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Il linguaggio di Mourinho e il dialetto di Sarri© LAPRESSE

Il linguaggio di Mourinho e il dialetto di Sarri

Come i due allenatori hanno conquistato (o deluso) la piazza romana

Gianluca Palamidessi

24.05.2022 ( Aggiornata il 24.05.2022 21:40 )

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“Noi vogliamo cantare l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità. Il coraggio, l’audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia. Noi vogliamo distruggere i musei”. Il Manifesto del Futurismo scritto da Filippo Tommaso Marinetti uscì per la prima volta sulla Gazzetta dell’Emilia di Bologna il 6 febbraio del 1909. I suoi toni incendiari e polemici non trovarono però nei confini della Penisola l’eco che avrebbero meritato. Fu solo con la pubblicazione del Manifeste su Le Figaro che le idee dei futuristi esplosero sulla scena artistica, filosofica e politica internazionale. Parigi, d’altra parte, non è uguale a Bologna, né a Napoli (dove apparve il manifesto il 6 febbraio sul Pungolo), Mantova, Verona e Trieste. Detto altrimenti: la forza di un messaggio non la fa (solo) il messaggio, ma il contesto. Mourinho l’ha capito, a Sarri non è mai importato.

8 luglio 2021, quando tutto ha inizio: i tifosi della Roma festeggiano Josè Mourinho a Piazza Venezia

Mourinho, tifoso fin da subito

Fin dal principio. Cioè dal 4 maggio del 2021, quando la Roma annuncia José Mourinho come nuovo allenatore dei giallorossi a partire dalla stagione 2021/22. Neanche una settimana prima (29 aprile) la Roma di Fonseca aveva disperso il patrimonio del primo tempo (1-2) di Old Trafford contro lo United prendendone cinque nel secondo tempo in semifinale di Europa League. L’annuncio della Roma, a pochi giorni da quella disfatta, è scioccante e insieme elettrizzante per tutti. Dagli addetti ai lavori ai tifosi – non solo quelli della Roma –, i Friedkin lanciano un segnale: è finito il tempo delle chiacchiere, il dittatore di Setúbal si prepara a sovvertire l’ordine costituito. I suoi riti, la sua gestualità e le sue dichiarazioni lo proveranno.

 

Annunciato dal club giallorosso, Mourinho pubblica una foto ritraente il tecnico portoghese con in alto a destra lo stemma della Roma: «Ringrazio la famiglia Friedkin per avermi scelto a guidare questo grande Club e per avermi reso parte della loro visione. […] L’incredibile passione dei tifosi della Roma mi ha convinto ad accettare. […] Daje Roma!». Mourinho tifoso, dunque, fin da subito – come mostra una foto pubblicata lo stesso giorno (4 maggio 2021) con la nuova cover dello Special One: un sintetico quanto efficace JM in giallo ocra, con lo sfondo rosso porpora. La stessa enfasi imperiale che Mourinho mostrerà in tutta la sua forza comunicativa ed espressiva il giorno della presentazione ufficiale al Campidoglio: «Perché sono qui? Sono vicino alla statua di Marco Aurelio, se non sbaglio nulla viene dal nulla e nulla ritorna al nulla».

 

Quella dello Special One è una solennità a misura di tifoso, perché accanto a certe dichiarazioni Mourinho affianca il post dedicato a Totti («quanto mi sarebbe piaciuto allenarti; #UnCapitano» ) e l’arrivo a Trigoria (6 luglio) a bordo di una Vespa rivestita dei colori giallorossi. I tifosi impazziscono, e lo idolatrano fin da subito. Mourinho è il prolungamento ideale – e idolatrico, come direbbe Feuerbach – del tifoso romanista. Il suo volto è ovunque: sulle prime pagine dei giornali, sui social, persino sulle mura della città. La stessa che nel frattempo, nella sua metà biancoceleste, guardava con curiosità ed entusiasmo, ma anche con timore, al nuovo allenatore della Lazio Maurizio Sarri (annunciato sul sito del club, dopo l’emoticon della sigaretta pubblicato dall’account Twitter ufficiale dello stesso, il 28 maggio del 2021). Quella che conduce l’allenatore toscano a Roma è una trattativa estenuante, ricca di colpi di scena e dichiarazioni rubate alla voce dei protagonisti. Persino dopo l’annuncio.

Sarri e Mourinho si salutano prima del derby di andata, vinto 3-2 dai biancocelesti (26/09/2021)

Sarri, l'antidivo

La prima dichiarazione ufficiale alla stampa dell’ex allenatore di Juventus, Chelsea e Napoli, dopo 332 giorni di silenzio, non è sui social – Sarri non li possiede neanche – né ai microfoni del club capitolino, ma all’amico ed esperto di calciomercato Alfredo Pedullà, al quale concede un’intervista esclusiva su Sportitalia il 5 luglio del 2021. È un Sarri elegante, slanciato, abbronzato e con l’immancabile sigaretta tra indice e medio, quello che risponde alle domande di Pedullà. Il quale chiede a Sarri, prima di tutto, come abbia impiegato il tempo durante l’anno sabatico: «Niente di particolare, sono stato con la famiglia, ho letto tantissimo. Ho visto tante partite e ho fatto la cosa che mi piace di più, visto tante corse ciclistiche. Vengo da una famiglia di ciclisti. Mio nonno lo faceva e mio padre è stato corridore professionista. È una passione di famiglia».

 

Poi, quando Pedullà lo costringe a tornare a parlare di calcio, lui risponde: «Ho visto tanto calcio, ma non tantissimo. È stato un anno particolare, stare fuori non mi è pesato molto. Che tristezza gli stadi vuoti, la situazione non mi faceva venire voglia di tornare particolarmente». È un tasto sul quale Sarri batterà fin da subito. Il rapporto coi tifosi, reso più difficile del previsto dal riacutizzarsi dell’anti-lotitismo atavico della Curva Nord, è sincero e schietto (ma non per questo idilliaco). Rispondendo a chi gli chiede (9 luglio 2021, giorno della presentazione ufficiale a Formello) cosa ne pensi della febbre social vissuta dai tifosi prima e dopo il suo arrivo, rivela di aver atteso con grande serenità la firma del contratto: «non sono un frequentatore di social. Per me i tifosi sono quelli che mi si presentano fisicamente davanti e ancora non li ho visti. So che sono contenti del mio arrivo e questo mi fa estremamente piacere».

 

Dopo il derby di ritorno, perso malamente dalla sua Lazio (3-0), rimane colpito dal sostegno dei tifosi nella (successiva) sfida contro il Sassuolo: «La Lazio non si può capire cos’è dall’esterno. Vivendola dentro dà emozioni forti, oggi siamo entrati in campo fra gli applausi nonostante il derby perso. Ho una responsabilità enorme visto l’affetto che riceviamo. Io qui sto bene e mi piace vivere la Lazio». Poi, però, la Lazio è anche e soprattutto la società – d’altronde Sarri, presentandosi in conferenza, parla di “stimoli” positivi e “società ideale al momento giusto” – quindi Lotito, Tare, i magazzinieri e la rosa. Sarri usa tre parole – tanto invise a Bruno Giordano, che verso l’allenatore toscano ha più volte alzato la voce nelle radio capitoline –: “anno di transizione”. Mourinho, ribaltandone l’antifona, tuona: «nessuna promessa, solo fatti».

Maurizio Sarri ad Auronzo di Cadore, poco dopo l'annuncio, nella sua veste preferita: quella di allenatore di campo

Il rapporto con i tifosi

Che Sarri abbia bisogno di più tempo, d’altronde, è cosa nota – lo sa anche Lotito, che poteva risparmiarsi di annunciarne il rinnovo a dicembre, senza poi metter davvero mano al portafoglio. Mourinho, al contrario, è un uomo dell’azione. È l’attualismo luterano e kierkegaardiano che grida: “deciditi!”. Nessuna teoria, nessuna teologia. Come capire altrimenti lo sfogo di Mou in seguito al 6-1 fuori casa col Bodo? «Se si potesse giocare sempre con gli stessi lo farei», dice senza alcun problema, riprendendo una topica già utilizzata ai tempi dell’Inter in una situazione simile. Solo un ingenuo poteva credere che Mourinho avesse perso il controllo della situazione. Al contrario, la stava riacchiappando per i capelli, dandogli uno slancio nuovo e, per certi versi, decisivo. Il raggiungimento della finale di Conference League dopo il doppio – travolgente, per le sensazioni vissute all’Olimpico – confronto con il Leicester, ne è la più fulgida e inequivocabile testimonianza.

Appena finita la partita con le foxes, Mourinho si è lasciato andare ad un pianto liberatorio, per poi rivolgersi alla tribuna e alla (sua) gente in preda ad uno stato quasi mistico. D’altra parte, i 70.000 dell’Olimpico li aveva chiamati lui. Non però a «tifare, ma [a] scendere in campo». Un vecchio coro dell’altra curva di Roma, la Nord laziale, cantava «mister facce entrà». Ma stavolta i romanisti in campo ci sono entrati per davvero. E allora forse iniziano ad avere un senso gli entusiasmi di inizio estate, le batoste invernali, le trasferte in massa, i pienoni dell’Olimpico – che quest’anno, sponda giallorossa, ha dilaniato ogni precedente record.

 

Il senso si chiama José Mourinho, un uomo dato per “bollito, finito”, quantomeno “in calo”, che ha legato con Roma in un modo speciale, come lui stesso ha ammesso: «Mi scuso con lo studio, ma sono stanco e voglio andare a casa. È una vittoria della famiglia, non solo di quella che era in campo e in panchina ma di quella allo stadio. Questo è il nostro merito più grande: l’empatia, questo senso di famiglia». Lo stesso che Sarri non è riuscito a creare con la piazza biancoceleste – ancora troppo scossa dall’addio del giocatore allenatore fratello tifoso Simone Inzaghi, che di famiglia parlava una volta ogni due dichiarazioni.

Mourinho festeggia la vittoria con il Leicester, verso i tifosi, battendosi la mano sul cuore (e sullo stemma della Roma)

Roma-Lazio, sulla comunicazione non c'è partita

E qui ritorna, sempre e di nuovo, il discorso sulla comunicazione. Sarri parla, d’accordo. Ma come? Non ha social – che nel 2022 può essere un limite. Non ha presenza scenica, né la verve polemica del mago di Setubal – che spesso e volentieri lo ha stuzzicato, parlando della Lazio di Sarri come di una squadra “piccola”, dell’allenatore della Lazio come di un pantofolaro con la sigaretta in bocca, mentre Mou e la sua Roma faticavano per i campi di mezza Europa. «Stimo Mourinho, mi sta molto simpatico. Ma non cado in queste provocazioni», rispondeva il tecnico toscano allontanando anzitempo le (splendide, vitali) polemiche. Qui non si tratta di trovare “lo stile comunicativo” proprio di Maurizio Sarri. Sarri, semplicemente, non comunica.

 

Alla Lazio, “la parte di Mourinho” la svolge Lotito – con tutti i danni del caso. Alla Roma, all’opposto, i Friedkin parlano poco – non parlano mai – e agiscono parecchio. Il compito di parlare alla gente, di toccare certe corde dell’animo giallorosso, ce lo ha solo ed esclusivamente lo Special One. Con gli arbitri, con gli avversari (più o meno immaginari, non ha importanza), con i tifosi (persino quelli dell’Inter, che non lo hanno mai dimenticato). Sarri è un grande allenatore, uno straordinario tecnico di campo. Un grande conoscitore di calcio. Ma come lui stesso disse in una celebre intervista ottobrina, non di questo calcio: «[questo calcio] non mi appartiene più, io sono un allenatore di campo».

 

E ancora: «Tutti i mesi facciamo 7 partite in 19 giorni, i restanti 11 i giocatori sono in Nazionale quindi si allenano più in Nazionale che con noi. Non siamo più di fronte al calcio, a uno sport, siamo di fronte a uno show in cui mi sembra che tutti i partecipanti tentino di spremere soldi agli appassionati di calcio, ma non siamo più di fronte a uno sport. Probabilmente io sono vecchio per questo tipo di calcio, nel senso che mi sono innamorato di un altro tipo di calcio». Una frase profonda, ma emblematica. In attesa che la stagione dia il proprio inequivocabile verdetto, la sfida tra Sarri e Mou a livello comunicativo non ha un vincitore perché non ha due partecipanti. Ne ha uno solo, che si è preso la scena della piazza più difficile d’Italia a livello gestionale. L’altro, finché non farà (davvero) parlare il campo, dobbiamo considerarlo fuori dai giochi.

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