italiano, ma la statistica &egrave; oggettiva mentre tutt&rsquo;ora senza una vera spiegazione rimane l&rsquo;addio di Mourinho alla panchina dell&rsquo;Inter per andare al Real Madrid. Non certo per i soldi, visto che in quel momento i nerazzurri erano in grado di pagare chiunque ai livelli pi&ugrave; alti. Oltretutto per andare in un ambiente come quello del Real, poco amante dei tecnici-guru, un ambiente in cui le sconfitte sono sempre colpa dell&rsquo;allenatore e le vittorie merito dei giocatori.  Al di l&agrave; delle voci di mercato, di Mourinho al Real Madrid si inizia a parlare concretamente a fine aprile, quando Marca scrive che l&rsquo;allenatore poprtoghese al 95% cambier&agrave; squadra. L&rsquo;Inter prima in classifica con 2 punti sulla Roma si sta preparando alla partita con la Lazio, terzultima giornata di campionato. Mourinho ha il contratto anche per le stagioni successive, fino al 2012, ma &egrave; un contratto con un clausola liberatoria per entrambe le parti. Florentino Perez &egrave; in pressing: l&rsquo;anno prima ha fatto spese mostruose (Cristiano Ronaldo e Kak&agrave;, per dirne due, oltre a Benzema, Xabi Alonso e altri) ma vede sempre da dietro il Barcellona di Guardiola.  Si va avanti fra sussurri e indiscrezioni fino alla conquista della Coppa Italia, poi l&rsquo;11 maggio un fatto decisivo: Moratti si stizzisce per avere appreso dai giornali di Mourinho al Real, non per il fatto in s&eacute; (gi&agrave; l&#39;anno prima Mourinho sembrava intenzionato a partire) ma perch&eacute; la clausola liberatoria aveva proprio il senso di essere onesti nel momento dell&rsquo;addio. Quel giorno l&rsquo;Inter fa un comunicato per dire che non ha preso contatti con altri allenatori, che Mourinho ha un contratto fino al 2012 e che bisogna comunque pensare allo scudetto, rimane da giocare l&rsquo;ultima partita a Siena, e alla Champions League. Mourinho risponde, a mezzo stampa, al comunicato, sostenendo di non avere preso contatti con alcun club e che la sua testa &egrave; comunque su Siena e Bayern. Vera soltanto la seconda affermazione. Moratti confida che il futuro di Mourinho all&rsquo;Inter si decider&agrave; dopo la finale di Madrid, ma non sembra crederci troppo. E a dirla tutta non ha intenzione di fare le barricate per trattenerlo: sentir parlare in continuazione di &lsquo;Inter di Mourinho&rsquo; non gli fa piacere.  Dopo la vittoria di Siena, domenica 16 maggio, Mourinho spiega che il problema non &egrave; l&rsquo;Inter ma il calcio italiano con i suoi potentati, i suoi veleni. Un concetto ribadito proprio il 22 maggio, dopo la finale vinta con il Bayern Monaco: &ldquo;Non me ne vado dall&rsquo;Inter, ma dal calcio italiano&rdquo;. &Egrave; una mezza verit&agrave;, perch&eacute; in realt&agrave; Mourinho considera il Real Madrid il punto di arrivo nella carriera di un allenatore e non ne fa una questione di soldi. Quanto ai veleni, il famoso &#39;rumore dei nemici&#39;, sono a volte un problema ma pi&ugrave; spesso ancora la sua benzina, ci&ograve; che d&agrave; la carica a lui e alle sue squadre.&nbsp;La sera di luned&igrave; 24 maggio Mourinho va a cena con Moratti: non c&rsquo;&egrave; molto di cui discutere, c&rsquo;&egrave; solo da salutarsi con l&rsquo;imbarazzo di non sapersi spiegare bene il perch&eacute;. Il Real pagher&agrave; la clausola rescissoria e Mourinho non torner&agrave; pi&ugrave; all&rsquo;Inter. 

Il decennale dell&#39;impresa dell&#39;Inter coincide con quello dell&#39;addio del suo allenatore pi&ugrave; amato dai tifosi. Una separazione ancora parzialmente da spiegare...

Il Triplete di Mourinho

Jos&eacute; Mourinho &egrave; diventato il nuovo allenatore del Tottenham, prendendo il posto dell&rsquo;esonerato Mauricio Pochettino. Per lo Special One si tratta della terza grande del calcio inglese, dopo aver guidato Chelsea, in due differenti periodi (in entrambi i casi vincendo la Premier League), e Manchester United, dove nonostante tutto ha portato a casa un&rsquo;Europa League. Ma al di l&agrave; di questo, visto che chiunque conosce la carriera di Mourinho, quanti allenatori possono dire di avere guidato tre grandi club di Premier League? Aver guidato tante squadre non &egrave; di per s&eacute; un indicatore di bravura perch&eacute; molti grandi coach, soprattutto in Inghilterra, hanno legato il loro nome a un solo grande club: Ferguson-Manchester United l&rsquo;esempio pi&ugrave; clamoroso della storia moderna, visto che l&rsquo;era di sir Alec &egrave; stata in gran parte vissuta nella Premier League propriamente detta, iniziata nel 1992. Ebbene, Sam Allardyce in Premier League ha allenato 7 squadre diverse, Mark Hughes 6, Harry Redknapp, Alan Pardew, Roy Hodgson e Steve Bruce 5, David Moyes, Graeme Souness, Ron Atkinson, Neil Warnock e George Graham 4, Rafa Benitez, Kenny Dalglish, Glenn Hoddle, Brendan Rodgers, Joe Royle, Tony Pulis, Chris Hughton, Paul Lambert, Paul Jewell, Avram Grant, Claudio Ranieri, Dave Bassett, Marco Silva, Ian Dowie, Martin O&rsquo;Neill e appunto Mourinho 3. Come si nota a una prima occhiata, senza vivisezionare la carriere di ognuno, in molti casi si tratta di allenatori di secondo piano quando non direttamente mestieranti per squadre di fascia medio-bassa, che peraltro nella Premier League di oggi fatturano quando alcune italiane che hanno partecipato alla Champions League. Di tutti questi allenatori, grandi e meno grandi, per&ograve; soltanto Jos&egrave; Mourinho ha convinto tre grandi club (diremmo anche quattro, nel suo caso il Chelsea vale doppio), grandi nel momento storico in cui lo hanno ingaggiato, a mettersi nelle sue mani.

Jos&eacute; Mourinho &egrave; diventato il nuovo allenatore del Tottenham, prendendo il posto dell&rsquo;esonerato Mauricio Pochettino. Per lo Special One si tratta della terza grande del calcio inglese, dopo aver guidato Chelsea, in due differenti periodi (in entrambi i casi vincendo la Premier League), e Manchester United, dove nonostante tutto ha portato a casa un&rsquo;Europa League. Ma al di l&agrave; di questo, visto che chiunque conosce la carriera di Mourinho, quanti allenatori possono dire di avere guidato tre grandi club di Premier League?  Aver guidato tante squadre non &egrave; di per s&eacute; un indicatore di bravura perch&eacute; molti grandi coach, soprattutto in Inghilterra, hanno legato il loro nome a un solo grande club: Ferguson-Manchester United l&rsquo;esempio pi&ugrave; clamoroso della storia moderna, visto che l&rsquo;era di sir Alec &egrave; stata in gran parte vissuta nella Premier League propriamente detta, iniziata nel 1992.  Ebbene, Sam Allardyce in Premier League ha allenato 7 squadre diverse, Mark Hughes 6, Harry Redknapp, Alan Pardew, Roy Hodgson e Steve Bruce 5, David Moyes, Graeme Souness, Ron Atkinson, Neil Warnock e George Graham 4, Rafa Benitez, Kenny Dalglish, Glenn Hoddle, Brendan Rodgers, Joe Royle, Tony Pulis, Chris Hughton, Paul Lambert, Paul Jewell, Avram Grant, Claudio Ranieri, Dave Bassett, Marco Silva, Ian Dowie, Martin O&rsquo;Neill e appunto Mourinho 3.  Come si nota a una prima occhiata, senza vivisezionare la carriere di ognuno, in molti casi si tratta di allenatori di secondo piano quando non direttamente mestieranti per squadre di fascia medio-bassa, che peraltro nella Premier League di oggi fatturano quando alcune italiane che hanno partecipato alla Champions League. Di tutti questi allenatori, grandi e meno grandi, per&ograve; soltanto Jos&egrave; Mourinho ha convinto tre grandi club (diremmo anche quattro, nel suo caso il Chelsea vale doppio), grandi nel momento storico in cui lo hanno ingaggiato, a mettersi nelle sue mani. 

Nessun allenatore aveva mai guidato tre diversi top club di Premier League e firmando con il Tottenham lo Special One ha conquistato questo record...

Le tre grandi di Mourinho

L&rsquo;esonero di Jos&eacute; Mourinho dalla guida del Manchester United segna la fine di un amore mai nato, dopo due anni e mezzo in cui l&rsquo;allenatore portoghese ha continuato a ritenere la rosa inadeguata rispetto alle sue ambizioni. Al di l&agrave; dei tecnicismi (nel comunicato ufficiale si dice che &egrave; stato Mourinho a lasciare, quindi &egrave; probabile che la verit&agrave; sia quella di una rescissione consensuale) e della volont&agrave; di Mourinho di andarsene, si tratta di una decisione del club visto che gli &egrave; stata comunicata dal vicepresidente Woodward. La squadra nell&#39;immediato sar&agrave; guidata da Michael Carrick, gi&agrave; nello staff, e da Nicky Butt, allenatore delle giovanili: non occorre troppa fantasia per associarli alla figura di Alex Ferguson. Carrick, ritiratosi pochi mesi fa dal calcio giocato, nel 2006 &egrave; stato uno degli investimenti pi&ugrave; pesanti dell&rsquo;era Ferguson (che lo prese dal Tottenham nel 2006) ma anche uno dei giocatori da Ferguson pi&ugrave; amati, mentre Butt fa parte della grande generazione dei Beckham, degli Scholes e dei Neville: nomi chiaramente che piacciono ai tifosi, anche se &egrave; probabile che una scelta pi&ugrave; forte venga effettuata nelle prossime settimane. Ma tornando a Mourinho, nonostante questa prima parte di stagione, illuminata soltanto dalla vittoria di Torino contro la Juventus, uno che non guarda le partite non pu&ograve; dire che a Manchester abbia fatto male. Vittoria in Europa League e in Coppa di Lega alla prima stagione, secondo posto in Premier League l&rsquo;anno scorso dietro (molto dietro) al City di Guardiola. Tutto va valutato alla luce delle campagne acquisti: nell&rsquo;estate 2016 arrivarono Pogba dalla Juventus per oltre 100 milioni di euro, Mkhitaryan dal Borussia Dortmund e Bailly dal Villarreal per circa 40 l&rsquo;uno, pi&ugrave; lo svincolato Ibrahimovic dal PSG. I colpi dell&rsquo;estate 2017 furono invece Lukaku (85 milioni all&rsquo;Everton), Matic (45 al Chelsea), Lindelof (35 al Benfica). La scorsa estate invece sono arrivati Fred dallo Shakhtar per 60 milioni e Dalot dal Porto per 22. Nell&rsquo;ordine: Pogba &egrave; diventato il primo nemico di Mourinho all&rsquo;interno della squadra e la vittoria nel Mondiale lo ha fatto diventare ancora pi&ugrave; arrogante, Mkhitaryan &egrave; stato scambiato con Alexis Sanchez, Ibra &egrave; in America, Lindelof gioca ma Mourinho non lo ritiene all&rsquo;altezza di stare in una difesa da top club, Fred, Bailly, Dalot e Sanchez sono quasi sempre in panchina o in tribuna. I soli Lukaku, peraltro in questa stagione non scintillante, e Matic hano fatto il loro. Insomma, in tre anni i soldi messi sul mercato sono stati meno di quelli del City e ultimamente anche del Liverpool, ma non sono certo mancati e quasi tutti i giocatori erano sulla carta graditi a Mourinho. Che ha provato a riconvertire s&eacute; stesso, gi&agrave; dal suo ritorno al Chelsea, in un manager alla Ferguson (cosa che &egrave; nelle sue ambizioni, perch&eacute; ha sempre ragionato come un dirigente) abbandonando la parte del capopopolo che per&ograve; gli &egrave; sempre stata pi&ugrave; congeniale e che ha interpretato anche in realt&agrave; che rappresentavano il potere costituito (ci &egrave; riuscito addirittura al Real Madrid, per dire). Cos&igrave; &egrave; rimasto a met&agrave; del guado, ma ci&ograve; che &egrave; peggio &egrave; che il suo Manchester United &egrave; quasi sempre stato modesto sul piano del gioco e anche poco coerente tatticamente, con estemporanei passaggi alla difesa a tre in partite in cui la sperimentazione non era consigliata, come quella recente con l&rsquo;Arsenal e l&rsquo;ultima persa con il Liverpool ben al di l&agrave; di quanto dica il 3 a 1 del tabellino, con la difesa a tre che assomigliava pericolosamente a una difesa a cinque. E che cinque: Dalot, Darmian, Lindelof, Bailly e Young sono gente da met&agrave; classifica, che nemmeno il Ferguson di trent&rsquo;anni fa potrebbe rivitalizzare. A quasi 56 anni, li compir&agrave; il prossimo 26 gennaio, Mourinho ha rinunciato ad essere Mourinho per diventare un gestore di situazioni, ma queste situazioni allo United erano diventate ormai troppe e quindi la fine &egrave; arrivata inevitabile. Se questo suo cambio di atteggiamento sia stato figlio di una scelta (evidentemente sbagliata) o del naturale invecchiamento che colpisce anche gli allenatori lo dir&agrave; il futuro. Magari in Italia.

L&rsquo;esonero di Jos&eacute; Mourinho dalla guida del Manchester United segna la fine di un amore mai nato, dopo due anni e mezzo in cui l&rsquo;allenatore portoghese ha continuato a ritenere la rosa inadeguata rispetto alle sue ambizioni. Al di l&agrave; dei tecnicismi (nel comunicato ufficiale si dice che &egrave; stato Mourinho a lasciare, quindi &egrave; probabile che la verit&agrave; sia quella di una rescissione consensuale) e della volont&agrave; di Mourinho di andarsene, si tratta di una decisione del club visto che gli &egrave; stata comunicata dal vicepresidente Woodward. La squadra nell&#39;immediato sar&agrave; guidata da Michael Carrick, gi&agrave; nello staff, e da Nicky Butt, allenatore delle giovanili: non occorre troppa fantasia per associarli alla figura di Alex Ferguson. Carrick, ritiratosi pochi mesi fa dal calcio giocato, nel 2006 &egrave; stato uno degli investimenti pi&ugrave; pesanti dell&rsquo;era Ferguson (che lo prese dal Tottenham nel 2006) ma anche uno dei giocatori da Ferguson pi&ugrave; amati, mentre Butt fa parte della grande generazione dei Beckham, degli Scholes e dei Neville: nomi chiaramente che piacciono ai tifosi, anche se &egrave; probabile che una scelta pi&ugrave; forte venga effettuata nelle prossime settimane.  Ma tornando a Mourinho, nonostante questa prima parte di stagione, illuminata soltanto dalla vittoria di Torino contro la Juventus, uno che non guarda le partite non pu&ograve; dire che a Manchester abbia fatto male. Vittoria in Europa League e in Coppa di Lega alla prima stagione, secondo posto in Premier League l&rsquo;anno scorso dietro (molto dietro) al City di Guardiola. Tutto va valutato alla luce delle campagne acquisti: nell&rsquo;estate 2016 arrivarono Pogba dalla Juventus per oltre 100 milioni di euro, Mkhitaryan dal Borussia Dortmund e Bailly dal Villarreal per circa 40 l&rsquo;uno, pi&ugrave; lo svincolato Ibrahimovic dal PSG. I colpi dell&rsquo;estate 2017 furono invece Lukaku (85 milioni all&rsquo;Everton), Matic (45 al Chelsea), Lindelof (35 al Benfica). La scorsa estate invece sono arrivati Fred dallo Shakhtar per 60 milioni e Dalot dal Porto per 22. Nell&rsquo;ordine: Pogba &egrave; diventato il primo nemico di Mourinho all&rsquo;interno della squadra e la vittoria nel Mondiale lo ha fatto diventare ancora pi&ugrave; arrogante, Mkhitaryan &egrave; stato scambiato con Alexis Sanchez, Ibra &egrave; in America, Lindelof gioca ma Mourinho non lo ritiene all&rsquo;altezza di stare in una difesa da top club, Fred, Bailly, Dalot e Sanchez sono quasi sempre in panchina o in tribuna. I soli Lukaku, peraltro in questa stagione non scintillante, e Matic hano fatto il loro.  Insomma, in tre anni i soldi messi sul mercato sono stati meno di quelli del City e ultimamente anche del Liverpool, ma non sono certo mancati e quasi tutti i giocatori erano sulla carta graditi a Mourinho. Che ha provato a riconvertire s&eacute; stesso, gi&agrave; dal suo ritorno al Chelsea, in un manager alla Ferguson (cosa che &egrave; nelle sue ambizioni, perch&eacute; ha sempre ragionato come un dirigente) abbandonando la parte del capopopolo che per&ograve; gli &egrave; sempre stata pi&ugrave; congeniale e che ha interpretato anche in realt&agrave; che rappresentavano il potere costituito (ci &egrave; riuscito addirittura al Real Madrid, per dire). Cos&igrave; &egrave; rimasto a met&agrave; del guado, ma ci&ograve; che &egrave; peggio &egrave; che il suo Manchester United &egrave; quasi sempre stato modesto sul piano del gioco e anche poco coerente tatticamente, con estemporanei passaggi alla difesa a tre in partite in cui la sperimentazione non era consigliata, come quella recente con l&rsquo;Arsenal e l&rsquo;ultima persa con il Liverpool ben al di l&agrave; di quanto dica il 3 a 1 del tabellino, con la difesa a tre che assomigliava pericolosamente a una difesa a cinque. E che cinque: Dalot, Darmian, Lindelof, Bailly e Young sono gente da met&agrave; classifica, che nemmeno il Ferguson di trent&rsquo;anni fa potrebbe rivitalizzare.  A quasi 56 anni, li compir&agrave; il prossimo 26 gennaio, Mourinho ha rinunciato ad essere Mourinho per diventare un gestore di situazioni, ma queste situazioni allo United erano diventate ormai troppe e quindi la fine &egrave; arrivata inevitabile. Se questo suo cambio di atteggiamento sia stato figlio di una scelta (evidentemente sbagliata) o del naturale invecchiamento che colpisce anche gli allenatori lo dir&agrave; il futuro. Magari in Italia. 

Dopo due anni e mezzo le strade dell&#39;allenatore portoghese e dei Red Devils si separano. Colpa di gioco e risultati, ma anche di una fusione con l&#39;ambiente mai realmente riuscita e soprattutto di acquisti quasi tutti sbagliati...

Mourinho e Manchester United, un amore mai nato

Una partita diversa da tutte le altre. Liverpool-Manchester United non &egrave; solo la sfida calcistica tra le due formazioni pi&ugrave; titolate d&#39;Inghilterra (con i Red Devils a quota 20 titoli in Premier, seguiti proprio dai Reds padroni di casa a quota 18), ma &egrave; ancor pi&ugrave; la sfida tra i due allenatori, J&uuml;rgen Klopp e Jose Mourinho, tra cui non scorre quello che si suol dire un buon sangue, visto sopratutto il duro confronto che li vide protagonisti nei minuti finali della partita di campionato disputata all&#39;Old Trafford nel Gennaio 2017. Una partita, quella disputata oggi ad Anfield Road e soprannominata dagli inglesi North-West Derby, che ha visto la netta vittoria del Liverpool di Klopp per 3-1 (23&deg; Man&egrave; (L), 32&deg; Lingard (MU), 72&deg; e 81&deg; Shaqiri(L)), e che rappresenta una pesante lezione per lo United di Mourinho, che aveva mandato in campo una formazione puramente difensivista per cercare di portare a casa l&#39;ennesimo pareggio in trasferta contro i Reds (atteggiamento questo irrigidito ulteriormente nella ripresa con l&#39;ingresso di Fellaini al posto di Dalot). Una scelta, questa, che non solo non ha per niente pagato, ma che rischia di condizionare ancor pi&ugrave; pesantemente il cammino dei Red Devils in campionato con lo spogliatoio che appare profondamente spaccato e sempre pi&ugrave; insofferente nei confronti del tecnico portoghese, che solamente nel finale ha mandato in campo Mata, lasciando in panchina per tutta la partita un campione del mondo dell&#39;estro di Paul Pogba, i cui rapporti con lo Special One sono ormai ai minimi storici. Tornando alla partita odierna e ai suoi tecnici, non &egrave; la prima volta che J&uuml;rgen Klopp e Jose Mourinho si sfidano con le rispettive squadre: ad oggi sono infatti dieci i confronti tra i due allenatori, con quattro vittorie per Klopp, quattro pareggi e due vittorie per Mourinho. Andando a rivedere con molta attenzione i precedenti tra i due tecnici, non possiamo non rilevare come Klopp sia stato fin da subito un osso piuttosto duro per Mourinho, come dimostra ad esempio la stagione 2012/2013, che vede lo Special One affrontare per la prima volta in carriera il tecnico tedesco. Quattro le occasioni in cui nell&#39;arco di quella stagione il Real Madrid guidato dall&#39;ex tecnico di Inter e Chelsea e il Borussia Dortmund guidato dal 51enne tecnico originario di Stoccarda si affrontano in Champions League: due nella fase a gironi, e due addirittura in semifinale. Nella fase a gironi &egrave; il Borussia Dortmund di Klopp ad aggiudicarsi il Girone D, con tre punti di vantaggio sul Real di Mourinho (14 vs 11). Limitandoci poi agli scontri diretti tra le due formazioni disputati tra la terza e la quarta giornata, se il 24 Ottobre 2012 a Dortmund sono gli uomini di Klopp a battere per 2-1 i Blancos (vantaggio di Lewandowski al 36&deg;, pareggio provvisorio di Cristiano Ronaldo al 38&deg;, e goal decisivo al 64&deg; di Schmelzer), il 6 Novembre al Santiago Bernabeu Real e Borussia pareggiano per 2-2 (con la formazione giallonera in vantaggio per ben due volte al 28&deg; con Reus e al 48&deg; con G&ouml;tze, e gli spagnoli pronti a pareggiare rispettivamente al 34&deg; con Pepe e in extremis all&#39;89&deg; minuto con &Ouml;zil). Come detto, Klopp e Mourinho in quell&#39;edizione 2012/2013 della Champions League torneranno ad affrontarsi in semifinale, con il Borussia che il 24 Aprile 2013 al Signal Iduna Park di Dortmund travolge il Real per 4-1 grazie a una spettacolare quaterna di Lewandowski (8&deg;, 50&deg;, 55&deg; e 66&deg; su rigore), e con le merengues capaci di segnare solo al 43&deg; con il solito Ronaldo. Nella gara di ritorno giocata al Santiago Bernabeu il 30 Aprile 2013 il Real riesce a battere per 2-0 il Borussia grazie alle reti segnate nel finale di partita all&#39;83&deg; da Benzema e all&#39;88&deg; da Sergio Ramos, ma a giocare la finale a Wembley il 25 Maggio dello stesso anno davanti a 86.298 spettatori agli ordini dell&#39;arbitro italiano Nicola Rizzoli saranno gli uomini di Klopp che affronteranno il Bayern perdendo poi per 2-1. Una eliminazione in semifinale, quella di Mourinho, che a fine stagione nonostante la vittoria del campionato coster&agrave; la panchina al tecnico portoghese (il quale verr&agrave; sostituito da Carlo Ancelotti, che giusto un anno dopo porter&agrave; le merengues a conquistare l&#39;ambitissimo traguardo della decima Champions League vinta nel corso della storia da parte del club spagnolo), ma che di fatto sancisce l&#39;inizio della rivalit&agrave; tra lui e il tecnico tedesco. I due allenatori torneranno ad affrontarsi nella stagione 2015/2016 con il Chelsea di Mourinho in evidente difficolt&agrave; di risultati dopo aver conquistato il titolo la stagione precedente, e con Klopp approdato sulla panchina del Liverpool nel corso della nona giornata dopo l&#39;esonero di Brendan Rodgers avvenuto al termine dell&#39;ottava giornata (frutto di 2 vittorie, 3 pareggi e 3 sconfitte). L&#39;unica sfida di quell&#39;annata tra Klopp e Mourinho avviene cos&igrave; il 31 Ottobre 2015 nel corso dell&#39;11&deg; giornata e vede ancora una volta una disfatta da parte del tecnico portoghese, con i Reds che a Stamford Bridge battono per 3-1 i campioni uscenti del Chelsea. I Blues passano in vantaggio al 4&deg; minuto con Ramires, ma Coutinho prima al 48&deg; poi al 74&deg; riesce a capovolgere la situazione, con Benteke che all&#39;83&deg; chiude di fatto la partita segnando il goal del 3-1 a favore del Liverpool. Il prosequio della stagione vedr&agrave; Mourinho esonerato al termine della 16&deg; giornata dopo la sconfitta rimediata dal suo Chelsea (affidato poi a Guus Hiddink) in casa del Leicester allenato da Claudio Ranieri che a fine stagione vincer&agrave; il titolo. Klopp concluder&agrave; il campionato con il suo Liverpool all&#39;ottavo posto con 60 punti. Nella stagione successiva (2016/2017) coincidente con il ritorno alla vittoria del titolo da parte del Chelsea di Antonio Conte, la rivalit&agrave; tra i due allenatori si rinnova, con Klopp confermato alla guida del Liverpool e Mourinho approdato alla guida del Manchester United. Due i pareggi conseguiti nel corso della stagione: allo 0-0 del 15 Ottobre 2016 ad Anfield Road nel corso dell&#39;ottava giornata, seguir&agrave; poi l&#39;1-1 rimediato all&#39;Old Trafford nella 21&deg; Giornata di campionato il 14 Gennaio 2017. Una partita, questa, che verr&agrave; ricordata non solo per il rocambolesco pareggio segnato all&#39;84&deg; da Ibrahimovic dopo il vantaggio segnato al 27&deg; da Milner su calcio di rigore, ma anche e sopratutto per l&#39;accesso confronto tra i due allenatori nei minuti finali dell&#39;incontro, con Mourinho che protester&agrave; platealmente per la decisione dell&#39;arbitro dell&#39;incontro (il signor Michael Oliver) di ammonire&nbsp; sia Firmino che Herrera, quando a detta del portoghese andava espulso direttamente il primo, reo di aver colpito al volto lo spagnolo dello United. Klopp per&ograve; non ci sta, e cos&igrave; si dirige verso il tecnico portoghese difendendo il suo giocatore. Seguir&agrave; a questo punto uno scambio concitato tra i due allenatori, con il quarto uomo che alla fine sar&agrave; costretto a separare i due per evitare guai peggiori. Gli ultimi due confronti tra Mourinho e Klopp (prima di quello odierno) risalgono alla scorsa stagione: se il 14 Ottobre 2017 ad Anfield Road il big match dell&#39;ottava giornata tra Liverpool e Manchester United finisce a reti bianche, ad aggiudicarsi la gara disputata lo scorso 10 Marzo ad ora di pranzo e valida per l&#39;undicesima giornata di ritorno della Premier League &egrave; il tecnico portoghese che&nbsp; batte il Liverpool per 2-1, grazie alla doppietta segnata al 14&deg; e al 24&deg; da Rushford, con i Reds che segnano il goal della bandiera al 66&deg; grazie all&#39;autorete segnata da Eric Bailly.

Una partita diversa da tutte le altre. Liverpool-Manchester United non &egrave; solo la sfida calcistica tra le due formazioni pi&ugrave; titolate d&#39;Inghilterra (con i Red Devils a quota 20 titoli in Premier, seguiti proprio dai Reds padroni di casa a quota 18), ma &egrave; ancor pi&ugrave; la sfida tra i due allenatori, J&uuml;rgen Klopp e Jose Mourinho, tra cui non scorre quello che si suol dire un buon sangue, visto sopratutto il duro confronto che li vide protagonisti nei minuti finali della partita di campionato disputata all&#39;Old Trafford nel Gennaio 2017.  Una partita, quella disputata oggi ad Anfield Road e soprannominata dagli inglesi North-West Derby, che ha visto la netta vittoria del Liverpool di Klopp per 3-1 (23&deg; Man&egrave; (L), 32&deg; Lingard (MU), 72&deg; e 81&deg; Shaqiri(L)), e che rappresenta una pesante lezione per lo United di Mourinho, che aveva mandato in campo una formazione puramente difensivista per cercare di portare a casa l&#39;ennesimo pareggio in trasferta contro i Reds (atteggiamento questo irrigidito ulteriormente nella ripresa con l&#39;ingresso di Fellaini al posto di Dalot). Una scelta, questa, che non solo non ha per niente pagato, ma che rischia di condizionare ancor pi&ugrave; pesantemente il cammino dei Red Devils in campionato con lo spogliatoio che appare profondamente spaccato e sempre pi&ugrave; insofferente nei confronti del tecnico portoghese, che solamente nel finale ha mandato in campo Mata, lasciando in panchina per tutta la partita un campione del mondo dell&#39;estro di Paul Pogba, i cui rapporti con lo Special One sono ormai ai minimi storici.  Tornando alla partita odierna e ai suoi tecnici, non &egrave; la prima volta che J&uuml;rgen Klopp e Jose Mourinho si sfidano con le rispettive squadre: ad oggi sono infatti dieci i confronti tra i due allenatori, con quattro vittorie per Klopp, quattro pareggi e due vittorie per Mourinho.  Andando a rivedere con molta attenzione i precedenti tra i due tecnici, non possiamo non rilevare come Klopp sia stato fin da subito un osso piuttosto duro per Mourinho, come dimostra ad esempio la stagione 2012/2013, che vede lo Special One affrontare per la prima volta in carriera il tecnico tedesco. Quattro le occasioni in cui nell&#39;arco di quella stagione il Real Madrid guidato dall&#39;ex tecnico di Inter e Chelsea e il Borussia Dortmund guidato dal 51enne tecnico originario di Stoccarda si affrontano in Champions League: due nella fase a gironi, e due addirittura in semifinale. Nella fase a gironi &egrave; il Borussia Dortmund di Klopp ad aggiudicarsi il Girone D, con tre punti di vantaggio sul Real di Mourinho (14 vs 11). Limitandoci poi agli scontri diretti tra le due formazioni disputati tra la terza e la quarta giornata, se il 24 Ottobre 2012 a Dortmund sono gli uomini di Klopp a battere per 2-1 i Blancos (vantaggio di Lewandowski al 36&deg;, pareggio provvisorio di Cristiano Ronaldo al 38&deg;, e goal decisivo al 64&deg; di Schmelzer), il 6 Novembre al Santiago Bernabeu Real e Borussia pareggiano per 2-2 (con la formazione giallonera in vantaggio per ben due volte al 28&deg; con Reus e al 48&deg; con G&ouml;tze, e gli spagnoli pronti a pareggiare rispettivamente al 34&deg; con Pepe e in extremis all&#39;89&deg; minuto con &Ouml;zil).  Come detto, Klopp e Mourinho in quell&#39;edizione 2012/2013 della Champions League torneranno ad affrontarsi in semifinale, con il Borussia che il 24 Aprile 2013 al Signal Iduna Park di Dortmund travolge il Real per 4-1 grazie a una spettacolare quaterna di Lewandowski (8&deg;, 50&deg;, 55&deg; e 66&deg; su rigore), e con le merengues capaci di segnare solo al 43&deg; con il solito Ronaldo. Nella gara di ritorno giocata al Santiago Bernabeu il 30 Aprile 2013 il Real riesce a battere per 2-0 il Borussia grazie alle reti segnate nel finale di partita all&#39;83&deg; da Benzema e all&#39;88&deg; da Sergio Ramos, ma a giocare la finale a Wembley il 25 Maggio dello stesso anno davanti a 86.298 spettatori agli ordini dell&#39;arbitro italiano Nicola Rizzoli saranno gli uomini di Klopp che affronteranno il Bayern perdendo poi per 2-1. Una eliminazione in semifinale, quella di Mourinho, che a fine stagione nonostante la vittoria del campionato coster&agrave; la panchina al tecnico portoghese (il quale verr&agrave; sostituito da Carlo Ancelotti, che giusto un anno dopo porter&agrave; le merengues a conquistare l&#39;ambitissimo traguardo della decima Champions League vinta nel corso della storia da parte del club spagnolo), ma che di fatto sancisce l&#39;inizio della rivalit&agrave; tra lui e il tecnico tedesco.  I due allenatori torneranno ad affrontarsi nella stagione 2015/2016 con il Chelsea di Mourinho in evidente difficolt&agrave; di risultati dopo aver conquistato il titolo la stagione precedente, e con Klopp approdato sulla panchina del Liverpool nel corso della nona giornata dopo l&#39;esonero di Brendan Rodgers avvenuto al termine dell&#39;ottava giornata (frutto di 2 vittorie, 3 pareggi e 3 sconfitte). L&#39;unica sfida di quell&#39;annata tra Klopp e Mourinho avviene cos&igrave; il 31 Ottobre 2015 nel corso dell&#39;11&deg; giornata e vede ancora una volta una disfatta da parte del tecnico portoghese, con i Reds che a Stamford Bridge battono per 3-1 i campioni uscenti del Chelsea. I Blues passano in vantaggio al 4&deg; minuto con Ramires, ma Coutinho prima al 48&deg; poi al 74&deg; riesce a capovolgere la situazione, con Benteke che all&#39;83&deg; chiude di fatto la partita segnando il goal del 3-1 a favore del Liverpool. Il prosequio della stagione vedr&agrave; Mourinho esonerato al termine della 16&deg; giornata dopo la sconfitta rimediata dal suo Chelsea (affidato poi a Guus Hiddink) in casa del Leicester allenato da Claudio Ranieri che a fine stagione vincer&agrave; il titolo. Klopp concluder&agrave; il campionato con il suo Liverpool all&#39;ottavo posto con 60 punti.  Nella stagione successiva (2016/2017) coincidente con il ritorno alla vittoria del titolo da parte del Chelsea di Antonio Conte, la rivalit&agrave; tra i due allenatori si rinnova, con Klopp confermato alla guida del Liverpool e Mourinho approdato alla guida del Manchester United. Due i pareggi conseguiti nel corso della stagione: allo 0-0 del 15 Ottobre 2016 ad Anfield Road nel corso dell&#39;ottava giornata, seguir&agrave; poi l&#39;1-1 rimediato all&#39;Old Trafford nella 21&deg; Giornata di campionato il 14 Gennaio 2017. Una partita, questa, che verr&agrave; ricordata non solo per il rocambolesco pareggio segnato all&#39;84&deg; da Ibrahimovic dopo il vantaggio segnato al 27&deg; da Milner su calcio di rigore, ma anche e sopratutto per l&#39;accesso confronto tra i due allenatori nei minuti finali dell&#39;incontro, con Mourinho che protester&agrave; platealmente per la decisione dell&#39;arbitro dell&#39;incontro (il signor Michael Oliver) di ammonire&nbsp; sia Firmino che Herrera, quando a detta del portoghese andava espulso direttamente il primo, reo di aver colpito al volto lo spagnolo dello United. Klopp per&ograve; non ci sta, e cos&igrave; si dirige verso il tecnico portoghese difendendo il suo giocatore. Seguir&agrave; a questo punto uno scambio concitato tra i due allenatori, con il quarto uomo che alla fine sar&agrave; costretto a separare i due per evitare guai peggiori.  Gli ultimi due confronti tra Mourinho e Klopp (prima di quello odierno) risalgono alla scorsa stagione: se il 14 Ottobre 2017 ad Anfield Road il big match dell&#39;ottava giornata tra Liverpool e Manchester United finisce a reti bianche, ad aggiudicarsi la gara disputata lo scorso 10 Marzo ad ora di pranzo e valida per l&#39;undicesima giornata di ritorno della Premier League &egrave; il tecnico portoghese che&nbsp; batte il Liverpool per 2-1, grazie alla doppietta segnata al 14&deg; e al 24&deg; da Rushford, con i Reds che segnano il goal della bandiera al 66&deg; grazie all&#39;autorete segnata da Eric Bailly. 

Al termine del big match di Premier League che ha visto la netta vittoria del Liverpool di J&uuml;rgen Klopp sul Manchester United di Jose Mourinho, andiamo a ripercorrere i precedenti che hanno visto sfidarsi in panchina i due allenatori

Mourinho e la lezione di Klopp

Un pareggio con rissa sfiorata nel finale. C&#39;era grande attesa in Premier League per il big match che vedeva contrapposte Chelsea e Manchester Utd. Da una parte i Blues allenati da Maurizio Sarri, autori fino a questo momento di un ottimo cammino in Premier che li vede in testa in coabitazione con Manchester City e Liverpool. Dall&#39;altra i Red Devils&nbsp;guidati da Jose Mourinho, autori di un cammino in campionato decisamente sotto tono, e con una difesa fino a questo momento piuttosto ballerina (solo una, alla vigilia di questo big match, la partita in Premier finita senza subire reti). In mezzo le concezioni tattiche dei due allenatori, accomunati dallo stesso schema (il 4-3-3), ma ognuno con una sua diversa impostazione: pi&ugrave; offensiva quello di Sarri, pi&ugrave; difensiva quello di Mourinho. C&#39;erano quindi tutti gli ingredienti, oggi, per vedere una grande partita a Stamford Bridge, e cos&igrave; alla fine &egrave; stato con Chelsea e Manchester United che pareggiano per 2-2 al termine di una gara che per&ograve; &egrave; da considerare in chiaro scuro, con elementi positivi e negativi per entrambe le squadre. Andando ad analizzare con attenzione la partita, non si pu&ograve; non negare che il primo tempo e i primi dieci minuti della ripresa siano stati sostanzialmente ad appannaggio del Chelsea. Mourinho aveva provato a dire il vero a limitare il motore di gioco dei Blues rappresentato da Jorginho mettendogli a fianco Mata, ma almeno per il primo tempo non si sono visti in tal senso dei risultati significativi, con il centrocampista ex Napoli risultato pi&ugrave; volte decisivo nel fornire palle goal ai suoi compagni di squadra, con un Hazard risultato pi&ugrave; volte efficace in zona d&#39;attacco, senza per&ograve; riuscire a battere il portiere dello United, De Gea. Non solo: se la presenza fin dal 1&deg; minuto tra gli altri di Martial, Lukaku e Rushdord oltre a Pogba e al gi&agrave; citato Mata poteva far pensare a uno United a trazione anteriore, la realt&agrave; dei fatti non &egrave; sembrata andare in questa direzione, con un gioco in difesa troppo basso, e troppi lanci aerei in avanti in direzione delle punte. Una strategia di gioco che, se escludiamo un tiro di Mata in area su calcio di punizione battuto da Rushford superata la mezz&#39;ora di gioco, non ha mai realmente intimorito la difesa dei Blues,abili invece a passare in vantaggio al 21&deg; del primo tempo sugli sviluppi di un calcio d&#39;angolo battuto da Willan, con R&uuml;diger pronto ad approfittare di una maglia della difesa dello United troppo larga a causa dell&#39;eccessivo spazio lasciato in marcatura da Shaw, e a battere cos&igrave; il portiere De Gea. Nella ripresa i primi dieci minuti sembrano quasi ricalcare quanto visto nel corso del primo tempo con i Blues che sfiorano il raddoppio prima con un sinistro piuttosto debole di Morata, e poi con David Luiz, ma, come dice una regola non scritta nel mondo del calcio, pi&ugrave; si sbagliano occasioni da goal, pi&ugrave; c&#39;&egrave; il rischio che il tuo avversario segni. Ed &egrave; quello che puntualmente avviene, con uno United che al 55&deg; trova il pareggio con Martial, con il portiere del Chelsea Kepa (autore pochi minuti prima di un&#39;ottima parata su Mata) incolpevolmente battuto. 1-1. Il goal del pareggio segnato dal 22enne giocatore francese nativo di Lione ma di origini guadalupesi di fatto cambia l&#39;inerzia del match, con il Chelsea (autore fino a quel momento di un&#39;ottima partita) che comincia sempre pi&ugrave; a mostrare delle gravi crepe difensive, e con lo United che sembra giocare con un altro spirito in campo, con Pogba e Mata tornati improvvisamente a fare la differenza in mezzo al terreno di gioco, e con la difesa che finalmente comincia a giocare a terra. La sensazione &egrave; che i Red Devils&nbsp;possano da un momento all&#39;altro segnare il goal del sorpasso, ed &egrave; quello che puntualmente avviene al 73&deg;, con Mata che supera David Luiz, passa la palla a Rushford, il quale a sua volta smarca Martial, il quale batte per la seconda volta Kepa. I Red Devils&nbsp;e Mourinho cominciano a presagire la possibilit&agrave; di tornare a vincere a Stamford Bridge (per Mourinho sarebbe la prima vittoria da avversario dei Blues; per i Red Devils&nbsp;l&#39;ultima vittoria&nbsp; sul campo del Chelsea risale, infatti, al 28 Ottobre 2012 (3-2) con Alex Ferguson in panchina),ma, a sorpresa, al 96&deg; il Chelsea con la forza della disperazione riesce a trovare il goal del pareggio grazie a Barkley (schierato al 69&deg; da Sarri al posto di Kovacic), il quale batte De Gea dopo che il portiere dello United aveva ribattuto un tiro di R&uuml;diger, il quale si era a sua volta avventato su un tiro di David Luiz che aveva battuto sul palo della porta dei Reds. Un pareggio, quello del Chelsea, inaspettato ma al contempo meritato per quanto visto nel corso dell&#39;intera gara, che non solo ha visto la forte esultanza da parte di Sarri, ma che ha rischiato di generare una rissa con protagonista Mourinho innescata da alcune dichiarazioni pronunciate al suo indirizzo da un membro dello staff del Chelsea (Marco Ianni), e subito placata dagli steward e da alcuni giocatori. Episodio poi chiarito al termine della gara, con Sarri e il suo staff pronti a chiedere scusa al portoghese. La partita si conclude cos&igrave; sul punteggio di 2-2, con elementi in chiaro scuro come dicevamo per entrambe le squadre. Se da una parte i Blues di Sarri mantengono al momento la testa della classifica (in attesa di capire cosa faranno Manch.City e Liverpool), dall&#39;altra non c&#39;&egrave; dubbio come questo pareggio sia da considerare quasi un passo indietro sopratutto in difesa rispetto alle gare precedentemente giocate. Per quanto riguarda il Manchester United, se da una parte &egrave; da elogiare l&#39;ottimo secondo tempo degli uomini di Mourinho, dall&#39;altra non si pu&ograve; non rilevare ancora una volta gli evidenti errori difensivi commessi nel corso del primo tempo, gi&agrave; evidenziati anche nelle prime gare ed evidentemente non ancora del tutto risolti. Errori che il tecnico portoghese dovr&agrave; risolvere in vista della doppia sfida in Champions contro la Juventus, e in vista delle prossime sfide in Premier League che lo vedranno sfidare Everton, Bournemouth e il Manch.City per cercare di rimanere sulla panchina dei Red Devils.

Un pareggio con rissa sfiorata nel finale. C&#39;era grande attesa in Premier League per il big match che vedeva contrapposte Chelsea e Manchester Utd. Da una parte i Blues allenati da Maurizio Sarri, autori fino a questo momento di un ottimo cammino in Premier che li vede in testa in coabitazione con Manchester City e Liverpool. Dall&#39;altra i Red Devils&nbsp;guidati da Jose Mourinho, autori di un cammino in campionato decisamente sotto tono, e con una difesa fino a questo momento piuttosto ballerina (solo una, alla vigilia di questo big match, la partita in Premier finita senza subire reti). In mezzo le concezioni tattiche dei due allenatori, accomunati dallo stesso schema (il 4-3-3), ma ognuno con una sua diversa impostazione: pi&ugrave; offensiva quello di Sarri, pi&ugrave; difensiva quello di Mourinho. C&#39;erano quindi tutti gli ingredienti, oggi, per vedere una grande partita a Stamford Bridge, e cos&igrave; alla fine &egrave; stato con Chelsea e Manchester United che pareggiano per 2-2 al termine di una gara che per&ograve; &egrave; da considerare in chiaro scuro, con elementi positivi e negativi per entrambe le squadre.  Andando ad analizzare con attenzione la partita, non si pu&ograve; non negare che il primo tempo e i primi dieci minuti della ripresa siano stati sostanzialmente ad appannaggio del Chelsea. Mourinho aveva provato a dire il vero a limitare il motore di gioco dei Blues rappresentato da Jorginho mettendogli a fianco Mata, ma almeno per il primo tempo non si sono visti in tal senso dei risultati significativi, con il centrocampista ex Napoli risultato pi&ugrave; volte decisivo nel fornire palle goal ai suoi compagni di squadra, con un Hazard risultato pi&ugrave; volte efficace in zona d&#39;attacco, senza per&ograve; riuscire a battere il portiere dello United, De Gea. Non solo: se la presenza fin dal 1&deg; minuto tra gli altri di Martial, Lukaku e Rushdord oltre a Pogba e al gi&agrave; citato Mata poteva far pensare a uno United a trazione anteriore, la realt&agrave; dei fatti non &egrave; sembrata andare in questa direzione, con un gioco in difesa troppo basso, e troppi lanci aerei in avanti in direzione delle punte. Una strategia di gioco che, se escludiamo un tiro di Mata in area su calcio di punizione battuto da Rushford superata la mezz&#39;ora di gioco, non ha mai realmente intimorito la difesa dei Blues,abili invece a passare in vantaggio al 21&deg; del primo tempo sugli sviluppi di un calcio d&#39;angolo battuto da Willan, con R&uuml;diger pronto ad approfittare di una maglia della difesa dello United troppo larga a causa dell&#39;eccessivo spazio lasciato in marcatura da Shaw, e a battere cos&igrave; il portiere De Gea.  Nella ripresa i primi dieci minuti sembrano quasi ricalcare quanto visto nel corso del primo tempo con i Blues che sfiorano il raddoppio prima con un sinistro piuttosto debole di Morata, e poi con David Luiz, ma, come dice una regola non scritta nel mondo del calcio, pi&ugrave; si sbagliano occasioni da goal, pi&ugrave; c&#39;&egrave; il rischio che il tuo avversario segni. Ed &egrave; quello che puntualmente avviene, con uno United che al 55&deg; trova il pareggio con Martial, con il portiere del Chelsea Kepa (autore pochi minuti prima di un&#39;ottima parata su Mata) incolpevolmente battuto. 1-1.  Il goal del pareggio segnato dal 22enne giocatore francese nativo di Lione ma di origini guadalupesi di fatto cambia l&#39;inerzia del match, con il Chelsea (autore fino a quel momento di un&#39;ottima partita) che comincia sempre pi&ugrave; a mostrare delle gravi crepe difensive, e con lo United che sembra giocare con un altro spirito in campo, con Pogba e Mata tornati improvvisamente a fare la differenza in mezzo al terreno di gioco, e con la difesa che finalmente comincia a giocare a terra. La sensazione &egrave; che i Red Devils&nbsp;possano da un momento all&#39;altro segnare il goal del sorpasso, ed &egrave; quello che puntualmente avviene al 73&deg;, con Mata che supera David Luiz, passa la palla a Rushford, il quale a sua volta smarca Martial, il quale batte per la seconda volta Kepa. I Red Devils&nbsp;e Mourinho cominciano a presagire la possibilit&agrave; di tornare a vincere a Stamford Bridge (per Mourinho sarebbe la prima vittoria da avversario dei Blues; per i Red Devils&nbsp;l&#39;ultima vittoria&nbsp; sul campo del Chelsea risale, infatti, al 28 Ottobre 2012 (3-2) con Alex Ferguson in panchina),ma, a sorpresa, al 96&deg; il Chelsea con la forza della disperazione riesce a trovare il goal del pareggio grazie a Barkley (schierato al 69&deg; da Sarri al posto di Kovacic), il quale batte De Gea dopo che il portiere dello United aveva ribattuto un tiro di R&uuml;diger, il quale si era a sua volta avventato su un tiro di David Luiz che aveva battuto sul palo della porta dei Reds.  Un pareggio, quello del Chelsea, inaspettato ma al contempo meritato per quanto visto nel corso dell&#39;intera gara, che non solo ha visto la forte esultanza da parte di Sarri, ma che ha rischiato di generare una rissa con protagonista Mourinho innescata da alcune dichiarazioni pronunciate al suo indirizzo da un membro dello staff del Chelsea (Marco Ianni), e subito placata dagli steward e da alcuni giocatori. Episodio poi chiarito al termine della gara, con Sarri e il suo staff pronti a chiedere scusa al portoghese.  La partita si conclude cos&igrave; sul punteggio di 2-2, con elementi in chiaro scuro come dicevamo per entrambe le squadre. Se da una parte i Blues di Sarri mantengono al momento la testa della classifica (in attesa di capire cosa faranno Manch.City e Liverpool), dall&#39;altra non c&#39;&egrave; dubbio come questo pareggio sia da considerare quasi un passo indietro sopratutto in difesa rispetto alle gare precedentemente giocate. Per quanto riguarda il Manchester United, se da una parte &egrave; da elogiare l&#39;ottimo secondo tempo degli uomini di Mourinho, dall&#39;altra non si pu&ograve; non rilevare ancora una volta gli evidenti errori difensivi commessi nel corso del primo tempo, gi&agrave; evidenziati anche nelle prime gare ed evidentemente non ancora del tutto risolti. Errori che il tecnico portoghese dovr&agrave; risolvere in vista della doppia sfida in Champions contro la Juventus, e in vista delle prossime sfide in Premier League che lo vedranno sfidare Everton, Bournemouth e il Manch.City per cercare di rimanere sulla panchina dei Red Devils. 

Chelsea e Manchester Utd pareggiano una partita in chiaro scuro per entrambe le formazioni.

Chelsea-Manchester Utd, pari con emozioni a Stamford Bridge

Esiste un solo giocatore del Manchester United attuale che sarebbe titolare non diciamo nel Real Madrid, ma nella Juventus? Dopo il disastro dell&rsquo;Old Trafford contro il Tottenham, con il risultato per&ograve; nettamente peggiore del gioco espresso e delle occasioni create, Jos&eacute; Mourinho avrebbe la risposta pronta. E per la verit&agrave; ce l&rsquo;ha da settimane, ritenendo che il mercato estivo non abbia ridotto le distanze con il Manchester City di Guardiola. Certo &egrave; che le quote per il suo esonero prima di Natale sono pericolosamente scese sotto la pari e che il problema della squadra &egrave; s&igrave; tecnico, ma soprattutto psicologico. Non tutti sembrano remare dalla stessa parte, a partire da un Pogba che dopo la parentesi mondiale &egrave; tornato il giocatore supponente di tutta la sua avventura in Premier League. Il discorso &egrave; anche tattico, visto che contro gli Spurs Mourinho ha pensato di dare una scossa rinunciando all&rsquo;amata difesa a quattro, proposta in quasi tutte le sue partite con lo United e in generale in carriera, per una linea Herrera-Jones-Smalling che ad essere generosi &egrave; da centroclassifica, con rincalzi strapagati e da brivido come Lindelof, che le partite della vita le ha giocate negli spareggi mondiali contro l&rsquo;Italia. Inevitabile ricordare i terzi anni di Mourinho, mai fortunati (come al Chelsea o al Real Madrid) o addirittura mai iniziati (Porto, Inter), ma la Premier League, come del resto tutto, non &egrave; pi&ugrave; quella di una volta: Guardiola &egrave; al terzo anno (come Mourinho) al City, Sarri ed Emery al primo con Chelsea e Arsenal, solo Pochettino (quinto anno al Tottenham) e Klopp (quarto al Liverpool) fra le grandi sono andati pi&ugrave; in l&agrave;. E non parliamo del resto dell&rsquo;Europa che conta, dove lo stravincente Real Madrid ha perso Zidane dopo due anni e pochi mesi, il Barcellona ha Valverde alla seconda stagione, il Bayern Kovac alla prima, cos&igrave; come il PSG Tuchel. E dopo il Milan Ancelotti non &egrave; mai durato pi&ugrave; di due anni sulla stessa panchina&hellip; In questo quadro Allegri al quinto anno sulla panchina bianconera sembra un miracolo di longevit&agrave;, reso possibile da quattro scudetti consecutivi. Tornando al Manchester United ed evitando di replicare discorsi gi&agrave; fatti mille volte (su tutti uno: le squadre con i soldi veri sono oggi molto pi&ugrave; numerosi dei fuoriclasse a disposizione sul mercato), bisogna dire che il dopo Ferguson &egrave; stato molto pi&ugrave; difficile del previsto. Nel 2013 David Moyes sembrava l&rsquo;emergente della Premier League, mentre adesso &egrave; disoccupato dopo una stagione non memorabile con il West Ham, e anche un santone come Louis Van Gaal pur non avendo fatto male (vittoria in FA Cup) dopo l&rsquo;esperienza all&rsquo;Old Trafford si &egrave; preso un anno sabbatico che dura per&ograve; da due anni&hellip; Mourinho non intende mollare, a meno che non gli venga mostrata l&rsquo;uscita (cosa possibile), ma &egrave; anche lui nel pieno di quella che al bar chiamano maledizione &egrave; che nella realt&agrave; &egrave; una squadra prestigiosa che si muove in tutt&rsquo;altro contesto rispetto a quello in cui ha vinto Sir Alex. Che per tanti anni della sua gestione ha avuto come concorrente in patria soltanto l&rsquo;Arsenal di Wenger. Certo &egrave; che la squadra attuale, Mourinho o non Mourinho, ha limiti evidenti e la sensazione &egrave; che se l&#39;anno scorso si giocava per il secondo posto, quest&#39;anno con il Liverpool cos&igrave; motivato forse si gioca per il terzo.

Esiste un solo giocatore del Manchester United attuale che sarebbe titolare non diciamo nel Real Madrid, ma nella Juventus? Dopo il disastro dell&rsquo;Old Trafford contro il Tottenham, con il risultato per&ograve; nettamente peggiore del gioco espresso e delle occasioni create, Jos&eacute; Mourinho avrebbe la risposta pronta. E per la verit&agrave; ce l&rsquo;ha da settimane, ritenendo che il mercato estivo non abbia ridotto le distanze con il Manchester City di Guardiola. Certo &egrave; che le quote per il suo esonero prima di Natale sono pericolosamente scese sotto la pari e che il problema della squadra &egrave; s&igrave; tecnico, ma soprattutto psicologico. Non tutti sembrano remare dalla stessa parte, a partire da un Pogba che dopo la parentesi mondiale &egrave; tornato il giocatore supponente di tutta la sua avventura in Premier League.  Il discorso &egrave; anche tattico, visto che contro gli Spurs Mourinho ha pensato di dare una scossa rinunciando all&rsquo;amata difesa a quattro, proposta in quasi tutte le sue partite con lo United e in generale in carriera, per una linea Herrera-Jones-Smalling che ad essere generosi &egrave; da centroclassifica, con rincalzi strapagati e da brivido come Lindelof, che le partite della vita le ha giocate negli spareggi mondiali contro l&rsquo;Italia. Inevitabile ricordare i terzi anni di Mourinho, mai fortunati (come al Chelsea o al Real Madrid) o addirittura mai iniziati (Porto, Inter), ma la Premier League, come del resto tutto, non &egrave; pi&ugrave; quella di una volta: Guardiola &egrave; al terzo anno (come Mourinho) al City, Sarri ed Emery al primo con Chelsea e Arsenal, solo Pochettino (quinto anno al Tottenham) e Klopp (quarto al Liverpool) fra le grandi sono andati pi&ugrave; in l&agrave;. E non parliamo del resto dell&rsquo;Europa che conta, dove lo stravincente Real Madrid ha perso Zidane dopo due anni e pochi mesi, il Barcellona ha Valverde alla seconda stagione, il Bayern Kovac alla prima, cos&igrave; come il PSG Tuchel. E dopo il Milan Ancelotti non &egrave; mai durato pi&ugrave; di due anni sulla stessa panchina&hellip; In questo quadro Allegri al quinto anno sulla panchina bianconera sembra un miracolo di longevit&agrave;, reso possibile da quattro scudetti consecutivi.  Tornando al Manchester United ed evitando di replicare discorsi gi&agrave; fatti mille volte (su tutti uno: le squadre con i soldi veri sono oggi molto pi&ugrave; numerosi dei fuoriclasse a disposizione sul mercato), bisogna dire che il dopo Ferguson &egrave; stato molto pi&ugrave; difficile del previsto. Nel 2013 David Moyes sembrava l&rsquo;emergente della Premier League, mentre adesso &egrave; disoccupato dopo una stagione non memorabile con il West Ham, e anche un santone come Louis Van Gaal pur non avendo fatto male (vittoria in FA Cup) dopo l&rsquo;esperienza all&rsquo;Old Trafford si &egrave; preso un anno sabbatico che dura per&ograve; da due anni&hellip; Mourinho non intende mollare, a meno che non gli venga mostrata l&rsquo;uscita (cosa possibile), ma &egrave; anche lui nel pieno di quella che al bar chiamano maledizione &egrave; che nella realt&agrave; &egrave; una squadra prestigiosa che si muove in tutt&rsquo;altro contesto rispetto a quello in cui ha vinto Sir Alex. Che per tanti anni della sua gestione ha avuto come concorrente in patria soltanto l&rsquo;Arsenal di Wenger. Certo &egrave; che la squadra attuale, Mourinho o non Mourinho, ha limiti evidenti e la sensazione &egrave; che se l&#39;anno scorso si giocava per il secondo posto, quest&#39;anno con il Liverpool cos&igrave; motivato forse si gioca per il terzo. 

Il Manchester United non sta giocando male, ma &egrave; una squadra senz&#39;anima e con un allenatore che fatica a nascondere il disgusto per i suoi giocatori. Che la quota del suo esonero scendesse sotto la pari era scontato...

Il terzo anno di Mourinho

Il trasferimento di Romelu Lukaku dall'Everton al Manchester United allenato da Jos&eacute; Mourinho fa notizia per tanti motivi, al di l&agrave; della cifra assurda anche per gli standard della Premier League: l'equivalente di 85 milioni di euro. Il 142% in pi&ugrave; rispetto ai circa 35 con cui nel 2014 l'Everton lo riscatt&ograve; dal Chelsea, all'epoca guidato proprio da Mourinho, che come prima punta prefer&igrave; farsi comprare&nbsp;Diego Costa e lasciar andare il giovane Lukaku poco dopo il rigore decisivo sbagliato contro il Bayern Monaco nella finale di Supercoppa.&nbsp;Era ed &egrave; difficile dargli torto, con il senno sia di prima sia di poi, anche se fino all'ultimo il club di Conte ha provato a inseguire Lukaku per metterlo proprio al posto del brasiliano diventato spagnolo senza un vero perch&eacute;. In realt&agrave; l'errore di Mourinho e dei dirigenti dei Blues in quella eccellente stagione (vittoria in campionato, semifinale in Champions League) fu quello di liberarsi di De Bruyne, ben pagato dal Wolfsburg ma che un anno e mezzo dopo avrebbe pi&ugrave; che triplicato il suo valore (pagato 75 milioni dal Manchester City). Tornando a Lukaku, la fame di attaccanti decenti &egrave; cos&igrave; grande da avere trasformato in uomo mercato il pur bravo belga, di solito maramaldo contro le piccole ma poco incisivo contro difensori veri. Merito in ogni caso del suo eccellente ultimo campionato, dove con 25 gol &egrave; stato il secondo marcatore dietro a Kane. Va detto che ha soltanto 24 anni ed &egrave; quel tipo di attaccante, per struttura fisica e attitudine, che migliora stagione dopo stagione (un Christian Vieri nero, volendo esagerare): gli 85 milioni hanno acquistato anche il potenziale non ancora sfruttato. Buon amico di Paul Pogba, forse potr&agrave; chiedergli come si regge la pressione da sopravvalutati. Con l'ex juventino condivide diversi interessi, ma anche il procuratore, che altri non &egrave; che Mino Raiola. Dove ci sono soldi veri c'&egrave; anche lui, quando non c'&egrave; Jorge Mendes e anche quando Mendes c'&egrave; (la Gestifute fra i mille assistiti ha Mourinho). Raiola nella squadra pi&ugrave; seguita al mondo, nel campionato pi&ugrave; seguito e ricco del mondo, cura gli interessi anche di Mkhtaryan e Romero. Raiola United, praticamente: non &egrave; riuscito a strappare ai Glazer un altro contrattone a Ibrahimovic, ma si &egrave; rifatto con Lukaku. Per il portiere aveva un'idea, ma per il momento gli &egrave; andata (relativamente) male.

Il trasferimento di Romelu Lukaku dall'Everton al Manchester United allenato da Jos&eacute; Mourinho fa notizia per tanti motivi, al di l&agrave; della cifra assurda anche per gli standard della Premier League: l'equivalente di 85 milioni di euro. Il 142% in pi&ugrave; rispetto ai circa 35 con cui nel 2014 l'Everton lo riscatt&ograve; dal Chelsea, all'epoca guidato proprio da Mourinho, che come prima punta prefer&igrave; farsi comprare&nbsp;Diego Costa e lasciar andare il giovane Lukaku poco dopo il rigore decisivo sbagliato contro il Bayern Monaco nella finale di Supercoppa.&nbsp;Era ed &egrave; difficile dargli torto, con il senno sia di prima sia di poi, anche se fino all'ultimo il club di Conte ha provato a inseguire Lukaku per metterlo proprio al posto del brasiliano diventato spagnolo senza un vero perch&eacute;. In realt&agrave; l'errore di Mourinho e dei dirigenti dei Blues in quella eccellente stagione (vittoria in campionato, semifinale in Champions League) fu quello di liberarsi di De Bruyne, ben pagato dal Wolfsburg ma che un anno e mezzo dopo avrebbe pi&ugrave; che triplicato il suo valore (pagato 75 milioni dal Manchester City). Tornando a Lukaku, la fame di attaccanti decenti &egrave; cos&igrave; grande da avere trasformato in uomo mercato il pur bravo belga, di solito maramaldo contro le piccole ma poco incisivo contro difensori veri. Merito in ogni caso del suo eccellente ultimo campionato, dove con 25 gol &egrave; stato il secondo marcatore dietro a Kane. Va detto che ha soltanto 24 anni ed &egrave; quel tipo di attaccante, per struttura fisica e attitudine, che migliora stagione dopo stagione (un Christian Vieri nero, volendo esagerare): gli 85 milioni hanno acquistato anche il potenziale non ancora sfruttato. Buon amico di Paul Pogba, forse potr&agrave; chiedergli come si regge la pressione da sopravvalutati. Con l'ex juventino condivide diversi interessi, ma anche il procuratore, che altri non &egrave; che Mino Raiola. Dove ci sono soldi veri c'&egrave; anche lui, quando non c'&egrave; Jorge Mendes e anche quando Mendes c'&egrave; (la Gestifute fra i mille assistiti ha Mourinho). Raiola nella squadra pi&ugrave; seguita al mondo, nel campionato pi&ugrave; seguito e ricco del mondo, cura gli interessi anche di Mkhtaryan e Romero. Raiola United, praticamente: non &egrave; riuscito a strappare ai Glazer un altro contrattone a Ibrahimovic, ma si &egrave; rifatto con Lukaku. Per il portiere aveva un'idea, ma per il momento gli &egrave; andata (relativamente) male.

Lukaku, Mourinho e il Raiola United

Jos&eacute; Mourinho Felix &egrave; morto, il mondo del calcio lo ha appreso dalla foto postata su Instagram dallo Jos&eacute; Mourinho pi&ugrave; famoso, suo figlio. Figlio d'arte particolarissimo, nemmeno paragonabile come giocatore al padre mentre come allenatore ha poi di sicuro recuperato il distacco. Mourinho senior &egrave; stato un ottimo portiere di Vitoria Setubal e Belenenses (con anche una presenza nella nazionale portoghese, il 25 giugno 1972, esattamente 45 anni prima della sua morte e davanti agli occhi del suo bambino di 9: c.t. era Jos&eacute; Augusto, l'ex grande ala del Benfica di Eusebio), mentre Mourinho junior non si &egrave; mai illuso di guadagnarsi da vivere come centrocampista di modesto dinamismo. Come allenatore Felix &egrave; stato apprezzatissimo in patria, con quattro promozioni dalla Segunda Liga alla massima serie, ma non ha mai avuto un'occasione in un grande club. Allenatore di categoria: anche in portoghese ci sar&agrave; un'espressione simile. Mourinho junior dal padre non ha imparato soltanto le basi del calcio, ma anche l'atteggiamento da evitare se si vuol fare carriera, come ha spiegato in una recente intervista a BT Sport: "Pap&agrave; era un bravo allenatore, che ha sempre fatto bene ovunque abbia lavorato. Ma ho sempre pensato che avrebbe fatto molto di pi&ugrave; se avesse avuto quel poco di pi&ugrave; di fiducia e di ambizione. Guardandolo pensavo che avrei dovuto fare meglio di lui". In altre parole, proporsi con umilt&agrave; porta gli altri a sottovalutarti. Certo che senza Jos&eacute; senior oggi Mourinho non allenerebbe il Manchester United e probabilmente nemmeno sarebbe arrivato all'Uni&#257;o de Leiria: "Quando ho iniziato ad allenare era quasi obbligatorio essere un ex giocatore di buon livello, mentre oggi la situazione &egrave; leggermente cambiata. Io ero s&igrave; un ex giocatore, ma di basso livello. Al contrario di altri, per&ograve;, grazie a mio padre io avevo respirato calcio fin dalla nascita. Ed &egrave; stata la mia forza. Poi sono andato avanti, prendendo qualcosa da tutti gli ambienti in cui ho lavorato, ma senza di lui non sarebbe iniziato niente". Fra l'altro nella sua breve carriera semiprofessionistica il giovane Jos&eacute; &egrave; stato anche per qualche mese allenato dal vecchio, al Rio Ave. Lo stesso padre che al compimento dei 24 anni gli consigli&ograve; di lasciar perdere, per terminare la scuola di educazione fisica e poi iscriversi a un corso per allenatori, mantenendosi per puro orgoglio (famiglia benestante, soprattutto dal ramo della madre Maria Julia) con supplenze in scuole medie e istituti tecnici. Mentre cresceva il desiderio di rivalsa, anche per conto di Jos&eacute; senior che lo ha sempre sostenuto nel sogno quasi impossibile di allenare un grande club senza essere stato un vero calciatore. Da Dondinho-Pel&eacute; a mille altri casi, non proprio una storia inedita. Ma questo non toglie che il successo sia ancora pi&ugrave; bello e meritato, quando lo si &egrave; a lungo sognato.

Jos&eacute; Mourinho Felix &egrave; morto, il mondo del calcio lo ha appreso dalla foto postata su Instagram dallo Jos&eacute; Mourinho pi&ugrave; famoso, suo figlio. Figlio d'arte particolarissimo, nemmeno paragonabile come giocatore al padre mentre come allenatore ha poi di sicuro recuperato il distacco. Mourinho senior &egrave; stato un ottimo portiere di Vitoria Setubal e Belenenses (con anche una presenza nella nazionale portoghese, il 25 giugno 1972, esattamente 45 anni prima della sua morte e davanti agli occhi del suo bambino di 9: c.t. era Jos&eacute; Augusto, l'ex grande ala del Benfica di Eusebio), mentre Mourinho junior non si &egrave; mai illuso di guadagnarsi da vivere come centrocampista di modesto dinamismo. Come allenatore Felix &egrave; stato apprezzatissimo in patria, con quattro promozioni dalla Segunda Liga alla massima serie, ma non ha mai avuto un'occasione in un grande club. Allenatore di categoria: anche in portoghese ci sar&agrave; un'espressione simile.  Mourinho junior dal padre non ha imparato soltanto le basi del calcio, ma anche l'atteggiamento da evitare se si vuol fare carriera, come ha spiegato in una recente intervista a BT Sport: "Pap&agrave; era un bravo allenatore, che ha sempre fatto bene ovunque abbia lavorato. Ma ho sempre pensato che avrebbe fatto molto di pi&ugrave; se avesse avuto quel poco di pi&ugrave; di fiducia e di ambizione. Guardandolo pensavo che avrei dovuto fare meglio di lui". In altre parole, proporsi con umilt&agrave; porta gli altri a sottovalutarti. Certo che senza Jos&eacute; senior oggi Mourinho non allenerebbe il Manchester United e probabilmente nemmeno sarebbe arrivato all'Uni&#257;o de Leiria: "Quando ho iniziato ad allenare era quasi obbligatorio essere un ex giocatore di buon livello, mentre oggi la situazione &egrave; leggermente cambiata. Io ero s&igrave; un ex giocatore, ma di basso livello. Al contrario di altri, per&ograve;, grazie a mio padre io avevo respirato calcio fin dalla nascita. Ed &egrave; stata la mia forza. Poi sono andato avanti, prendendo qualcosa da tutti gli ambienti in cui ho lavorato, ma senza di lui non sarebbe iniziato niente". Fra l'altro nella sua breve carriera semiprofessionistica il giovane Jos&eacute; &egrave; stato anche per qualche mese allenato dal vecchio, al Rio Ave.  Lo stesso padre che al compimento dei 24 anni gli consigli&ograve; di lasciar perdere, per terminare la scuola di educazione fisica e poi iscriversi a un corso per allenatori, mantenendosi per puro orgoglio (famiglia benestante, soprattutto dal ramo della madre Maria Julia) con supplenze in scuole medie e istituti tecnici. Mentre cresceva il desiderio di rivalsa, anche per conto di Jos&eacute; senior che lo ha sempre sostenuto nel sogno quasi impossibile di allenare un grande club senza essere stato un vero calciatore. Da Dondinho-Pel&eacute; a mille altri casi, non proprio una storia inedita. Ma questo non toglie che il successo sia ancora pi&ugrave; bello e meritato, quando lo si &egrave; a lungo sognato.

Il motivatore di Mourinho

La vittoria del Manchester United in Europa League ha trasformato la stagione della squadra di Jos&eacute; Mourinho da appena sufficiente a quasi buona, in proporzione ai mezzi finanziari: visto che i giocatori dell'Ajax sono costati in totale (!) una cifra inferiore alle commissioni pagate da Juventus e United per l'operazione Pogba. A riprova che il fair play finanziario UEFA alla fine non fa altro che perpetuare il dominio di chi &egrave; gi&agrave; forte ed ha milioni di tifosi in tutto il mondo: non ci pare che in fondo alla Champions League siano arrivate Sparta Praga e Basilea, ma forse ci sbagliamo. Questo non toglie che Mourinho da 15 anni, da quando con il Porto vinse la Coppa UEFA 2002-2003, sia uno dei migliori allenatori del mondo: un periodo lunghissimo, per i parametri moderni, quasi assurdo pensando a come i 'santoni' si brucino molto pi&ugrave; velocemente dei distributori di maglie. Va detto che il Mourinho pacificato con il mondo e in un certo senso 'condiviso' di questa stagione a Manchester, ma anche della sua seconda vita al Chelsea, ha perso un po' della rabbia del vecchio Mourinho: non che nel 2017 manchino avversari o 'nemici', ma avere 54 anni &egrave; di sicuro diverso dall'averne 39. &Egrave; lui il primo a sapere che Community Shield, coppa di Lega, Europa League e qualificazione alla Champions sono un punto di partenza, quando in tutti gli altri club del mondo lo sarebbero di arrivo, quindi &egrave; sicuro che questa estate nasca davvero il suo Manchester United intorno a Paul Pogba, nella finale di Stoccolma molto pi&ugrave; coinvolto emotivamente rispetto al Pogba di almeno mezza stagione di Premier League. Tatticamente l'allenatore portoghese ha iniziato la stagione con l'amato 4-2-3-1, con Pogba e Fellaini a centrocampo e Rooney dietro Ibrahimovic (viene in mente la prima delle sfide con il City di Guardiola), per poi da inizio 2017 cercare un miglioramento della manovra nel modo pi&ugrave; semplice: togliendo un difensore e aggiungendo un centrocampista. Tattica che a volte ha pagato (in campionato battuto il Chelsea di Conte) ma che non &egrave; nel cuore del portoghese. L'infortunio di Ibrahimovic gli ha dato la spinta per aggrapparsi alle sue certezze, con variazioni sul tema come il 4-3-3 compattissimo che era anche il marchio del suo primo Chelsea che aveva in attacco Duff, Drogba e Robben e che si &egrave; visto contro l'Ajax. Schiavi come siamo delle dichiarazioni da titolo, ci dimentichiamo troppo spesso di osservare come giocano la sue squadre. Che hanno una costante: hanno giocatori che remano nella stessa direzione, anche soggetti in altri contesti ritenuti difficili. Se Ibrahimovic, uno con un ego doppio rispetto a Cristiano Ronaldo e Messi presi insieme, da zoppo si mette a fare il tifoso a bordocampo questo significa che ancora oggi Mourinho sa entrare nel cuore di chi lavora con lui e di chi tifa per la sua squadra del momento. Sono cose che non si possono n&eacute; insegnare n&eacute; imparare.

La vittoria del Manchester United in Europa League ha trasformato la stagione della squadra di Jos&eacute; Mourinho da appena sufficiente a quasi buona, in proporzione ai mezzi finanziari: visto che i giocatori dell'Ajax sono costati in totale (!) una cifra inferiore alle commissioni pagate da Juventus e United per l'operazione Pogba. A riprova che il fair play finanziario UEFA alla fine non fa altro che perpetuare il dominio di chi &egrave; gi&agrave; forte ed ha milioni di tifosi in tutto il mondo: non ci pare che in fondo alla Champions League siano arrivate Sparta Praga e Basilea, ma forse ci sbagliamo.  Questo non toglie che Mourinho da 15 anni, da quando con il Porto vinse la Coppa UEFA 2002-2003, sia uno dei migliori allenatori del mondo: un periodo lunghissimo, per i parametri moderni, quasi assurdo pensando a come i 'santoni' si brucino molto pi&ugrave; velocemente dei distributori di maglie. Va detto che il Mourinho pacificato con il mondo e in un certo senso 'condiviso' di questa stagione a Manchester, ma anche della sua seconda vita al Chelsea, ha perso un po' della rabbia del vecchio Mourinho: non che nel 2017 manchino avversari o 'nemici', ma avere 54 anni &egrave; di sicuro diverso dall'averne 39. &Egrave; lui il primo a sapere che Community Shield, coppa di Lega, Europa League e qualificazione alla Champions sono un punto di partenza, quando in tutti gli altri club del mondo lo sarebbero di arrivo, quindi &egrave; sicuro che questa estate nasca davvero il suo Manchester United intorno a Paul Pogba, nella finale di Stoccolma molto pi&ugrave; coinvolto emotivamente rispetto al Pogba di almeno mezza stagione di Premier League.  Tatticamente l'allenatore portoghese ha iniziato la stagione con l'amato 4-2-3-1, con Pogba e Fellaini a centrocampo e Rooney dietro Ibrahimovic (viene in mente la prima delle sfide con il City di Guardiola), per poi da inizio 2017 cercare un miglioramento della manovra nel modo pi&ugrave; semplice: togliendo un difensore e aggiungendo un centrocampista. Tattica che a volte ha pagato (in campionato battuto il Chelsea di Conte) ma che non &egrave; nel cuore del portoghese. L'infortunio di Ibrahimovic gli ha dato la spinta per aggrapparsi alle sue certezze, con variazioni sul tema come il 4-3-3 compattissimo che era anche il marchio del suo primo Chelsea che aveva in attacco Duff, Drogba e Robben e che si &egrave; visto contro l'Ajax. Schiavi come siamo delle dichiarazioni da titolo, ci dimentichiamo troppo spesso di osservare come giocano la sue squadre. Che hanno una costante: hanno giocatori che remano nella stessa direzione, anche soggetti in altri contesti ritenuti difficili. Se Ibrahimovic, uno con un ego doppio rispetto a Cristiano Ronaldo e Messi presi insieme, da zoppo si mette a fare il tifoso a bordocampo questo significa che ancora oggi Mourinho sa entrare nel cuore di chi lavora con lui e di chi tifa per la sua squadra del momento. Sono cose che non si possono n&eacute; insegnare n&eacute; imparare.

L'Europa League del Mourinho condiviso

Jos&eacute; Mourinho &egrave; un'icona pop, prima ancora di un allenatore. Per questo la crisi del suo Chelsea fa pi&ugrave; notizia di quella di qualunque altro grande club, non soltanto in Italia dove non si va al di l&agrave; di pro Inter-anti Inter (cambiate la squadra e la logica rimane la stessa). Dopo la sconfitta con il West Ham e allegato rosso per Mourinho la crisi &egrave; diventata una tragedia, sportivamente parlando. Qualche settimana fa lo avevamo inserito in un elenco di grandi allenatori che avevano perso il fuoco sacro, non proprio bolliti ma ormai pi&ugrave; adatti a una nazionale o a uno studio televisivo, ma non si pu&ograve; dimenticare che lo scorso maggio questa squadra con lo stesso allenatore aveva vinto la Premier League, con una difesa che a giudizio di tutti era il punto di forza e che invece adesso &egrave; fra le peggiori della lega. Invece Terry &egrave; finito, Ivanovic &egrave; calato, eccetera... Troppi mezzi giocatori sopravvalutati, da Oscar a Willian? &Egrave; il problema di un po' tutta la Premier League, dove l'aumento dei soldi da spendere non hanno aumentato il numero di campioni nel mondo. Troppi nemici quest'anno anche interni, dopo il caso Carneiro? Forse, ma nessuno ha il suo contratto e fino al 2019, per non parlare del rapporto diretto con Abramovich. Forse Mourinho ha bisogno di un'altra sfida, come un Mondiale da vincere contro tutti con una nazionale fuori dai giri giusti come il Portogallo. Se rimane attaccato al Chelsea si trasformer&agrave; lentamente in un Wenger, senza nemmeno la&nbsp;buona stampa dell'alsaziano. 2. Il linciaggio, per fortuna soltanto verbale, che Firenze ha riservato a Mohammed Salah, deve far riflettere sull'asimmetria che c'&egrave; fra il pubblico del calcio e i suoi molto provvisori idoli. Salah arriv&ograve; a Firenze lo scorso febbraio nell'&igrave;nsieme dell'affare (per la Fiorentina) che port&ograve; Cuadrado al Chelsea: prestito fino a giugno, con possibilit&agrave; di riscatto da parte dei viola per 15 milioni. Contestualmente Salah e l'amministratore delegato della Fiorentina Mencucci avevano firmato un altro documento, che citiamo testualmente: "Per il contratto di ingaggio siglato il 2 febbraio 2015 tra Fiorentina e calciatore non dovr&agrave; essere considerato il consenso di Salah alla clausola di prestito siglata tra il club e il Chelsea che consente alla Fiorentina l'opzione di estensione del periodo di prestito e dell'eventuale acquisto a titolo definitivo. Il club non &egrave; autorizzato ad esercitare questi diritti senza che il calciatore non esprima in forma scritta la volont&agrave; di restare in viola anche per la stagione 2015-2016". Traduzione: la Fiorentina poteva esercitare il diritto di riscatto anche contro la volont&agrave; del Chelsea, ma non contro quella di Salah. Parentesi: non ci sarebbe stato nemmeno bisogno della scrittura privata, nessun professionista del calcio pu&ograve; vedersi cedere il contratto contro la propria volont&agrave;. Ma il punto &egrave; un altro: se Salah nei pochi mesi in viola avesse fatto schifo sarebbe stato rispedito a Londra senza problemi e nessuno a Firenze lo avrebbe rimpianto. Invece il suo mercato &egrave; aumentato e ha effettuato la scelta che ha ritenuto migliore per la propria carriera. Dov'&egrave; il crimine? 3. L'allenatore &egrave; l'unica persona criticabile all'interno di un club, per motivi mille volte elencati dal Guerino, ma con Massimiliano&nbsp;Allegri si sta andando oltre. Ed il caso Dybala &egrave; in questo senso emblematico, visto che prima della partita con l'Atalanta si imputava al tecnico livornese lo scarso impiego di un giocatore preso dal Palermo per 40 milioni di euro. Senza che nessuno in societ&agrave;, nemmeno quel direttore generale-fenomeno che acquista consapevolmente 'non fenomeni', lo difendesse. Ma il 'sottoutilizzato' Dybala gi&agrave; l'altroieri era l'attaccante bianconero pi&ugrave; utilizzato, pi&ugrave; di gente non scarsa come Morata, Mandzukic e Zaza. Poi Dybala ha giocato e segnato contro l'Atalanta, urge quindi un nuovo pretesto per canalizzare la rabbia repressa contro l'unico obbiettivo disponibile. 4. La morte di Paride Tumburus ci ha ricordato la carriera di un buon difensore, arrivato anche alla Nazionale nello sfortunato Mondiale del 1962 (lui nella battaglia di Santiago era in campo, fu tra i nove che finirono la partita con il Cile dopo le espulsioni di Ferrini e David) e consegnato ai posteri dallo scudetto bolognese 1963-64. Ma ci ha anche ricordato che la sua, quella dei nati alla fine degli anni Trenta, &egrave; l'ultima generazione di calciatori in bianco e nero, dei quali si fatica a ricordare la faccia a meno di non avere in casa un Panini d'epoca. Da Mexico 1970 abbiamo un ricordo a colori un po' farlocco, perch&eacute; gli italiani quelle immagini in diretta le videro in bianco e nero, mentre soltanto videocassette e dvd ci avrebbero dato un ricordo pi&ugrave; realistico e caldo. Per&ograve; se Tumburus era nostro padre, Rivera, di soli quattro anni pi&ugrave; giovane, era nostro fratello. La prossima generazione di morti, insomma, ci dar&agrave; un brivido di morte in pi&ugrave;. Twitter @StefanoOlivari

Jos&eacute; Mourinho &egrave; un'icona pop, prima ancora di un allenatore. Per questo la crisi del suo Chelsea fa pi&ugrave; notizia di quella di qualunque altro grande club, non soltanto in Italia dove non si va al di l&agrave; di pro Inter-anti Inter (cambiate la squadra e la logica rimane la stessa). Dopo la sconfitta con il West Ham e allegato rosso per Mourinho la crisi &egrave; diventata una tragedia, sportivamente parlando. Qualche settimana fa lo avevamo inserito in un elenco di grandi allenatori che avevano perso il fuoco sacro, non proprio bolliti ma ormai pi&ugrave; adatti a una nazionale o a uno studio televisivo, ma non si pu&ograve; dimenticare che lo scorso maggio questa squadra con lo stesso allenatore aveva vinto la Premier League, con una difesa che a giudizio di tutti era il punto di forza e che invece adesso &egrave; fra le peggiori della lega. Invece Terry &egrave; finito, Ivanovic &egrave; calato, eccetera... Troppi mezzi giocatori sopravvalutati, da Oscar a Willian? &Egrave; il problema di un po' tutta la Premier League, dove l'aumento dei soldi da spendere non hanno aumentato il numero di campioni nel mondo. Troppi nemici quest'anno anche interni, dopo il caso Carneiro? Forse, ma nessuno ha il suo contratto e fino al 2019, per non parlare del rapporto diretto con Abramovich. Forse Mourinho ha bisogno di un'altra sfida, come un Mondiale da vincere contro tutti con una nazionale fuori dai giri giusti come il Portogallo. Se rimane attaccato al Chelsea si trasformer&agrave; lentamente in un Wenger, senza nemmeno la&nbsp;buona stampa dell'alsaziano.  2. Il linciaggio, per fortuna soltanto verbale, che Firenze ha riservato a Mohammed Salah, deve far riflettere sull'asimmetria che c'&egrave; fra il pubblico del calcio e i suoi molto provvisori idoli. Salah arriv&ograve; a Firenze lo scorso febbraio nell'&igrave;nsieme dell'affare (per la Fiorentina) che port&ograve; Cuadrado al Chelsea: prestito fino a giugno, con possibilit&agrave; di riscatto da parte dei viola per 15 milioni. Contestualmente Salah e l'amministratore delegato della Fiorentina Mencucci avevano firmato un altro documento, che citiamo testualmente: "Per il contratto di ingaggio siglato il 2 febbraio 2015 tra Fiorentina e calciatore non dovr&agrave; essere considerato il consenso di Salah alla clausola di prestito siglata tra il club e il Chelsea che consente alla Fiorentina l'opzione di estensione del periodo di prestito e dell'eventuale acquisto a titolo definitivo. Il club non &egrave; autorizzato ad esercitare questi diritti senza che il calciatore non esprima in forma scritta la volont&agrave; di restare in viola anche per la stagione 2015-2016". Traduzione: la Fiorentina poteva esercitare il diritto di riscatto anche contro la volont&agrave; del Chelsea, ma non contro quella di Salah. Parentesi: non ci sarebbe stato nemmeno bisogno della scrittura privata, nessun professionista del calcio pu&ograve; vedersi cedere il contratto contro la propria volont&agrave;. Ma il punto &egrave; un altro: se Salah nei pochi mesi in viola avesse fatto schifo sarebbe stato rispedito a Londra senza problemi e nessuno a Firenze lo avrebbe rimpianto. Invece il suo mercato &egrave; aumentato e ha effettuato la scelta che ha ritenuto migliore per la propria carriera. Dov'&egrave; il crimine?  3. L'allenatore &egrave; l'unica persona criticabile all'interno di un club, per motivi mille volte elencati dal Guerino, ma con Massimiliano&nbsp;Allegri si sta andando oltre. Ed il caso Dybala &egrave; in questo senso emblematico, visto che prima della partita con l'Atalanta si imputava al tecnico livornese lo scarso impiego di un giocatore preso dal Palermo per 40 milioni di euro. Senza che nessuno in societ&agrave;, nemmeno quel direttore generale-fenomeno che acquista consapevolmente 'non fenomeni', lo difendesse. Ma il 'sottoutilizzato' Dybala gi&agrave; l'altroieri era l'attaccante bianconero pi&ugrave; utilizzato, pi&ugrave; di gente non scarsa come Morata, Mandzukic e Zaza. Poi Dybala ha giocato e segnato contro l'Atalanta, urge quindi un nuovo pretesto per canalizzare la rabbia repressa contro l'unico obbiettivo disponibile.  4. La morte di Paride Tumburus ci ha ricordato la carriera di un buon difensore, arrivato anche alla Nazionale nello sfortunato Mondiale del 1962 (lui nella battaglia di Santiago era in campo, fu tra i nove che finirono la partita con il Cile dopo le espulsioni di Ferrini e David) e consegnato ai posteri dallo scudetto bolognese 1963-64. Ma ci ha anche ricordato che la sua, quella dei nati alla fine degli anni Trenta, &egrave; l'ultima generazione di calciatori in bianco e nero, dei quali si fatica a ricordare la faccia a meno di non avere in casa un Panini d'epoca. Da Mexico 1970 abbiamo un ricordo a colori un po' farlocco, perch&eacute; gli italiani quelle immagini in diretta le videro in bianco e nero, mentre soltanto videocassette e dvd ci avrebbero dato un ricordo pi&ugrave; realistico e caldo. Per&ograve; se Tumburus era nostro padre, Rivera, di soli quattro anni pi&ugrave; giovane, era nostro fratello. La prossima generazione di morti, insomma, ci dar&agrave; un brivido di morte in pi&ugrave;.  Twitter @StefanoOlivari

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