        &ldquo;Vecchio Milan &egrave; amaro addio&rdquo;. Questo il titolo della rosea la mattina del 27 maggio 1993. La sera prima i rossoneri erano stati sconfitti dai francesi dell&rsquo;Olympique Marsiglia nella finale di Champions League. La squadra rossonera crolla sul traguardo dopo una sequenza impressionante che l&rsquo;aveva vista vincere il campionato 1991-1992 senza sconfitte (22 vittorie e 12 pareggi) ed una Champions League edizione 1992-1993, condita fino a quel momento con 10 vittorie su 10 partite ed un solo gol subito, quello di Romario ad Eindhoven a dicembre. Si ha la sensazione della caduta dell&rsquo;impero, sensazione rafforzata dal fatto che nelle settimane successive, prima Rijkaard e poi Gullit lasciano la casa rossonera per approdare altrove. In quelle settimane neanche il pi&ugrave; fiducioso tifoso rossonero avrebbe potuto ipotizzare quanto sarebbe accaduto dodici mesi dopo. Quando inizia la stagione 1993-1994 il Milan appare defilato, sia nel mercato che nei pronostici. Acquista il giovane terzino Panucci dal Genoa, incassa un paio di prestiti nelle figure di Brian Laudrup dalla Fiorentina appena retrocessa e Raducioiu dal Brescia, ma perde definitivamente anche Marco van Basten, la cui caviglia peggiora di settimana in settimana e soprattutto Lentini che ai primi di agosto &egrave; vittima di un grave incidente che lo terr&agrave; lontano dai campi da gioco per quasi tutta la stagione.   &nbsp;  Una formula particolare  La seconda edizione della Champions League presenta una novit&agrave; rispetto alla edizione precedente. Al termine de due gironi finali le vincitrici di ciascun girone incontreranno in semifinale secca in casa le seconde classificate dell&rsquo;altro girone. La concorrenza ai nastri di partenza &egrave; fortemente accreditata ed il Milan non parte tra le favorite. Troppi i cambiamenti, troppe le perdite di qualit&agrave; da poter ipotizzare che la compagine rossonera possa competere nuovamente ai livelli devastanti visti solamente un anno prima. Tra le compagini di spicco troviamo il Manchester United che rivede la massima competizione europea dopo 24 anni, ovvero da quando il Milan nell&rsquo;aprile del 1969 estromise gli allora Campioni d&rsquo;Europa guidati da Best e Charlton, il Porto, Il Werder Brema, vincitore solamente 15 mesi prima della Coppa delle Coppe, un rinato Anderlecht, ma soprattutto il Bercellona. I catalani stanno imperversando in Spagna dopo il tramonto della generazione della &ldquo;Quinta del Buitre&rdquo;, ma vengono da una cocente delusione patita solamente l&rsquo;anno prima negli ottavi di finale della massima competizione europea dove furono estromessi dal Cska Mosca perdendo 3-2 in casa nonostante il buon pareggio per 1-1 in quel di Mosca durante la gara di andata. Per stampa e opinione pubblica &egrave; il Barcellona la squadra da battere. Assente invece i campioni in carica dell&rsquo;Olympique Marsiglia, squalificati per lo scandalo Valenciennnes dell&rsquo;anno prima, il cui posto &egrave; preso dal Monaco. La coppa inizia in sordina per il Milan che pesca i campioni svizzeri dell&rsquo;Aarau. L&rsquo;andata nella palude elvetica si risolve a favore dei rossoneri grazie ad una stoccata di Papin. Sembra tutto in discesa ma la gara di ritorno, presenta un Milan inguardabile, che davanti al suo pubblico esterrefatto, rischia di capitolare per ben tre volte di fronte agli elvetici, salvo condurre in porto con grande mestiere uno 0-0 ai pi&ugrave; apparso imbarazzante. Il secondo turno si rivela pi&ugrave; agevole con i rossoneri che goleadano il Copenaghen in terra danese (0-6) gestendo il ritorno con una vittoria di misura (1-0). I due turni eliminatori destinati a selezionare le 8 squadre dei due gironi finali mietono le prime vittime. Lo United si incarta in casa contro i turchi del Galatasaray in casa (3-3) salvo poi non riuscire a sbloccare lo 0-0 in terra turca ed uscendo per differenza reti. Fuori anche Feyenoord (eliminato dal Porto) e Steaua Bucarest, travolta dai francesi del Monaco. Qualche pensiero per i catalani solo al primo turno quando la Dinamo Kiev si impone per 3-1 nella gara di andata in casa salvo poi crollare al Camp Nou per 4-1. Spazzati via senza problemi invece gli austriaci dell&rsquo;Austria Vienna nel turno successivo. Il sorteggio dei gironi favorisce fortemente il Barcellona che pesca Galatasaray, Spartak Mosca e Monaco. Diverso il percorso dei rossoneri che pescano tre mine vaganti come porto Anderlecht e Werder Brema. I catalani fanno il loro dovere dominando il girone dall&rsquo;inizio alla fine con 2 pareggi e 4 vittorie di cui l&rsquo;ultima ottenuta nel Principato di Monaco e che le da il diritto di giocare la semifinale secca in casa. Diverso il percorso del Milan che comincia le danze al Park Astrid di Bruxelles contro un Anderlecht insidioso. La forte nevicata e il pallone arancione arridono ai rossoneri che strappano un prezioso 0-0. Solo una settimana dopo, in un anticipo di coppa (il Milan &egrave; in partenza per Tokyo per giocare la Coppa Intercontinentale contro il San Paolo), i rossoneri offrono finalmente una prestazione convincente sotto il profilo offensivo liquidando in casa il Porto per 3-0. Alla fine della seconda giornata il girone del Milan &egrave; un trenino di squadre con il Milan a tre punti, Porto e Werder Brema a due e Anderlecht a un punto. Belgi suicidatisi in terra di Germania allorch&eacute; in vantaggio per 3-0 a met&agrave; della ripresa riescono a farsi rimontare dai verdi di Brema fino ad un roboante 5-3. Ai primi di marzo si giocano il terzo e quarto turno, che vede i rossoneri impegnati contro i campioni di Germania. Il Milan sta dominando il campionato, grazie ad una difesa pressoch&eacute; imperforabile a cui fa da contro altare un attacco sparagnino ma letale quando serve. La squadra rossonera a novembre si &egrave; assicurata servigi di Marcel Desailly, chiamato in fretta e furia a sostituire Boban, infortunatosi nel Derby vinto contro l&rsquo;Inter. Capello capisce che, non disponendo pi&ugrave; di risorse illimitate sul fronte offensivo, &egrave; necessario proteggere la squadra e posiziona il gigante d&rsquo;ebano davanti alla difesa. Le due sfide con il Werder saranno anche le pi&ugrave; sofferte. A Milano il Milan prevale 2-1 non senza patemi dopo che i tedeschi avevano impattato il vantaggio di Maldini con un colpo di Basler. Il ritorno vede i verdi di Germania letteralmente assediare la porta di Rossi che para l&rsquo;imparabile salvo poi capitolare per un rigore del neozelandese Rufer, impattato poco dopo da un gol di Savicevic, finalmente entrato nei meccanismi rossoneri. I due gol tedeschi risulteranno anche gli unici subiti dai rossoneri in tutta la competizione. Quindici giorni dopo il Milan ospita l&rsquo;Anderlecht fiducioso di chiudere la pratica del girone, ma un palo (su tiro di Albertini), impedisce ai rossoneri di sbloccare lo 0-0 di partenza. In contemporanea da Brema arrivano notizie allarmanti con il Porto che sta distruggendo il Werder (finir&agrave; 5-0 per lusitani). A questo punto la sorte del girone si decider&agrave; nell&rsquo;ultima sfida al Das Antas, casa dei Dragoes, con il Milan a 7 punti ed i portoghesi a 6. Il 13 aprile il Milan gioca una partita di mestiere strappando lo 0-0 che gli permette di giocare la semifinale in casa contro il Monaco. Quindici giorni dopo le semifinali finiranno con identico punteggio (3-0) traghettando milanesi e catalani ad Atene, ma il campo racconta storie differenti. Al Camp Nou il Barcellona, che da gennaio si avvale delle prestazioni anche di Romario, polverizza la difesa del Porto in una manifestazione di calcio quasi irridente. A San Siro il Milan passa subito con un gol di testa di Desailly su calcio d&rsquo;angolo, francese che va ad arpionare il pallone a 2,95 metri dal suolo, lasciando di stucco anche il telecronista della Mediaset che trasmetteva la partita. Passato in vantaggio il Milan lascia l&rsquo;iniziativa ai transalpini le cui iniziative richiedono le maniere forti prima di Baresi (giallo con diffida che gli far&agrave; saltare la finale) e poi con Costacurta (non diffidato) punito con un rosso diretto al minuto 40, estratto dall&rsquo;arbitro tedesco Heynemann, ingannato da una teatrale ed innocua caduta dell&rsquo;attaccante tedesco Klinsmann, giocatore non nuovo a questo genere di scorrettezze. Lo sconsolato difensore (che tre mesi dopo salter&agrave; la finale della Coppa del Mondo per un cartellino altrettanto generoso estratto dal francese Quiniou) lascia il campo disperato ed attonito prima ancora che il Direttore di gara estragga il rosso. Nella ripresa ci si attende un Milan pronto ad alzare le barricate, Milan che invece attacca e raddoppia subito con un siluro di Albertini all&rsquo;incrocio dei pali e triplica verso la fine del match con Daniele Massaro. La finale &egrave; assicurata ma il prezzo da pagare &egrave; altissimo. I rossoneri dovranno giocare l&rsquo;atto conclusivo della manifestazione senza i centrali titolari. Alla finale mancano 21 giorni, 21 giorni per Capello per inventarsi qualcosa per arginare l&rsquo;apparente strapotere dei catalani. Catalani che per&ograve; a differenza del Milan devono ancora giocare per la Liga (il Milan aveva gi&agrave; vinto il titolo nazionale il 22 aprile), Liga che si aggiudicheranno grazie ad un colpo della sorte quando Dijukic, attaccante del Deportivo La Coruna si far&agrave; parare il rigore dall&rsquo;estremo difensore del Valencia, rigore che avrebbe condotto il titolo nella piccola citt&agrave; spagnola proprio all&rsquo;ultima giornata di campionato, titolo che festeggeranno (a detta di Cruijff) oltremisura. Cos&igrave; mentre un Barcellona sereno si dedica alle ultime giornate di campionato, il Milan comincia per mano del suo tecnico una serie di esperimenti per cercare la formazione ideale. E mentre i primi esperimenti portano grande preoccupazione in casa rossonera (emblematica una sconfitta in amichevole 2-0 contro al Fiorentina dove Capello prova Desailly centrale e dove la squadra sbaglia tutto lo sbagliabile), dalla Spagna, arriva una dichiarazione di Cruijff che a domanda precisa sulla finale risponde perentorio che &ldquo;la differenza tra Barcellona e Milan &egrave; che il Barcellona schiera Romario mentre il Milan Desailly&rdquo;. Questa dichiarazione, che in realt&agrave; era riferita al tipo di gioco praticato dalle due squadre verr&agrave; distorta e amplificata dagli astuti giornalisti italiani, circostanza questa che far&agrave; passare per sempre il grande allenatore olandese come un mostro di presunzione e che porter&agrave; desiderio di rivalsa da parte dell&rsquo;ambiente rossonero.    In realt&agrave; Cruijff teme fortemente i rossoneri, memore della pesante sconfitta che aveva patito ad Oviedo in una amichevole pre campionato quando i rossoneri con facilit&agrave; si erano imposti per 3-0 sui catalani, ma l&rsquo;euforia per il calcio spettacolare capace di generare la sua squadra e la Liga vinta al fulmicotone all&rsquo;ultima giornata non gli permettono di mantenere la giusta lucidit&agrave; in vista dell&rsquo;atto finale. Lucidit&agrave; che sparisce completamente quando prima di partire per Atene il papero d&rsquo;oro si fa fotografare con la Coppa dei Campioni vinta a Wembley nel 1992, in una sorta di gesto propiziatorio. Questa foto genera nuovi leggendari articoli da parte della stampa italiana che cavalca l&rsquo;onda precedente in maniera quasi atavica. Ma mentre l&rsquo;ambiente catalano veleggia, per leggerezza sulle ali del&rsquo;entusiasmo al Milan sono molto concentrati e quando la Uefa designa l&rsquo;olandese Blankestein per arbitrare la finale i rossoneri si oppongono. Male hanno digerito l&rsquo;arbitraggio tedesco nella semifinale ed a detta dei rossoneri la comunione della lingua tra l&rsquo;arbitro tedesco Heynemann e Klinsmann aveva di fatto favorito ingiustamente l&rsquo;espulsione di Costacurta. Non vogliono che la situazione si ripeta dal momento che il Barcellona ha nei suoi punti di forza il difensore olandese Koeman. La Uefa ritiene la richiesta del Milan ragionevole e cambia la designazione scegliendo l&rsquo;esperto arbitro inglese Don.    Quando le squadre si presentano sul manto di gioco dello Stadio Olimpico di Atene l&rsquo;enfantico lavoro della stampa italiana e spagnola ha creato ai pi&ugrave; l&rsquo;idea comune (ed errata) di una partita a senso unico a favore dei catalani, circostanza condivisa anche da tutte le agenzie di scommesse di tutta Europa, tutte tranne quelle della nazione madre di tutte le scommesse ovvero quelle inglesi che quotano il Milan favorito per la vittoria finale fin da prima della disputa delle semifinali. Da maestri di gioco e scommesse avranno visto lungo anche in questa circostanza. Capello decide quindi di schierare una difesa inedita con Tassotti e Panucci sulle fasce e con Maldini e Galli centrali. La partita si rivela fin da subito una sorta di mattanza per i colori catalani. Cruijff in un eccesso di fiducia esclude dalla formazione titolare Michael Laudrup (uno dei quattro stranieri del Barcellona &ndash; all&rsquo;epoca se ne potevano schierare solamente tre), danese che a detta di Capello era l&rsquo;unico in grado di impensierire l&rsquo;impianto difensivo dei rossoneri, preferendogli l&rsquo;olandese Koeman, bravo ad impostare ma lento e inefficace contro le sortite ficcanti del Milan.    Nei novanta minuti va in onda la replica esatta della finale di cinque anni prima a Barcellona contro lo Steaua Bucarest. Quattro reti, un palo, un gol annullato e dominio rossonero dal primo all&rsquo;ultimo minuto. Apre Massaro dopo un blitz sulla fascia del Genio Savicevic, raddoppia ancora &ldquo;provvidenza&rdquo; Massaro, poco prima della fine della prima frazione di gioco, su passaggio di Donadoni in un&rsquo;azione che vede il Milan tenere la palla per oltre due minuti e mezzo con ogni passaggio accompagnato dagli ol&egrave; di una estasiata tifoseria rossonera. Savicevic chiude il match dopo pochi minuti dalla ripresa delle ostilit&agrave; inventandosi un pallonetto tanto bello quanto difficile che sorprende lo spaesato estremo difensore catalano. Chiude Desailly autore del quarto punto, quel Desailly a suo tempo tanto bistrattato da Cruijff rispetto all&rsquo;evanescente Romario, brasiliano annullato da un fenomenale Filippo Galli, che dopo tanta sfortuna raccoglie i frutti di abnegazione e fedelt&agrave; ai colori rossoneri giocando una partita formidabile.    La faccia Cruijff ad ogni gol &egrave; una maschera di pietra, ma ci&ograve; non gli impedir&agrave;, da grande uomo di sport di andare a fine partita negli spogliatoi rossoneri a stringere la mano a ciascun giocatore del Milan. Anni dopo il maestro olandese racconter&agrave; come una delle sue pi&ugrave; grandi sfortune calcistiche fu incontrare il Milan sulla sua strada, a suo dire &ldquo;Squadra che quando commetti un errore non si limita a fartelo pagare, ma semplicemente ti giustizia fino in fondo senza sconti. Avevo imparato questa lezione dal calciatore (Milan &ndash; Ajax 4 &ndash; 1 nel 1969), ma presuntuosamente non me ne sono ricordato da allenatore quando giocammo ad Atene con il Barcellona nel 1994 (Milan &ndash; Barcellona 4 &ndash; 0)&rdquo;. E mentre nella Masia del Barcellona un giovanissimo Puyol a rischio della sua incolumit&agrave;, festeggia entusiasta la vittoria rossonera per la bellezza del gioco espresso, la notte di Atene chiude per sempre una serie di capitoli. Si chiude l&rsquo;era di Cruijff a Barcellona. L&rsquo;olandese rester&agrave; ancora un anno ma senza energia e mordente accompagner&agrave; la sua creatura pi&ugrave; bella ad un lento declino che la vedr&agrave; soccombere al Real Madrid in patria ed al Paris Saint Germain in Champions League. Si chiude la parabola di Marco van Basten, presente a bordo campo per incitare compagni. Sar&agrave; infatti l&rsquo;ultima volta che l&rsquo;airone olandese seguir&agrave; il suo amato club in trasferta. E quella sera si chiude l&rsquo;era di una squadra leggendaria, come narrer&agrave; in maniera esemplare il compianto Giorgio Tosatti qualche mese dopo, sulle pagine del Guerin Sportivo, che definir&agrave; la notte di Atene come &ldquo;il canto del cigno della pi&ugrave; grande squadra italiana di sempre&rdquo;.   &nbsp; &nbsp;       

Finale di Champions League, i rossoneri di Fabio Capello abbattono il Barcellona fino a quel momento forse la squadra pi&ugrave; in forma d'Europa

1994, apoteosi Milan

        Quando la sera del 6 marzo 1991 l&rsquo;arbitro Bruno Galler fischia la fine della partita di andata a Milano tra Milan e Olympique Marsiglia, valida per l&rsquo;andata dei quarti di finale della Coppa dei Campioni, San Siro &egrave; avvolto in un inquietante silenzio. La partita si &egrave; appena conclusa sul punteggio di 1-1. Come Milan-Stella Rossa tre anni prima, ultima volta in cui i rossoneri avevano subito un gol in casa nella massima competizione europea. Ma se dopo la partita con gli slavi, la rabbia del Milan era evidente per l&rsquo;occasione sprecata a tal punto da portare ad immediati proclami di vittoria a Belgrado quindici giorni dopo, rilasciati dai protagonisti nelle interviste post partita, al termine della disputa con i francesi ombre lunghe ed inquietante silenzio calano sull&rsquo;ambiente rossonero. Ma facciamo un passo indietro. &nbsp; Il &ldquo;nuovo&rdquo; Milan  L&rsquo;inizio della stagione 1990-91, vede un Milan carico di gloria ed onori presentarsi ai nastri di partenza. La squadra rossonera si &egrave; riconfermata Campione d&rsquo;Europa per la seconda volta consecutiva, vittoria che ha di fatto mitigato lo scudetto lasciato per strada in qualche modo ad appannaggio del Napoli. Il Milan cambia poco, i meccanismi sono rodati, la squadra viene svecchiata in alcuni ruoli, con l&rsquo;innesto di alcune seconde linee di affidamento. Quando la stagione prende il via i problemi dei rossoneri non sono ne tecnici ne tattici; ma ve ne &egrave; uno pi&ugrave; grande che alla lunga finir&agrave; per pesare sulla resa della squadra. Il terreno di San Siro &egrave; assolutamente inadatto ad ospitare una qualunque partita di categoria. Problematiche in termini di idratazione e riscaldamento del campo, unite a non corrette valutazioni dell&rsquo;impatto della copertura sull&rsquo;ambiente di gioco rendo il manto erboso una sorta di moquette che si strappa a pezzi durante le giornate belle ed un vero e proprio acquitrino sabbioso quando le giornate sono fredde e umide. In entrambi i casi giocare su quel manto &egrave; veramente difficoltoso, soprattutto per una squadra come quella rossonera che basa il suo gioco su tecnica e pressing. Tali circostanze di fatto rendono le prestazioni dei rossoneri in casa molto faticose in termini di impatto fisico, circostanza questa che porter&agrave; a lunghi periodi di appannamento della squadra, appannamento che avr&agrave; la sua punta massima proprio nel mese di marzo in concomitanza con le partite con i francesi che i rossoneri disputeranno in debito di gambe e ossigeno. La stagione in Coppa dei Campioni per i rossoneri prende il via dagli ottavi di finale. Il Milan in quanto detentore del trofeo viene di fatto esonerato dalla disputa del primo turno. L&rsquo;avversario sorteggiato &egrave; il Bruges, squadra belga. Si tratta di una compagine ostica per i rossoneri, ancora memori dell&rsquo;immane fatica spesa per eliminare durante l&rsquo;edizione precedente i conterranei del Malines e che pratica un tipo di gioco molto chiuso e ostruzionistico. Le previsioni fatte in sede di sorteggio trovano la loro puntuale conferma durante la partita di andata a San Siro, che si chiude sullo 0-0, anche in virt&ugrave; di un macroscopico errore dell&rsquo;arbitro Forstinger che non concede un rigore solare ai rossoneri dopo un minuto di gioco per un fallo del portiere Verlinden su Marco Van Basten, episodio che probabilmente avrebbe indirizzato verso una comoda discesa la partita della squadra milanese. Il peggiore dei risultati positivi, costringe il Milan ad andarsi a giocare la qualificazione in terra fiamminga. I belgi subodorano la possibilit&agrave; del grande colpo e rendono la trasferta dei rossoneri un vero inferno, tra biglietti distribuiti ai tifosi italiani in settori di ultr&agrave; belgi, fino ad arrivare al boicottaggio delle postazioni in tribuna stampa verso i giornalisti italiani. Tutte circostanze che rendono nervoso l&rsquo;approccio dei rossoneri al match. La partita si gioca su un terreno di gioco non particolarmente esteso, per favorire la tattica ostruzionistica dei belgi, e quando al primo minuto della ripresa Carbone finalmente toglie le ragnatele dall&rsquo;incrocio della porta di Verlinden con un gran tiro da lontano, &egrave; chiaro che la qualificazione &egrave; decisa. I belgi, vistisi perduti, picchiano ed intimidiscono, fino a quando al minuto 84 Marco Van Basten reagisce con una gomitata in volto, all&rsquo;ennesimo colpo subdolo del suo diretto marcatore Plovie. Dalla tribuna il fallo non appare cos&igrave; &ldquo;cattivo&rdquo;, ma l&rsquo;arbitro Syme della federazione scozzese estrae il cartellino rosso diretto. Per tale episodio la Uefa sanziona l&rsquo;olandese con quattro turni di squalifica. Il ricorso del Milan li abbassa a tre e i buoni uffici dei legali dei rossoneri impediscono che la squalifica possa essere estesa alla finale di Coppa Intercontinentale che da li a poco si sarebbe disputata a Tokyo contro Olimpia di Asuncion. Il cigno di Utrech quindi salter&agrave; la finale di ritorno di Supercoppa Europea con la Sampdoria e le due partite dei quarti di finale di Coppa Campioni contro l&rsquo;avversario che verr&agrave; sorteggiato a fine dicembre. A penalizzare i rossoneri ci si mette anche la cattiva sorte, quando durante Milan-Lazio del 17 febbraio 1991 uno scontro fortuito tra Pazzagli e Baresi, provoca a quest&rsquo;ultimo un problema alla spalla che di fatto lo estromette dalla sfida di andata contro i francesi. Quando il Milan scende in campo a San Siro contro l&rsquo;Olympique di fatto &egrave; quindi privo di due dei suoi pilastri.   &nbsp; Il Marsiglia di Tapie  Sulla sponda francese la stagione inizia con i favori del pronostico per quanto concerne i tornei nazionali e con un grande desiderio di rivincita dopo l&rsquo;eliminazione subita un anno prima in semifinale di Coppa Campioni dal Benfica grazie ad un gol di mano di Vata. Tapie, personaggio istrionico, ingaggia Franz Beckenbauer in un ruolo ibrido tra la dirigenza e il campo. Dopo poche settimane esonera il tecnico Gil&igrave; e affida la squadra al santone Raymond Goethals. Quando dalle urne della Uefa esce il nome Milan, i francesi hanno negli occhi la prestazione suntuosa che la squadra di Milano aveva disputato qualche giorno prima a Tokyo, ma nasce in loro la convinzione di poter eliminare questa formazione favolosa. Ricorder&agrave; anni dopo Goethals, come dal giorno del sorteggio la loro attenzione fosse totalmente e unicamente rivolta alla preparazione della partita con il Milan, circostanza questa che porter&agrave; alla perdita di un qualche punto in campionato. Pertanto quando i francesi scendono in campo a San Siro, conoscono praticamente ogni cosa dei loro avversari nei minimi dettagli. Fin dalle prime battute della partita si ha la percezione che la serata non sar&agrave; facile per il Milan. I francesi sono compatti e organizzati e per nulla intimoriti dal blasone del nobile avversario. Al 14 minuto la dea bendata sorride ai rossoneri che passano in vantaggio con Gullit (che non segnava in Europa dalla finale di Barcellona con lo Steaua), abile a sfruttare un marchiano errore della retroguardia transalpina. Tutto in discesa? Neanche per sogno. L&rsquo;Olympique riprende il gioco come se nulla fosse accaduto, esattamente come tre anni prima aveva fatto il PSV Eindhoven a Madrid nella semifinale di andata di Coppa Campioni, quando dopo sei minuti and&ograve; in svantaggio con un rigore di Sanchez figlio di un errore marchiano della difesa di casa Philips. La squadra macina gioco grazie soprattutto ai movimenti di Abed&igrave; Pel&egrave; e di Waddle, il primo leggermente arretrato rispetto alla sua posizione abituale al fine di cercare di creare superiorit&agrave; a centrocampo, il secondo con un raggio di azione ampio rispetto alla sua posizione solitamente avanzata al fine di &ldquo;far uscire&rdquo; la difesa rossonera. E come il PSV tre anni prima i francesi impattano in poco tempo. Al minuto 26, il tandem Pel&egrave;-Waddle confeziona il pareggio. Pel&egrave; salta di netto Ancelotti a centrocampo, imbeccando l&rsquo;inglese che astutamente aspetta l&rsquo;attimo in cui la difesa rossonera inizia a salire per smarcare con il suo magico sinistro Papin il quale tutto solo in area di rigore trafigge Pazzagli con un perentorio rasoterra. Il gol &egrave; una doccia gelata per i rossoneri che all&rsquo;improvviso perdono certezze, rendendosi conto che l&rsquo;improvvisare nella difficolt&agrave;, contro avversari del genere, avrebbe portato ben pochi risultati. Il resto della partita scorre via con i francesi sempre pi&ugrave; padroni del campo e il Milan incapace di abbozzare una qualsiasi reazione anche in virt&ugrave; di un vistoso calo fisico. Francesi capaci di arrivare a un soffio dal raddoppio quando nella ripresa Pel&egrave; anticipando il suo diretto marcatore, indirizza una palla rasoterra velenosissima verso la porta rossonera, palla che termina la sua corsa sul palo a Pazzagli battuto. Quando viene fischiata la fine del match il punteggio tiene ancora in gioco i rossoneri, ma tutte le certezze mentali degli uomini di Sacchi sono venute meno dopo quella imponente lezione di gioco. Mancanza di certezze che avr&agrave; anche degli strascichi decisivi nelle settimane successive nei rapporti tra i giocatori e l&rsquo;allenatore, uomo a cui una troppo frequente lettura superficiale della storia del calcio, attribuir&agrave; tutte le colpe di questa stagione incolore. Risiede nella perdita delle proprie certezze che il Milan lascia la qualificazione. La domenica successiva i rossoneri perdono male a Genova contro la Sampdoria lanciata verso il suo primo tricolore.  &nbsp;  Il ritorno in Francia  Domenica 16 marzo 1991, quattro giorni prima della partita di ritorno in Francia i rossoneri perdono in casa contro Atalanta, giocando una prova opaca e priva di mordente, caratterizzata da una prestazione di Marco Van Basten ai limiti dell&rsquo;irritazione. Con questa sconfitta la stagione in Italia appare totalmente compromessa e pertanto il passaggio del turno di coppa diventa una tappa obbligatoria. La trasferta francese si preannuncia infuocata, tanto pi&ugrave; quando una segnalazione credibile (sembrerebbe di un dimissionato Beckenbauer verso la dirigenza del Milan), consiglia ai rossoneri di cambiare albergo all&rsquo;ultimo momento e di portarsi dall&rsquo;Italia ogni sorta di genere alimentare, acqua compresa, onde evitare problemi di &ldquo;intossicazione&rdquo; che gi&agrave; avrebbero &ldquo;colpito&rdquo; i polacchi del Lech Poznam, distrutti per 6-1 in Francia nel turno precedente a fronte di una prestazione polacca sconcertante sotto il profilo fisico. Il Milan adotta tutte le precauzioni del caso e si presenta il 20 marzo 1991 in un Velodrome infuocato, pronto a giocarsi ogni possibilit&agrave;. Quando la partita ha inizio sotto gli ordini dell&rsquo;arbitro Karlsson in campo c&rsquo;&egrave; decisamente un altro Milan rispetto alla partita di andata. Il ritorno di Baresi e la posta in gioco danno linfa vitale ai rossoneri, che provano in tutti i modi a sbloccare una partita contratta e con poche occasioni da rete. Il forcing meneghino produce un colpo di testa di Gullit deviato in angolo da Olmeta ed una punizione di Evani che lo stesso estremo difensore francese alza sopra la traversa. Al minuto 75 pero i francesi passano. Un cross di Pel&egrave; trova la testa di Papin che allunga sul secondo palo per il funanbolo Waddle che di prima intenzione trafigge Rossi (sostituto di Pazzagli e all&rsquo;esordio europeo assoluto) con un rasoterra chirurgico. Il Milan schiuma rabbia per un vantaggio immeritato ma non ha pi&ugrave; le forze e la testa per risollevare le sorti di un doppio confronto che sta scivolando via sia per meriti altrui ma anche per colpe proprie. Al minuto 42 all&rsquo;improvviso il Velodrome rimane parzialmente al buio per lo spegnimento di un riflettore e la partita si interrompe. Nel corso degli anni diverse sono state le ipotesi in merito a questo fatto.    Si &egrave; parlato di guasto, ma anche dello spegnimento voluto dai gestori dello stadio, legato ad una interpretazione maldestra di un fischio dell&rsquo;arbitro, inteso erroneamente come fischio finale, in ottica di festeggiare la qualificazione sparando nel buio della notte di Marsiglia fuochi di artificio. I minuti successivi sono concitati e tristemente noti. Il Milan dopo mille discussioni si rifiuta di rientrare in campo e l&rsquo;arbitro svedese altro non pu&ograve; fare che considerare la partita terminata. Il giorno dopo le linee telefoniche degli uffici della Uefa sono roventi. Si inizia a ventilare l&rsquo;ipotesi di una pesante squalifica ai danni del Milan per comportamento antisportivo. Risulta evidente che la condotta dei rossoneri &egrave; risultata anomala e sicuramente da biasimare fortemente, ma diverse circostanze si rendono oggetto da parte dell&rsquo;organo giudicante della Uefa di letture perlomeno parziali. Emerger&agrave; negli anni come non fu il referto dell&rsquo;arbitro Karlsson a far sanzionare il Milan bens&igrave; il rapporto del delegato turco della Uefa Senes Erzik (uomo che proprio non porter&agrave; fortuna al Milan dato che nello stesso ruolo assister&agrave; alla finale di Coppa Intercontinentale giocata nel 1993 tra i rossoneri ed il San Paolo e persa dal Milan 3-2), che calcher&agrave; la mano solo sulla condotta dei rossoneri. Viene tralasciato, negli atti, il fatto che la partita era stata interrotta per un lasso di tempo superiore a quello previsto dai regolamenti dell&rsquo;epoca, circostanza questa che avrebbe dovuto comportare delle sanzioni anche ai francesi. Totalmente sorvolato inoltre l&rsquo;aspetto della sicurezza non garantita con estranei presenti a bordo campo che hanno impedito ai giocatori rossoneri, anche con maniere non proprio educate, di rientrare negli spogliatoi. Il Milan comunque decide non presentare ricorso e presenta le scuse ufficiali alla Uefa per quanto accaduto, ma tale tardivo pentimento di fatto non eviter&agrave; la squalifica di un anno dalle coppe alla squadra meneghina. La mano pesante della Uefa si abbatte sempre lo stesso giorno anche sulla Dinamo Dresda, protagonista di un altro quarto di finale contro la Stella Rossa, le cui intemperanze dei tifosi hanno portato alla sospensione della partita ad un quarto d&rsquo;ora dal novantesimo. I tedeschi infatti verranno squalificati per due anni dalle manifestazioni della Uefa. Sempre lo stesso giorno, quasi come una beffa del destino, la Uefa finalmente accoglier&agrave; la richiesta di cambiare il format della Coppa dei Campioni, istituendo la formula dei due gironi finali che avr&agrave; inizio dalla edizione 1991-92 e che tanto aveva trovato il sostegno del Presidente Silvio Berlusconi. Si conclude cos&igrave; in modo poco decoroso l&rsquo;epopea del Milan di Sacchi in Europa. Sacchi che diversi anni dopo confider&agrave; in una chiacchierata allo scrivente come l&rsquo;importante prestazione dei francesi nella partita a Milano, sotto il profilo fisico, gli abbia sempre lasciato qualche retro pensiero.       

Quarti di finale Coppa dei Campioni 1990-91, i rossoneri non riescono ad avere la meglio sui francesi: le luci si spengono sulla competizione pi&ugrave; importante

Quella strana notte di Marsiglia-Milan

        Il 13 marzo del 1994, il mondo del calcio italiano saluta l'esordio in serie A di un giovane destinato a scrivere pagine indimenticabili nella storia del nostro campionato: allo stadio Friuli di Udine, in una fredda domenica di fine inverno, Alessandro Nesta muove i suoi primi passi nel calcio che conta. Dopo una lunga trafila nel settore giovanile biancoceleste, il giovane difensore romano, esordisce ufficialmente in Serie A, coronando il suo sogno. La prima volta Zoff lo promuove dalla Primavera e lo porta con la prima squadra in Friuli, in vista di una trasferta delicata. Nesta si allena gi&agrave; da settimane con il gruppo dei titolari: fa parte dei giovani che il tecnico biancoceleste tiene maggiormente in considerazione. Ad Udine &egrave; pronto a scrivere la prima pagina di una storia che sar&agrave; esaltante e ricca di vittorie. La gara &egrave; equilibrata, complicata: la Lazio, in maglia gialla, deve rincorrere due volte i padroni di casa: al gol di Borgonovo risponde Winter, a quello di Pizzi, Beppe Signori. A dodici minuti dalla fine i biancocelesti arrancano: Zoff ha bisogno di rinforzare la linea difensiva, per provare a portare a casa un pareggio prezioso per la corsa ad un posto europeo. Il tecnico toglie dal campo un attaccante (Casiraghi) e getta nella mischia Alessandro Nesta. &Egrave; il momento che il giovane difensore aspetta da una vita. Si piazza nel ruolo di terzino, allontana ogni minaccia friulana e partecipa ai concitati minuti finali, aiutando la difesa. Il sogno di diventare calciatore, di esordire con la maglia della propria squadra del cuore, inizia a prendere forma. I sacrifici di pap&agrave; Giuseppe e mamma Maria Laura, il rifiuto di prendere parte ad un provino organizzato per lui dalla Roma, quando giocava a Cinecitt&agrave;, i tanti allenamenti sui campi in terra battuta della capitale, iniziano finalmente a dare i frutti sperati. Nesta &egrave; ormai a tutti gli effetti un difensore della prima squadra biancoceleste. Il suo esordio, viene bissato quindici giorni pi&ugrave; tardi nella trasferta di Torino, quando Zoff gli concede pochi minuti nel finale di gara. Sembra ormai lanciato verso un futuro sempre pi&ugrave; roseo, ma proprio sul pi&ugrave; bello, il destino gli presenta un conto salatissimo. Il 7 aprile del 1994 &egrave; lo sfortunato protagonista dell'infortunio di Paul Gascoigne, che durante un allenamento a Tor di Quinto si scontra con lui e si frattura tibia e perone. Nesta non si lascia abbattere, continua a dividersi tra la Primavera e la prima squadra. Nella stagione successiva il nuovo tecnico Zeman lo porta stabilmente in prima squadra. Rester&agrave; a Roma fino al 31 agosto del 2002, indossando la fascia di capitano e vincendo uno scudetto e numerose coppe. Ha scritto alcune tra le pi&ugrave; esaltanti pagine di storia biancoceleste, fino al doloroso e traumatico addio, nell'ultimo giorno di mercato. Nesta lascia la Lazio dopo essere cresciuto insieme a lei: ma nulla potr&agrave; eliminare dal suo cuore le emozioni di quel 13 marzo del 1994: trenta anni fa inizi&ograve; a scrivere una bellissima ed affascinante storia d'amore: che ha condiviso con tutti i suoi tifosi.       

Il 13 marzo del 1994 il difensore romano collezionava il suo primo gettone nella massima serie. Diventer&agrave; uno dei pi&ugrave; grandi di sempre

Nesta, l'esordio in Serie A di un artista della difesa

        Thiago Silva ha segnato veramente un'epoca al Milan. Forse &egrave; stato l'ultimo grande colpo dell'era-Berlusconi, tanto che la sua cessione assieme a quella di Ibrahimovic sarebbe stata una specie di abdicazione rossonera ai grandi palcoscenici. Eppure il suo arrivo pass&ograve; quasi sottotraccia, perch&eacute; effettuato in due tempi: comprato a gennaio per 10 milioni ma utilizzato a partire dalla stagione successiva. &nbsp; Thiago Silva con Nesta Quando il Milan strappa Thiago Silva alla Fluminense, nel gennaio 2009, non c'&egrave; posto per il brasiliano in rosa. Il motivo &egrave; molto semplice, Thiago &egrave; extracomunitario e i rossoneri da quel punto di vista sono gi&agrave; al completo. Un bene forse per il Milan e per il brasiliano, che cos&igrave; possono conoscersi meglio mese dopo mese e prorogare l'arrivo a Milano di sei mesi. Nel frattempo Thiago ha sfiorato la Coppa Libertadores con la Flu e si &egrave; rivelato uno dei giovani difensori pi&ugrave; promettenti del Sudamerica. Con anticipo rispetto ad altre big europee quindi il Diavolo senza farsi notare completa una retroguardia che al centro ha ancora Nesta, seppure gi&agrave; oltre la trentina. Anzi, a dire il vero il senso di questo affare &egrave; proprio trovare un erede dell'ex laziale, peraltro spesso tartassato da problemi fisici. Thiago &egrave; una forza della natura, in patria ha giocato addirittura come mediano e ha una personalit&agrave; clamorosa: veloce e tecnico, sembra il difensore centrale perfetto, oltre che assolutamente moderno. Un vuoto incolmabile Inutile specificare che dalla stagione successiva Thiago Silva diventer&agrave; il leader assoluto della difesa milanista, vincendo lo scudetto nel 2011. La sua esuberanza fisica &egrave; fuori categoria per la Serie A, pur non essendo altissimo anche nel gioco aereo dimostra di saperci fare. Anche l'anno successivo, quando il Milan sembra lanciato verso il bis, un suo infortunio nella fase finale del campionato costringe i rossoneri ad arrabattarsi con Mexes, che si dimostra non all'altezza del brasiliano. Sar&agrave; un caso, ma i punti persi nella volata-scudetto con la Juventus, che infatti trionfa, arrivano in assenza di Thiago Silva. Purtroppo per il Milan non c'&egrave; tempo di rimediare, perch&eacute; nell'estate del 2012 il brasiliano assieme a Ibrahimovic viene &ldquo;impacchettato&rdquo; e spedito al Paris Saint-Germain per 39 milioni di euro. Una mazzata a livello psicologico soprattutto per l'ambiente, che si rende conto di aver perso in un colpo solo i suoi due migliori giocatori e che deve ripartire da zero. Si potrebbe affermare che solo di recente con Tomori e Kjaer il Milan abbia trovato dei centrali degni di avvicinarsi al livello del brasiliano, nel frattempo diventato campione d'Europa con il Chelsea e capitano della sua nazionale. &nbsp;       

L'acquisto del brasiliano fu perfezionato nel gennaio del 2009, ma completato a partire dalla stagione successiva

Thiago Silva al Milan, colpo in differita

        Chiss&agrave; cosa ci aveva visto di speciale il Milan in&nbsp;Jos&eacute; Maria Romero Poy&ograve;n, in arte Jos&eacute; Mari. Una certa esuberanza atletica, del resto oggi lo spagnolo &egrave; un influencer del body building a nemmeno 50 anni con un fisico scolpito, e sicuramente la capacit&agrave; di giostrare in pi&ugrave; ruoli dell'attacco, che nel 3-4-3 dell'epoca proposto da Zaccheroni era manna dal cielo. Per il resto Jos&eacute; Mari fu un acquisto sbagliato o pi&ugrave; probabilmente illusorio, costoso e poco redditizio, come qualit&agrave;-prezzo forse il peggiore nella storia del Milan nel mercato di gennaio. &nbsp; Jos&eacute; Mari al posto di Shevchenko Pronti via, nemmeno un minuto in campo e gol di testa contro la Roma con una girata di nuca. Cross di Boban felpato dalla sinistra e pareggio di Jos&eacute; Mari, entrato da una manciata di secondi al posto nientemeno che di Andriy Shevchenko. Vista con gli occhi di oggi, una sostituzione impensabile, assurda, da non crederci. E invece lo spagnolo si rivela subito decisivo, nel 2-2 con cui il Milan esce imbattuto da San Siro la sera del 9 gennaio 2000. Fenomenale esordio per uno costato 35 miliardi di lire (18-19 milioni di euro), incassati con grande piacere da un Atletico Madrid in debito d'ossigeno e destinato a retrocedere, invece, in quella stagione 1999-2000. Un Atletico Madrid in cui aveva occupato un ruolo importante, quello di allenatore, Arrigo Sacchi, ex tecnico rossonero e scopritore di Jos&eacute; Mari prima di essere esonerato. Non c'&egrave; dubbio che "Il Vate di Fusignano" un consiglio alla dirigenza rossonera l'avesse dato. &nbsp; Mai pi&ugrave; protagonista Jos&eacute; Mari &egrave; stato il primo spagnolo a vestire la maglia del Milan. Curioso per un club che ha sempre fatto del gioco spumeggiante il suo stile di vita, specie con Berlusconi presidente. Del resto nel dubbio meglio i brasiliani, si sono sempre detti a Milanello. Tuttavia lo spagnolo, esuberante attaccante esterno con velleit&agrave; da centravanti, non ha mantenuto le promesse. A quel gol contro la Roma ne sarebbero seguiti ben pochi nei due anni e mezzo trascorsi a Milano: coi suoi capelli lunghi da ribaldo, lui andaluso di Siviglia, non riuscir&agrave; mai a integrarsi n&eacute; con Zaccheroni n&eacute; con Cesare Maldini n&eacute; con Terim n&eacute; con Ancelotti. In alcune partite della successiva stagione andr&agrave; a comporre una improbabile coppia di attaccanti iberici assieme a un vero &ldquo;bidone&rdquo;, fatto e finito, come Javi Moreno, per la disperazione dei tifosi del Diavolo. Verr&agrave; via via emarginato nonostante sulla carta fosse un attaccante molto duttile, buono per un tridente o un attacco a due, in coppia con Shevchenko. Per&ograve; 14 gol in 75 presenze complessive, di cui 5 in Serie A, rimangono un bottino esile per uno arrivato in corsa. Se non avesse segnato subito, chiss&agrave;. &nbsp; &nbsp;       

L'attaccante venne strapagato nel gennaio del 2000 e segn&ograve; quasi subito contro la Roma. Da l&igrave; in poi non combin&ograve; molto altro

José Mari, il primo spagnolo del Milan che non convinse mai i rossoneri

        Cose dell&rsquo;altro mondo: non c&rsquo;&egrave; altra definizione possibile per le trasferte che le squadre europee affrontavano per disputare le gare d&rsquo;andata o ritorno della vecchia Coppa Intercontinentale, quella che consegnava al club vincitore il dominio del pianeta. Anni Sessanta, distanze che per la maggior parte degli uomini era possibile soltanto supporre, mentre pochi le percorrevano o, per meglio dire, le sorvolavano, come quel Milan Campione d&rsquo;Europa che nell&rsquo;autunno del 1963, dopo aver messo apparentemente al sicuro la vittoria del trofeo con un perentorio quattro a due a San Siro il 16 ottobre - gol di Trapattoni, Amarildo due volte e Mora, a fronte di una doppietta di Pel&eacute; -, tre settimane dopo intraprendeva la sua discesa agli inferi, direzione Maracan?, per disputare il ritorno contro il Santos di &ldquo;O Rei&rdquo;, che per ironia della sorte si era esibito a Milano, riscuotendo gli applausi scroscianti del pubblico italiano, ma che non sarebbe stato poi presente nella gara di ritorno.  Rivera e i rossoneri campioni d'Europa  Se Gianni Rivera era Dante, la selva era illuminata dai riflettori del grande stadio del quale si favoleggiava in ogni angolo del pianeta, molto pi&ugrave; capiente di com&rsquo;&egrave; ora; Giovanni Lodetti l&rsquo;infaticabile Virgilio che accompagnava di corsa il Golden Boy coprendogli le spalle, ma non ci sarebbe stato alcun paradiso da raggiungere, perch&eacute; Beatrice quella volta era una mulatta che se ne sarebbe andata a festeggiare un mondo capovolto, dimenandosi al ritmo dei fischi di Lucifero, che per l&rsquo;occasione indoss&ograve; una giacchetta nera da arbitro: Brozzi, un cognome italiano per sgambettare i rossoneri verso un epilogo in cui i peccatori sentirono i cori angelici e i meritevoli riuscirono soltanto a risalire sulle scalette dell&rsquo;aereo per un oceano di ritorno, con un rosario di tacchetti avversari da sgranare tra ecchimosi ed ematomi. &nbsp; Ismael e Almir, quest&rsquo;ultimo il pi&ugrave; rissoso di tutti, nonch&eacute; il sostituto di Pel&eacute;, sembrano avere a cuore solamente la mattanza nei confronti dei Campioni d&rsquo;Europa. Il 14 novembre del &lsquo;63, centocinquantamila diavoli soffiano sulle maglie rossonere tutto il risentimento dovuto alla consapevolezza di una manifesta inferiorit&agrave;: il Milan, come in altre decadi della sua storia, sta portando in giro per il mondo l&rsquo;eccellenza del football italiano. Oltretutto, anche in quella gara di ritorno va sul doppio vantaggio: Altafini - Mora, in un pugno di giri di lancetta. Poi, sul cielo di Rio si addensa una pioggia tropicale; si condensa sul terreno di gioco una preordinata rissa, nel mezzo della quale il giudice chirurgicamente punisce la protesta delle vittime, chiudendo l&rsquo;occhio ipocrita sulle entrate dei carnefici. &nbsp; In un illogico secondo tempo, il Santos la ribalta, fino al 4 - 2 finale. Nel 1963 non ci sono i calci di rigore per sciogliere il nodo del destino di un trofeo. Nel 1963 bisogna rigiocare la finale una terza volta, con il regolamento che &egrave; come una pianta nata storta, perch&eacute; lo spareggio, a distanza di 48 ore, per stortura regolamentare si gioca alternativamente in Sudamerica e in Europa, con alternanza valida anche se la &ldquo;bella&rdquo; un anno non viene disputata. &nbsp; Correva l'anno...  Sessant&rsquo;anni fa oggi, il 16 novembre del 1963, nello stesso stadio e con lo stesso arbitro va in scena la terza, dirimente finale. Il Milan indiscutibilmente pi&ugrave; forte sa di essere inesorabilmente condannato: Luis Carniglia preserva Rivera, in porta va Balzarini, che poi finir&agrave; in ospedale per un&rsquo;entrata di Almir, al posto di Giorgio Ghezzi. Con un rigore inesistente che Almir si procura dopo un impatto banale con Cesare Maldini e che Dalmo Gaspar trasforma, il Santos vince la Coppa Intercontinentale, il trofeo che meno ha meritato nel corso della sua intera storia. Lasciarono ogni speranza sul terreno del Maracan?, i rossoneri che vi entrarono consapevoli di essere migliori; furono costretti a rinunciare al mondo, ma soltanto dopo averlo meritato. &nbsp;       

Il 16 novembre 1963 i rossoneri di Cesare Maldini persero la grande chance intercontinentale contro i brasiliani orfani di Pel&egrave;

Santos-Milan, il grande bluff

        Al Milan hanno visto forse un lato pallido di Jean-Pierre Papin, uno dei pi&ugrave; grandi attaccanti nella storia del calcio francese, Pallone d'Oro nel 1991. Quello era il periodo in cui i rossoneri accatastavano campioni a costo di farli ruotare vorticosamente visto che si potevano schierare solo 3 stranieri, a volte c'erano fenomeni costretti alla tribuna per questioni di turnover e Papin fu spesso tra questi anche se in Italia vinse due scudetti e contribu&igrave; in minima parte alla conquista della Coppa Campioni per il Diavolo nel 1994. &nbsp;  Papin e le "papinades" &nbsp; Sta di fatto che JPP &egrave; stato eletto nella formazione del secolo dell'Olympique Marsiglia, la prima squadra dove &egrave; esploso in cinque anni memorabili: 4 campionati francesi, 5 titoli consecutivi di capocannoniere, l'apoteosi nel 1991 con il Pallone d'Oro, appunto. Curioso il suo percorso fatto di estremi: nasce a Boulogne-sur-Mer, in mezzo agli "chtis", gli abitanti del nord della Francia a pochi passi dal Belgio ed &egrave; proprio l&igrave;, tra Valenciennes e soprattutto Bruges, che Papin esplode meritandosi nientemeno che la chiamata al mondiale del 1986. Qui si fa notare realizzando due gol compreso uno nella finalina per il terzo posto che i Bleus vincono proprio contro il Belgio, 4-2. In nazionale avr&agrave; relativamente poca fortuna, specie dopo la clamorosa non-qualificazione della Francia a Usa '94, con la sciagurata sconfitta in casa con la Bulgaria in cui Papin &egrave; uno dei due attaccanti assieme a Cantona: nel dubbio, 30 gol in 54 presenze. A quel punto per&ograve;, estate 1986, trasloca dall'altra parte dell'Esagono, in Provenza: l'ambizioso Marsiglia di Bernard Tapie, pomposamente ribattezzato "il Berlusconi francese", lo sceglie come centravanti. Gli inizi sono disastrosi, JPP diventa l'acronimo di "Je ne peux plus", ovverosia "Non ce la faccio pi&ugrave;". Troppi gol sbagliati, anche clamorosi. Gli ci vuole solo del tempo, in realt&agrave;, poi per i difensori avversari cominciano i mal di testa: il crescendo &egrave; impressionante, in pochi anni passa da 13 gol segnati a 30, trascinando l'OM non solo nella Ligue 1 ma pure in Coppa Campioni.   Ne sa qualcosa proprio il Milan di Sacchi che nell'edizione 1990-91 viene eliminato dal Marsiglia nella celebre notte della "coppa dei lampioni" del V&eacute;lodrome, ma che all'andata a San Siro era stato bucato da una rete di Papin, buona per l'1-1 finale. Guizzante sul filo del fuorigioco, letale a tu per tu col portiere, a volte JPP &egrave; autore di reti spettacolari in rovesciata, che vengono ribattezzate "papinades". L'OM perde la finale di Coppa Campioni nel 1991 con la Stella Rossa ai rigori, ma lui &egrave; tanto per cambiare capocannoniere: lo sar&agrave; per tre edizioni consecutive della manifestazione. &nbsp; Vittima del turnover  Nell'estate del 1992 Papin vola proprio al Milan in cambio di 14 miliardi. I rossoneri sono a caccia del miglior centravanti su piazza, con Marco Van Basten fermo ai box per i cronici problemi alla caviglia e chi meglio di Papin? Nella maxi-rosa allestita da Fabio Capello le gerarchie sono molto fluide al contrario delle regole che impongono 3 stranieri a referto per partita. Papin quindi si deve alternare con i vari Savicevic, Boban, Gullit, Rijkaard e Van Basten, quando quest'ultimo &egrave; sano. Si ritaglia comunque un discreto spazio, segna 13 gol in campionato e in Champions &egrave; decisivo a Oporto, per esempio, in un Milan rullo compressore che vince tutte le partite fino alla finale. Qui il destino fa pagare dazio ai rossoneri e a Papin, soprattutto: l'ultimo rivale infatti &egrave; l'Olympique Marsiglia, che al Prater di Vienna vince a sorpresa 1-0 con rete di Boli. JPP entra nel secondo tempo, ma non riesce a incidere; anzi, mostra parecchio nervosismo, stuzzicato dai suoi ex-compagni.    Si rifar&agrave; l'anno successivo in parte, contribuendo con gol pesanti come quello nel derby, oppure in Champions con le reti all'Aarau e al Copenaghen. Sempre impiegato a singhiozzo, nonostante Van Basten sia prossimo al ritiro, non rientra nei piani di Capello che prevede un blocco granitico in difesa a un attacco leggero, formato da Massaro e Savicevic, quello che stende 4-0 il Barcellona nella finale di Champions dell'edizione 1993-94 ad Atene. Nonostante i pochi minuti giocati in due stagioni Papin segna 31 gol in maglia rossonera, roba da bomber vero.    Lascia senza rimpianto per andare al Bayern Monaco dopo aver vinto anche due scudetti con il Milan, seppur da attore non protagonista. Ci fossero state altre regole, come oggi, avrebbe senz'altro giocato e segnato di pi&ugrave;. Papin proseguir&agrave; a giocare nelle categorie inferiori fin quasi a 50 anni dopo aver conquistato con il Bayern anche una Coppa Uefa.       

Il francese ha marcato un'epoca, vincendo il Pallone d'Oro nel 1991 con l'Olympique Marsiglia, con cui fu 3 volte capocannoniere della Champions. Al Milan, pur continuando a segnare a raffica, fu vittima del turnover con Capello

Papin, il gol a modo suo

        "La vita di ogni uomo &egrave; una via verso se stesso". Lo aveva scritto Hermann Hesse, lo cap&igrave; Aldo Maldera nel percorso che segu&igrave; sul confine tra autodeterminazione e destino. Nacque a Milano da genitori pugliesi il 14 ottobre 1953, un dettaglio non irrilevante per chi ai segni zodiacali assegna un ruolo importante nel valutare i calciatori: quelli nati sotto il segno della Bilancia, infatti, sono spesso dei campioni. Era il terzo di tre fratelli che avevano il pallone nel DNA: tutti giocatori, tanto che Aldo, per chi collezionava le figurine, compariva sempre come Maldera III anche se era il pi&ugrave; bravo. L&rsquo;esordio con la maglia di Rivera Cos&igrave; bravo da esordire in Serie A con la maglia del Milan di Gianni Rivera, il 26 marzo 1972, in una trasferta a Mantova dove, in assenza dell&rsquo;ex golden boy, invece del suo consueto numero tre indossa un dieci che mette imbarazzo. Col titolare di quella maglia il giovane Aldo nutre un rapporto reverenziale: non riesce a dargli del tu, tanto che alla fine sar&agrave; Rivera stesso a prenderlo da parte per sollevarlo da quella soggezione ormai fuori moda gi&agrave; in quei primi anni Settanta. Maldera, del resto, era fatto cos&igrave;: un ragazzo garbato, dai modi educati dettati da una timidezza che si accompagnava a una gentilezza d&rsquo;animo inusuale, di quelle che sorprendono per la loro rarit&agrave;. L&rsquo;esordio a Mantova, in quella stagione, rimase un episodio isolato. Quel ragazzo che correva sulla fascia sinistra si doveva ancora formare: un anno a Bologna, seppur con poche presenze, lo riconsegn&ograve; al Milan pronto per fare sul serio. Aldo non &egrave; soltanto un terzino che sa spingere: ha intelligenza tattica e una buona tecnica di base che gli consente di calibrare ottimi cross in mezzo all&rsquo;area, tiri potenti dalla distanza e dribbling all&rsquo;occorrenza. Capacit&agrave; che, affinate nel tempo, lo porteranno a segnare molti gol.&nbsp;&nbsp; &nbsp; La Coppa Italia 1976-77 Il Milan lo assorbe, &egrave; il sogno da bambino che si realizza grazie alla dedizione e all&rsquo;impegno totali che mette nel conquistare un posto da titolare, che a met&agrave; di quegli anni Settanta &egrave; finalmente suo. Diventa protagonista in un derby che si gioca il 3 luglio 1977 per decidere il vincitore della Coppa Italia: sblocca il risultato in combinazione col sempiterno Rivera, che gli fornisce un assist dentro l&rsquo;area sul quale Aldo si lancia in acrobazia e batte Bordon prima che Braglia chiuda la partita. &Egrave; il primo successo di un biennio che per il terzino rossonero sar&agrave; indimenticabile. Con l&rsquo;arrivo di Liedholm accresce la sua consapevolezza, spinge ulteriormente in avanti il suo raggio d&rsquo;azione e, col ritiro di Facchetti, coglie l&rsquo;opportunit&agrave; di far parte stabilmente della Nazionale.  La parentesi azzurra e lo scudetto della stella Quella con la maglia azzurra, per&ograve;, &egrave; un&rsquo;esperienza che, iniziata come un percorso, alla fine si riveler&agrave; solo una parentesi. Partito titolare alla volta del mundial &lsquo;78, viene travolto dalla freschezza che spinge Antonio Cabrini, preferito dal CT Bearzot anche per via dell&rsquo;appartenenza a quel blocco Juventus che gli assicura pi&ugrave; garanzie. Maldera, in Argentina, scende in campo solo nella finalina per il terzo posto mentre ai successivi Europei non giocher&agrave; nemmeno un minuto, chiudendo cos&igrave; la sua frequentazione con gli azzurri. Uno dei grandi rammarichi della sua vita professionale, al quale riesce a ovviare grazie al Milan, col quale nel 1979 vince da primattore lo scudetto della stella: non solo non salta una partita di campionato ma realizza anche nove reti che pesano la dimensione del suo essere un giocatore moderno, capace di inserimenti, finalizzazioni e contrasti portati spesso in scivolata per recuperare i metri consumati nelle proiezioni offensive.  Il richiamo del Barone e lo scudetto con la Roma La sua fedelt&agrave; al Milan viene messa a dura prova con il calcioscommesse: i rossoneri, per colpe non sue, vengono retrocessi. Maldera decide di rimanere a guidare la risalita, acquistando ulteriore credito agli occhi dei tifosi. Ma quando, nel 1982, la Serie B &egrave; una derivata solo sportiva, la sua vita prende una nuova direzione. Lo vuole il Napoli ma quando tutto sembra ormai fatto lo chiama Liedholm, tornato alla Roma dopo averlo guidato allo scudetto tre anni prima. Il Barone lo conosce bene, apprezza le sue doti tecniche e caratteriali. E poi &egrave; della Bilancia, proprio come lui e Paulo Roberto Falc&atilde;o: &rdquo;Vieni Aldo, che vinciamo lo scudetto&rdquo;. La Citt&agrave; Eterna &egrave; l&rsquo;alba di una nuova vita, quella che Maldera non avrebbe mai immaginato. &Egrave; la scoperta di nuovi spazi, di una dimensione diversa che incanta il suo animo gentile: l&rsquo;amore incondizionato della gente, le pennellate di sole in pieno inverno e la vicinanza del mare accarezzano le radici meridionali della sua famiglia d&rsquo;origine. Arriva il secondo scudetto, un tripudio di colori ed emozioni che nemmeno Liedholm sarebbe stato in grado di spiegargli. La stagione successiva diventa un&rsquo;autostrada da percorrere verso quella che sembra essere l&rsquo;unica destinazione possibile: la finale di Coppa dei Campioni, che per Maldera costituir&agrave; un rammarico ancora pi&ugrave; grande di quello vissuto da compagni e tifosi. Lui, infatti, non potr&agrave; nemmeno provare a cambiare il destino di una squadra che rester&agrave; ferita per sempre da una sconfitta a cui nemmeno il tempo riuscir&agrave; a porre rimedio. Ammonito in semifinale viene squalificato ed &egrave; costretto a guardare Roma-Liverpool dalla tribuna, a macerare dolore e rabbia senza aver lo sfogo di una discesa sulla fascia o la possibilit&agrave; di tirare almeno uno di quei disgraziati rigori. Una finale che si rivela un ultimo appuntamento mancato: Aldo a Roma fa ancora una stagione prima degli ultimi due anni di carriera a Firenze, dove chiude senza sussulti. Poi il ritorno nella Capitale fino al momento di un precoce addio alla vita che ne ha cancellato il respiro, non il ricordo di quel ragazzo che non sapeva dare del tu a Gianni Rivera.        

A diciotto anni dava del lei a Rivera. Leg&ograve; le sue fortune a Nils Liedholm, col quale vinse due storici scudetti: quello della stella col Milan e quello del 1983 con la Roma

Aldo Maldera, il terzino sinistro dall’animo gentile

        In Brasile non ci sono solo grandi fantasisti, attaccanti o in generale giocatori di movimento. Anche i portieri hanno avuto la loro importanza per costruire certi successi. Magari se li sono goduti pi&ugrave; i club della nazionale, ma Nelson Dida pu&ograve; essere senza dubbio catalogato come uno dei migliori interpreti di questo nuovo millennio: vincitore di tutto con il Milan, campione nella Libertadores con il Cruzeiro, non &egrave; mai stato troppo appariscente, per&ograve; in quanto a rendimento in pochi possono vantare i numeri del portiere classe 1973. Dida e la papera di Leeds Nessuno, il 19 settembre del 2000, potrebbe prospettare per Dida una carriera da leggenda. Siamo a Elland Road, stadio del Leeds, minuto 88: la sfida di Champions League tra i locali e il Milan sta per concludersi 0-0 sotto un diluvio battente. Sarebbe un buon punto per i rossoneri in quella strana stagione in cui sono iniziate prima le coppe europee che il campionato, per via delle Olimpiadi di Sydney. Leeds in avanti e pallone tra i piedi di Lee Bowyer, mezz'ala tutto cuore dei "Whites", che scarica un destro pi&ugrave; rabbioso che razionale dai 25 metri. Centrale, non crea problemi l&igrave; per l&igrave; a Dida, portiere che il Milan ha prelevato l'estate precedente dal Corinthians per farne la riserva di Christian Abbiati senza dimenticare che in rosa c'&egrave; sempre "L'ascensore umano" Sebastiano Rossi. Insomma, questo tiro di Bowyer &egrave; centrale, Dida lo blocca ma non trattiene in pallone. Il problema del brasiliano &egrave; che si trova esattamente sulla linea di porta e la sfera gli cade praticamente tra i piedi; la pioggia fa il resto, provocando un rimbalzo della palla anomalo su una pozzanghera, che la spinge in rete mentre l'estremo difensore del Milan finisce per dare un colpo di mento al palo alla sua sinistra. Un patatrac clamoroso che d&agrave; al Leeds una vittoria insperata: in alcuni tabellini quel gol non viene nemmeno attribuito a Bowyer, ma derubricato ad autogol del portiere rossonero. Il suo volto quasi da cane bastonato fa immediatamente il giro del mondo e Dida &egrave; presto etichettato come un bidone. Ci vorr&agrave; del tempo per rispedire al mittente le critiche. Intanto il Milan lo rispedisce in prestito per un anno e mezzo al club da dove l'aveva preso, il Corinthians, anche per via di una storiaccia sul suo presunto passaporto falso.  Da Istanbul al petardo Eppure Dida era arrivato in rossonero forte di un bel curriculum comprendente la conquista della Coppa Libertadores con il Cruzeiro. Non &egrave; pi&ugrave; giovanissimo, ma in Sudamerica &egrave; considerato uno dei migliori portieri del continente e verr&agrave; convocato per il Mondiale del 2002 che vincer&agrave; da riserva di Marcos. Poche settimane dopo Nelson viene richiamato dal Milan, dove &egrave; di nuovo il secondo di Abbiati: casualit&agrave; vuole che nel preliminare di Champions con lo Slovan Liberec il portiere di Abbiategrasso si faccia male e allora tocca di nuovo a Dida. I rossoneri riescono a eliminare gli slovacchi e il brasiliano viene confermato da Ancelotti tra i pali. Inizia l&igrave; la sua leggenda che, almeno per quella stagione, vedr&agrave; il culmine nella finale di Champions vinta dal Milan contro la Juventus in cui Dida para tre rigori a Trezeguet, Zalayeta e Montero. Sempre senza grandi esultanze, sempre concentrato, con un sangue freddo assai poco brasiliano. Impressiona, infatti, la sicurezza di questo ragazzone di quasi due metri, poco spettacolare ma dal senso della posizione ineguagliabile, come se sapesse prima dove sta andando il pallone. Ci sono partite della stagione successiva dove Dida sembra erigere una sorta di muro invisibile davanti a s&eacute;, con delle parate semplicemente assurde tipo nell'1-0 contro l'Ajax al debutto in Champions. Annata-no per il Milan in Europa, ma trionfo in campionato con appena 20 gol subiti da Nelson in 32 presenze. Titolare indiscusso ormai anche in nazionale, un'altra serata che lo segna &egrave; quella del 12 aprile del 2005: si gioca un altro derby di Champions, all'andata il Milan ha battuto l'Inter 2-0 e sta conducendo 1-0 anche al ritorno. Dida ha compiuto anche in questa occasione alcune parate prodigiose, ma quando l'arbitro annulla un gol ai nerazzurri si scatena il finimondo, con la Curva Nord che inizia a buttare in campo di tutto, compreso un petardo che va a colpire sulla spalla il portiere brasiliano. Partita sospesa e assegnata a tavolino al Milan, che perder&agrave; la Champions in modo assurdo contro il Liverpool, nonostante Dida pari un altro rigore. In generale il rendimento del brasiliano inizia a calare, tornano alcune papere o goffaggini (tipo "l'infortunio" dopo aver preso gol contro il Celtic a Glasgow, in cui "sviene" senza motivo) che parevano dimenticate. Il Milan preferisce affiancargli portieri senza pretese di un posto da titolare, come l'australiano Kalac, ma si vede che Dida non &egrave; pi&ugrave; quello di prima. Almeno, non riesce pi&ugrave; a compiere quegli interventi da marziano, perch&eacute; il suo lo continua a fare, forte anche di una grande difesa. Rivince la Champions nel 2007 e la Coppa Intercontinentale, gli ultimi grandi acuti del Milan ancelottiano. Rimarr&agrave; in rossonero fino al 2010, quando torner&agrave; in Brasile ma non definitivamente visto che nel 2020 &egrave; rientrato a Milanello come preparatore dei portieri. Se vi chiedete perch&eacute; Maignan &egrave; diventato un pilastro del Milan, forse una parte di merito l'ha avuta Dida, che il francese ogni giorno ha avuto come interlocutore privilegiato nell'anno dell'ultimo scudetto rossonero.       

&Egrave; stato uno dei portieri brasiliani pi&ugrave; forti di sempre e ha vinto tutto con il Milan. E pensare che gli esordi erano stati tragici

Dida, da brutto anatroccolo a fenomeno

        In Italia non si era ancora visto nulla del genere: e non perch&eacute; avesse segnato nel primo derby in cui metteva piede. Non si era mai visto un giocatore che poteva essere trequartista, mezz'ala e punta tutto assieme a una velocit&agrave; doppia rispetto agli avversari. Gol di testa al primo derby, non sarebbe stato il primo per Ricardo Izecson dos Santos Leite, alias Kak&agrave;, il 5 ottobre del 2003: Inter-Milan 1-3 e i rossoneri scoprirono di avere tra le mani qualcosa di speciale. Kak&agrave; e quel nomignolo... Quell'Inter-Milan &egrave; la prima stracittadina dopo la semifinale di Champions League di cinque mesi prima, quando i rossoneri erano riusciti a spuntarla per via del gol in trasferta. L'occasione &egrave; propizia per l'Inter per provare a prendersi una bella rivincita, mentre il Milan cerca di mantenere una certa continuit&agrave; ed &egrave; ancora imbattuto in stagione. Ha operato un mercato molto conservativo, in teoria, il Diavolo: Cafu e Pancaro sono i due nuovi terzini, presi da Roma e Lazio a costo zero, mentre la novit&agrave; &egrave; un 21enne brasiliano proveniente dal San Paolo, figlio di una famiglia benestante e acquistato per 8 milioni di euro appena. Ha vinto il Mondiale nel 2002, ma da comprimario, disputando uno spezzone di partita contro il Costarica: comunque, era l&igrave;. Kak&agrave; &egrave; atterrato in Italia con un paio di occhialini da intellettuale e schivando gli sfott&ograve; sul suo nomignolo. Preferisce lasciar parlare il campo. Entra in punta di piedi in una squadra che nel suo ruolo ha Rui Costa e Rivaldo, suo connazionale. Uno dei primi per&ograve; a rendersi conto che questo qua &egrave; qualcosa di diverso &egrave; il numero 10 portoghese. Kak&agrave; debutta contro l'Ancona e lascia l&igrave; un paio di giocate da stropicciarsi gli occhi. Tecnica individuale clamorosa, velocit&agrave; da mezzofondista, se parte dritto per dritto non lo ferma letteralmente nessuno. E poi &egrave; alto quasi 1.90, quindi volendo puoi anche dargliela alta, la palla, e lui la controller&agrave;. Per lui Ancelotti ha deciso di puntare decisamente sul 4-3-1-2, mettendo nell'armadio il caro 4-3-2-1. Quindi Kak&agrave; + Shevchenko + Pippo Inzaghi, questo &egrave; il tridente su cui il Milan si appogger&agrave; per la maggior parte della stagione, a meno di infortuni. Compreso nel derby del 5 ottobre 2003, quinta giornata di campionato.   Kak&agrave;, gol nel derby su assist di Gattuso Nettamente meglio il Milan, a cui la vittoria in Champions League del maggio precedente ha dato una botta di autostima notevole. Pirlo e Seedorf dialogano, Cafu a destra &egrave; una garanzia e dietro la coppia Nesta-Maldini &egrave; al top della forma. In porta poi c'&egrave; un Dida reduce da alcune esibizioni in Europa dove &egrave; sembrato pi&ugrave; un supereroe che altro. Davanti il tridente &egrave; una minaccia continua, Kak&agrave; sfiora subito il gol con Toldo che lo neutralizza in uscita poi conquista un fallo (ingenuo) al limite dell'area, commesso da Cristiano Zanetti. Calcia Pirlo, che colpisce in testa Inzaghi in barriera: Milan in vantaggio con uno schema che sar&agrave; replicato identico nella finale di Champions di Atene del 2007. Kak&agrave; dimostra di esserci anche spiritualmente nel derby andandosi a beccare con Kily Gonzalez dopo un contrasto duro a centrocampo. L'arbitro De Santis li ammonisce entrambi. Il brasiliano si fa notare anche in modo pi&ugrave; evidente e concreto al primo minuto della ripresa, quando su cross di Gattuso passa dietro Zanetti e di testa segna il 2-0, peraltro sotto la Curva Sud. In contropiede Kak&agrave; &egrave; assolutamente incontenibile e costringe Cannavaro a spendere un fallo da ammonizione. Sparisce dal campo l'Inter e Shevchenko segna il 3-0 dopo un duetto con Cafu. Accorcer&agrave; Martins, ma ormai &egrave; troppo tardi. Tutti i titoli del giorno dopo sono per questo 21enne brasiliano, ormai da considerare non pi&ugrave; un oggetto misterioso, bens&igrave; una certezza per i rossoneri con Rivaldo che sar&agrave; ceduto di l&igrave; a breve e Rui Costa costretto a sciropparsi tanta panchina. Primo gol in Serie A e nel derby, ne arriveranno con la maglia del Milan altri 103, pi&ugrave; svariati assist, uno scudetto, una Champions League, una Supercoppa italiana, due Supercoppe Europee e una Coppa Intercontinentale. Senza dimenticare il Pallone d'Oro nel 2007 per un giocatore che all'apice della sua carriera era veramente uno in grado di fare la differenza ovunque.       

Vent'anni fa il brasiliano segn&ograve; il suo primo gol in Italia con la maglia del Milan nel 3-1 dei rossoneri contro l'Inter

Kakà, un lampo di classe

        "Lazio e Milan rappresentano le squadre pi&ugrave; importanti della mia carriera. Con i biancocelesti ho esordito in serie A, ho giocato tanti anni da titolare e mi sono tolto la soddisfazione di difendere i colori della squadra che sentivo mia. Al Milan ho passato un pezzo importante della mia vita, non giocando, ma facendo parte di un gruppo fortissimo. Che ha dominato in Italia e in Europa&raquo;. Valerio Fiori &egrave; il doppio ex di Lazio e Milan. Con i biancocelesti ha vinto uno scudetto Primavera, ha esordito in serie A ed ha giocato sei stagioni, tra alti e bassi. Con poca esperienza fu gettato nella mischia in un derby storico, che la Lazio port&ograve; a casa grazie ad un gol di Paolo Di Canio. Poi, a 30 anni, ha accettato la chiamata del Milan, diventando il terzo portiere della squadra rossonera. Un&rsquo;avventura particolare, che lo ha trasformato in un vero e proprio uomo spogliatoio. &laquo;A Milano &egrave; nata mia figlia ed io tra la carriera di calciatore e quella di allenatore, sono rimasto quasi venti anni, togliendomi tante soddisfazioni".  Nove anni e una sola presenza da titolare. Quanto &egrave; stato difficile accettare un ruolo diverso da quello al quale era abituato? "Sono arrivato a Milano a trent&rsquo;anni, con un&rsquo;esperienza e una consapevolezza diversa. Le motivazioni non mi sono mai mancate, anche se sapevo che difficilmente sarei sceso in campo. Di quell&rsquo;esperienza mi resta il rapporto tra squadra, giocatori e ambiente. In quegli anni il Milan era speciale. I trofei vinti hanno regalato emozioni forti e indimenticabili. Vincere era bello e speciale. Ma non dimenticher&ograve; mai neanche la finale di Istanbul contro il Liverpool. Una cosa assurda".   A Milano ha anche iniziato la carriera da allenatore. "Per me &egrave; stata una consacrazione professionale in un altro ruolo. Ma ho portato a casa dei trofei anche l&igrave;: ricordo lo scudetto con Allegri. Passare dal campo alla panchina &egrave; stato particolare: vedi il calcio in un&rsquo;ottica diversa, prestando attenzione a dei dettagli che quando fai il giocatore non puoi capire".  Nella sua carriera da allenatore c&rsquo;&egrave; un rammarico? "Non aver mai avuto la possibilit&agrave; di tornare a lavorare a Roma nella Lazio. Mi sarebbe davvero piaciuto tornare nella mia squadra, dove ho iniziato e alla quale mi sento legato. Fino ad oggi non c&rsquo;&egrave; mai stata questa possibilit&agrave;. Magari in futuro qualcosa pu&ograve; cambiare".  La Lazio cosa rappresenta per lei? "La squadra che mi ha lanciato, che mi ha fatto diventare un portiere vero. Giocare a vent&rsquo;anni alla Lazio non &egrave; facile. Hai una pressione addosso pazzesca, ma io ho sempre cercato di fare il massimo. E credo di esserci riuscito".  Come nasce la sua storia alla Lazio? "Ho fatto il settore giovanile alla Montesacro Lazio e poi alla Lodigiani. La Lazio mi prese per farmi fare il portiere della Primavera. E al primo anno arriv&ograve; lo scudetto".  Che Lazio era? "C&rsquo;era mister Morrone in panchina, in campo Rizzolo, Saurini, Biagioni. Eravamo una bella squadra. Nell&rsquo;87 vinsi lo scudetto in Primavera, l&rsquo;anno successivo mi allenai con la prima squadra e poi in campionato giocavo con la Primavera e l&rsquo;anno dopo arriv&ograve; l&rsquo;esordio in serie A".  Con Materazzi in panchina... "Ero il vice di Silvano Martina, ma poi alla lunga sono diventato titolare. L&rsquo;esordio ufficiale fu in Coppa Italia con l&rsquo;Atalanta, poi in campionato a Firenze e la domenica successiva, subito titolare nel derby".  Per un romano cosa vuol dire giocare un derby a 19 anni alla seconda esperienza in serie A? "Non fu per niente semplice. Ma l&rsquo;incoscienza dell&rsquo;et&agrave; ha giocato un ruolo fondamentale. Rester&agrave; per me un&rsquo;emozione unica. Poi la Lazio torn&ograve; a giocare e a vincere un derby dopo tanti anni. Quindi fu una gara storica".  Titolare della Lazio a 19 anni, titolare della Nazionale Under 21. Molti erano convinti che Valerio Fiori fosse destinato a una carriera eccezionale, ma purtroppo non tutto and&ograve; per il verso giusto. Si &egrave; spiegato cosa &egrave; successo? "Da come ero partito pensavo che le cose potessero andare meglio. Nei primi anni alla Lazio ho avuto un problema serio alla schiena, l&rsquo;ernia del disco. Sicuramente un po&rsquo; ha inciso, e poi ci sono stati altri fattori che non mi hanno permesso di esprimermi come avrei voluto. Ma non mi lamento. Qualche rammarico c&rsquo;&egrave;, ma sono contento della mia carriera. Giocare a Roma, per un giovane romano non &egrave; affatto facile. E&rsquo; stata una bella battaglia. Comunque c&rsquo;&egrave; una cosa da dire...".  Quale? "Ero spesso criticato, sotto processo e continuamente osservato, ma alla fine ho fatto cinque anni da titolare, sia con Materazzi che con Zoff. Solo l&rsquo;ultima stagione ho perso il posto e a met&agrave; stagione sono stato sostituito da Orsi".  A proposito di allenatori. Zoff le ha dato qualche consiglio? "Sono legatissimo a Materazzi, che mi ha fatto esordire e che poi ho ritrovato a Piacenza e a mister Zoff. Uno che non mollava mai, di fronte a tutto. Una volta prima di una partita mi obblig&ograve; a giocare con una caviglia gonfia come un pallone. Si avvicin&ograve; e mi disse che un portiere non doveva mai mollare e che dovevo stringere i denti. Ora ho capito perch&egrave; il suo secondo c&rsquo;&egrave; &ldquo;morto&rdquo; in panchina" (ride ndr.).  Cosa le resta dell&rsquo;esperienza alla Lazio? "L&rsquo;esordio, la vittoria nel derby, l&rsquo;anno del Flaminio con la vittoria contro il Napoli. Tanti bei ricordi".  L&rsquo;attaccante di quella Lazio era Ruben Sosa. "Un giocatore pazzo, simpaticissimo. Prendeva in giro tutti ed era fortissimo. Tirava talmente forte in allenamento che io quando lui calciava provavo a respingere, ma spesso la palla entrava ugualmente. E lui mi chiamava manina".  Paul Gascoigne? "Ho vissuto gli anni dell&rsquo;infortunio, quando doveva arrivare e poi quando finalmente esord&igrave;. Giocatore dalla classe unica: peccato per la fragilit&agrave;".  Che scherzo le ha fatto? "A me nessuno in particolare, ma credo di essere stato fortunato. Con gli altri non si &egrave; risparmiato".       

Il portiere romano ha debuttato in Serie A con i biancocelesti poi una vita in rossonero come giocatore e preparatore

Valerio Fiori: "Al Milan ho vinto, la Lazio è amore"

        Ci sono i derby dei grandi nomi e quelli delle sorprese. La storia delle sfide tra Inter e Milan &egrave; meravigliosa anche per quei protagonisti inattesi rivelatisi poi decisivi in un particolare giorno. Ne abbiamo scelti due, tra i pi&ugrave; rappresentativi: Giuseppe Minaudo e Gianni Comandini. &nbsp; Minaudo, l'incubo di Berlusconi &nbsp; Il primo derby di Silvio Berlusconi da presidente del Milan finisce con una vittoria dell'Inter: 6 aprile 1986, &egrave; gi&agrave; primavera ma il cielo su Milano &egrave; plumbeo. Le due squadre sono staccatissime dalla vetta, i nerazzurri in compenso pochi giorni prima hanno sconfitto il Real Madrid nelle semifinali di Coppa Uefa. Risultato che per&ograve; verr&agrave; ribaltato al ritorno, in una delle tante serate europee mitiche dei blancos in Europa. Per il Milan di Nils Liedholm un'annata balorda, la questione societaria a prevalere su tutto con l'addio rocambolesco di Farina e l'ingresso in campo, appunto, di Silvio Berlusconi, il magnate delle telecomunicazioni. L&igrave; per l&igrave; "Sua Emittenza" pu&ograve; cambiare poco, la rivoluzione &egrave; di l&agrave; da venire e la rosa &egrave; quella che &egrave;, non eccezionale. I rapporti con Liedholm, poi, non sono granch&eacute; per via di due caratteri agli antipodi. In tutto questo il derby del 6 aprile &egrave; noioso e sonnolento. L'Inter dopo un'estate in cui ha preso dal Verona campione d'Italia due giocatori come Fanna e Marangon e dalla Juventus nientemeno che Marco Tardelli si &egrave; attorcigliata nei suoi problemi, con l'esonero dell'allenatore Castagner gi&agrave; a novembre. Al suo posto la bandiera Mario Corso, chiamato a fare da traghettatore.  Manca un quarto d'ora alla fine, il risultato &egrave; ancora 0-0: fallo ingenuo su Fanna sul lato sinistro dell'area di rigore e punizione per l'Inter, il classico corner corto. Calcia lo stesso Fanna verso il centro, colpo di testa di Mandorlini sul palo con il portiere del Milan Terraneo abbastanza incerto nell'occasione. Sul rimbalzo della palla si avventa un fantasista 19enne di Mazara del Vallo, in Sicilia, una delle stelle della primavera nerazzurra vincitrice pochi mesi prima del Torneo di Viareggio: si chiama Giuseppe Minaudo e non doveva nemmeno giocare. Entrato dopo l'intervallo al posto di Marangon che si era fatto male a una mano nel primo tempo, era addirittura finito in panchina in extremis visto che Rummenigge, l'attaccante titolare, aveva avuto un problema nel riscaldamento. Come una tessera del domino, Minaudo dalla tribuna si ritrova in campo e subito decisivo. Quando segna l'1-0, risultato che poi non cambier&agrave;, viene sollevato di peso da Riccardo Ferri come un fuscello. "Nella mia vita ho un incubo ricorrente: Minaudo", affermer&agrave; anni dopo Adriano Galliani, amministratore delegato del Milan nell'era berlusconiana. "Minaudito", si legger&agrave; sul Guerin Sportivo uscito la settimana dopo quel derby. Per Minaudo poi tre anni abbastanza anonimi nell'Inter prima di passare all'Udinese e all'Atalanta. &nbsp;  Comandini come Paolo Rossi  Gianni Comandini da Cesena nell'estate del 2000 &egrave; uno dei giovani pi&ugrave; ricercati sul mercato: titolare dell'under-21 campione d'Europa con Marco Tardelli, gioca in Serie B con il Vicenza ma in tanti hanno messo gli occhi su di lui. Centravanti che in campo da tutto, grande atletismo, sulla carta una forza della natura e, appunto, ancora molto giovane. Alla fine la spunta il Milan che sborsa per Comandini 20 miliardi di lire (11 milioni di euro circa). L'inizio &egrave; col botto, gol nel preliminare di Champions League contro la Dinamo Zagabria con quella maglia numero 9 sulle spalle che fa davvero sognare. Lui in coppia con Shevchenko, entrambi sotto i 25 anni, il futuro pare proprio roba loro. E invece no, iniziano le panchine e gli infortuni. Nel frattempo il suo allenatore nonch&eacute; conterraneo Alberto Zaccheroni viene silurato dopo l'eliminazione in Champions e in panchina arriva a traghettare il Milan l'ex ct dell'under-21, Cesare Maldini. Comandini ha recuperato dai guai fisici ed &egrave; a disposizione in un periodo in cui l'infermeria rossonera &egrave; strapiena. Arriva l'11 maggio del 2001, venerd&igrave; sera, e c'&egrave; il derby. Partita tra deluse, perch&eacute; nemmeno l'Inter sta attraversando un grande momento, un "derby in tono minore" si legge sui giornali, anche qua come nel 1986ss. In compenso da vincere, guai a sbagliare. Sulla panchina nerazzurra proprio Marco Tardelli, l'ex allenatore di Comandini nell'under-21, chiamato alla prima giornata dopo l'esonero di Marcello Lippi. Comandini quella sera deve giocare titolare davanti, nel 4-4-2 apparentemente scolastico di Maldini dove viene data ampia libert&agrave; in fascia a sinistra al brasiliano Serginho. Su quell'asse il Milan sblocca il risultato proprio con Gianni, ma non &egrave; finita: minuto 19, cross da sinistra ancora di Serginho e colpo di testa maestoso a incrociare di Comandini per il 2-0. Esultanza sotto la Sud, Inter annichilita e completamente asfaltata nella ripresa, quando il Milan infierisce fino al celebre 6-0 con gol di Giunti, doppietta di Shevchenko e timbro finale di Serginho. Per Comandini una serata alla Paolo Rossi, due soli gol in campionato con i rossoneri e proprio in un derby, nella stagione 1985-86, quella del gol di Minaudo, ma nella sfida di ritorno. S&igrave;, perch&eacute; a fine stagione Gianni andr&agrave; all'Atalanta per 30 miliardi: un'indimenticabile meteora.       

Protagonisti assoluti in una stracittadina e poi scomparsi dalla circolazione: la strana storia di questi due giocatori rimasti per sempre nella memoria dei tifosi dell'Inter e del Milan

Minaudo e Comandini eroi per caso del derby di Milano

        Cromatica. Un po&rsquo; come la storia della Roma e del Milan, legata a doppio filo a chi ha allenato squadre forti e vincenti. Il rosso in comune. Da un lato il giallo, dall&rsquo;altro il nero. In mezzo anche degli scudetti mescolati nel tricolore, con il rosso sempre in evidenza al fianco del bianco e del verde. Sono due gli allenatori che hanno portato in alto Roma e Milan, l&igrave; davanti alla concorrenza, contro tutto e tutti, lass&ugrave; dalle parti dell&rsquo;arcobaleno: Nils Liedholm e Fabio Capello. Anche se la lista di chi si &egrave; seduto su entrambe le panchine &egrave; lunghissima: si va da William Thomas Garbutt a Herbert Burgess, da Gigi Radice a Vincenzo Montella, giusto per citare alcuni nomi.    Uno svedese tra il Duomo e il Colosseo: Liedholm  Classe, eleganza e carisma da vendere. Che esercitava dentro e fuori dallo spogliatoio. Nils Liedholm &egrave; l&rsquo;allenatore che ha speso la sua esistenza, calcistica e non, tra il Duomo e il Colosseo. Era un centrocampista. Arriv&ograve; in Italia quasi per caso, dopo l&rsquo;oro olimpico di Londra con la Svezia (correva l&rsquo;anno 1948) e non la lasci&ograve; mai pi&ugrave;. Con la maglia del Milan mise da parte 394 partite, 89 gol e quattro scudetti. Da tecnico successivamente divent&ograve; leggenda. Perch&eacute; aveva una visione del calcio futuristica pensando che la sua carriera prende la rincorsa negli Anni Sessanta, esplode negli Anni 70 e 80, e va a finire negli Anni Novanta. Filosofia chiara e limpida: possesso palla, tecnica e difesa a zona. &laquo;Finch&eacute; la palla ce l&rsquo;abbiamo noi, sono gli altri a doversi preoccupare&raquo;, &egrave; la frase cult del Barone, soprannominato cos&igrave; perch&eacute; spos&ograve; una nobildonna piemontese. Ha guidato il Milan per otto stagioni diverse, in mezzo e in coda le annate alla Roma, undici. Nel 1979 confezion&ograve; lo scudetto della prima stella in rossonero, tra l&rsquo;altro promuovendo un giovanissimo Baresi e inventandosi Bigon come falso nove. In quella rosa c&rsquo;erano Capello, Collovati, Buriani e Maldera e fino all&rsquo;anno prima Turone: gente che anche a Roma ha inciso e non poco. Dopo il successo al Milan, Liedholm pass&ograve; in giallorosso per centrare il secondo scudetto del club nel 1983, dopo 41 anni, puntando forte su Falcao, Conti, Di Bartolomei, Ancelotti e Pruzzo. Vinse anche tre volte la Coppa Italia. In Coppa Campioni fu beffato dal Liverpool nella finalissima del 1984 e poi ci fu la macchia del gol di Turone che il Barone comunque prese con filosofia. Successivamente and&ograve; e torn&ograve; da Milano a Roma, lanciando Maldini a 16 anni e assaggiando la classe di un baby Totti.    Capello, sergente di ferro  Concretezza. Un sergente di ferro. E allievo di Liedholm. Fabio Capello ha giocato e allenato sia Roma che Milan, ma anche la Juventus. Dopo un lungo periodo di apprendistato, prese il testimone da Arrigo Sacchi in rossonero e da l&igrave; inizi&ograve; un&rsquo;avventura unica sotto la presidenza di Silvio Berlusconi, che disse: &laquo;Fabio Capello &egrave; il tecnico giovane su cui puntiamo&raquo;. Ci aveva visto lungo: quattro scudetti e la Champions League del 1994 rappresentano larga parte del bottino. Sul tetto d&rsquo;Europa ci arriv&ograve; con la classe di Boban e Savicevic, una difesa completamente Made in Italy (Maldini, Panucci, Galli e Tassotti) e una coppia di centrocampisti centrali mostruosi come Albertini e Dasailly, perni del 4-4-2. La Roma fu un un altro capitolo lungo, durato cinque stagioni, che vide il punto pi&ugrave; alto nel terzo scudetto giallorosso. Era il 2001. Franco Sensi voleva il tricolore a tutti i costi. Samuel, Emerson e Batistuta erano lo scheletro dell&rsquo;undici di Capello, che sfrutt&ograve; poi l&rsquo;esplosione di Tommasi in mezzo al campo e un reparto avanzato che poteva contare, oltre sull&rsquo;argentino arrivato dalla Fiorentina, su capitan Totti, Montella e Delvecchio. Il Circo Massimo in festa, clacson e fuochi d&rsquo;artificio. Quel 3-4-1-2 &egrave; rimasto nella storia. Capello, va sottolineato, ha avuto come collaboratore Italo Galbiati nella doppia avventura tra Milan e Roma.  Un Roma-MIlan da Garbutt a Montella  Le panchine di Roma e Milan sono legate da un filo invisibile fin dall&rsquo;inizio. Nel 1927 la squadra giallorossa fu affidata all&rsquo;inglese William Thomas Garbutt (vince la Coppa Coni) che poi pass&ograve; il testimone al connazionale Herbert Burgess, il quale lasci&ograve; il Milan per approdare in riva al Tevere dopo un passaggio (il secondo) al Padova. Garbutt, invece, fin&igrave; sulla panchina rossonera nel 1936, prendendo il posto di Adolfo Baloncieri, guida della Roma nel 1950. Insomma, siamo di fronte a una sorta di puzzle che va dalla notte dei tempi fino all&rsquo;era moderna. Gi&agrave;, perch&eacute; nel 1951 sbarc&ograve; a Roma Giuseppe Viani, poi direttore tecnico per un decennio al Milan tra scudetti e una Coppa Campioni. Un percorso inverso rispetto ad Antonio Busini, che prima ricopr&igrave; il ruolo di direttore tecnico e sportivo del Milan (1940-1953) e molto tempo dopo fece il vice alla Roma, verso la fine degli Anni 50. Altri nomi con un doppio passato tra Roma e Milan? Gustavo Giagnoni, Luis Carniglia e Gigi Radice. L&rsquo;ultimo in ordine di tempo &egrave; stato Vincenzo Montella, traghettatore della Roma nel 2011 e poi allenatore del Milan per quasi una stagione e mezza, tra il 2016 e 2017.  Ancelotti e Nordahl  Carlo Ancelotti, unico allenatore ad avere vinto i cinque pi&ugrave; importanti campionati europei, ha indossato da giocatore le maglie di Roma e Milan, vincendo scudetti e coppe. Ma ha allenato solamente i rossoneri (per otto stagioni di fila) prima di intraprendere una carriera dal respiro internazionale tra Chelsea, Psg, Real Madrid e Bayern Monaco. Alla panchina della Roma &egrave; stato accostato pi&ugrave; volte ma la firma non &egrave; arrivata. Un discorso simile si pu&ograve; cucire addosso a Gunnar Nordahl, ex bomber di Milan e Roma, che una volta appese le scarpette al chiodo inizi&ograve; ad allenare partendo proprio dalla Capitale. Sulla panchina del Milan per&ograve; non si &egrave; mai seduto.       

Non solo Capello e Liedholm ma anche Radice e Montella Garbutt e Burgess: i racconti di tutti gli allenatori in comune

Roma-Milan, quante panchine scambiate

        Quasi quarant'anni, 38 per la precisione: tanto &egrave; passato dall'ultima vittoria del Torino in casa del Milan. Era la stagione in cui i granata sfiorarono lo scudetto, finito poi al Verona: un secondo posto costruito con successi anche di prestigio incluso lo 0-1 con il quale il Toro sbanc&ograve; San Siro sponda rossonera. Gol di Walter Schachner, e chi altrimenti? &nbsp; La rivincita di Gigi Radice  Milan che arriva in forma a quella partita, sette risultati utili consecutivi e la zona-Uefa a portata. Torino solido, costruito benissimo quell'anno da un Gigi Radice tornato al suo "ovile" dopo lo scudetto del 1976. Radice ex milanista mai amato, con quella stagione 1981-82 culminata col suo esonero e la clamorosa retrocessione in B del Diavolo. Quel 24 marzo 1985 la partita &egrave; tesa e bloccata. Nessuno spunto degno di nota nel primo tempo, a parte un gol annullato quasi subito a Virdis dall'arbitro Rosario Lo Bello per una precedente spinta di Hateley su Corradini. C'&egrave; qualche tentativo di Aldo Serena per i granata, mentre la manovra del Milan risulta prevedibile e stanca: sugli scudi per i granata Galbiati, con Danova al rientro dopo un mese per via di un infortunio. Insomma, la classica sfida da 0-0 in cui il pareggio va bene a tutti sulla carta.  Nessuno per&ograve; ha fatto i conti con i guizzi degli attaccanti del Torino. Dopo un quarto d'ora della ripresa Pileggi va via sulla destra, i milanisti protestano per un suo fuorigioco, e cross al centro dove Schachner con un tiro sporco supera Terraneo. Per il bomber austriaco, quinto gol in campionato, con il Milan gi&agrave; bucato nella partita d'andata, finita 2-0 per i granata. C'&egrave; tempo per un palo di Di Bartolomei con una punizione dal limite, San Siro grida al gol prima del tempo, quando siamo gi&agrave; in zona novantesimo minuto. Il Torino in realt&agrave; si difende con ordine, con Serena che fa da difensore aggiunto sfruttando la sua elevazione. Vittoria tutto sommato meritata, come ammette Nils Liedholm, l'allenatore del Milan, nel dopopartita: "Noi eravamo in giornata no, loro sono stati bravi nell'approfittare di qualche sporadico contropiede". Torino che con quello 0-1 aggancia l'Inter al secondo posto in classifica, ma il Verona l&agrave; davanti &egrave; imprendibile, con un vantaggio di 5 punti a 7 giornate dalla fine. Posizione comunque, la piazza d'onore, che i granata manterranno al termine del campionato. &nbsp; &nbsp;       

L'ultima vittoria dei granata a Milano sponda rossonera in campionato risale al 1985, quando l'austriaco gel&ograve; il Diavolo

Milan-Torino: quando Schachner sbancò San Siro

        Pochi nomi come il suo hanno cucito decenni di storia del dopoguerra, anche oltre quel rettangolo di gioco all&rsquo;interno del quale gli riusc&igrave; sempre di restare se stesso, dalle partitelle all&rsquo;oratorio Don Bosco di Alessandria Fino alle finali di Coppa dei Campioni, due, che vinse da protagonista e a quella di Coppa del Mondo all&rsquo;Azteca di Citt&agrave; del Messico, nel 1970, che perse contro il Brasile ma disputando soltanto i sei minuti finali. &nbsp; Rivera, calciatore e dirigente &nbsp; Il traguardo degli ottant&rsquo;anni di Gianni Rivera porta con s&eacute; aneddoti e riflessioni che intersecano il costume e l&rsquo;evoluzione della cultura di massa nel nostro Paese, dallo scoccare degli anni Sessanta fino quasi all&rsquo;affacciarsi degli Ottanta. Parlandone solo da calciatore, ovviamente, perch&eacute; poi c&rsquo;&egrave; stato il Rivera dirigente, evolutosi presto in politico, attitudine quest&rsquo;ultima che aveva sviluppato gi&agrave; durante la carriera calcistica, con prese di posizione coraggiose e autorevoli, per esempio sulla questione arbitrale, che testimoniano lo spessore intellettivo di un uomo che in seguito si sarebbe impegnato a far crescere anche la sua dimensione intellettuale, come non era riuscito a fare durante la sua lunga carriera. Lo aveva detto, del resto, durante una celeberrima intervista rilasciata a Oriana Fallaci: il suo rammarico era, all&rsquo;epoca, quello di non aver potuto studiare abbastanza, di non aver avuto il tempo di coltivare la crescita del sapere in ogni ambito. Per un calciatore come era lui all&rsquo;epoca, prima met&agrave; degli anni Sessanta, un atteggiamento da marziano.  Rivera nella cultura popolare &nbsp; Sembra di sentirle, le note dolenti e delicate di &ldquo;Vincenzina e la fabbrica&rdquo; di Enzo Jannacci, che poi fu anche colonna sonora di &ldquo;Romanzo popolare&rdquo; di Mario Monicelli, con Ugo Tognazzi e una giovanissima Ornella Muti nei panni di Vincenzina: &ldquo;Zero a zero anche ieri &lsquo;sto Milan qui, &lsquo;sto Rivera che ormai non mi segna pi&ugrave;&hellip;&ldquo;; cos&igrave; come potremmo citare un riccioluto Diego Abatantuono che, qualche anno pi&ugrave; tardi, nei panni del Ras della Fossa in &ldquo;Eccezzziunale veramente&rdquo; arringa i suoi adepti in un Milan club raccontando una parabola in cui Dio affida a Rivera il compito di diffondere per il mondo il gioco del calcio. Non solo riferimenti nazional-popolari, tra l&rsquo;altro, perch&eacute; il modo di giocare di Rivera era stato anche fonte di ispirazione per un poeta come Alfonso Gatto, che aveva il suo poster nello studio. Tutto ci&ograve; che &egrave; sublime, tra le varie arti individua contatti, non confini. Punti di passaggio, come era nella specificit&agrave; di Rivera quando con naturalezza mandava in porta un compagno. &nbsp;  Rivera e il calcio in rossonero &nbsp; Sublime, dicevamo, il calciatore, soprattutto negli ultimi trenta metri: compostezza e illuminazioni geniali, mentre l&rsquo;espressione restava imperturbabile, come se la concitazione e il clamore attorno non lo riguardassero: la finta improvvisa, l&rsquo;arresto e il cambio di direzione, il lancio millimetrico a media o lunga gittata, poi ovviamente la capacit&agrave; di battere a rete, con lucidit&agrave; e precisione, dalla rete del quattro a tre contro i tedeschi dell&rsquo;Ovest in gi&ugrave;, quando con la perizia di un chirurgo s&rsquo;era fatto trovare da Boninsegna per raccogliere il passaggio da sinistra nel cuore dell&rsquo;area e incidere con il bisturi dell&rsquo;interno destro il diagonale verso il palo pi&ugrave; lontano, fino a tutti i gol segnati in una carriera iniziata coi vagiti del boom economico e terminata in piena lotta al terrorismo, vincendo con il Milan lo scudetto del 1979, quello della Stella rossonera. Diciannove anni prima era iniziata la sua avventura con la maglia rossonera: nessuno pensava che quel ragazzino dalla erre leggermente arrotata e dal fisico minuto potesse assurgere a fuoriclasse di livello assoluto e nutrire dei suoi record a livello personale la bacheca del Milan, ma nel corso di quegli anni, in un calcio con molte meno partite in Italia e in Europa, Rivera in rossonero ha messo insieme 658 presenze e 164 gol, vincendo tre scudetti, quattro Coppe Italia, due Coppe delle Coppe, due Coppe dei Campioni - una nel &lsquo;63 contro il Benfica del gi&agrave; celebre Eus&eacute;bio, l&rsquo;altra nel &lsquo;69 contro l&rsquo;Ajax di un Cruijff emergente - e una Coppa Intercontinentale. &Egrave; stato il primo italiano a vincere il Pallone d&rsquo;Oro nel 1969, con la motivazione della giuria che fu quasi pi&ugrave; onorevole del premio stesso, perch&eacute; Rivera venne definito &ldquo;artista del calcio&rdquo;. Quando alz&ograve; il trofeo verso il cielo sopra San Siro, era gi&agrave; diventato il Golden Boy del calcio italiano, uno dei due soprannomi che lo avrebbero accompagnato e che ancora oggi corredano la sua storia calcistica. L&rsquo;altro, fu scelto da Gianni Brera in persona per pungolarlo ed evidenziarne qualche limite atletico e agonistico: &ldquo;abatino&rdquo;, a voler significare che ai preziosismi tecnici del fuoriclasse milanista facevano da contraltare ritmi di gioco spesso compassati e qualche leziosismo di troppo. La miglior risposta a Brera fu quella di Nereo Rocco, secondo padre oltre che allenatore, il quale precis&ograve; che la creativit&agrave; di Rivera offriva alla squadra un contributo tale da non dover sottostare a vincoli dettati dal ritmo o dall&rsquo;intensit&agrave;.   Rivera e l&rsquo;azzurro &nbsp; Con la Nazionale italiana, al netto delle quattro Coppe del Mondo disputate dal 1962 al 1974, delle sessanta presenze e delle quattordici reti, potremmo dire che Rivera ha avuto un rapporto in parte controverso, segnato dal dualismo con Sandro Mazzola soprattutto nel &rsquo;70 in Messico e da gestioni tecniche, a cominciare da quella di Ferruccio Valcareggi, che non sempre hanno messo al centro del progetto azzurro le sue qualit&agrave;. Sono le criticit&agrave; che debbono attraversare i predestinati per dimostrare di essere tali e sul fatto che Rivera lo fosse, sin dalla nascita, lo dimostra che non molto tempo dopo aver visto la luce fu battezzato da professionista: il 2 giugno 1959, quindicenne, aveva debuttato in Serie A con l&rsquo;Alessandria, contro l&rsquo;Inter, futura avversaria di vent&rsquo;anni di derby, pi&ugrave; o meno. &laquo;Alla sua et&agrave;, le cose che sa fare lui nemmeno le sognavo&raquo;: cos&igrave; si era espresso, dopo averlo visto giocare con le giovanili del club piemontese, un certo Silvio Piola.       

L&rsquo;artista del calcio compie 80 anni e con lui tutto il movimento sportivo italiano si guarda allo specchio: dai trionfi col Milan, le sfide dialettiche con Brera fino all&rsquo;inventarsi dirigente e politico

Gianni Rivera, Golden Boy del calcio rossonero e azzurro

        Dategli una linea del fuorigioco fatta male o un rimpallo in area e lui vi ripagher&agrave; quasi sempre con un gol: Pippo Inzaghi, la fotografia dell'attaccante di razza. Compie cinquant'anni l'eterno ragazzo del pallone nostrano, pi&ugrave; ancora del suo "gemello" Christian Vieri, con quel fisico asciutto come se non avesse mai smesso. Mettetelo l&igrave; ancora oggi e vediamo se non segna, di nuovo, sfruttando il suo assurdo fiuto. Grazie Mondo, grazie Juve Filippo Inzaghi nasce a Piacenza, nessuno si sogna di chiamarlo cos&igrave; perch&eacute; Pippo &egrave; troppo pi&ugrave; bello, pi&ugrave; immediato, pi&ugrave; tutto. Debutta tra i pro con la squadra della sua citt&agrave;, poi inevitabilmente deve scendere di categoria, al Leffe, dove segna subito 13 gol in C1. A vent'anni &egrave; pronto di nuovo per la Serie B: lo prende il Verona, che scopre quell'attaccante elettrico in una squadra e in un campionato che visti con gli occhi di oggi sembravano pi&ugrave; una A2. Inzaghi va a bersaglio in 13 occasioni, l'Hellas si salva un po' col fiatone: davanti a lui in classifica cannonieri c'&egrave; gente come Bierhoff, Batistuta, Carnevale, Chiesa e Tovalieri.  Piacenza lo accoglie di nuovo, a quel punto &egrave; una stella della B: altri 15 gol, promozione in A e la sensazione di poter spiccare definitivamente il volo. Il Parma lo nota e lo prende, non &egrave; lontano da casa, ma lontano dal cuore. I Ducali hanno gi&agrave; sistemato l'attacco con Zola e il Pallone d'Oro, Hristo Stoichkov, e per SuperPippo non c'&egrave; quasi spazio. Si imbruttisce, a Parma, si infortuna pure; aspetta la chiamata giusta per ripartire, elettrico come sempre. Ci vuole l'Atalanta, un allenatore che ha fiuto per i giovani talenti come Emiliano Mondonico: nel 1997 Inzaghi &egrave; capocannoniere del campionato, addirittura, con 24 gol. Del tutto immarcabile, giocando per una provinciale. In coppia con l'imprevedibile fantasista Domenico Morfeo regala momenti di grande spettacolo, pur nella sua essenzialit&agrave;. Inzaghi infatti &egrave; "solo" il finalizzatore, veloce e rapace, non &egrave; un colosso ma i difensori non ci capiscono niente. Su di lui si fionda la Juventus, che sfrutta la corsia preferenziale con i bergamaschi e per 20 miliardi porta Inzaghi in bianconero. C'&egrave; da sostituire Christian Vieri, passato all'Atletico Madrid, e nulla di meglio del miglior marcatore della Serie A. In coppia con Del Piero semineranno il terrore nelle difese avversarie per almeno un anno, fino al gravissimo infortunio del numero 10 che lascia "orfano" a lungo Inzaghi. Intanto vince lo scudetto e sfiora la Champions League, perdendo in finale contro il Real Madrid.  Nell'estate 2001 un po' a sorpresa su Pippo si tuffa il Milan. Veste rossonero in un'operazione che comprende anche la cessione alla Juventus del terzino Cristian Zenoni. Sta per cominciare un decennio formidabile, sia per Inzaghi che per il Diavolo. Quella doppietta a Istanbul Dieta ferrea, gioco essenziale: minimalismo o meno, anche al Milan &egrave; difficile trovare qualcuno in grado di fermare Inzaghi. Si infortuna gravemente a un ginocchio durante una partita contro il Chievo, i rossoneri a fatica si qualificano per la Champions League ed &egrave; a quel punto che scocca l'amore tra SuperPippo e l'Europa. Non che prima ci fossero "screzi", ma con il Milan il livello di Inzaghi cresce a dismisura. Sembra costruito apposta per essere decisivo tra il marted&igrave; e il mercoled&igrave;. La cavalcata che porta i rossoneri a vincere la Champions nel 2003 in finale contro la Juve ha un solo vero protagonista ed &egrave; SuperPippo: nel primo girone di qualificazione inizia segnando 8 gol in 4 partite, poi "rallenta" ma fermandosi comunque a 12. In coppia con Shevchenko oppure come unico riferimento del cosiddetto "Albero di Natale" di Carlo Ancelotti, il 4-3-2-1 che ha fatto epoca, Inzaghi &egrave; una sentenza Come il buon vino, invecchiando migliora, sempre con l'Europa come palcoscenico. Bisogna centellinarlo, adesso, anche perch&eacute; gli infortuni cominciano a pesare. Altro capolavoro, nella stagione 2006-07, che il Milan inizia con i preliminari di Champions ad agosto. Inzaghi &egrave; andato in vacanza, ha appena vinto il Mondiale disputando appena 33 minuti (e un gol contro la Repubblica Ceca), ma richiamato all'ordine risponde presente. Gol alla Stella Rossa nel turno preliminare, in una Milano deserta, e i rossoneri sono di nuovo in tabellone. Pippo &egrave; l'uomo di coppa, il Milan se lo gode come mai prima di allora forse. Si sa che ogni occasione per lui &egrave; buona, per fare gol. Affiancato da un Kak&aacute; stellare, Inzaghi &egrave; una minaccia costante: la sua rete al Bayern, nel ritorno dei quarti di finale, &egrave; il manifesto del suo gioco, con quello scatto sul filo del fuorigioco assistito da un tacco di Seedorf. In finale col Liverpool, il capolavoro, nella rivincita della sfida del 2005 che aveva visto il Milan soccombere in maniera assurda ai rigori dopo essere andato avanti 3-0 (ma Pippo era infortunato). Il Diavolo stavolta trionfa, 2-1, ed entrambi i gol sono di Inzaghi: la prima &egrave; "una magata", un colpo di petto su punizione di Pirlo che spiazza Reina, il secondo &egrave; un film gi&agrave; visto, lo scatto sul filo del fuorigioco con gli inglesi che non ne hanno pi&ugrave; per salire, e il tocco morbido rasoterra su assist di Kak&aacute;. Trover&agrave; il tempo per segnare anche contro il Boca Juniors nella finale del Mondiale per Club, sempre nel 2007: l'ultimo titolo internazionale vinto con il Milan. In Italia alzer&agrave; ancora uno scudetto, nel 2011. Il ritiro, l'anno dopo tra le lacrime, con gol al Novara a San Siro per congedarsi. Milan di cui diventer&agrave; allenatore, con fortune alterne. &laquo;Non avrebbe dribblato nemmeno una sedia&raquo;, disse di lui Jorge Valdano, campione del mondo con l'Argentina e leggenda del Real Madrid. Mentre Cruijff proporr&agrave; una visione diversa: &laquo;In realt&agrave;, Inzaghi non sa proprio giocare a calcio. &Egrave; solo che sta sempre al posto giusto&raquo;. Chi aveva ragione? Nel dubbio meglio preparare il pallottoliere, per contare i gol di SuperPippo.&nbsp;        

Un attaccante leggendario, nato per segnare. Esploso all'Atalanta, poi la Juve e il passaggio al Milan. Campione del mondo con l'Italia nel 2006 pur giocando appena 33 minuti

Pippo Inzaghi, il Peter Pan del gol

        Chiamarla rivincita forse sarebbe eccessivo, ma l'importante in certi casi &egrave; non abituarsi troppo a perdere contro la stessa squadra: due mesi di tempo tra la finale di Champions League e la Supercoppa Italiana, tra fine maggio e inizio agosto 2003. Il primo trofeo al Milan contro la Juventus, il secondo al contrario: calci di rigore in entrambi i casi, a rendere pi&ugrave; gustoso il tutto. Juve-Milan, i cambi rispetto a Manchester Nel caldo atroce di quell'estate 2003 la Juventus campione d'Italia e il Milan vincitore della Coppa Italia, oltre che della Champions League, si sfidano il 3 agosto al Giants Stadium, vicino a New York. Ricordi agrodolci di Usa '94 per due squadre nel pieno del loro splendore, specialmente i rossoneri che vinceranno lo scudetto nel 2004 e andranno a un disastroso 0-4 a La Coruna nei quarti di finale da un possibile, chiss&agrave;, bis di Champions. Il mercato ha portato pochi cambi, soprattutto nella Juventus, un po' a sorpresa. Molti i volti nuovi tra i bianconeri, uno per ruolo in realt&agrave;. In difesa c'&egrave; Legrottaglie, strappato al Chievo, in mezzo Appiah dal Brescia e davanti Miccoli reduce da una grande annata al Perugia. Nel Milan l'unica novit&agrave; &egrave; il terzino destro, uno dei migliori al mondo: &egrave; Cafu arrivato a zero dalla Roma. Per il resto il Diavolo schiera la stessa formazione titolare di Manchester, nella sera della conquista della sesta Champions, tranne Abbiati che &egrave; titolare al posto di Dida e non la sua riserva. In panchina, di nuovo, Marcello Lippi e Carlo Ancelotti. In questo non &egrave; cambiato niente. &nbsp; Errore fatale di Brocchi In un'epoca di regole ancora poco unificate per gestire la faccenda tempi supplementari, la formula di quella Supercoppa prevede il Silver Gol: ovvero chi segna per primo nel primo tempo supplementare, se non cambia poi il risultato, pu&ograve; essere dichiarato vincitore senza che si giochi il secondo extra-time. Un po' contorto, ma si &egrave; visto anche questo. La partita viste le condizioni atmosferiche &egrave; perfino bella, con momenti altamenti spettacolari ma zero finalizzazione. Nel Milan si fa male Gattuso, sostituito nell'intervallo da Ambrosini; mentre Lippi capisce che il suo 4-2-3-1 &egrave; da riequilibrare mettendo Camoranesi per Miccoli. Supplementari e subito traversa di Zambrotta per la Juventus. Il silver gol &egrave; a un passo dal concretizzarsi quando al 105' Tacchinardi commette fallo su Ambrosini in area, rigore che Pirlo trasforma addirittura con un cucchiaio. Sembra finita, non ci sarebbe bisogno del secondo supplementare e invece Trezeguet in mischia pareggia. Sembra destino che queste due squadre debbano andare ai rigori di nuovo e cos&igrave; accade. Stavolta la Juventus &egrave; perfetta, forse perch&eacute; manca Dida: segnano Di Vaio, Trezeguet, Birindelli, Camoranesi e Ferrara, mentre per il Milan sbaglia Brocchi. Successo dunque per la Signora, in quello che sar&agrave; l'ultimo titolo vinto in Italia da Marcello Lippi, che di l&igrave; a un anno verr&agrave; scelto come commissario tecnico della Nazionale. Ottendendo anche in azzurro discreti successi... &nbsp;       

Il 3 agosto del 2003 la Supercoppa Italiana and&ograve; ai bianconeri ai rigori, a poche settimane di distanza dal trionfo rossonero nella finale di Manchester. Fu l'ultimo titolo vinto da Lippi in Italia

Juve-Milan e quella "rivincita" dopo la Champions

        Un amante irriducibile del bel giuoco, un esteta del calcio, un collezionista di campioni. Silvio Berlusconi &egrave; stato tra i presidenti pi&ugrave; vincenti della storia, un dirigente geniale e visionario. Con lui il Milan ha avuto il privilegio e l&rsquo;onore di schierare per diverse stagioni il Pallone d&rsquo;Oro designato da France Football. Prima del suo avvento, soltanto due giocatori leggendari come Gianni Rivera e Paolo Rossi avevano avuto modo di ricevere il premio internazionale. &nbsp;Successivamente il cambio fu radicale, e la cadenza divenne quasi annuale.&nbsp; Gullit, il primo Pallone d&rsquo;Oro dell&rsquo;era Berlusconi Il primo Pallone d&rsquo;Oro dell&rsquo;era Berlusconi fu Ruud Gullit, olandese scovato nel Psv Eindhoven; aveva le treccine rasta e una grande tecnica, una potenza fisica impressionante e il numero dieci sulle spalle. Prese per mano il primo Milan di Berlusconi e lo condusse al successo; uno scudetto vinto a Napoli, contro Maradona, strappando l&rsquo;applauso degli ottantamila del San Paolo.&nbsp; L&rsquo;epopea di Marco van Basten L&rsquo;anno successivo il premio rimase a Milanello: questa volta, a essere insignito del titolo di calciatore pi&ugrave; forte del mondo fu Marco van Basten. Il club rossonero lo aveva acquistato dall&rsquo;Ajax soffiandolo alla Fiorentina di Pontello. Nella prima stagione in rossonero rimase a lungo in infermeria, giocando una manciata di partite. Ma nell&rsquo;anno di grazia 1988, il centravanti olandese si prese la scena: la vittoria della Coppa dei Campioni lo mise al pari di Gullit, il successo ottenuto con l&rsquo;Olanda agli Europei fece da spartiacque; una tripletta realizzata contro l&rsquo;Inghilterra e una rete stellare contro l&rsquo;URSS del colonnello Lobanovskyi lo spinsero sul gradino pi&ugrave; alto del podio. &Egrave; un gol che resta nella memoria, su un palcoscenico internazionale e contro un portiere - Dasayev - ritenuto in quel momento tra i pi&ugrave; forti in assoluto. Lungo cross dalla sinistra di M&uuml;hren, tiro al volo di destro e palla all&rsquo;incrocio dei pali. Una parabola mirabolante, un gol geniale - da sognatore-visionario - proprio come il suo presidente. L&rsquo;anno dopo - 1989 - il Pallone d&rsquo;Oro resta nella bacheca di casa Van Basten: il Milan vince ancora la Coppa dei Campioni, il centravanti ruba il cuore dei milanisti e mette Berlusconi di fronte a un bivio: &ldquo;O me, o Sacchi&rdquo;. E il presidente sceglie il suo prediletto.&nbsp;Marco van Basten &egrave; un attaccante che nasce una volta ogni mezzo secolo; &egrave; agile, tecnico, rapido, e soprattutto segna in tutti i modi: calcia indistintamente con entrambi i piedi, &egrave; dominante nel gioco aereo, ed &egrave; straordinario in acrobazia. Non &egrave; un caso che nel 1992 l&rsquo;editore di France Football torni a bussare alla sua porta: &ldquo;Dovremmo consegnarle un altro Pallone d&rsquo;Oro&rdquo;.  Weah e Shevchenko, il Pallone d&rsquo;Oro torna a Milanello Il Cigno di Utrecht esce di scena per un infortunio alla caviglia, ma il Milan ha gi&agrave; il sostituto pronto: si chiama George Weah, viene dalla Liberia e diventer&agrave; il primo calciatore africano a vincere il Pallone d&rsquo;Oro. &Egrave; gi&agrave; passato da Parigi dove il calcio viene visto con un certo scetticismo, da quelle parti ci sono passati pochi campioni tra cui il Principe uruguagio Enzo Francescoli. George Weah &egrave; diametralmente opposto a Marco van Basten, ma ugualmente decisivo; ha il passo felpato di un felino, lo scatto bruciante di una pantera e una potenza fisica fuori dal comune. &Egrave; un attaccante che lascia il segno, ha un&rsquo;intelligenza unica. Appesi gli scarpini al chiodo, &egrave; entrato in politica: oggi &egrave; il Presidente della Liberia. Quando l&rsquo;attaccante africano va in Premier League, a Milanello arriva un giovane ucraino: si chiama Andriy Shevchenko, anche lui finir&agrave; nell&rsquo;elenco dei vincitori del Pallone d&rsquo;Oro. &Egrave; cresciuto nella Dinamo Kiev all&rsquo;ombra del colonnello Lobanovski, sembra un giocatore arrivato direttamente dal futuro. Sheva segna, il Milan sogna, e nella notte di Manchester torna a vincere la Champions League contro la Juventus; l&rsquo;ultimo rigore della serie lo calcia lui: &egrave; un sorso di vodka glaciale che solca le pareti dell&rsquo;anima.&nbsp; Kak&aacute; e &ldquo;gli altri&rdquo; Palloni d&rsquo;Oro del Milan Quando Shevchenko firma per il club londinese, il successivo candidato al titolo c&rsquo;&egrave; gi&agrave;; si chiama Ricardo Izecson dos Santos Leite, per i tifosi rossoneri &egrave; semplicemente Kak&aacute;.&nbsp;Di mestiere non fa il centravanti, &egrave; un centrocampista che parte da lontano, ma quando entra in area avversaria consegna una tempesta a domicilio; &egrave; rapido, veloce, intuitivo. Si inserisce sempre al momento giusto, spacca le difese, sa essere assistman, talvolta si mette in proprio e tira dritto fino alla meta. &Egrave; lui che orchestra le giocate offensive del Milan di Ancelotti, &egrave; lui che lancia Pippo Inzaghi verso la gloria nel gol del raddoppio contro il Liverpool che vale un&rsquo;altra Champions League.&nbsp;Palloni d&rsquo;Oro autoctoni e Palloni d&rsquo;Oro acquisiti; nell&rsquo;era Berlusconi il Presidentissimo rossonero ha portato a Milanello anche altri calciatori che avevano gi&agrave; vinto l&rsquo;ambito premio. &Egrave; il caso di Jean-Pierre Papin, goleador francese acquistato dall&rsquo;Olympique Marsiglia, oppure di Roberto Baggio, il pi&ugrave; grande talento italiano dell&rsquo;ultimo mezzo secolo. E poi Ronaldinho, meraviglioso fuoriclasse brasiliano, e non ultimi Rivaldo e Ronaldo, arrivati verso il tramonto della loro carriera, ma capaci di regalare meravigliosi ricordi ai tifosi milanisti.       

Da Gullit e Van Basten fino a Weah, Shevchenko e Kak&aacute;: ecco i calciatori rossoneri che hanno vinto l&rsquo;ambito premio di France Football sotto l&rsquo;egida del Presidentissimo

Berlusconi, l’amante del bel giuoco: quanti Palloni d’Oro al Milan!

        Che Berlusconi sia stato un grandissimo tifoso milanista sono i fatti di una vita a documentarlo. Superfluo, se non ridondante, andare a rievocare gli infiniti successi raccolti durante gli anni della sua presidenza, che proiettarono i rossoneri a un livello di rispetto e notoriet&agrave; planetaria mai raggiunti in passato, vissuti dal numero uno del club col trasporto e l&rsquo;entusiasmo che caratterizzavano le grandi imprese nelle quali decideva di investire energie e denaro. Furono poi numerosi, durante la sua lunga esperienza rossonera, i ricordi legati al padre che lo aveva educato al tifo milanista, rievocati anche in una lettera commossa letta alla Domenica Sportiva nel giorno in cui la squadra di Sacchi vinse lo scudetto. Perch&eacute;, allora, negli ambienti meneghini talvolta hanno trovato ascolto i pettegolezzi che vociferavano di una sua presunta passione per l&rsquo;Inter? Berlusconi e le proposte a Fraizzoli Per rispondere bisogna tornare indietro di qualche decennio, quando un ancor giovane Silvio era un rampante imprenditore che sulla consecutio tifoso-consumatore-utente televisivo aveva cominciato a ragionare. In quella fase iniziale della sua ascesa ebbe il primo approccio col mondo del calcio: non con il Milan, per&ograve;, ma con i nerazzurri del presidente Ivanoe Fraizzoli, imprenditore tessile che era a capo del club dal 1968. Correva l&rsquo;anno 1972 e, grazie ai contatti preliminari avuto con Peppino Prisco, Berlusconi incontr&ograve; il presidente interista per parlargli del suo interesse all&rsquo;acquisto e dei suoi progetti, che gi&agrave; da allora pare che vertessero sul binomio calcio-televisione. In quel frangente Fraizzoli respinse l&rsquo;interesse, considerando quel possibile successore &ldquo;tropp giuvin&rdquo; per poter assumere un ruolo cos&igrave; rilevante. Nel 1982 (in quel primo colloquio sembra che il presidente avesse dato appuntamento al non ancora Cavaliere proprio di l&igrave; a dieci anni) Berlusconi torn&ograve; alla carica ma questa volta, a non convincere Fraizzoli, fu proprio la fede calcistica: vendere l&rsquo;Inter a un milanista non rientrava nei criteri sportivi e sentimentali di un uomo evidentemente legato a stilemi che il tempo stava andando inesorabilmente a cancellare. Un episodio dirimente ed emblematico nella storia del futuro Presidente del Consiglio, che da una parte ne metteva in evidenza la spregiudicatezza imprenditoriale e, dall&rsquo;altra, testimoniava la sua fede milanista. Viene naturale domandarsi il perch&eacute; di questa ostinazione nell&rsquo;approcciare l&rsquo;Inter da parte di un provato tifoso rossonero come Berlusconi. Per rispondere sembrerebbe necessario dar credito a coloro che raccontavano di un uomo preoccupato per la premonizione di un veggente di fiducia, che gli aveva confidato che acquistare il Milan avrebbe portato sfortuna.  Sulle tracce dell&rsquo;Inter Realisticamente, quindi, le tracce nerazzurre nella vita di Berlusconi vanno piuttosto trovate nella fede calcistica di alcuni dei suoi pi&ugrave; stretti collaboratori: Michele Persechini, il suo cuoco, era interista proprio come l&rsquo;autista personale e l&rsquo;avvocato Dotti, legale della Finivest fino al 1996. Qualcuno ha riferito che in giovent&ugrave; anche il fratello Paolo avesse simpatie per i cugini. E lo stesso Silvio non ha mai negato la sua benevolenza verso l&rsquo;Inter in quanto squadra di Milano, citt&agrave; alla quale l&rsquo;ex premier era profondamente legato. Ma la storia che Berlusconi fosse interista va relegata nell&rsquo;ambito delle barzellette che a lui stesso piaceva raccontare. Sicuramente tra le meno spassose.&nbsp; &nbsp;&nbsp;       

Prima di acquistare il Milan, l&rsquo;ex premier aveva avvicinato il presidente nerazzurro Ivanoe Fraizzoli per acquistare il club. Ecco il racconto di una storia mai iniziata

Inter-Berlusconi, storia di un matrimonio che non s’aveva da fare

        Berlusconi e il Milan: una storia enciclopedica, fatta di tanti volumi, tutti prestigiosi e connotati da pagine indelebili. Non soltanto per i trionfi, nell&rsquo;ambito nazionale come in quello europeo, ma anche per aver letteralmente stravolto l&rsquo;ambito manageriale del calcio italiano, che prima del suo avvento al vertice della dirigenza rossonera era caratterizzato da logiche tradizionali, eccessivamente conservatrici, in qualche caso vetuste: basta pensare che erano soltanto i capitali a disposizione a differenziare i club metropolitani da quelli cosiddetti provinciali. Tra le &ldquo;opere&rdquo; - in quest&rsquo;ambito senza omissioni - di Berlusconi a livello dirigenziale merita una menzione speciale quella di aver letteralmente &ldquo;inventato&rdquo; Fabio Capello come tecnico, dopo averne tra l&rsquo;altro tenuto a battesimo e svezzato anche le capacit&agrave; dirigenziali e il piglio organizzativo che nel corso di un&rsquo;intera carriera sarebbero poi tornati utili al Capello allenatore.  La vita dopo il calcio giocato di Capello &nbsp; Val la pena ricordare che, dopo aver appeso gli scarpini al chiodo nel 1980, l&rsquo;ex centrocampista originario della frazione di Pieris, provincia di Gorizia, aveva gi&agrave; intrapreso il percorso di allenatore dal 1981, con le giovanili rossonere sotto la presidenza Farina. Dopo aver guidato la Berretti e la Primavera, per la stagione 1986-87 &ndash; primo anno milanista dell&rsquo;era Berlusconi &ndash; Capello viene promosso come secondo di Nils Liedholm in prima squadra e, al termine di una stagione altalenante che nel frattempo aveva portato all&rsquo;esonero del maestro svedese, &egrave; lui a guidare il Milan nello spareggio per l&rsquo;accesso in Coppa UEFA contro la Sampdoria, vinto dai rossoneri grazie a un gol di Massaro. Dopo quell&rsquo;esperienza, Capello su indicazione di Berlusconi in persona acquisisce una preparazione in ambito aziendale e diventa dirigente della Polisportiva &ldquo;Mediolanum&rdquo;, con la sovrintendenza in varie discipline, tra le quali l&rsquo;hockey su ghiaccio, il baseball, la pallavolo e il rugby. Anni caratterizzati dall&rsquo;acquisizione di una professionalit&agrave; ampia e variegata, anche in ambito comunicativo, fino alla fatidica estate del 1991, quando Silvio Berlusconi, affidandosi al suo fiuto e scommettendo un po&rsquo; anche con se stesso, lo restituisce al mestiere di allenatore al massimo livello possibile: gli affida la guida di un Milan divenuto nel frattempo stellare e che aveva gi&agrave; vinto tutto con Arrigo Sacchi. &nbsp; Il miracolo di Capello: gli Invincibili  Un gruppo che il Vate di Fusignano, divenuto nel frattempo CT della Nazionale, aveva giudicato ormai spremuto e il cui ciclo sembrava terminato. Con il calcio pragmatico di Capello e grazie al suo relativismo tattico quello stesso Milan, con pochi e mirati avvicendamenti, vincer&agrave; quattro scudetti tra il &lsquo;92 e il &lsquo;96; tre Supercoppe italiane in sequenza dal &lsquo;92 al &lsquo;94; la Champions League e la Supercoppa Europea nel &lsquo;94. Nell&rsquo;estate del 1996 Capello accetta l&rsquo;offerta di Lorenzo Sanz per diventare tecnico del Real Madrid, club con il quale vince al primo colpo la Liga, il che non lo salva dai contrasti con il patron delle Merengues. Al Real torner&agrave; nel 2006, dopo aver guidato nel frattempo la Roma dal 1999 al 2004 (Campione d&rsquo;Italia 2001) e la Juventus degli scudetti revocati a causa di Calciopoli. Sar&agrave; poi CT di Inghilterra e Russia e guider&agrave; lo Jiangsu Zuqiu Julebu di Nanchino, chiudendo la sua parabola da tecnico nel 2018. Tornando a quell&rsquo;estate del 1996, per&ograve;, appena divenuto Campione di Spagna con il Real, Capello accetta di nuovo la panchina del Milan, per un&rsquo;annata che si riveler&agrave; sofferta e accidentata ma&hellip; &laquo;La mia avventura al Real Madrid fin&igrave; con una telefonata di Berlusconi che mi chiese di tornare ad allenare il Milan. A lui dovevo tutto e non potevo dirgli di no&raquo;.       

Dopo aver salvato la prima stagione da presidente del Cavaliere, fu proprio Silvio a suggerire all&rsquo;allenatore di Pieris un percorso di crescita professionale

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