Gianni Rivera, Golden Boy del calcio rossonero e azzurro

Gianni Rivera, Golden Boy del calcio rossonero e azzurro

L’artista del calcio compie 80 anni e con lui tutto il movimento sportivo italiano si guarda allo specchio: dai trionfi col Milan, le sfide dialettiche con Brera fino all’inventarsi dirigente e politico

Paolo Marcacci/Edipress

18.08.2023 ( Aggiornata il 18.08.2023 07:06 )

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Pochi nomi come il suo hanno cucito decenni di storia del dopoguerra, anche oltre quel rettangolo di gioco all’interno del quale gli riuscì sempre di restare se stesso, dalle partitelle all’oratorio Don Bosco di Alessandria Fino alle finali di Coppa dei Campioni, due, che vinse da protagonista e a quella di Coppa del Mondo all’Azteca di Città del Messico, nel 1970, che perse contro il Brasile ma disputando soltanto i sei minuti finali.

 

Rivera, calciatore e dirigente

 

Il traguardo degli ottant’anni di Gianni Rivera porta con sé aneddoti e riflessioni che intersecano il costume e l’evoluzione della cultura di massa nel nostro Paese, dallo scoccare degli anni Sessanta fino quasi all’affacciarsi degli Ottanta. Parlandone solo da calciatore, ovviamente, perché poi c’è stato il Rivera dirigente, evolutosi presto in politico, attitudine quest’ultima che aveva sviluppato già durante la carriera calcistica, con prese di posizione coraggiose e autorevoli, per esempio sulla questione arbitrale, che testimoniano lo spessore intellettivo di un uomo che in seguito si sarebbe impegnato a far crescere anche la sua dimensione intellettuale, come non era riuscito a fare durante la sua lunga carriera. Lo aveva detto, del resto, durante una celeberrima intervista rilasciata a Oriana Fallaci: il suo rammarico era, all’epoca, quello di non aver potuto studiare abbastanza, di non aver avuto il tempo di coltivare la crescita del sapere in ogni ambito. Per un calciatore come era lui all’epoca, prima metà degli anni Sessanta, un atteggiamento da marziano.

Rivera nella cultura popolare

 

Sembra di sentirle, le note dolenti e delicate di “Vincenzina e la fabbrica” di Enzo Jannacci, che poi fu anche colonna sonora di “Romanzo popolare” di Mario Monicelli, con Ugo Tognazzi e una giovanissima Ornella Muti nei panni di Vincenzina: “Zero a zero anche ieri ‘sto Milan qui, ‘sto Rivera che ormai non mi segna più…“; così come potremmo citare un riccioluto Diego Abatantuono che, qualche anno più tardi, nei panni del Ras della Fossa in “Eccezzziunale veramente” arringa i suoi adepti in un Milan club raccontando una parabola in cui Dio affida a Rivera il compito di diffondere per il mondo il gioco del calcio. Non solo riferimenti nazional-popolari, tra l’altro, perché il modo di giocare di Rivera era stato anche fonte di ispirazione per un poeta come Alfonso Gatto, che aveva il suo poster nello studio. Tutto ciò che è sublime, tra le varie arti individua contatti, non confini. Punti di passaggio, come era nella specificità di Rivera quando con naturalezza mandava in porta un compagno.

 

Rivera e il calcio in rossonero

 

Sublime, dicevamo, il calciatore, soprattutto negli ultimi trenta metri: compostezza e illuminazioni geniali, mentre l’espressione restava imperturbabile, come se la concitazione e il clamore attorno non lo riguardassero: la finta improvvisa, l’arresto e il cambio di direzione, il lancio millimetrico a media o lunga gittata, poi ovviamente la capacità di battere a rete, con lucidità e precisione, dalla rete del quattro a tre contro i tedeschi dell’Ovest in giù, quando con la perizia di un chirurgo s’era fatto trovare da Boninsegna per raccogliere il passaggio da sinistra nel cuore dell’area e incidere con il bisturi dell’interno destro il diagonale verso il palo più lontano, fino a tutti i gol segnati in una carriera iniziata coi vagiti del boom economico e terminata in piena lotta al terrorismo, vincendo con il Milan lo scudetto del 1979, quello della Stella rossonera. Diciannove anni prima era iniziata la sua avventura con la maglia rossonera: nessuno pensava che quel ragazzino dalla erre leggermente arrotata e dal fisico minuto potesse assurgere a fuoriclasse di livello assoluto e nutrire dei suoi record a livello personale la bacheca del Milan, ma nel corso di quegli anni, in un calcio con molte meno partite in Italia e in Europa, Rivera in rossonero ha messo insieme 658 presenze e 164 gol, vincendo tre scudetti, quattro Coppe Italia, due Coppe delle Coppe, due Coppe dei Campioni - una nel ‘63 contro il Benfica del già celebre Eusébio, l’altra nel ‘69 contro l’Ajax di un Cruijff emergente - e una Coppa Intercontinentale. È stato il primo italiano a vincere il Pallone d’Oro nel 1969, con la motivazione della giuria che fu quasi più onorevole del premio stesso, perché Rivera venne definito “artista del calcio”. Quando alzò il trofeo verso il cielo sopra San Siro, era già diventato il Golden Boy del calcio italiano, uno dei due soprannomi che lo avrebbero accompagnato e che ancora oggi corredano la sua storia calcistica. L’altro, fu scelto da Gianni Brera in persona per pungolarlo ed evidenziarne qualche limite atletico e agonistico: “abatino”, a voler significare che ai preziosismi tecnici del fuoriclasse milanista facevano da contraltare ritmi di gioco spesso compassati e qualche leziosismo di troppo. La miglior risposta a Brera fu quella di Nereo Rocco, secondo padre oltre che allenatore, il quale precisò che la creatività di Rivera offriva alla squadra un contributo tale da non dover sottostare a vincoli dettati dal ritmo o dall’intensità.

Rivera e l’azzurro

 

Con la Nazionale italiana, al netto delle quattro Coppe del Mondo disputate dal 1962 al 1974, delle sessanta presenze e delle quattordici reti, potremmo dire che Rivera ha avuto un rapporto in parte controverso, segnato dal dualismo con Sandro Mazzola soprattutto nel ’70 in Messico e da gestioni tecniche, a cominciare da quella di Ferruccio Valcareggi, che non sempre hanno messo al centro del progetto azzurro le sue qualità. Sono le criticità che debbono attraversare i predestinati per dimostrare di essere tali e sul fatto che Rivera lo fosse, sin dalla nascita, lo dimostra che non molto tempo dopo aver visto la luce fu battezzato da professionista: il 2 giugno 1959, quindicenne, aveva debuttato in Serie A con l’Alessandria, contro l’Inter, futura avversaria di vent’anni di derby, più o meno. «Alla sua età, le cose che sa fare lui nemmeno le sognavo»: così si era espresso, dopo averlo visto giocare con le giovanili del club piemontese, un certo Silvio Piola.

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