L&rsquo;11 giugno del 1989 allo Stadio Tardini di Parma va in scena uno scialbissimo pareggio senza reti, nel match valido per la 37esima gara del campionato di Serie B. I padroni di casa galleggiano a met&agrave; classifica, al termine di una stagione anonima in cui hanno ottenuto ben 21 pareggi. Ecco, se in quel lontano e afoso pomeriggio di inizio estate qualcuno avesse detto ad un qualsiasi tifoso del Parma che meno di tre anni dopo la sua squadra del cuore avrebbe vinto il suo primo trofeo contro la Juventus, sarebbe stato preso per pazzo. Eppure &egrave; andata proprio cos&igrave;, anche se per arrivare alla vittoria della Coppa Italia del 1992, bisogna fare qualche passo indietro. <h2>Il capolavoro di Scala</h2> Nell&rsquo;estate del 1989 Ernesto Ceresini decide di fare l&rsquo;ultimo regalo al suo Parma e alla sua gente.&nbsp;Affida la panchina a Nevio Scala, fresco reduce di una grande cavalcata verso la Serie A della sua Reggina, conclusasi sfortunatamente ai calci di rigore nello spareggio contro la Cremonese.&nbsp;A disposizione del tecnico padovano arrivano Zoratto, Ganz, Catanese e Pizzi, tutti interpreti che si riveleranno fondamentali. Il presidente se ne andr&agrave; a febbraio, non riuscendo purtroppo a vedere i risultati dei suoi ultimi sforzi.&nbsp; Con quella squadra i ducali salgono infatti subito in Serie A, conquistando la possibilit&agrave; di giocare nel nostro massimo campionato per la prima volta in quasi ottant&rsquo;anni di storia. Al termine di quella stagione arriva un&rsquo;ulteriore ottima notizia: la societ&agrave; viene acquistata dalla Parmalat di Calisto Tanzi, uno degli imprenditori pi&ugrave; importanti d&rsquo;Italia, che far&agrave; vivere ai giallobl&ugrave; i momenti pi&ugrave; gloriosi della storia del club. Grazie a ottimi investimenti sul mercato, il Parma diventa una vera e propria corazzata, piazzandosi al sesto posto nella sua stagione d&rsquo;esordio in Serie A. &Egrave; un risultato eclatante, che vale ai ducali l&rsquo;accesso alla Coppa Uefa.&nbsp; <h2></h2> <h2>Il cammino in Coppa Italia</h2> Ma &egrave; l&rsquo;anno successivo che la squadra emiliana alza il suo primo trofeo, dopo un entusiasmante cammino in Coppa Italia. Cammino che inizia da molto lontano, il 28 agosto del 1991 per l&rsquo;esattezza, quando i ducali affrontano il Palermo nel 2&deg; turno del torneo. Dopo aver superato i siciliani, gli emiliani archiviano Fiorentina, Genoa e Sampdoria, rispettivamente agli ottavi, quarti e in semifinale. Dall&rsquo;altra parte del tabellone approda in finale l&rsquo;avversario pi&ugrave; ostico che si possa incontrare, la Vecchia Signora del calcio italiano: la Juventus del Trap.&nbsp; <h2>La finale ed il trionfo&nbsp;</h2> Nel 1992 la Coppa Italia segue ancora la vecchia formula secondo la quale anche la finale si assegna con un doppio confronto. Il primo incontro si disputa il 7 maggio del 1992 allo Stadio delle Alpi: il sogno giallobl&ugrave; sembra infrangersi contro la corazzata juventina quando al 23&rsquo; della prima frazione Roberto Baggio trasforma un penalty portando i suoi sull&rsquo;1-0. La partita termina con questo risultato, in attesa del ritorno del Tardini, che si gioca il 14 maggio, appena una settimana dopo. Trapattoni sceglie di giocarsi questi secondi 90 minuti con un atteggiamento iperdifensivo, preoccupandosi pi&ugrave; di tamponare le sortite parmensi che di creare gioco. La strategia si riveler&agrave; fallimentare: i ducali, spinti dal pubblico di casa, giocano una partita eccezionale sotto il punto di vista qualitativo e quantitativo. Benarrivo e Di Chiara imperversano continuamente in avanti, Cuoghi e Brolin sono due spine nel fianco della retroguardia bianconera. La Juve gioca palesemente per lo 0-0, e il forcing giallobl&ugrave; si infrange spesso contro Angelo Peruzzi, portierone bianconero a cui si aggrappano gli juventini in pi&ugrave; di un&rsquo;occasione. Alla fine del primo tempo arriva per&ograve; la svolta: Osio serve Melli che solo in area di rigore insacca in rete con un ottimo colpo di testa, portando il Parma in vantaggio e pareggiando il risultato dell&rsquo;andata. Il Tardini esplode, il popolo giallobl&ugrave; ci crede. Con il gol del Parma la partita si sblocca, e i bianconeri, costretti a non accontentarsi pi&ugrave; del pari, iniziano a farsi vedere dalle parti di Ballotta, ravvivando il match. I ragazzi di Scala accettano la sfida, giocano a viso aperto e poco prima del ventesimo del secondo tempo raddoppiano: Melli, Cuoghi e Osio confezionano un&rsquo;azione deliziosa che porta quest&rsquo;ultimo ad insaccare con un gran mancino. &Egrave; l&rsquo;inizio della festa al Tardini che, trepidante d&rsquo;attesa, vivr&agrave; una vera e propria apoteosi al fischio finale. Il Parma si porta a casa il suo primo storico trofeo nazionale, contro la squadra che ne ha vinti di pi&ugrave; in assoluto.&nbsp; Se adesso qualcuno tornasse da quel tifoso presente al Tardini l&rsquo;11 giugno del 1989, e gli dicesse che quella sar&agrave; non solo la prima, ma anche la &ldquo;meno prestigiosa&rdquo; delle coppe che il Parma sfogger&agrave; in bacheca di l&igrave; a qualche anno, questa volta probabilmente ci crederebbe.&nbsp; <h2>Parma-Juventus 2-0 del 14 maggio 1992: il tabellino</h2> PARMA:&nbsp;Ballotta, Benarrivo, Di Chiara, Minotti, Apolloni, Grun, Melli, (40&rsquo; st Agostini), Zoratto I, Osio, (40&rsquo; st Pulga), Cuoghi, Brolin. A DISP.: Taffarel, Nava, Catanese. ALL.: Scala JUVENTUS:&nbsp;Peruzzi, Luppi, Marocchi, De Agostini L., (28&rsquo; st Conte I), Kohler, Carrera, (21&rsquo; st Di Canio), Galia, Reuter, Schillaci, Baggio, Casiraghi. A DISP.: Tacconi, Alessio, Corini. ALL.: Trapattoni ARBITRO: Baldas (Trieste). &nbsp;MARCATORI:&nbsp;45&rsquo; Melli , 16&rsquo; st Osio. <h2></h2>

        L&rsquo;11 giugno del 1989 allo Stadio Tardini di Parma va in scena uno scialbissimo pareggio senza reti, nel match valido per la 37esima gara del campionato di Serie B. I padroni di casa galleggiano a met&agrave; classifica, al termine di una stagione anonima in cui hanno ottenuto ben 21 pareggi. Ecco, se in quel lontano e afoso pomeriggio di inizio estate qualcuno avesse detto ad un qualsiasi tifoso del Parma che meno di tre anni dopo la sua squadra del cuore avrebbe vinto il suo primo trofeo contro la Juventus, sarebbe stato preso per pazzo. Eppure &egrave; andata proprio cos&igrave;, anche se per arrivare alla vittoria della Coppa Italia del 1992, bisogna fare qualche passo indietro. Il capolavoro di Scala Nell&rsquo;estate del 1989 Ernesto Ceresini decide di fare l&rsquo;ultimo regalo al suo Parma e alla sua gente.&nbsp;Affida la panchina a Nevio Scala, fresco reduce di una grande cavalcata verso la Serie A della sua Reggina, conclusasi sfortunatamente ai calci di rigore nello spareggio contro la Cremonese.&nbsp;A disposizione del tecnico padovano arrivano Zoratto, Ganz, Catanese e Pizzi, tutti interpreti che si riveleranno fondamentali. Il presidente se ne andr&agrave; a febbraio, non riuscendo purtroppo a vedere i risultati dei suoi ultimi sforzi.&nbsp; Con quella squadra i ducali salgono infatti subito in Serie A, conquistando la possibilit&agrave; di giocare nel nostro massimo campionato per la prima volta in quasi ottant&rsquo;anni di storia. Al termine di quella stagione arriva un&rsquo;ulteriore ottima notizia: la societ&agrave; viene acquistata dalla Parmalat di Calisto Tanzi, uno degli imprenditori pi&ugrave; importanti d&rsquo;Italia, che far&agrave; vivere ai giallobl&ugrave; i momenti pi&ugrave; gloriosi della storia del club. Grazie a ottimi investimenti sul mercato, il Parma diventa una vera e propria corazzata, piazzandosi al sesto posto nella sua stagione d&rsquo;esordio in Serie A. &Egrave; un risultato eclatante, che vale ai ducali l&rsquo;accesso alla Coppa Uefa.&nbsp;  Il cammino in Coppa Italia Ma &egrave; l&rsquo;anno successivo che la squadra emiliana alza il suo primo trofeo, dopo un entusiasmante cammino in Coppa Italia. Cammino che inizia da molto lontano, il 28 agosto del 1991 per l&rsquo;esattezza, quando i ducali affrontano il Palermo nel 2&deg; turno del torneo. Dopo aver superato i siciliani, gli emiliani archiviano Fiorentina, Genoa e Sampdoria, rispettivamente agli ottavi, quarti e in semifinale. Dall&rsquo;altra parte del tabellone approda in finale l&rsquo;avversario pi&ugrave; ostico che si possa incontrare, la Vecchia Signora del calcio italiano: la Juventus del Trap.&nbsp; La finale ed il trionfo&nbsp; Nel 1992 la Coppa Italia segue ancora la vecchia formula secondo la quale anche la finale si assegna con un doppio confronto. Il primo incontro si disputa il 7 maggio del 1992 allo Stadio delle Alpi: il sogno giallobl&ugrave; sembra infrangersi contro la corazzata juventina quando al 23&rsquo; della prima frazione Roberto Baggio trasforma un penalty portando i suoi sull&rsquo;1-0. La partita termina con questo risultato, in attesa del ritorno del Tardini, che si gioca il 14 maggio, appena una settimana dopo. Trapattoni sceglie di giocarsi questi secondi 90 minuti con un atteggiamento iperdifensivo, preoccupandosi pi&ugrave; di tamponare le sortite parmensi che di creare gioco. La strategia si riveler&agrave; fallimentare: i ducali, spinti dal pubblico di casa, giocano una partita eccezionale sotto il punto di vista qualitativo e quantitativo. Benarrivo e Di Chiara imperversano continuamente in avanti, Cuoghi e Brolin sono due spine nel fianco della retroguardia bianconera. La Juve gioca palesemente per lo 0-0, e il forcing giallobl&ugrave; si infrange spesso contro Angelo Peruzzi, portierone bianconero a cui si aggrappano gli juventini in pi&ugrave; di un&rsquo;occasione. Alla fine del primo tempo arriva per&ograve; la svolta: Osio serve Melli che solo in area di rigore insacca in rete con un ottimo colpo di testa, portando il Parma in vantaggio e pareggiando il risultato dell&rsquo;andata. Il Tardini esplode, il popolo giallobl&ugrave; ci crede. Con il gol del Parma la partita si sblocca, e i bianconeri, costretti a non accontentarsi pi&ugrave; del pari, iniziano a farsi vedere dalle parti di Ballotta, ravvivando il match. I ragazzi di Scala accettano la sfida, giocano a viso aperto e poco prima del ventesimo del secondo tempo raddoppiano: Melli, Cuoghi e Osio confezionano un&rsquo;azione deliziosa che porta quest&rsquo;ultimo ad insaccare con un gran mancino. &Egrave; l&rsquo;inizio della festa al Tardini che, trepidante d&rsquo;attesa, vivr&agrave; una vera e propria apoteosi al fischio finale. Il Parma si porta a casa il suo primo storico trofeo nazionale, contro la squadra che ne ha vinti di pi&ugrave; in assoluto.&nbsp; Se adesso qualcuno tornasse da quel tifoso presente al Tardini l&rsquo;11 giugno del 1989, e gli dicesse che quella sar&agrave; non solo la prima, ma anche la &ldquo;meno prestigiosa&rdquo; delle coppe che il Parma sfogger&agrave; in bacheca di l&igrave; a qualche anno, questa volta probabilmente ci crederebbe.&nbsp;  Parma-Juventus 2-0 del 14 maggio 1992: il tabellino PARMA:&nbsp;Ballotta, Benarrivo, Di Chiara, Minotti, Apolloni, Grun, Melli, (40&rsquo; st Agostini), Zoratto I, Osio, (40&rsquo; st Pulga), Cuoghi, Brolin. A DISP.: Taffarel, Nava, Catanese. ALL.: Scala JUVENTUS:&nbsp;Peruzzi, Luppi, Marocchi, De Agostini L., (28&rsquo; st Conte I), Kohler, Carrera, (21&rsquo; st Di Canio), Galia, Reuter, Schillaci, Baggio, Casiraghi. A DISP.: Tacconi, Alessio, Corini. ALL.: Trapattoni ARBITRO: Baldas (Trieste). &nbsp;MARCATORI:&nbsp;45&rsquo; Melli , 16&rsquo; st Osio.         

Per i ducali fu il primo di una lunga serie di trofei. La squadra dell&rsquo;allenatore padovano super&ograve; la Juve del Trap per 2-0 nella finale di ritorno, ribaltando il risultato dell&rsquo;andata

14 maggio 1992, il Parma di Nevio Scala vince la Coppa Italia

Anche l&rsquo;edizione della Coppa Italia 1964-65 ha visto nel suo atto finale sfidarsi Juve e Inter. Non &egrave; la prima volta che un Derby d&rsquo;Italia assegna la coppa nazionale: qualche anno prima infatti, nel 1959, Inter e Juve si incontrarono e a sfangarla furono sempre i bianconeri.&nbsp;&Egrave; il 29 agosto del 1965. L&rsquo;Italia sportiva a dire il vero &egrave; concentrata su un altro evento: la disastrosa caduta a Robbiano dei nostri migliori ciclisti, nella penultima gara di preparazione per i mondiali. Gimondi, Taccone e Adorni ne escono infortunati, gettando nello sconforto milioni di appassionati in un tempo in cui il ciclismo era il primo, autentico sport nazionale, in grado di oscurare anche gli accadimenti calcistici. <o:p></o:p> <h2>Heriberto contro Helenio<o:p></o:p></h2> La partita viene giocata a Roma, in uno Stadio Olimpico dove accorrono circa 50.000 spettatori, per lo pi&ugrave; tifosi del sud Italia, nonostante qualche polemica dell&rsquo;ultima ora da parte dei due club, che avrebbero senza dubbio preferito una location pi&ugrave; vicina. La sfida sulle panchine vede confrontarsi i due omonimi Herrera che non potrebbero venire da momenti pi&ugrave; diversi. Helenio, tecnico dell&rsquo;Inter, nell&rsquo;ultima stagione ha trionfato in tutte le competizioni che ha disputato: campionato, Coppa dei Campioni e Coppa Intercontinentale; la Coppa Italia sarebbe la ciliegina sulla torta che anticiperebbe quel record arrivato solamente nel 2010. Heriberto dall&rsquo;altra parte, tecnico che godeva di una certa antipatia da parte dell&rsquo;ambiente e della stampa, sino a quel momento poteva fregiarsi di ben pochi meriti, anzi. &Egrave; proprio l&rsquo;inflessibile e rigido allenatore paraguaiano che rompe con l&rsquo;istrionico Sivori, allontanando il Cabez&oacute;n dalla Juventus e facendolo accasare a Napoli, lasciando interdetti tutti i tifosi juventini. La vittoria della Coppa servirebbe a entrambi, a Heriberto per far ricredere chi lo considera un visionario, e a Helenio per far tacere tutte quelle polemiche nate dopo la disastrosa amichevole di Barcellona della settimana precedente, dove l&rsquo;Inter &egrave; uscita sconfitta in malo modo. <o:p></o:p> <h2>La vittoria di Menichelli, romano e bianconero<o:p></o:p></h2> La Grande Inter, forse appagata dalle numerose vittorie, scende in campo senza il piglio delle grandi occasioni, lasciando ai bianconeri il pallino del gioco, soprattutto a centrocampo. La Juventus dal canto suo, orfana di Sivori, fa del gioco corale il suo punto di forza, non fa spiccare nessuna individualit&agrave; e i suoi attaccanti, lenti e lontani dalla manovra, ne sono l&rsquo;esempio pi&ugrave; lampante. Il vantaggio degli uomini di Heriberto viene infatti dal centrocampo: Del Sol imbuca Menichelli ma la palla &egrave; lunga e finisce tranquillamente tra le braccia di Sarti che, sfortunatamente, urta Bedin e perde la sfera. &Egrave; proprio l&rsquo;ala bianconera a gettarsi per prima sul pallone e a insaccarlo in rete, tutto questo al 15esimo minuto del primo tempo. Menichelli segna dunque nel suo vecchio stadio, lui romano, che all&rsquo;Olimpico ha tirato i primi calci al pallone da professionista alla fine degli anni &rsquo;50. L&rsquo;Inter, sfilacciata e mai davvero in partita, non riesce a impensierire i bianconeri, forti di una difesa rocciosa formata da Castano, Bercellino e Salvadore. L&rsquo;uomo pi&ugrave; ispirato della formazione juventina &egrave; senza dubbio <a href="https://www.guerinsportivo.it/news/il-cuoio/ultimo-dribbling/2022/03/16-5221891/luis_del_sol_il_primo_spagnolo_nella_storia_della_juve">Del Sol</a>, che ben coadiuvato da Cinesinho rappresenta una vera e propria spina nel fianco della difesa nerazzurra. Perlomeno fin quando al 30&rsquo; della ripresa non pensa bene di dar vita a un vero e proprio duello rusticano con Burgnich: i due vengono alle mani, vola qualche cazzotto e finiscono sotto la doccia prima del tempo. L&rsquo;ultimo quarto d&rsquo;ora vede un&rsquo;Inter pi&ugrave; aggressiva, ringalluzzita dall&rsquo;espulsione dello spagnolo, che si fa vedere con pericolosit&agrave; dalle parti di Anzolin. Alla fine l&rsquo;estremo difensore bianconero verr&agrave; salvato dal palo, che lo assiste su una conclusione di Jair che sembrava destinata a finire in rete. La partita termina cos&igrave; sull&rsquo;1-0. Il trofeo, il quinto della storia bianconera, finisce tra le grinfie di Heriberto Herrera, che si prende la sua prima, piccola rivincita su tutti i diffidenti oltre che sui suoi detrattori. <o:p></o:p>

        Anche l&rsquo;edizione della Coppa Italia 1964-65 ha visto nel suo atto finale sfidarsi Juve e Inter. Non &egrave; la prima volta che un Derby d&rsquo;Italia assegna la coppa nazionale: qualche anno prima infatti, nel 1959, Inter e Juve si incontrarono e a sfangarla furono sempre i bianconeri.&nbsp;&Egrave; il 29 agosto del 1965. L&rsquo;Italia sportiva a dire il vero &egrave; concentrata su un altro evento: la disastrosa caduta a Robbiano dei nostri migliori ciclisti, nella penultima gara di preparazione per i mondiali. Gimondi, Taccone e Adorni ne escono infortunati, gettando nello sconforto milioni di appassionati in un tempo in cui il ciclismo era il primo, autentico sport nazionale, in grado di oscurare anche gli accadimenti calcistici.  Heriberto contro Helenio La partita viene giocata a Roma, in uno Stadio Olimpico dove accorrono circa 50.000 spettatori, per lo pi&ugrave; tifosi del sud Italia, nonostante qualche polemica dell&rsquo;ultima ora da parte dei due club, che avrebbero senza dubbio preferito una location pi&ugrave; vicina. La sfida sulle panchine vede confrontarsi i due omonimi Herrera che non potrebbero venire da momenti pi&ugrave; diversi. Helenio, tecnico dell&rsquo;Inter, nell&rsquo;ultima stagione ha trionfato in tutte le competizioni che ha disputato: campionato, Coppa dei Campioni e Coppa Intercontinentale; la Coppa Italia sarebbe la ciliegina sulla torta che anticiperebbe quel record arrivato solamente nel 2010. Heriberto dall&rsquo;altra parte, tecnico che godeva di una certa antipatia da parte dell&rsquo;ambiente e della stampa, sino a quel momento poteva fregiarsi di ben pochi meriti, anzi. &Egrave; proprio l&rsquo;inflessibile e rigido allenatore paraguaiano che rompe con l&rsquo;istrionico Sivori, allontanando il Cabez&oacute;n dalla Juventus e facendolo accasare a Napoli, lasciando interdetti tutti i tifosi juventini. La vittoria della Coppa servirebbe a entrambi, a Heriberto per far ricredere chi lo considera un visionario, e a Helenio per far tacere tutte quelle polemiche nate dopo la disastrosa amichevole di Barcellona della settimana precedente, dove l&rsquo;Inter &egrave; uscita sconfitta in malo modo.  La vittoria di Menichelli, romano e bianconero La Grande Inter, forse appagata dalle numerose vittorie, scende in campo senza il piglio delle grandi occasioni, lasciando ai bianconeri il pallino del gioco, soprattutto a centrocampo. La Juventus dal canto suo, orfana di Sivori, fa del gioco corale il suo punto di forza, non fa spiccare nessuna individualit&agrave; e i suoi attaccanti, lenti e lontani dalla manovra, ne sono l&rsquo;esempio pi&ugrave; lampante. Il vantaggio degli uomini di Heriberto viene infatti dal centrocampo: Del Sol imbuca Menichelli ma la palla &egrave; lunga e finisce tranquillamente tra le braccia di Sarti che, sfortunatamente, urta Bedin e perde la sfera. &Egrave; proprio l&rsquo;ala bianconera a gettarsi per prima sul pallone e a insaccarlo in rete, tutto questo al 15esimo minuto del primo tempo. Menichelli segna dunque nel suo vecchio stadio, lui romano, che all&rsquo;Olimpico ha tirato i primi calci al pallone da professionista alla fine degli anni &rsquo;50. L&rsquo;Inter, sfilacciata e mai davvero in partita, non riesce a impensierire i bianconeri, forti di una difesa rocciosa formata da Castano, Bercellino e Salvadore. L&rsquo;uomo pi&ugrave; ispirato della formazione juventina &egrave; senza dubbio Del Sol, che ben coadiuvato da Cinesinho rappresenta una vera e propria spina nel fianco della difesa nerazzurra. Perlomeno fin quando al 30&rsquo; della ripresa non pensa bene di dar vita a un vero e proprio duello rusticano con Burgnich: i due vengono alle mani, vola qualche cazzotto e finiscono sotto la doccia prima del tempo. L&rsquo;ultimo quarto d&rsquo;ora vede un&rsquo;Inter pi&ugrave; aggressiva, ringalluzzita dall&rsquo;espulsione dello spagnolo, che si fa vedere con pericolosit&agrave; dalle parti di Anzolin. Alla fine l&rsquo;estremo difensore bianconero verr&agrave; salvato dal palo, che lo assiste su una conclusione di Jair che sembrava destinata a finire in rete. La partita termina cos&igrave; sull&rsquo;1-0. Il trofeo, il quinto della storia bianconera, finisce tra le grinfie di Heriberto Herrera, che si prende la sua prima, piccola rivincita su tutti i diffidenti oltre che sui suoi detrattori.        

La squadra del Mago venne sconfitta dai bianconeri grazie a un gol di Giampaolo Menichelli in uno Stadio Olimpico gremito

Juve-Inter, nel 1965 la Coppa Italia la vinse Heriberto Herrera

Come in una favola. Davanti al proprio pubblico, nel suo stadio, pochi minuti dopo essere entrato in campo. Il ricordo del primo (e unico) gol in Nazionale di Cristian Zaccardo ha tutti i connotati di una di quelle storie dal lieto fine scontato, ma che applicate al mondo del calcio sono l&rsquo;esatto contrario della banalit&agrave;. Il suo &ldquo;c&rsquo;era una volta&rdquo; da raccontare ai nipoti l&rsquo;ha scritto personalmente l&rsquo;8 ottobre del 2005, quando era un 23enne giocatore del Palermo e proprio al Renzo Barbera si giocava la partita dell&rsquo;Italia contro la Slovenia: in palio l&rsquo;accesso matematico ai Mondiali del 2006. Dopo un&rsquo;ora di gioco, con il risultato fisso sullo 0-0, il ct Marcello Lippi lo ha chiamato per dare il cambio a Gilardino (d&rsquo;altronde anche un pareggio sarebbe stato sufficiente per staccare il pass per la Germania). E poco pi&ugrave; di un quarto d&rsquo;ora dopo, al 78&rsquo;, su un cross dalla sinistra del compagno di squadra in rosanero Fabio Grosso, Zaccardo &egrave; arrivato pi&ugrave; lesto di tutti all&rsquo;appuntamento con il destino e con un tuffo di testa ha spedito il pallone alle spalle di Mavric, regalando all&rsquo;Italia la certezza della presenza ai Campionati del Mondo: "Sono ricordi fantastici. Ero ancora giovane, ma gi&agrave; giocavo in una squadra importante come lo era il Palermo dell&rsquo;epoca e facevo parte del gruppo della Nazionale. Riuscii a segnare davanti al mio pubblico un gol pesante, che diede la matematica qualificazione al Mondiale. Ricordo ancora la soddisfazione il giorno dopo nel leggere sui quotidiani 'Zaccardo porta l&rsquo;Italia ai Mondiali'. Sono delle emozioni che faranno parte di me per sempre". Pensando a quel Mondiale, quali sono i ricordi pi&ugrave; belli? "Ce ne sono tanti. Personalmente non posso non menzionare l&rsquo;esordio con il Ghana, dove ho giocato titolare. La partita pi&ugrave; bella ed emozionante invece &egrave; stata la semifinale con la Germania, mentre quella memorabile ovviamente &egrave; la finale con la Francia: una partita molto stressante, perch&eacute; tra vincere o non vincere cambia la vita. Se arrivi primo rimani nella storia, se arrivi secondo non si ricorda nessuno di te. Fortunatamente quella era la nostra serata". Quanto &egrave; stato pesante invece l&rsquo;autogol contro gli Stati Uniti? "Mi fece male, anche perch&eacute; ero partito bene, con il Ghana avevo fatto una grande partita, Lippi mi ripropose nella seconda gara del girone e quindi sulla carta ero diventato titolare. Purtroppo, la prima palla sbagliata al Mondiale ho fatto autogol. Quando capita un episodio del genere toglie un po&rsquo; di serenit&agrave;, di fiducia. &Egrave; stato un episodio sfortunato, ma la cosa che conta &egrave; che quella coppa &egrave; tornata in Italia con noi al termine di quel torneo". Quando avete capito di poter davvero vincere il Mondiale? "Dopo la partita con la Germania, senza dubbio. Giocare a Dortmund, in uno stadio caldo, in casa loro, arrivando ai supplementari e poi vincendo 2-0 in quel modo&hellip; Una libidine per tutta Italia. L&igrave; ho pensato che fosse il nostro anno. La partita in cui invece ho avuto pi&ugrave; paura di tornare a casa &egrave; stata paradossalmente quella con l&rsquo;Australia. Avevo sensazioni negative e non credevo riuscissimo a sbloccarla". Lei, Barzagli, Grosso e Barone, pi&ugrave; Toni passato alla Fiorentina l&rsquo;estate precedente. Si aspettava che il blocco Palermo potesse essere cos&igrave; numeroso in Germania? "Ci speravamo. Facevamo parte di quel gruppo, c&rsquo;erano tutti i presupposti affinch&eacute; potessimo essere in quella spedizione. Dipendeva da noi, dalle prestazioni con la maglia rosanero. Eravamo consapevoli che se avessimo continuato a giocare bene e a fare quello che sapevamo fare, ci sarebbe stata la possibilit&agrave; concreta di farci convocare. Per fortuna cos&igrave; &egrave; stato e a livello personale non potr&ograve; che essere per sempre grato a Marcello Lippi". Cosa ha significato per lei vestire la maglia azzurra? "Giocare in Nazionale &egrave; il sogno di tutti i calciatori, sentire l&rsquo;inno prima delle partite &egrave; il massimo e farlo al Mondiale &egrave; un qualcosa di irripetibile. Pi&ugrave; di quello non c&rsquo;&egrave; niente. Rappresenti 60 milioni di persone in quel momento, sai che c&rsquo;&egrave; una bella responsabilit&agrave;. Sono pressioni pesanti, ma che fai scivolare in secondo piano di fronte all&rsquo;onore di vestire la maglia azzurra, dando sempre il massimo. Poi se riesci anche a vincere, allora hai fatto il massimo. Perch&eacute; da calciatore puoi conquistare scudetti, Champions o trofei personali, ma pi&ugrave; dei Campionati del Mondo non c&rsquo;&egrave; niente&raquo;. Adesso l&rsquo;Italia torna a Palermo per giocarsi l&rsquo;accesso ai Mondiali. Che valore aggiunto pu&ograve; dare il pubblico del Barbera? &laquo;&Egrave; una tifoseria calorosa, che ti fa sentire la passione e ti d&agrave; adrenalina. Sicuramente aiuter&agrave; i nostri giocatori ad avere pi&ugrave; energia da mettere in campo. In certe situazioni sentire la loro vicinanza ti fa dare qualcosa in pi&ugrave;, anche inconsciamente magari. Ti senti responsabile per loro. Mi fa piacere che l&rsquo;Italia giochi a Palermo e ci sar&ograve; anche io in tribuna a tifare per gli azzurri". Che si aspetta da queste due partite? "Sembra scontato, ma bisogna ragionare una sfida alla volta. Prima di tutto &egrave; importante vincere con la Macedonia del Nord, e non &egrave; affatto scontato. Poi, molto probabilmente, potrebbe essere il Portogallo l&rsquo;altra finalista, penso che abbia qualcosa in pi&ugrave; rispetto alla Turchia. Si tratta di due gare secche in cui non ci sono favoriti. Passa chi sta meglio, chi ha l&rsquo;episodio fortunato ed &egrave; in serata". Darebbe qualche consiglio particolare ai giocatori di Mancini? "Di mantenere sempre alta la concentrazione. Si tratta di due finali. Ma nell&rsquo;Italia ci sono giocatori che hanno vinto l&rsquo;Europeo qualche mese fa e sanno perfettamente l&rsquo;importanza di certe sfide. Sanno che in palio c&rsquo;&egrave; una posta altissima ed &egrave; un genere di gare che hanno gi&agrave; giocato quasi tutti, quindi ne conoscono i pericoli. L&rsquo;importante &egrave; non dare niente per scontato e lasciare tutto su ogni pallone, consapevoli che da quello potrebbe dipendere l&rsquo;andare o il non andare al Mondiale. O va tutto bene o va tutto male, purtroppo non ci sono vie di mezzo. Speriamo nella prima".

        Come in una favola. Davanti al proprio pubblico, nel suo stadio, pochi minuti dopo essere entrato in campo. Il ricordo del primo (e unico) gol in Nazionale di Cristian Zaccardo ha tutti i connotati di una di quelle storie dal lieto fine scontato, ma che applicate al mondo del calcio sono l&rsquo;esatto contrario della banalit&agrave;. Il suo &ldquo;c&rsquo;era una volta&rdquo; da raccontare ai nipoti l&rsquo;ha scritto personalmente l&rsquo;8 ottobre del 2005, quando era un 23enne giocatore del Palermo e proprio al Renzo Barbera si giocava la partita dell&rsquo;Italia contro la Slovenia: in palio l&rsquo;accesso matematico ai Mondiali del 2006. Dopo un&rsquo;ora di gioco, con il risultato fisso sullo 0-0, il ct Marcello Lippi lo ha chiamato per dare il cambio a Gilardino (d&rsquo;altronde anche un pareggio sarebbe stato sufficiente per staccare il pass per la Germania). E poco pi&ugrave; di un quarto d&rsquo;ora dopo, al 78&rsquo;, su un cross dalla sinistra del compagno di squadra in rosanero Fabio Grosso, Zaccardo &egrave; arrivato pi&ugrave; lesto di tutti all&rsquo;appuntamento con il destino e con un tuffo di testa ha spedito il pallone alle spalle di Mavric, regalando all&rsquo;Italia la certezza della presenza ai Campionati del Mondo: "Sono ricordi fantastici. Ero ancora giovane, ma gi&agrave; giocavo in una squadra importante come lo era il Palermo dell&rsquo;epoca e facevo parte del gruppo della Nazionale. Riuscii a segnare davanti al mio pubblico un gol pesante, che diede la matematica qualificazione al Mondiale. Ricordo ancora la soddisfazione il giorno dopo nel leggere sui quotidiani 'Zaccardo porta l&rsquo;Italia ai Mondiali'. Sono delle emozioni che faranno parte di me per sempre". Pensando a quel Mondiale, quali sono i ricordi pi&ugrave; belli? "Ce ne sono tanti. Personalmente non posso non menzionare l&rsquo;esordio con il Ghana, dove ho giocato titolare. La partita pi&ugrave; bella ed emozionante invece &egrave; stata la semifinale con la Germania, mentre quella memorabile ovviamente &egrave; la finale con la Francia: una partita molto stressante, perch&eacute; tra vincere o non vincere cambia la vita. Se arrivi primo rimani nella storia, se arrivi secondo non si ricorda nessuno di te. Fortunatamente quella era la nostra serata". Quanto &egrave; stato pesante invece l&rsquo;autogol contro gli Stati Uniti? "Mi fece male, anche perch&eacute; ero partito bene, con il Ghana avevo fatto una grande partita, Lippi mi ripropose nella seconda gara del girone e quindi sulla carta ero diventato titolare. Purtroppo, la prima palla sbagliata al Mondiale ho fatto autogol. Quando capita un episodio del genere toglie un po&rsquo; di serenit&agrave;, di fiducia. &Egrave; stato un episodio sfortunato, ma la cosa che conta &egrave; che quella coppa &egrave; tornata in Italia con noi al termine di quel torneo". Quando avete capito di poter davvero vincere il Mondiale? "Dopo la partita con la Germania, senza dubbio. Giocare a Dortmund, in uno stadio caldo, in casa loro, arrivando ai supplementari e poi vincendo 2-0 in quel modo&hellip; Una libidine per tutta Italia. L&igrave; ho pensato che fosse il nostro anno. La partita in cui invece ho avuto pi&ugrave; paura di tornare a casa &egrave; stata paradossalmente quella con l&rsquo;Australia. Avevo sensazioni negative e non credevo riuscissimo a sbloccarla". Lei, Barzagli, Grosso e Barone, pi&ugrave; Toni passato alla Fiorentina l&rsquo;estate precedente. Si aspettava che il blocco Palermo potesse essere cos&igrave; numeroso in Germania? "Ci speravamo. Facevamo parte di quel gruppo, c&rsquo;erano tutti i presupposti affinch&eacute; potessimo essere in quella spedizione. Dipendeva da noi, dalle prestazioni con la maglia rosanero. Eravamo consapevoli che se avessimo continuato a giocare bene e a fare quello che sapevamo fare, ci sarebbe stata la possibilit&agrave; concreta di farci convocare. Per fortuna cos&igrave; &egrave; stato e a livello personale non potr&ograve; che essere per sempre grato a Marcello Lippi". Cosa ha significato per lei vestire la maglia azzurra? "Giocare in Nazionale &egrave; il sogno di tutti i calciatori, sentire l&rsquo;inno prima delle partite &egrave; il massimo e farlo al Mondiale &egrave; un qualcosa di irripetibile. Pi&ugrave; di quello non c&rsquo;&egrave; niente. Rappresenti 60 milioni di persone in quel momento, sai che c&rsquo;&egrave; una bella responsabilit&agrave;. Sono pressioni pesanti, ma che fai scivolare in secondo piano di fronte all&rsquo;onore di vestire la maglia azzurra, dando sempre il massimo. Poi se riesci anche a vincere, allora hai fatto il massimo. Perch&eacute; da calciatore puoi conquistare scudetti, Champions o trofei personali, ma pi&ugrave; dei Campionati del Mondo non c&rsquo;&egrave; niente&raquo;. Adesso l&rsquo;Italia torna a Palermo per giocarsi l&rsquo;accesso ai Mondiali. Che valore aggiunto pu&ograve; dare il pubblico del Barbera? &laquo;&Egrave; una tifoseria calorosa, che ti fa sentire la passione e ti d&agrave; adrenalina. Sicuramente aiuter&agrave; i nostri giocatori ad avere pi&ugrave; energia da mettere in campo. In certe situazioni sentire la loro vicinanza ti fa dare qualcosa in pi&ugrave;, anche inconsciamente magari. Ti senti responsabile per loro. Mi fa piacere che l&rsquo;Italia giochi a Palermo e ci sar&ograve; anche io in tribuna a tifare per gli azzurri". Che si aspetta da queste due partite? "Sembra scontato, ma bisogna ragionare una sfida alla volta. Prima di tutto &egrave; importante vincere con la Macedonia del Nord, e non &egrave; affatto scontato. Poi, molto probabilmente, potrebbe essere il Portogallo l&rsquo;altra finalista, penso che abbia qualcosa in pi&ugrave; rispetto alla Turchia. Si tratta di due gare secche in cui non ci sono favoriti. Passa chi sta meglio, chi ha l&rsquo;episodio fortunato ed &egrave; in serata". Darebbe qualche consiglio particolare ai giocatori di Mancini? "Di mantenere sempre alta la concentrazione. Si tratta di due finali. Ma nell&rsquo;Italia ci sono giocatori che hanno vinto l&rsquo;Europeo qualche mese fa e sanno perfettamente l&rsquo;importanza di certe sfide. Sanno che in palio c&rsquo;&egrave; una posta altissima ed &egrave; un genere di gare che hanno gi&agrave; giocato quasi tutti, quindi ne conoscono i pericoli. L&rsquo;importante &egrave; non dare niente per scontato e lasciare tutto su ogni pallone, consapevoli che da quello potrebbe dipendere l&rsquo;andare o il non andare al Mondiale. O va tutto bene o va tutto male, purtroppo non ci sono vie di mezzo. Speriamo nella prima".       

Intervista esclusiva all'ex difensore rosanero. Fu proprio lui contro la Slovenia al Barbera a dare la matematica qualificazione ai Mondiali 2006 grazie al suo primo e unico sigillo in maglia azzurra&nbsp;

Italia-Macedonia: Zaccardo, Palermo e un gol Mondiale: "Emozione unica"

Progettato da un&rsquo;idea di Giovan&nbsp;Battista Santangelo, l&rsquo;attuale Stadio Renzo Barbera venne inaugurato 90 anni fa, il 24 gennaio 1932 con l&rsquo;incontro tra Palermo e Atalanta, valido per il campionato di Serie B 1931-32 (5-1 per i rosanero). Il primo nome dell&rsquo;impianto che verr&agrave; intitolato al presidentissimo Renzo Barbera quattro mesi dopo la sua morte &ndash; avvenuta il 20 maggio 2002 &ndash; era &ldquo;Littorio&rdquo;&nbsp; <h2>Dal &ldquo;Ranchibile&rdquo; alla Nazionale</h2> &nbsp;Lo stadio nacque sul terreno del vecchio campo sportivo &ldquo;Ranchibile&rdquo;, ritenuto ormai inadatto. Il Littorio poteva ospitare fino a 20mila spettatori, usufruendo ancora delle sole tribune, senza le curve, mentre il campo era contornato da una pista d&rsquo;atletica. Per un periodo lo Stadio fu intitolato a Michele Marrone, centrocampista rosanero deceduto nella battaglia di Guadalajara, durante la guerra civile spagnola alla quale aveva partecipato da volontario. Terminata la seconda guerra mondiale prese la denominazione adottata poi fino al 2002, quella di Stadio La Favorita, per via della tenuta all&rsquo;interno della quale &egrave; collocato. Nel 1948 ci fu la prima grande ristrutturazione: venne definitivamente eliminata la pista di atletica leggera e furono finalmente edificate le due curve. La capienza dell&rsquo;impianto raddoppi&ograve;, passando da 20mila a 40mila unit&agrave;. In questo periodo la Favorita ospit&ograve; per la prima volta la nazionale italiana: era il 28 dicembre 1952, quando gli azzurri sconfissero per 2-0 la Svizzera. La Nazionale sarebbe tornata al Barbera in altre 14 occasioni, perdendo una sola volta.&nbsp; <a href="https://www.guerinsportivo.it/news/il-cuoio/2021/12/29-5050384/renzo_barbera_e_il_palermo_un_amore_cosi_grande">Renzo Barbera e il Palermo: un amore cos&igrave; grande</a> <h2>Un nuovo look per Italia &rsquo;90 e per l&rsquo;Europa</h2> Un altro importante restyling avvenne nel 1984, quando fu costruito il secondo anello, seguito dalle quattro torri faro. Anche se il pi&ugrave; celebre ammodernamento venne effettuato nel 1986, con Palermo scelta come una delle 12 citt&agrave; italiane che avrebbero ospitato i Mondiali del &lsquo;90. La Favorita fu stravolta nuovamente, con il rifacimento totale del secondo anello che ne diminu&igrave; leggermente la capienza, portandola a 37mila posti. Purtroppo la storia dello Stadio di Palermo passa anche per una rinomata tragedia: durante le opere di restauro in vista di Italia &rsquo;90, il 30 agosto 1989, morirono 5 addetti ai lavori. Nel Mondiale delle Notti Magiche tre sfide si giocarono a Palermo, citt&agrave; scelta per ospitare il gruppo F, composto da Inghilterra, Egitto, Paesi Bassi e Irlanda. Le ultime e pi&ugrave; moderne restaurazioni avvennero in concomitanza dell&rsquo;esplosione del Palermo di Zamparini, che nel 2005 si qualific&ograve; per la prima volta alla Coppa Uefa. Per l&rsquo;occasione &egrave; stato costruito un nuovo settore ospiti &ndash; chiamato anche &ldquo;la gabbia&rdquo;, viste le reti e le pareti in vetro antintrusione che lo circondano &ndash;, mentre nel 2010, sempre in ottemperanza alle norme Uefa, sono stati inseriti i maxischermi nelle curve.&nbsp; <h2>I settori del Barbera&nbsp;</h2> Lo Stadio &egrave; oggi diviso in 5 settori: le due curve, Nord &ndash; la vecchia Curva Mondello, dove pullula il cuore del tifo organizzato rosanero &ndash; e Sud; Tribuna Montepellegrino, anche nota come Gradinata; Tribuna coperta, unico settore dello stadio con tale caratteristica; Settore ospiti, collocato tra la Sud e la Montepellegrino. Il Barbera &egrave; propriet&agrave; del Comune di Palermo, &egrave; l&rsquo;impianto pi&ugrave; grande della citt&agrave; e si ubica lungo Viale del Fante, vicino al Parco della Favorita. C&rsquo;&egrave; chi oggi ama ancora chiamarlo nostalgicamente cos&igrave;.

        Progettato da un&rsquo;idea di Giovan&nbsp;Battista Santangelo, l&rsquo;attuale Stadio Renzo Barbera venne inaugurato 90 anni fa, il 24 gennaio 1932 con l&rsquo;incontro tra Palermo e Atalanta, valido per il campionato di Serie B 1931-32 (5-1 per i rosanero). Il primo nome dell&rsquo;impianto che verr&agrave; intitolato al presidentissimo Renzo Barbera quattro mesi dopo la sua morte &ndash; avvenuta il 20 maggio 2002 &ndash; era &ldquo;Littorio&rdquo;&nbsp; Dal &ldquo;Ranchibile&rdquo; alla Nazionale &nbsp;Lo stadio nacque sul terreno del vecchio campo sportivo &ldquo;Ranchibile&rdquo;, ritenuto ormai inadatto. Il Littorio poteva ospitare fino a 20mila spettatori, usufruendo ancora delle sole tribune, senza le curve, mentre il campo era contornato da una pista d&rsquo;atletica. Per un periodo lo Stadio fu intitolato a Michele Marrone, centrocampista rosanero deceduto nella battaglia di Guadalajara, durante la guerra civile spagnola alla quale aveva partecipato da volontario. Terminata la seconda guerra mondiale prese la denominazione adottata poi fino al 2002, quella di Stadio La Favorita, per via della tenuta all&rsquo;interno della quale &egrave; collocato. Nel 1948 ci fu la prima grande ristrutturazione: venne definitivamente eliminata la pista di atletica leggera e furono finalmente edificate le due curve. La capienza dell&rsquo;impianto raddoppi&ograve;, passando da 20mila a 40mila unit&agrave;. In questo periodo la Favorita ospit&ograve; per la prima volta la nazionale italiana: era il 28 dicembre 1952, quando gli azzurri sconfissero per 2-0 la Svizzera. La Nazionale sarebbe tornata al Barbera in altre 14 occasioni, perdendo una sola volta.&nbsp; Renzo Barbera e il Palermo: un amore cos&igrave; grande Un nuovo look per Italia &rsquo;90 e per l&rsquo;Europa Un altro importante restyling avvenne nel 1984, quando fu costruito il secondo anello, seguito dalle quattro torri faro. Anche se il pi&ugrave; celebre ammodernamento venne effettuato nel 1986, con Palermo scelta come una delle 12 citt&agrave; italiane che avrebbero ospitato i Mondiali del &lsquo;90. La Favorita fu stravolta nuovamente, con il rifacimento totale del secondo anello che ne diminu&igrave; leggermente la capienza, portandola a 37mila posti. Purtroppo la storia dello Stadio di Palermo passa anche per una rinomata tragedia: durante le opere di restauro in vista di Italia &rsquo;90, il 30 agosto 1989, morirono 5 addetti ai lavori. Nel Mondiale delle Notti Magiche tre sfide si giocarono a Palermo, citt&agrave; scelta per ospitare il gruppo F, composto da Inghilterra, Egitto, Paesi Bassi e Irlanda. Le ultime e pi&ugrave; moderne restaurazioni avvennero in concomitanza dell&rsquo;esplosione del Palermo di Zamparini, che nel 2005 si qualific&ograve; per la prima volta alla Coppa Uefa. Per l&rsquo;occasione &egrave; stato costruito un nuovo settore ospiti &ndash; chiamato anche &ldquo;la gabbia&rdquo;, viste le reti e le pareti in vetro antintrusione che lo circondano &ndash;, mentre nel 2010, sempre in ottemperanza alle norme Uefa, sono stati inseriti i maxischermi nelle curve.&nbsp; I settori del Barbera&nbsp; Lo Stadio &egrave; oggi diviso in 5 settori: le due curve, Nord &ndash; la vecchia Curva Mondello, dove pullula il cuore del tifo organizzato rosanero &ndash; e Sud; Tribuna Montepellegrino, anche nota come Gradinata; Tribuna coperta, unico settore dello stadio con tale caratteristica; Settore ospiti, collocato tra la Sud e la Montepellegrino. Il Barbera &egrave; propriet&agrave; del Comune di Palermo, &egrave; l&rsquo;impianto pi&ugrave; grande della citt&agrave; e si ubica lungo Viale del Fante, vicino al Parco della Favorita. C&rsquo;&egrave; chi oggi ama ancora chiamarlo nostalgicamente cos&igrave;.       

In 90 anni di storia tante ristrutturazioni per l&rsquo;impianto sportivo pi&ugrave; grande di Palermo. Dopo aver ospitato i Mondiali del &rsquo;90, nel 2002 fu intitolato all&rsquo;ex patron

Stadio Renzo Barbera: dal “Ranchibile” al “Presidentissimo”

Non &egrave; davvero stata la serata di Dusan Vlahovic, in campo dove ha avuto soltanto un&rsquo;occasione da gol e fuori dove il Franchi gli ha indirizzato cori senza senso, per non dire di peggio. Con fischi per cos&igrave; dire naturali ed altri con l'utilizzo di fischietti: cose gi&agrave; viste e soprattutto sentite con Berti, Baggio e Batistuta. Chiss&agrave; cosa penserebbero, molti dei fischiatori, se loro figlio dovesse scegliere fra una carriera nella Juventus e una nella Fiorentina: ci ripetiamo, ma il problema non &egrave; Vlahovic che lascia la Fiorentina ma il sistema che non consente alla Fiorentina di competere per lo scudetto. La Juventus con 9 assenti ha sofferto contro la la squadra di Italiano ed un vitalissimo Ikon&eacute;, ma ha portato a casa una vittoria in cui non credeva nemmeno lei, grazie all&rsquo;autogol di Venuti nel finale: considerando il peso del gol in trasferta le baster&agrave; non suicidarsi al ritorno del 20 aprile (o dintorni) per raggiungere la finale di Coppa Italia. Anche se la Fiorentina ha giocato meglio e avuto pi&ugrave; occasioni, questa &egrave; una vittoria che ha il marchio del miglior Allegri, cio&egrave; la capacit&agrave; di adattarsi alle situazioni: cambiando modulo all&rsquo;inizio, con il 3-5-2, e ricambiandolo nel secondo tempo con un 4-4-2 che ha un po&rsquo; fatto respirare la Juventus, eccellente nei difensori (soprattutto De Ligt) e con una prova davvero da Barcellona di Arthur. Come sta Mario Balotelli? A tre settimane dai playoff per andare al Mondiale se lo chiede anche Mancini, che almeno come arma della disperazione a partita in corso potrebbe utilizzarlo. Dopo il Covid e qualche altro problema fisico, in gennaio, &egrave; tornato titolare nell&rsquo;Adana Demirspor e sta facendo il suo nella squadra allenata da Montella e che ha come capitano Inler, quinta nel campionato turco ma a soli 4 punti dalla qualificazione ai preliminari di Champions. Di sicuro ha una buona autostima, Balotelli, visto che al sito The Athletic, da poco comprato dal New York Times, ha detto di non invidiare niente a Messi e Cristiano Ronaldo e che se fosse rimasto nel City avrebbe potuto vincere il Pallone d&rsquo;Oro. Il trentunenne attaccante bresciano ammette di avere fatto qualche sbaglio ed il punto &egrave; proprio questo, come ben sa chi lo conosce oltre l&rsquo;ufficialit&agrave;: Balotelli in carriera ha mai commesso grossi sbagli ed &egrave; di base un bravo ragazzo, a dispetto della fama ha fatto fuori dal campo meno stupidaggini di colleghi celebrati e protetti mediaticamente. Il suo problema come calciatore &egrave; che si &egrave; lasciato andare, fidandosi solo del talento naturale: gli ultimi suoi allenamenti intensi risalgono proprio ai tempi del City di Mancini. Non gliene importa cos&igrave; tanto, e questo dal punto di vista calcistico &egrave; pi&ugrave; grave di una serata in discoteca. Le statistiche applicate al calcio sono spesso una forzatura, visto che in questo sport il valore relativo del singolo episodio &egrave; enorme, per&ograve; qualcosa dicono sulla qualit&agrave; del lavoro degli allenatori. A questo punto della Serie A, tenendo conto di expected goal e assist, la squadra che crea pi&ugrave; situazioni pericolose a partita &egrave; l&rsquo;Inter con 3,15 di media, davanti a Lazio (3,04), Atalanta (2,88), Verona (2,78), Napoli (2,70), Milan (2,48), Fiorentina (2,42), Roma (2,30), Sassuolo (2,22) e Juventus (2,19). E quella che ne subisce meno? La miglior fase difensiva &egrave; quella dell&rsquo;Inter (0,92 situazioni pericolose subite a partita), seguita da Napoli (1,04), Juventus (1,33), Milan (1,41), Torino (1,62), Roma (1,63), Atalanta (1,65), Fiorentina (2,00), Bologna (2,04), Udinese (2,23), Verona (2,26), Sassuolo (2,33) e Lazio (2,41). Numeri utili per capire non chi vincer&agrave; una partita, perch&eacute; per quello &egrave; sufficiente un autogol, ma per valutare un allenatore ed il suo rendimento in rapporto al budget. &nbsp; &nbsp;

        Non &egrave; davvero stata la serata di Dusan Vlahovic, in campo dove ha avuto soltanto un&rsquo;occasione da gol e fuori dove il Franchi gli ha indirizzato cori senza senso, per non dire di peggio. Con fischi per cos&igrave; dire naturali ed altri con l'utilizzo di fischietti: cose gi&agrave; viste e soprattutto sentite con Berti, Baggio e Batistuta. Chiss&agrave; cosa penserebbero, molti dei fischiatori, se loro figlio dovesse scegliere fra una carriera nella Juventus e una nella Fiorentina: ci ripetiamo, ma il problema non &egrave; Vlahovic che lascia la Fiorentina ma il sistema che non consente alla Fiorentina di competere per lo scudetto. La Juventus con 9 assenti ha sofferto contro la la squadra di Italiano ed un vitalissimo Ikon&eacute;, ma ha portato a casa una vittoria in cui non credeva nemmeno lei, grazie all&rsquo;autogol di Venuti nel finale: considerando il peso del gol in trasferta le baster&agrave; non suicidarsi al ritorno del 20 aprile (o dintorni) per raggiungere la finale di Coppa Italia. Anche se la Fiorentina ha giocato meglio e avuto pi&ugrave; occasioni, questa &egrave; una vittoria che ha il marchio del miglior Allegri, cio&egrave; la capacit&agrave; di adattarsi alle situazioni: cambiando modulo all&rsquo;inizio, con il 3-5-2, e ricambiandolo nel secondo tempo con un 4-4-2 che ha un po&rsquo; fatto respirare la Juventus, eccellente nei difensori (soprattutto De Ligt) e con una prova davvero da Barcellona di Arthur. Come sta Mario Balotelli? A tre settimane dai playoff per andare al Mondiale se lo chiede anche Mancini, che almeno come arma della disperazione a partita in corso potrebbe utilizzarlo. Dopo il Covid e qualche altro problema fisico, in gennaio, &egrave; tornato titolare nell&rsquo;Adana Demirspor e sta facendo il suo nella squadra allenata da Montella e che ha come capitano Inler, quinta nel campionato turco ma a soli 4 punti dalla qualificazione ai preliminari di Champions. Di sicuro ha una buona autostima, Balotelli, visto che al sito The Athletic, da poco comprato dal New York Times, ha detto di non invidiare niente a Messi e Cristiano Ronaldo e che se fosse rimasto nel City avrebbe potuto vincere il Pallone d&rsquo;Oro. Il trentunenne attaccante bresciano ammette di avere fatto qualche sbaglio ed il punto &egrave; proprio questo, come ben sa chi lo conosce oltre l&rsquo;ufficialit&agrave;: Balotelli in carriera ha mai commesso grossi sbagli ed &egrave; di base un bravo ragazzo, a dispetto della fama ha fatto fuori dal campo meno stupidaggini di colleghi celebrati e protetti mediaticamente. Il suo problema come calciatore &egrave; che si &egrave; lasciato andare, fidandosi solo del talento naturale: gli ultimi suoi allenamenti intensi risalgono proprio ai tempi del City di Mancini. Non gliene importa cos&igrave; tanto, e questo dal punto di vista calcistico &egrave; pi&ugrave; grave di una serata in discoteca. Le statistiche applicate al calcio sono spesso una forzatura, visto che in questo sport il valore relativo del singolo episodio &egrave; enorme, per&ograve; qualcosa dicono sulla qualit&agrave; del lavoro degli allenatori. A questo punto della Serie A, tenendo conto di expected goal e assist, la squadra che crea pi&ugrave; situazioni pericolose a partita &egrave; l&rsquo;Inter con 3,15 di media, davanti a Lazio (3,04), Atalanta (2,88), Verona (2,78), Napoli (2,70), Milan (2,48), Fiorentina (2,42), Roma (2,30), Sassuolo (2,22) e Juventus (2,19). E quella che ne subisce meno? La miglior fase difensiva &egrave; quella dell&rsquo;Inter (0,92 situazioni pericolose subite a partita), seguita da Napoli (1,04), Juventus (1,33), Milan (1,41), Torino (1,62), Roma (1,63), Atalanta (1,65), Fiorentina (2,00), Bologna (2,04), Udinese (2,23), Verona (2,26), Sassuolo (2,33) e Lazio (2,41). Numeri utili per capire non chi vincer&agrave; una partita, perch&eacute; per quello &egrave; sufficiente un autogol, ma per valutare un allenatore ed il suo rendimento in rapporto al budget. &nbsp; &nbsp;       

La Juventus davvero da Allegri, l'autostima di Balotelli e le statistiche a volte utili.&nbsp;

Fischietti per Vlahovic

Fiorentina-Juventus non &egrave; mai stata una partita come le altre. La rivalit&agrave; affonda le sue radici addirittura negli anni &rsquo;20, quando la Vecchia Signora umili&ograve; i viola battendoli per 11-0, esattamente il 7 ottobre del 1928. Da l&igrave; in poi la storia di questa sfida ha vissuto numerose tappe, come ad esempio la celebre semifinale di Coppa Italia del 1960/1961.&nbsp; <h2>Hidegkuti contro Parola&nbsp;</h2> Le due formazioni il 10 maggio del 1961 si affrontano in gara unica per determinare chi approder&agrave; in finale. Albertosi contro Mattrel, Da Costa contro Charles, ma soprattutto Hidegkuti (affiancato da Chiappella) contro Parola (affiancato da<a href="https://www.guerinsportivo.it/news/il-cuoio/ultimo-dribbling/2021/11/10-4906036/gunnar_gren_il_professore_del_gre-no-li_l_iconico_trio_del_milan"> Gren</a>) definiscono bene il livello dell&rsquo;incontro. I due allenatori, anche se con storie diametralmente opposte, sono delle vere leggende viventi: l&rsquo;ungherese alla guida della Viola faceva parte della Squadra d&rsquo;Oro che stup&igrave; il mondo negli anni &rsquo;50, rivoluzionando tra l&rsquo;altro completamente il ruolo di centravanti e schierandosi qualche metro arretrato, inventando con buoni 50 anni di anticipo il moderno falso nove. Dall&rsquo;altro lato Carlo Parola non ha bisogno di molte presentazioni: arcigno ma elegante difensore, raggiunse grande notoriet&agrave; pi&ugrave; o meno 10 anni prima proprio in un Fiorentina-Juventus, quando venne immortalata la sua celeberrima rovesciata poi ripresa e stilizzata sugli album di figurine Panini. Inoltre, lo scontro offre un interessante spunto: la&nbsp;Viola &ndash; attesa una settimana dopo anche dalla finale di Coppa delle Coppe &ndash; vuole assolutamente vendicare la finale di Coppa Italia della stagione precedente, persa proprio contro la Juve solo dopo i tempi supplementari (3-2). <h2>Dominio viola</h2> Al Comunale di Firenze l&rsquo;ambiente &egrave; molto pi&ugrave; che caldo: oltre ai numerosi tifosi di casa, &egrave; presente un ben nutrito gruppo di supporters juventini, storicamente sempre presenti in ogni luogo d&rsquo;Italia dove gioca la Vecchia Signora. Ciononostante l&rsquo;inerzia della partita &egrave; tutta in mano alla Fiorentina sin dalle primissime battute. I padroni di casa incalzano i bianconeri, con Robotti in difesa che annulla letteralmente un troppo timido Fascetti, e un Da Costa in avanti che semina scompiglio nella retroguardia juventina. Approfittando della superiorit&agrave; in mezzo al campo, la Viola passa in vantaggio al 17&rsquo; con Milan e prima della mezz&rsquo;ora rischia addirittura il raddoppio. Dall&rsquo;altra parte la Juventus, nonostante le difficolt&agrave;, riesce ad agguantare il pareggio grazie alla rete dal dischetto di Mora al 33esimo minuto. Le due formazioni vanno a riposo sull&rsquo;1-1, anche se &egrave; evidente che il risultato &egrave; destinato ben presto a cambiare. Dopo appena 6 minuti infatti &egrave; la Viola ad approfittare di un penalty e passare in vantaggio con Marchesi. Da l&igrave; in poi il dominio della Fiorentina si fa sempre pi&ugrave; evidente, fino alla chiosa di Da Costa, che firma il 3-1 e consegna ai suoi le chiavi per accedere alla finalissima. <h2>Una stagione indimenticabile con l'accoppiata Coppa Italia-Coppa delle Coppe</h2> Un ultimo atto che vedr&agrave; la squadra allenata da Hidegkuti trionfare contro la Lazio un mese pi&ugrave; tardi. Grazie al successo, la Fiorentina metter&agrave; in bacheca una storica accoppiatta: la vittoria in Coppa Italia era infatti stata preceduta dalla conquista della Coppa delle Coppe, primo e unico trofeo internazionale della storia viola.&nbsp;

        Fiorentina-Juventus non &egrave; mai stata una partita come le altre. La rivalit&agrave; affonda le sue radici addirittura negli anni &rsquo;20, quando la Vecchia Signora umili&ograve; i viola battendoli per 11-0, esattamente il 7 ottobre del 1928. Da l&igrave; in poi la storia di questa sfida ha vissuto numerose tappe, come ad esempio la celebre semifinale di Coppa Italia del 1960/1961.&nbsp; Hidegkuti contro Parola&nbsp; Le due formazioni il 10 maggio del 1961 si affrontano in gara unica per determinare chi approder&agrave; in finale. Albertosi contro Mattrel, Da Costa contro Charles, ma soprattutto Hidegkuti (affiancato da Chiappella) contro Parola (affiancato da Gren) definiscono bene il livello dell&rsquo;incontro. I due allenatori, anche se con storie diametralmente opposte, sono delle vere leggende viventi: l&rsquo;ungherese alla guida della Viola faceva parte della Squadra d&rsquo;Oro che stup&igrave; il mondo negli anni &rsquo;50, rivoluzionando tra l&rsquo;altro completamente il ruolo di centravanti e schierandosi qualche metro arretrato, inventando con buoni 50 anni di anticipo il moderno falso nove. Dall&rsquo;altro lato Carlo Parola non ha bisogno di molte presentazioni: arcigno ma elegante difensore, raggiunse grande notoriet&agrave; pi&ugrave; o meno 10 anni prima proprio in un Fiorentina-Juventus, quando venne immortalata la sua celeberrima rovesciata poi ripresa e stilizzata sugli album di figurine Panini. Inoltre, lo scontro offre un interessante spunto: la&nbsp;Viola &ndash; attesa una settimana dopo anche dalla finale di Coppa delle Coppe &ndash; vuole assolutamente vendicare la finale di Coppa Italia della stagione precedente, persa proprio contro la Juve solo dopo i tempi supplementari (3-2). Dominio viola Al Comunale di Firenze l&rsquo;ambiente &egrave; molto pi&ugrave; che caldo: oltre ai numerosi tifosi di casa, &egrave; presente un ben nutrito gruppo di supporters juventini, storicamente sempre presenti in ogni luogo d&rsquo;Italia dove gioca la Vecchia Signora. Ciononostante l&rsquo;inerzia della partita &egrave; tutta in mano alla Fiorentina sin dalle primissime battute. I padroni di casa incalzano i bianconeri, con Robotti in difesa che annulla letteralmente un troppo timido Fascetti, e un Da Costa in avanti che semina scompiglio nella retroguardia juventina. Approfittando della superiorit&agrave; in mezzo al campo, la Viola passa in vantaggio al 17&rsquo; con Milan e prima della mezz&rsquo;ora rischia addirittura il raddoppio. Dall&rsquo;altra parte la Juventus, nonostante le difficolt&agrave;, riesce ad agguantare il pareggio grazie alla rete dal dischetto di Mora al 33esimo minuto. Le due formazioni vanno a riposo sull&rsquo;1-1, anche se &egrave; evidente che il risultato &egrave; destinato ben presto a cambiare. Dopo appena 6 minuti infatti &egrave; la Viola ad approfittare di un penalty e passare in vantaggio con Marchesi. Da l&igrave; in poi il dominio della Fiorentina si fa sempre pi&ugrave; evidente, fino alla chiosa di Da Costa, che firma il 3-1 e consegna ai suoi le chiavi per accedere alla finalissima. Una stagione indimenticabile con l'accoppiata Coppa Italia-Coppa delle Coppe Un ultimo atto che vedr&agrave; la squadra allenata da Hidegkuti trionfare contro la Lazio un mese pi&ugrave; tardi. Grazie al successo, la Fiorentina metter&agrave; in bacheca una storica accoppiatta: la vittoria in Coppa Italia era infatti stata preceduta dalla conquista della Coppa delle Coppe, primo e unico trofeo internazionale della storia viola.&nbsp;         

In quell&rsquo;occasione venne scritto l&rsquo;ennesimo capitolo di una storica rivalit&agrave; del nostro calcio, a spuntarla furono i viola&nbsp;

Fiorentina-Juventus: la sfida in semifinale di Coppa Italia del 1960/1961

La paura di perdere ha dominato la prima semifinale di Coppa Italia, un Milan-Inter che la squadra di Pioli ha iniziato meglio e in generale giocato meglio, contro i nerazzurri apparsi in riserva fisica molto pi&ugrave; che nelle ultime gi&agrave; non brillanti prestazioni. Un atteggiamento figlio della lotta scudetto ancora da definire, il ritorno sar&agrave; fra quasi due mesi e tutti andranno in campo pi&ugrave; leggeri, che non ha prodotto un risultato netto ma che certo favorisce il Milan visto che con il gol in trasferta a valere doppio (in Coppa Italia per l&rsquo;ultimo anno &egrave; cos&igrave;) lo 0-0 dell&rsquo;andata &egrave; per la squadra di casa un buon risultato. Ma al di l&agrave; della stagione del Milan, che forse prender&agrave; una direzione definitiva dopo la partita con il Napoli di domenica sera, a far discutere &egrave; l&rsquo;attacco dell&rsquo;Inter. Zero gol nelle ultime quattro partite disputate (Liverpool, Sassuolo, Genoa e appunto Milan) e adesso anche pochi tiri, con Lautaro Martinez che non guarda pi&ugrave; la porta, cos&igrave; come la sua alternativa Sanchez, mentre Dzeko al di l&agrave; dell&rsquo;et&agrave; non sta pi&ugrave; andando oltre il suo ruolo di centro-boa. Nel derby &egrave; rientrato Correa dopo 40 giorni, di sicuro potr&agrave; essere pi&ugrave; utile ad Inzaghi del Caicedo intravisto in allenamento e in quei pochi minuti di partita. Un calo fisico simile a quello del centrocampo, dove Barella davvero non ce la fa pi&ugrave;, con Brozovic e Calhanoglu comunque in difficolt&agrave;, che si &egrave; trasformato in un calo tecnico. La scelta di Inzaghi, gi&agrave; venerd&igrave; sera contro la Salernitana, &egrave; quella fra scelte drastiche e una continuit&agrave; che a questo punto della stagione ha portato ad un primo posto (virtuale) in classifica. La sua storia di allenatore, partita sul serio grazie all&rsquo;involontario aiuto di Bielsa, dice che sceglier&agrave; la continuit&agrave;, con qualche rilancio (Correa) al momento giusto. Non ci ricordiamo una squadra campione d&rsquo;Italia che subito dopo lo scudetto abbia ceduto i suoi due giocatori migliori, ma all&rsquo;Inter con Lukaku e Hakimi &egrave; successo esattamente questo: parliamo di uno degli attaccanti pi&ugrave; forti del mondo (non in questo momento), partner ideale di Lautaro Martinez, e di uno di quei pochi esterni che senza bisogno di schemi spacchi le partite. Quando calano le condizioni atletiche e non si pu&ograve; pi&ugrave; attingere al serbatoio del gioco, si entra in una zona in cui servono i colpi. Certo Lukaku e Hakimi sono partiti per motivi finanziari, se l&rsquo;Inter ha ossigeno fino al 2023 il merito &egrave; anche della loro partenza. Tornando al campo, stiamo parlando della squadra che crea pi&ugrave; situazioni pericolose in Serie A, secondo ogni indicatore (dai mitologici expected goal alle loro sofisticazioni con assist e altro), quindi di una squadra che va valutata oltre le ultime impressioni. Certo l&rsquo;ultima &egrave; stata brutta. &nbsp;

        La paura di perdere ha dominato la prima semifinale di Coppa Italia, un Milan-Inter che la squadra di Pioli ha iniziato meglio e in generale giocato meglio, contro i nerazzurri apparsi in riserva fisica molto pi&ugrave; che nelle ultime gi&agrave; non brillanti prestazioni. Un atteggiamento figlio della lotta scudetto ancora da definire, il ritorno sar&agrave; fra quasi due mesi e tutti andranno in campo pi&ugrave; leggeri, che non ha prodotto un risultato netto ma che certo favorisce il Milan visto che con il gol in trasferta a valere doppio (in Coppa Italia per l&rsquo;ultimo anno &egrave; cos&igrave;) lo 0-0 dell&rsquo;andata &egrave; per la squadra di casa un buon risultato. Ma al di l&agrave; della stagione del Milan, che forse prender&agrave; una direzione definitiva dopo la partita con il Napoli di domenica sera, a far discutere &egrave; l&rsquo;attacco dell&rsquo;Inter. Zero gol nelle ultime quattro partite disputate (Liverpool, Sassuolo, Genoa e appunto Milan) e adesso anche pochi tiri, con Lautaro Martinez che non guarda pi&ugrave; la porta, cos&igrave; come la sua alternativa Sanchez, mentre Dzeko al di l&agrave; dell&rsquo;et&agrave; non sta pi&ugrave; andando oltre il suo ruolo di centro-boa. Nel derby &egrave; rientrato Correa dopo 40 giorni, di sicuro potr&agrave; essere pi&ugrave; utile ad Inzaghi del Caicedo intravisto in allenamento e in quei pochi minuti di partita. Un calo fisico simile a quello del centrocampo, dove Barella davvero non ce la fa pi&ugrave;, con Brozovic e Calhanoglu comunque in difficolt&agrave;, che si &egrave; trasformato in un calo tecnico. La scelta di Inzaghi, gi&agrave; venerd&igrave; sera contro la Salernitana, &egrave; quella fra scelte drastiche e una continuit&agrave; che a questo punto della stagione ha portato ad un primo posto (virtuale) in classifica. La sua storia di allenatore, partita sul serio grazie all&rsquo;involontario aiuto di Bielsa, dice che sceglier&agrave; la continuit&agrave;, con qualche rilancio (Correa) al momento giusto. Non ci ricordiamo una squadra campione d&rsquo;Italia che subito dopo lo scudetto abbia ceduto i suoi due giocatori migliori, ma all&rsquo;Inter con Lukaku e Hakimi &egrave; successo esattamente questo: parliamo di uno degli attaccanti pi&ugrave; forti del mondo (non in questo momento), partner ideale di Lautaro Martinez, e di uno di quei pochi esterni che senza bisogno di schemi spacchi le partite. Quando calano le condizioni atletiche e non si pu&ograve; pi&ugrave; attingere al serbatoio del gioco, si entra in una zona in cui servono i colpi. Certo Lukaku e Hakimi sono partiti per motivi finanziari, se l&rsquo;Inter ha ossigeno fino al 2023 il merito &egrave; anche della loro partenza. Tornando al campo, stiamo parlando della squadra che crea pi&ugrave; situazioni pericolose in Serie A, secondo ogni indicatore (dai mitologici expected goal alle loro sofisticazioni con assist e altro), quindi di una squadra che va valutata oltre le ultime impressioni. Certo l&rsquo;ultima &egrave; stata brutta. &nbsp;       

La squadra di Simone Inzaghi esce dal derby di andata di Coppa Italia dando ancora una volta la sensazione di essere stanca. Al di l&agrave; dei pochi tiri in porta...

L'Inter senza Lukaku

La magia del calcio e l&rsquo;arbitraggio creativo di Bergamo ci hanno regalato una semifinale di Coppa Italia fra Juventus e Fiorentina, che impone di mettere Dusan Vlahovic in copertina. Si giocher&agrave; su andata e ritorno e dubitiamo che il serbo in caso di rigore per la Juventus si rifiuti di tirarlo, come oltre tre decenni fa accadde a Roberto Baggio. Del resto tutta l&rsquo;operazione che ha fatto girare la stagione bianconera &egrave; nata da una precisa volont&agrave; dell&rsquo;attaccante, che vuole competere per i massimi traguardi. Il problema &egrave; il sistema che non permette pi&ugrave; ad una Fiorentina di sognare lo scudetto, non un ragazzo di talento che giustamente fa i propri interessi. Contro il Sassuolo Vlahovic ha giocato un&rsquo;ottima partita, cos&igrave; come un Dybala ringalluzzito dal suo arrivo e dal contratto in scadenza, trascinando il resto della squadra tranne Arthur. Non che Allegri abbia fatto invenzioni: un 4-2-3-1 parente strettissimo del 4-4-2, e attesa delle invenzioni dei pi&ugrave; bravi. L'importante &egrave; che i pi&ugrave; bravi ci siano.&nbsp; Il club bianconero &egrave; interessato alla Champions League di oggi (fra 11 giorni l&rsquo;andata degli ottavi contro il Villarreal) ma soprattutto a quella di domani, i cui termini finanziari sono stati svelati da una lettera mandata da Nasser Al Khelaifi ai membri dell&rsquo;ECA. Il presidente del PSG, successore all&rsquo;ECA di Agnelli dopo il disastroso tentativo di blitz per la Superlega, ha anticipato che nel triennio 2024-2027 la Champions incasser&agrave; almeno 5 miliardi di euro a stagione, cifra non lontana da quella mitica di JP Morgan per la Superlega. Ancora indefinita la formula, ma gi&agrave; con alcune certezze: 36 squadre invece delle 32 attuali, minimo 10 partite sicure invece delle 6 attuali, abolizione dei gironi per far posto ad una classifica unica, poi eliminazione diretta, come oggi, ma non con 16 qualificate immediate. Agli ottavi andranno infatti le prime 8 della classifica per cos&igrave; dire generale, pi&ugrave; le 8 vincenti di 8 spareggi per chi si classificher&agrave; dalla posizione 9 a quella 24 (in altre parole sedicesimi di finale ma non per tutti). Da valutare semifinali e finali con la formula Final Four, come desiderato da Ceferin. La Superlega &egrave; quindi morta? Dal punto di vista sportivo e finanziario s&igrave;. Ma da quello legale il monopolio organizzativo della UEFA ha basi davvero molto fragili. Tornando alla Coppa Italia, cosa sta succedendo all&rsquo;Atalanta, al netto dell&rsquo;arbitraggio di Fabbri e di una semifinale che era senz&rsquo;altro alla portata? Dalla fine della sua Champions, quindi dalla sconfitta del 9 dicembre contro il Villarreal, la squadra di Gasperini non &egrave; stata pi&ugrave; la stessa. Poche prestazioni all&rsquo;altezza della propria fama, qualche sconfitta clamorosa tipo quelle con Roma e Cagliari, un rendimento casalingo scadente, infortuni (Zapata su tutti) e situazioni indefinibili come quella di Ilicic che non sono state tamponate da un buon calciomercato di gennaio, anche se Boga e Mihaila hanno prospettive. Qualche anno fa Percassi avrebbe firmato per una Europa League facile ogni stagione, mentre adesso le aspettative si sono alzate anche se le stelle della squadra guadagnano meno (nessuno arriva ai 2 milioni netti, nemmeno Zapata) del ventesimo giocatore della rosa di Juventus e Inter. Esaltazione e critiche dovrebbero essere sempre coerenti con il potenziale.&nbsp;

        La magia del calcio e l&rsquo;arbitraggio creativo di Bergamo ci hanno regalato una semifinale di Coppa Italia fra Juventus e Fiorentina, che impone di mettere Dusan Vlahovic in copertina. Si giocher&agrave; su andata e ritorno e dubitiamo che il serbo in caso di rigore per la Juventus si rifiuti di tirarlo, come oltre tre decenni fa accadde a Roberto Baggio. Del resto tutta l&rsquo;operazione che ha fatto girare la stagione bianconera &egrave; nata da una precisa volont&agrave; dell&rsquo;attaccante, che vuole competere per i massimi traguardi. Il problema &egrave; il sistema che non permette pi&ugrave; ad una Fiorentina di sognare lo scudetto, non un ragazzo di talento che giustamente fa i propri interessi. Contro il Sassuolo Vlahovic ha giocato un&rsquo;ottima partita, cos&igrave; come un Dybala ringalluzzito dal suo arrivo e dal contratto in scadenza, trascinando il resto della squadra tranne Arthur. Non che Allegri abbia fatto invenzioni: un 4-2-3-1 parente strettissimo del 4-4-2, e attesa delle invenzioni dei pi&ugrave; bravi. L'importante &egrave; che i pi&ugrave; bravi ci siano.&nbsp; Il club bianconero &egrave; interessato alla Champions League di oggi (fra 11 giorni l&rsquo;andata degli ottavi contro il Villarreal) ma soprattutto a quella di domani, i cui termini finanziari sono stati svelati da una lettera mandata da Nasser Al Khelaifi ai membri dell&rsquo;ECA. Il presidente del PSG, successore all&rsquo;ECA di Agnelli dopo il disastroso tentativo di blitz per la Superlega, ha anticipato che nel triennio 2024-2027 la Champions incasser&agrave; almeno 5 miliardi di euro a stagione, cifra non lontana da quella mitica di JP Morgan per la Superlega. Ancora indefinita la formula, ma gi&agrave; con alcune certezze: 36 squadre invece delle 32 attuali, minimo 10 partite sicure invece delle 6 attuali, abolizione dei gironi per far posto ad una classifica unica, poi eliminazione diretta, come oggi, ma non con 16 qualificate immediate. Agli ottavi andranno infatti le prime 8 della classifica per cos&igrave; dire generale, pi&ugrave; le 8 vincenti di 8 spareggi per chi si classificher&agrave; dalla posizione 9 a quella 24 (in altre parole sedicesimi di finale ma non per tutti). Da valutare semifinali e finali con la formula Final Four, come desiderato da Ceferin. La Superlega &egrave; quindi morta? Dal punto di vista sportivo e finanziario s&igrave;. Ma da quello legale il monopolio organizzativo della UEFA ha basi davvero molto fragili. Tornando alla Coppa Italia, cosa sta succedendo all&rsquo;Atalanta, al netto dell&rsquo;arbitraggio di Fabbri e di una semifinale che era senz&rsquo;altro alla portata? Dalla fine della sua Champions, quindi dalla sconfitta del 9 dicembre contro il Villarreal, la squadra di Gasperini non &egrave; stata pi&ugrave; la stessa. Poche prestazioni all&rsquo;altezza della propria fama, qualche sconfitta clamorosa tipo quelle con Roma e Cagliari, un rendimento casalingo scadente, infortuni (Zapata su tutti) e situazioni indefinibili come quella di Ilicic che non sono state tamponate da un buon calciomercato di gennaio, anche se Boga e Mihaila hanno prospettive. Qualche anno fa Percassi avrebbe firmato per una Europa League facile ogni stagione, mentre adesso le aspettative si sono alzate anche se le stelle della squadra guadagnano meno (nessuno arriva ai 2 milioni netti, nemmeno Zapata) del ventesimo giocatore della rosa di Juventus e Inter. Esaltazione e critiche dovrebbero essere sempre coerenti con il potenziale.&nbsp;       

Le semifinali di Coppa Italia, la Champions League a 36 squadre e le aspettative sull'Atalanta...

Vlahovic e il rigore di Baggio

Coppa Italia 1998/99, ai quarti di finale, dopo un tortuoso cammino, si incontrano Atalanta e Fiorentina. Allora la formula della competizione era molto lontana da quella che &egrave; diventata oggi, e arrivare in fondo non &egrave; per niente scontato. I bergamaschi prima della Fiorentina hanno dovuto superare nell&rsquo;ordine la Cremonese, l&rsquo;Empoli e la Roma, un risultato davvero straordinario per una formazione che in quella stagione milita in serie cadetta, galleggiando tra l&rsquo;altro a met&agrave; classifica. Dall&rsquo;altra parte i toscani hanno superato agevolmente il Padova e il Lecce nei sedicesimi e negli ottavi di finale, e in campionato lottano per il vertice trascinati da Batistuta e Edmundo.<o:p></o:p> <h2>L&rsquo;andata a Bergamo<o:p></o:p></h2> Il 2 dicembre del 1998, all&rsquo;Atleti Azzurri d&rsquo;Italia, va dunque in scena la prima parte della doppia sfida dei quarti di finale. Le due compagini danno vita ad una partita frizzante, affrontandosi a viso aperto senza eccessivo zelo difensivo. Dopo appena otto minuti gli ospiti vanno in vantaggio grazie allo sfortunato autogol di Rustico, a cui risponde Torricelli che, con un altro autogol, mette la partita sull&rsquo;1-1. Prima della fine del primo tempo Edmundo porta in vantaggio i suoi, rischiando in un paio di occasioni di aumentare ancora il divario. L&rsquo;Atalanta resiste stoicamente e nella ripresa la ribalta con i gol di Rossini e Carrera, portando a casa la vittoria. Quella sar&agrave; una delle poche pagine positive di una stagione da dimenticare.<o:p></o:p> <h2>La seconda manche<o:p></o:p></h2> Pi&ugrave; di un mese dopo, esattamente il 28 gennaio del 1999, Fiorentina e Atalanta si affrontano nella gara di ritorno all&rsquo;Artemio Franchi. I viola sono in uno splendido momento di forma, lottano per le primissime posizioni in campionato e non vogliono macchiare il buon cammino in coppa uscendo con una formazione di Serie B. L&rsquo;approccio al match &egrave; completamente diverso da quello dell&rsquo;andata, con le squadre pi&ugrave; guardinghe e meno scoperte. Dopo appena 9 minuti Robbiati porta in vantaggio i suoi con il gol che vale la qualificazione. Finir&agrave; 1-0 per la Fiorentina, che si aggiudica il passaggio in semifinale.<o:p></o:p>

        Coppa Italia 1998/99, ai quarti di finale, dopo un tortuoso cammino, si incontrano Atalanta e Fiorentina. Allora la formula della competizione era molto lontana da quella che &egrave; diventata oggi, e arrivare in fondo non &egrave; per niente scontato. I bergamaschi prima della Fiorentina hanno dovuto superare nell&rsquo;ordine la Cremonese, l&rsquo;Empoli e la Roma, un risultato davvero straordinario per una formazione che in quella stagione milita in serie cadetta, galleggiando tra l&rsquo;altro a met&agrave; classifica. Dall&rsquo;altra parte i toscani hanno superato agevolmente il Padova e il Lecce nei sedicesimi e negli ottavi di finale, e in campionato lottano per il vertice trascinati da Batistuta e Edmundo. L&rsquo;andata a Bergamo Il 2 dicembre del 1998, all&rsquo;Atleti Azzurri d&rsquo;Italia, va dunque in scena la prima parte della doppia sfida dei quarti di finale. Le due compagini danno vita ad una partita frizzante, affrontandosi a viso aperto senza eccessivo zelo difensivo. Dopo appena otto minuti gli ospiti vanno in vantaggio grazie allo sfortunato autogol di Rustico, a cui risponde Torricelli che, con un altro autogol, mette la partita sull&rsquo;1-1. Prima della fine del primo tempo Edmundo porta in vantaggio i suoi, rischiando in un paio di occasioni di aumentare ancora il divario. L&rsquo;Atalanta resiste stoicamente e nella ripresa la ribalta con i gol di Rossini e Carrera, portando a casa la vittoria. Quella sar&agrave; una delle poche pagine positive di una stagione da dimenticare. La seconda manche Pi&ugrave; di un mese dopo, esattamente il 28 gennaio del 1999, Fiorentina e Atalanta si affrontano nella gara di ritorno all&rsquo;Artemio Franchi. I viola sono in uno splendido momento di forma, lottano per le primissime posizioni in campionato e non vogliono macchiare il buon cammino in coppa uscendo con una formazione di Serie B. L&rsquo;approccio al match &egrave; completamente diverso da quello dell&rsquo;andata, con le squadre pi&ugrave; guardinghe e meno scoperte. Dopo appena 9 minuti Robbiati porta in vantaggio i suoi con il gol che vale la qualificazione. Finir&agrave; 1-0 per la Fiorentina, che si aggiudica il passaggio in semifinale.       

Dopo il 3-2 dell&rsquo;andata a favore della Dea, una rete di &ldquo;Spadino&rdquo; nel ritorno permise alla Viola di eliminare i bergamaschi ai quarti &nbsp;

Atalanta-Fiorentina, quando Robbiati regalò la semifinale di Coppa Italia a Trapattoni 

Nel 1997 la Nazionale italiana di rugby non era ancora nel Sei Nazioni. La nostra selezione si stava preparando a entrare nel torneo, e per questo ogni test match contro le big aveva il sapore di un esame. Come quello del 4 gennaio, a Lansdowne Road, contro l'Irlanda, che preparava il Cinque Nazioni, mentre gli azzurri si stavano avvicinando alla finale della coppa Fira. L'altro test previsto in quei giorni, contro il Galles, oltretutto era stato annullato: la Nazionale, quindi, aveva una partita in meno per rendersi conto del suo livello. Ma quella che sembrava una sconfitta annunciata, si trasform&ograve; in una grande impresa, in una serata piovosa con il campo pesante, di quelli che esaltano gli eroi. Azzurri senza l'indimenticato Ivan Francescato e Massimo Giovanelli, ma con tante risorse da mettere in campo. Irlandesi avanti con Bourke; Dominguez fallisce un piazzato da 55 metri ma si riscatta lanciando Stoica, per la meta di Vaccari. Si va sul 7-3, ma ancora Bourke riduce le distanze. Altra meta azzurra di Massimo Cuttitta, poi un piazzato di Dominguez porta l'Italia sul 17-9, prima dei tre calci consecutivi di Davies che danno il vantaggio ai padroni di casa. L'Italia &egrave; a contatto e anche nella ripresa, quando ci si aspetterebbe il calo fisiologico degli azzurri, arriva il nuovo vantaggio ancora con Dominguez, al quale risponde ancora Bourke. <h2>Apoteosi</h2> Dopo qualche minuto, la potenziale svolta: calcio di Bourke in profondit&agrave;, Pertile e Vaccari non si intendono e lasciano palla a Bell, che corre verso la meta. Ma l'Italia non ci sta: Troncon trascina gli azzurri nei 22 metri irlandesi, Vaccari va in meta, Dominguez trasforma per il 30-29. La reazione dell'Irlanda &egrave; confusionaria, l'Italia tiene duro e chiude la partita sul 37-29 ancora con Dominguez, assoluto protagonista con 22 punti. Festeggia una straordinaria Italia, gli irlandesi quasi non ci credono.

        Nel 1997 la Nazionale italiana di rugby non era ancora nel Sei Nazioni. La nostra selezione si stava preparando a entrare nel torneo, e per questo ogni test match contro le big aveva il sapore di un esame. Come quello del 4 gennaio, a Lansdowne Road, contro l'Irlanda, che preparava il Cinque Nazioni, mentre gli azzurri si stavano avvicinando alla finale della coppa Fira. L'altro test previsto in quei giorni, contro il Galles, oltretutto era stato annullato: la Nazionale, quindi, aveva una partita in meno per rendersi conto del suo livello. Ma quella che sembrava una sconfitta annunciata, si trasform&ograve; in una grande impresa, in una serata piovosa con il campo pesante, di quelli che esaltano gli eroi. Azzurri senza l'indimenticato Ivan Francescato e Massimo Giovanelli, ma con tante risorse da mettere in campo. Irlandesi avanti con Bourke; Dominguez fallisce un piazzato da 55 metri ma si riscatta lanciando Stoica, per la meta di Vaccari. Si va sul 7-3, ma ancora Bourke riduce le distanze. Altra meta azzurra di Massimo Cuttitta, poi un piazzato di Dominguez porta l'Italia sul 17-9, prima dei tre calci consecutivi di Davies che danno il vantaggio ai padroni di casa. L'Italia &egrave; a contatto e anche nella ripresa, quando ci si aspetterebbe il calo fisiologico degli azzurri, arriva il nuovo vantaggio ancora con Dominguez, al quale risponde ancora Bourke. Apoteosi Dopo qualche minuto, la potenziale svolta: calcio di Bourke in profondit&agrave;, Pertile e Vaccari non si intendono e lasciano palla a Bell, che corre verso la meta. Ma l'Italia non ci sta: Troncon trascina gli azzurri nei 22 metri irlandesi, Vaccari va in meta, Dominguez trasforma per il 30-29. La reazione dell'Irlanda &egrave; confusionaria, l'Italia tiene duro e chiude la partita sul 37-29 ancora con Dominguez, assoluto protagonista con 22 punti. Festeggia una straordinaria Italia, gli irlandesi quasi non ci credono.       

Il 4 gennaio 1997 l'Italrugby vinse 37-29 nel tempio irlandese. Dominguez eroe della serata: Diego segn&ograve; 22 punti. Padroni di casa increduli davanti alla nostra grande impresa

Irlanda-Italia, quando gli azzurri del rugby sbancarono Lansdowne Road

La partita tra Italia e Svizzera valida per le qualificazioni al Mondiale 2022 sar&agrave; il sesto scontro diretto tra le due nazionali a Roma. In questa rivalit&agrave; arrivata alla sfida numero 61, siamo andati indietro nel tempo per vedere come sono andati gli incontri giocati nella Capitale.&nbsp; <h2>La prima sfida a Roma&nbsp;</h2> La prima volta tra gli azzurri e gli elvetici del 9 febbraio del 1930&nbsp;&egrave; davvero roba di un'altra era. Devono ancora disputarsi i primi Mondiali, a cui nessuna delle due squadre parteciper&agrave;, peraltro, ma non mancano le amichevoli: una di queste si disputa allo Stadio del Partito Nazionale Fascista, impianto esistito fino al 1957 e che poi sar&agrave; rimpiazzato dal Flaminio. L'Italia &egrave; quella di Vittorio Pozzo in panchina, con in campo come stella Giuseppe Meazza, mentre la Svizzera arriva a Roma in striscia negativa contro di noi. Certo, l'ultima vittoria rossocrociata era stata pesante, 2-1 ai quarti di finale del torneo olimpico di Parigi del 1924; e uno di quei protagonisti, Sturzenegger, &egrave; in campo. Va addirittura sul 2-0 la Svizzera con doppietta di Aldo Poretti, prima della mareggiata italiana, tutta nel primo tempo: Magnozzi, Orsi e due gol di Meazza per il 4-2 definitivo.&nbsp; <h2>La partita prima della vittoria di Wembley</h2> Ci vogliono 43 anni perch&eacute; si riveda Italia-Svizzera a Roma, stavolta all'Olimpico. La partita del 20 ottobre 1973 &egrave; anche &ldquo;pesante&rdquo;, visto che &egrave; valida per le qualificazioni ai Mondiali in Germania Ovest. &Egrave; un 2-0 comodo grazie al rigore di Rivera, concesso per fallo su Riva, e al raddoppio dello stesso &ldquo;Rombo di Tuono&rdquo;. Gli azzurri sono nel pieno della forma in un anno in cui vincono 7 partite su 8 senza subire nemmeno un gol. Di l&igrave; a un mese, poi, ci sar&agrave; il successo-capolavoro di Wembley firmato Capello.&nbsp; <h2>L&rsquo;unica vittoria della Svizzera&nbsp;</h2> L'unica volta in cui l'Italia perde a Roma contro la Svizzera &egrave; nel 1982, con l'eco del Mundial spagnolo vinto ancora presente. Addirittura l'arbitro, Coelho, &egrave; lo stesso della finale del Bernabeu contro la Germania Ovest. &Egrave; una partita bruttina, risolta da Elsener dopo un bel triangolo con un compagno e un pallonetto su Zoff in uscita: &egrave; anche la prima sconfitta in casa degli azzurri dopo undici anni.&nbsp; <h2>Il timbro di Signori all&rsquo;Olimpico</h2> Il penultimo precedente romano tra le due squadre &egrave; favorevole all'Italia: anche questa, un'amichevole, ma di preparazione all'imminente Mondiale negli Usa. Le due nazionali curiosamente si erano gi&agrave; affrontate nel girone di qualificazione, con il 2-2 di Cagliari da brividi, acciuffato in rimonta dagli uomini di Arrigo Sacchi. &Egrave; un 1-0 con timbro di Signori, schierato in coppia con Roberto Baggio in una squadra che per 10/11 sar&agrave; identica a quella del pessimo esordio mondiale contro l'Eire; unica differenza, Berti per Evani.&nbsp; <h2>Il 3-0 di Euro 2020</h2> L&rsquo;ultima volta che le squadre si sono incontrate all&rsquo;Olimpico di Roma &egrave; stata lo scorso 16 giugno, nella seconda partita del girone di Euro 2020. Rappresenta un&rsquo;importante tappa nell&rsquo;avvicinamento della nostra nazionale al trionfo di Wembley che avverr&agrave; di l&igrave; a poche settimane. Il match &egrave; stato un vero e proprio trionfo azzurro, finito 3-0 grazie alla doppietta di Manuel Locatelli e alla chiosa finale di Ciro Immobile.&nbsp;

        La partita tra Italia e Svizzera valida per le qualificazioni al Mondiale 2022 sar&agrave; il sesto scontro diretto tra le due nazionali a Roma. In questa rivalit&agrave; arrivata alla sfida numero 61, siamo andati indietro nel tempo per vedere come sono andati gli incontri giocati nella Capitale.&nbsp; La prima sfida a Roma&nbsp; La prima volta tra gli azzurri e gli elvetici del 9 febbraio del 1930&nbsp;&egrave; davvero roba di un'altra era. Devono ancora disputarsi i primi Mondiali, a cui nessuna delle due squadre parteciper&agrave;, peraltro, ma non mancano le amichevoli: una di queste si disputa allo Stadio del Partito Nazionale Fascista, impianto esistito fino al 1957 e che poi sar&agrave; rimpiazzato dal Flaminio. L'Italia &egrave; quella di Vittorio Pozzo in panchina, con in campo come stella Giuseppe Meazza, mentre la Svizzera arriva a Roma in striscia negativa contro di noi. Certo, l'ultima vittoria rossocrociata era stata pesante, 2-1 ai quarti di finale del torneo olimpico di Parigi del 1924; e uno di quei protagonisti, Sturzenegger, &egrave; in campo. Va addirittura sul 2-0 la Svizzera con doppietta di Aldo Poretti, prima della mareggiata italiana, tutta nel primo tempo: Magnozzi, Orsi e due gol di Meazza per il 4-2 definitivo.&nbsp; La partita prima della vittoria di Wembley Ci vogliono 43 anni perch&eacute; si riveda Italia-Svizzera a Roma, stavolta all'Olimpico. La partita del 20 ottobre 1973 &egrave; anche &ldquo;pesante&rdquo;, visto che &egrave; valida per le qualificazioni ai Mondiali in Germania Ovest. &Egrave; un 2-0 comodo grazie al rigore di Rivera, concesso per fallo su Riva, e al raddoppio dello stesso &ldquo;Rombo di Tuono&rdquo;. Gli azzurri sono nel pieno della forma in un anno in cui vincono 7 partite su 8 senza subire nemmeno un gol. Di l&igrave; a un mese, poi, ci sar&agrave; il successo-capolavoro di Wembley firmato Capello.&nbsp; L&rsquo;unica vittoria della Svizzera&nbsp; L'unica volta in cui l'Italia perde a Roma contro la Svizzera &egrave; nel 1982, con l'eco del Mundial spagnolo vinto ancora presente. Addirittura l'arbitro, Coelho, &egrave; lo stesso della finale del Bernabeu contro la Germania Ovest. &Egrave; una partita bruttina, risolta da Elsener dopo un bel triangolo con un compagno e un pallonetto su Zoff in uscita: &egrave; anche la prima sconfitta in casa degli azzurri dopo undici anni.&nbsp; Il timbro di Signori all&rsquo;Olimpico Il penultimo precedente romano tra le due squadre &egrave; favorevole all'Italia: anche questa, un'amichevole, ma di preparazione all'imminente Mondiale negli Usa. Le due nazionali curiosamente si erano gi&agrave; affrontate nel girone di qualificazione, con il 2-2 di Cagliari da brividi, acciuffato in rimonta dagli uomini di Arrigo Sacchi. &Egrave; un 1-0 con timbro di Signori, schierato in coppia con Roberto Baggio in una squadra che per 10/11 sar&agrave; identica a quella del pessimo esordio mondiale contro l'Eire; unica differenza, Berti per Evani.&nbsp; Il 3-0 di Euro 2020 L&rsquo;ultima volta che le squadre si sono incontrate all&rsquo;Olimpico di Roma &egrave; stata lo scorso 16 giugno, nella seconda partita del girone di Euro 2020. Rappresenta un&rsquo;importante tappa nell&rsquo;avvicinamento della nostra nazionale al trionfo di Wembley che avverr&agrave; di l&igrave; a poche settimane. Il match &egrave; stato un vero e proprio trionfo azzurro, finito 3-0 grazie alla doppietta di Manuel Locatelli e alla chiosa finale di Ciro Immobile.&nbsp;         

Le due nazionali si sono affrontate gi&agrave; cinque volte nella Capitale: la prima nel lontano 1930, l'ultima nel corso dell'ultimo Europeo vinto dagli azzurri

Italia-Svizzera, tutti i precedenti giocati a Roma

Il derby d&#39;Italia finisce 1-1: la squadra di Allegri riacciuffa i nerazzurri negli ultimi minuti del match

Inter-Juve: Dybala risponde a Dzeko. Il film del campionato

Italia e Belgio si affrontano per la 24esima volta nella storia: si gioca la "finalina", valida per il terzo e quarto posto della Nations League. &Egrave; l'ottavo scontro che conta tra le due nazionali: dopo sette gare amichevoli, disputate tra il 1913 e il 1952, il primo confronto in una grande competizione si concretizza nella Coppa del Mondo 1954. <h2>Lo strano criterio della fase a gironi del Mondiale 1954</h2> Sono passati poco pi&ugrave; di sei mesi dall'arrivo della televisione in Italia, quando la Nazionale e il Belgio si affrontano il 20 giugno 1954 al Cornaredo di Lugano, palcoscenico della partita valevole per il Gruppo 4 dei Mondiali svizzeri. &Egrave; la prima volta (e ad oggi anche l'unica) che Azzurri e belgi si incontrano in un match della Coppa del Mondo. Criteri strani, quelli scelti dalla FIFA per la rassegna elvetica: due squadre considerate le pi&ugrave; forti di ogni gruppo non si sarebbero incontrate e, per ogni girone da quattro, ogni nazionale avrebbe giocato solamente due partite: se la seconda e la terza fossero state a pari punti, allora via libera allo spareggio. L'Italia, allenata dal duo Lajos Czeizler-Angelo Schiavio, ha perso al debutto contro la Svizzera e non giocher&agrave; contro l'Inghilterra. Contro il Belgio, gli Azzurri sono quindi obbligati a vincere. <h2>Italia-Belgio 1954, dominio azzurro</h2> I nostri, che schierano in attacco l'interista Benito Lorenzi e i romanisti Carlo Galli-Egisto Pandolfini, dominano sin da subito. Il match si sblocca al 41' con un rigore di Pandolfini. Nella ripresa, Lorenzi mette al centro dalla sinistra e di testa Galli si tuffa e mette dentro. Al 58&rsquo;, quando il Belgio si &egrave; gi&agrave; arreso, arriva il tris con il tap-in vincente di Frignani, ala del Milan dal nome "esotico", Amleto. Al 78' ecco il poker a opera di "Veleno" Lorenzi. Per i belgi, solo la gioia del gol della bandiera, realizzato da Anoul. Gli Azzurri fanno festa: ancora non sanno che allo spareggio di qualificazione beccheranno, stavolta loro, 4 gol a 1 dalla Svizzera.

        Italia e Belgio si affrontano per la 24esima volta nella storia: si gioca la "finalina", valida per il terzo e quarto posto della Nations League. &Egrave; l'ottavo scontro che conta tra le due nazionali: dopo sette gare amichevoli, disputate tra il 1913 e il 1952, il primo confronto in una grande competizione si concretizza nella Coppa del Mondo 1954. Lo strano criterio della fase a gironi del Mondiale 1954 Sono passati poco pi&ugrave; di sei mesi dall'arrivo della televisione in Italia, quando la Nazionale e il Belgio si affrontano il 20 giugno 1954 al Cornaredo di Lugano, palcoscenico della partita valevole per il Gruppo 4 dei Mondiali svizzeri. &Egrave; la prima volta (e ad oggi anche l'unica) che Azzurri e belgi si incontrano in un match della Coppa del Mondo. Criteri strani, quelli scelti dalla FIFA per la rassegna elvetica: due squadre considerate le pi&ugrave; forti di ogni gruppo non si sarebbero incontrate e, per ogni girone da quattro, ogni nazionale avrebbe giocato solamente due partite: se la seconda e la terza fossero state a pari punti, allora via libera allo spareggio. L'Italia, allenata dal duo Lajos Czeizler-Angelo Schiavio, ha perso al debutto contro la Svizzera e non giocher&agrave; contro l'Inghilterra. Contro il Belgio, gli Azzurri sono quindi obbligati a vincere. Italia-Belgio 1954, dominio azzurro I nostri, che schierano in attacco l'interista Benito Lorenzi e i romanisti Carlo Galli-Egisto Pandolfini, dominano sin da subito. Il match si sblocca al 41' con un rigore di Pandolfini. Nella ripresa, Lorenzi mette al centro dalla sinistra e di testa Galli si tuffa e mette dentro. Al 58&rsquo;, quando il Belgio si &egrave; gi&agrave; arreso, arriva il tris con il tap-in vincente di Frignani, ala del Milan dal nome "esotico", Amleto. Al 78' ecco il poker a opera di "Veleno" Lorenzi. Per i belgi, solo la gioia del gol della bandiera, realizzato da Anoul. Gli Azzurri fanno festa: ancora non sanno che allo spareggio di qualificazione beccheranno, stavolta loro, 4 gol a 1 dalla Svizzera.       

Il 20 giugno di 67 anni fa gli Azzurri sconfissero i Diavoli Rossi in una partita della Coppa del Mondo in Svizzera: fu il primo precedente tra le due nazionali in una grande competizione

Italia-Belgio: nel 1954 un poker da Mondiale

Crescendo nel nord-est italiano, in particolar modo in Veneto e nel vicentino, &egrave; scontato conoscere almeno un Baggio nel corso della propria vita. Meno scontato &egrave; vederne due insieme contemporaneamente con la maglia della Nazionale, e ancora meno leggerli come marcatori sul tabellino di una partita del Mondiale. Eppure &egrave; successo il 9 luglio del 1994, durante il quarto di finale Italia-Spagna. I due Baggio sono ovviamente il Divin Codino, croce e delizia del Mondiale a stelle strisce che prima ci trascin&ograve;, unico faro nell&rsquo;autoreferenziale buio di Arrigo Sacchi, per poi fallire il celebre rigore, e Dino, egregio gregario e incontrista della mediana, uno dei centrocampisti pi&ugrave; forti della sua generazione. <o:p></o:p> <h2>Il match e la doppia firma dei Baggio<o:p></o:p></h2> &Eacute; stato proprio Dino, dopo pi&ugrave; di venti minuti di continui cambi di fronte, a siglare la rete del vantaggio. Il ragazzo di Camposampiero, presa palla poco fuori dall&rsquo;area di rigore, lascia partire una staffilata di collo pieno che si infila a mezza altezza a fil di palo non lasciando scampo a Zubizarreta. &Eacute;&nbsp;un gol fantastico, ma soprattutto importante, visto che spezza gli equilibri indirizzando l&rsquo;inerzia del match dalla parte degli azzurri. Il resto del primo tempo si trascina verso il termine con gli spagnoli che tengono palla e i ragazzi di Sacchi che tentano veloci verticalizzazioni per Roberto Baggio, costante spina nel fianco degli iberici. Nella seconda frazione il pressing delle Furie Rosse si fa pi&ugrave; alto, i nostri perdono campo e arriva l&rsquo;inevitabile pareggio su un tiro deviato di Caminero.&nbsp;A salvare le sorti del confusionario reparto offensivo azzurro ci pensa neanche a dirlo, il solito Divin Codino che, a 3 minuti dal 90&rsquo;, scarta l&rsquo;estremo difensore spagnolo e fa 2-1.<o:p></o:p> <h2>La prima volta della prova tv<o:p></o:p></h2> L&rsquo;Italia intera esplode, i ragazzi in maglia azzurra dall&rsquo;altra parte dell&rsquo;oceano sono a pochi minuti dalla semifinale, ma la partita ha ancora qualcosa da dire. La quaterna arbitrale concede sei minuti di recupero e gli spagnoli si gettano in avanti. A poco pi&ugrave; di sessanta secondi dal termine, su una palla tesa da destra, Tassotti vede accorrere Luis Enrique di gran carriera e, per non correre rischi, lo colpisce con una gomitata sul setto nasale. Ko tecnico. Il fantasista spagnolo &egrave; una maschera di sangue, in diretta l&rsquo;arbitro non vede nulla, finisce 2-1 con l&rsquo;Italia in semifinale. La stangata per Tassotti arriver&agrave; dalla prova tv, usata per la prima volta nella storia, che lo squalificher&agrave; per 8 turni, mettendo la parola fine sul suo Mondiale e, pi&ugrave; in generale, sulla sua avventura in azzurro.<o:p></o:p>

        Crescendo nel nord-est italiano, in particolar modo in Veneto e nel vicentino, &egrave; scontato conoscere almeno un Baggio nel corso della propria vita. Meno scontato &egrave; vederne due insieme contemporaneamente con la maglia della Nazionale, e ancora meno leggerli come marcatori sul tabellino di una partita del Mondiale. Eppure &egrave; successo il 9 luglio del 1994, durante il quarto di finale Italia-Spagna. I due Baggio sono ovviamente il Divin Codino, croce e delizia del Mondiale a stelle strisce che prima ci trascin&ograve;, unico faro nell&rsquo;autoreferenziale buio di Arrigo Sacchi, per poi fallire il celebre rigore, e Dino, egregio gregario e incontrista della mediana, uno dei centrocampisti pi&ugrave; forti della sua generazione.  Il match e la doppia firma dei Baggio  &Eacute; stato proprio Dino, dopo pi&ugrave; di venti minuti di continui cambi di fronte, a siglare la rete del vantaggio. Il ragazzo di Camposampiero, presa palla poco fuori dall&rsquo;area di rigore, lascia partire una staffilata di collo pieno che si infila a mezza altezza a fil di palo non lasciando scampo a Zubizarreta. &Eacute;&nbsp;un gol fantastico, ma soprattutto importante, visto che spezza gli equilibri indirizzando l&rsquo;inerzia del match dalla parte degli azzurri. Il resto del primo tempo si trascina verso il termine con gli spagnoli che tengono palla e i ragazzi di Sacchi che tentano veloci verticalizzazioni per Roberto Baggio, costante spina nel fianco degli iberici. Nella seconda frazione il pressing delle Furie Rosse si fa pi&ugrave; alto, i nostri perdono campo e arriva l&rsquo;inevitabile pareggio su un tiro deviato di Caminero.&nbsp;A salvare le sorti del confusionario reparto offensivo azzurro ci pensa neanche a dirlo, il solito Divin Codino che, a 3 minuti dal 90&rsquo;, scarta l&rsquo;estremo difensore spagnolo e fa 2-1. La prima volta della prova tv  L&rsquo;Italia intera esplode, i ragazzi in maglia azzurra dall&rsquo;altra parte dell&rsquo;oceano sono a pochi minuti dalla semifinale, ma la partita ha ancora qualcosa da dire. La quaterna arbitrale concede sei minuti di recupero e gli spagnoli si gettano in avanti. A poco pi&ugrave; di sessanta secondi dal termine, su una palla tesa da destra, Tassotti vede accorrere Luis Enrique di gran carriera e, per non correre rischi, lo colpisce con una gomitata sul setto nasale. Ko tecnico. Il fantasista spagnolo &egrave; una maschera di sangue, in diretta l&rsquo;arbitro non vede nulla, finisce 2-1 con l&rsquo;Italia in semifinale. La stangata per Tassotti arriver&agrave; dalla prova tv, usata per la prima volta nella storia, che lo squalificher&agrave; per 8 turni, mettendo la parola fine sul suo Mondiale e, pi&ugrave; in generale, sulla sua avventura in azzurro.       

In vista della semifinale di Nations League contro gli iberici, il precedente del Mondiale americano in cui Tassotti colp&igrave; l&rsquo;attuale Ct delle Furie Rosse

Italia-Spagna: Usa ‘94, i Baggio e la gomitata a Luis Enrique

Un gigante proveniente dal Mar Baltico, dalla Lituania precisamente. Tomas Danilevicius, uno degli ultimi veri bomber d&rsquo;area di rigore. Fisico imponente (190 centimetri per circa 85 kg), ha legato gran parte della sua carriera al calcio italiano. Classico ariete abile sotto porta, utilissimo per attuare un gioco che oggi sta sottovoce scomparendo: tra falsi 9 e attaccanti rapidi in continua ricerca della profondit&agrave; che svariano su tutto il fronte offensivo, la palla lunga verso il &ldquo;lungagnone&rdquo; che fa salire la squadra si sta allontanando dal dizionario della maggior parte degli allenatori. I tecnici moderni ricercano ormai, anche nelle punte pi&ugrave; imponenti fisicamente, la dote del fraseggio, del saper dialogare con i compagni. <h2>Le esperienze di Danilevicius in giro per l&rsquo;Europa</h2> &nbsp; Danilevicius ha appeso gli scarpini al chiodo nel 2014, dopo aver conosciuto l&rsquo;Italia nel lontano 2002. Prima di approdare nel Belpaese &egrave; sbocciato nella sua terra tra le file dell&rsquo;Atlantas, passando poi per il Club Bruges e cominciando a segnare in Russia, con la maglia della Dinamo Mosca. La stagione a cavallo tra il vecchio e il nuovo millennio, in cui segna 4 reti in sole 7 presenze con il Losanna nel campionato svizzero attrae le sirene di una grandissima del calcio mondiale: &egrave; l&rsquo;Arsenal di Wenger a ingaggiarlo. L&rsquo;esperienza nel Nord di Londra, per&ograve;, dura pochissimo: scampoli di Premier League (2 presenze con un totale di 37 minuti giocati e nessun gol). Sicuramente non &egrave; facile trovare spazio in un reparto offensivo che pu&ograve; contare su mostri sacri come Thierry Henry, Dennis Bergkamp e Sylvain Wiltord, ma, forse, sia lui che i tifosi dei Gunners &ndash; soprattutto dopo la rete firmata nell&rsquo;amichevole di lusso al Barcellona &ndash; si aspettavano di pi&ugrave;. A una breve parentesi in prestito con gli scozzesi del Dunfermline, segue l&rsquo;esperienza con il Beveren, un ritorno nel campionato belga che gli apre le frontiere per l&rsquo;Italia. <h2>Gli anni a Livorno e i giri nel Belpaese</h2> &nbsp; Approda nel nostro campionato nel 2002, a 24 anni, per vestire la maglia numero 9 del Livorno con cui disputa il campionato di Serie B. Donadoni prima e Mazzarri poi lo impiegano con buona costanza, ma il bomber lituano non riesce a fare la differenza. Se nella prima stagione mette a segno solo una rete, nel seguente campionato ne realizza quattro, comunque importanti perch&eacute; contribuiscono &ndash; anche se inmodo marginale rispetto ai 53 centri della super coppia Lucarelli-Protti &ndash; al ritorno in Serie A dei labronici a distanza di 55 anni. Assaggia quindi la massima serie nel 2004-05, campionato in cui i toscani si piazzano a sorpresa noni. Segna il suo primo gol nella sconfitta di Lecce e marchia la vittoriosa trasferta del Rigamonti contro il Brescia. Visto il poco spazio trovato, viene poi ceduto in prestito all&rsquo;Avellino dove disputa la sua miglior stagione in carriera: 17 gol, che purtroppo non evitano la retrocessione dei campani. A Livorno Danilevicius &egrave; ricordato soprattutto per quello che accade la sera del 14 settembre 2006 all&rsquo;Armando Picchi, quando, in un match di Coppa Uefa contro il Pasching, segna il primo storico gol amaranto nelle coppe europee. La sua carriera prosegue a spasso nello Stivale: milita due stagioni al Bologna, una al Grosseto, torna a Livorno per un triennio, dove stabilisce il suo record di marcature in SerieA (5 nel 2009-10), prima di mettere a segno 12 reti con la Juve Stabia nell&rsquo;arco di due stagioni. Chiude la carriera con le fugaci esperienze a Latina e all&rsquo;ND Gorica, prima di transitare a Parma, dove per&ograve; non scende mai in campo. <h2>Il record con la Lituania e l&rsquo;importante incarico in Federazione</h2> &nbsp; Debutta con la nazionale lituana nel 1998 contro la Bosnia. Da quel 14 ottobre seguono 70 presenze con la maglia gialla. Danilevicius mette a referto ben 19 reti, che ne fanno tutt&rsquo;oggi il miglior marcatore di sempre. Capitano dal 2006, proprio con la fascia al braccio, la sera del 2 settembre 2006, segna uno dei gol pi&ugrave; prestigiosi della sua carriera al San Paolo di Napoli. Quel giorno punisce gli azzurri freschi campioni del mondo grazie a un assist di un&rsquo;altra vecchia conoscenza del nostro calcio come Stankevicius. La rete del vantaggio lituano viene poi pareggiata da Pippo Inzaghi. Un pareggio storico per la piccola Lituania, che l&rsquo;attaccante ha ricordato cos&igrave; in una recente intervista: &ldquo;Ho fatto un gol anche a Gigi, si tratta dell&rsquo;unico gol della Lituania all&rsquo;Italia, certo fare gol contro l&rsquo;Italia, che poco prima aveva alzato al cielo la coppa del mondo, pes&ograve; molto, e me lo ricorder&ograve; per sempre&rdquo;. Come giustamente detto dal gigante di Klaipeda, resta quello l&rsquo;unico sigillo della nazionale baltica nei sette precedenti contro gli azzurri. Tre anni dopo aver appeso gli scarpini al chiodo viene eletto presidente della Federazione calcistica della Lituania, ruolo che ancora oggi ricopre.

        Un gigante proveniente dal Mar Baltico, dalla Lituania precisamente. Tomas Danilevicius, uno degli ultimi veri bomber d&rsquo;area di rigore. Fisico imponente (190 centimetri per circa 85 kg), ha legato gran parte della sua carriera al calcio italiano. Classico ariete abile sotto porta, utilissimo per attuare un gioco che oggi sta sottovoce scomparendo: tra falsi 9 e attaccanti rapidi in continua ricerca della profondit&agrave; che svariano su tutto il fronte offensivo, la palla lunga verso il &ldquo;lungagnone&rdquo; che fa salire la squadra si sta allontanando dal dizionario della maggior parte degli allenatori. I tecnici moderni ricercano ormai, anche nelle punte pi&ugrave; imponenti fisicamente, la dote del fraseggio, del saper dialogare con i compagni. Le esperienze di Danilevicius in giro per l&rsquo;Europa &nbsp; Danilevicius ha appeso gli scarpini al chiodo nel 2014, dopo aver conosciuto l&rsquo;Italia nel lontano 2002. Prima di approdare nel Belpaese &egrave; sbocciato nella sua terra tra le file dell&rsquo;Atlantas, passando poi per il Club Bruges e cominciando a segnare in Russia, con la maglia della Dinamo Mosca. La stagione a cavallo tra il vecchio e il nuovo millennio, in cui segna 4 reti in sole 7 presenze con il Losanna nel campionato svizzero attrae le sirene di una grandissima del calcio mondiale: &egrave; l&rsquo;Arsenal di Wenger a ingaggiarlo. L&rsquo;esperienza nel Nord di Londra, per&ograve;, dura pochissimo: scampoli di Premier League (2 presenze con un totale di 37 minuti giocati e nessun gol). Sicuramente non &egrave; facile trovare spazio in un reparto offensivo che pu&ograve; contare su mostri sacri come Thierry Henry, Dennis Bergkamp e Sylvain Wiltord, ma, forse, sia lui che i tifosi dei Gunners &ndash; soprattutto dopo la rete firmata nell&rsquo;amichevole di lusso al Barcellona &ndash; si aspettavano di pi&ugrave;. A una breve parentesi in prestito con gli scozzesi del Dunfermline, segue l&rsquo;esperienza con il Beveren, un ritorno nel campionato belga che gli apre le frontiere per l&rsquo;Italia. Gli anni a Livorno e i giri nel Belpaese &nbsp; Approda nel nostro campionato nel 2002, a 24 anni, per vestire la maglia numero 9 del Livorno con cui disputa il campionato di Serie B. Donadoni prima e Mazzarri poi lo impiegano con buona costanza, ma il bomber lituano non riesce a fare la differenza. Se nella prima stagione mette a segno solo una rete, nel seguente campionato ne realizza quattro, comunque importanti perch&eacute; contribuiscono &ndash; anche se inmodo marginale rispetto ai 53 centri della super coppia Lucarelli-Protti &ndash; al ritorno in Serie A dei labronici a distanza di 55 anni. Assaggia quindi la massima serie nel 2004-05, campionato in cui i toscani si piazzano a sorpresa noni. Segna il suo primo gol nella sconfitta di Lecce e marchia la vittoriosa trasferta del Rigamonti contro il Brescia. Visto il poco spazio trovato, viene poi ceduto in prestito all&rsquo;Avellino dove disputa la sua miglior stagione in carriera: 17 gol, che purtroppo non evitano la retrocessione dei campani. A Livorno Danilevicius &egrave; ricordato soprattutto per quello che accade la sera del 14 settembre 2006 all&rsquo;Armando Picchi, quando, in un match di Coppa Uefa contro il Pasching, segna il primo storico gol amaranto nelle coppe europee. La sua carriera prosegue a spasso nello Stivale: milita due stagioni al Bologna, una al Grosseto, torna a Livorno per un triennio, dove stabilisce il suo record di marcature in SerieA (5 nel 2009-10), prima di mettere a segno 12 reti con la Juve Stabia nell&rsquo;arco di due stagioni. Chiude la carriera con le fugaci esperienze a Latina e all&rsquo;ND Gorica, prima di transitare a Parma, dove per&ograve; non scende mai in campo.  Il record con la Lituania e l&rsquo;importante incarico in Federazione &nbsp; Debutta con la nazionale lituana nel 1998 contro la Bosnia. Da quel 14 ottobre seguono 70 presenze con la maglia gialla. Danilevicius mette a referto ben 19 reti, che ne fanno tutt&rsquo;oggi il miglior marcatore di sempre. Capitano dal 2006, proprio con la fascia al braccio, la sera del 2 settembre 2006, segna uno dei gol pi&ugrave; prestigiosi della sua carriera al San Paolo di Napoli. Quel giorno punisce gli azzurri freschi campioni del mondo grazie a un assist di un&rsquo;altra vecchia conoscenza del nostro calcio come Stankevicius. La rete del vantaggio lituano viene poi pareggiata da Pippo Inzaghi. Un pareggio storico per la piccola Lituania, che l&rsquo;attaccante ha ricordato cos&igrave; in una recente intervista: &ldquo;Ho fatto un gol anche a Gigi, si tratta dell&rsquo;unico gol della Lituania all&rsquo;Italia, certo fare gol contro l&rsquo;Italia, che poco prima aveva alzato al cielo la coppa del mondo, pes&ograve; molto, e me lo ricorder&ograve; per sempre&rdquo;. Come giustamente detto dal gigante di Klaipeda, resta quello l&rsquo;unico sigillo della nazionale baltica nei sette precedenti contro gli azzurri. Tre anni dopo aver appeso gli scarpini al chiodo viene eletto presidente della Federazione calcistica della Lituania, ruolo che ancora oggi ricopre.       

Il bomber baltico ha militato 12 anni nel nostro Paese: tra Serie A e B non ha mai lasciato il segno sperato, mentre per la sua nazionale &egrave; una leggenda

Italia-Lituania: Danilevicius, un gigante a spasso nello Stivale

Ha giocato 40 partite con l&rsquo;Inter, pi&ugrave; di 100 con il Bayern Monaco, nel suo palmar&egrave;s figurano Champions League, Coppa Uefa e Intercontinentale; eppure, Ciriaco Sforza viene ricordato ancora oggi per una battuta del film &ldquo;Tre uomini e una gamba&rdquo; del trio Aldo, Giovanni e Giacomo. Quest&rsquo;ultimo, in ospedale, non avendo pigiama, si fa prestare una maglietta dell&rsquo;Inter, squadra del cuore sua e del trio. Ma, come dice Aldo, &ldquo;Quella di Ronaldo era finita&rdquo;, e il povero Giacomino fu costretto a riposare con la casacca nerazzurra numero 21 di Sforza. <h2>L'esperienza di Sforza all'Inter</h2> &nbsp; Da quella scena in poi, il nome del centrocampista svizzero diviene celebre tra gli appassionati di cinema e calcio. Lui che, in realt&agrave;, con il Fenomeno brasiliano non ci gioc&ograve; mai insieme. Sforza ha giocato infatti una sola stagione all&rsquo;Inter, 1996-97. Regista, dovette sudarsi la maglia da titolare con l&rsquo;inglese Ince. Esord&igrave; a Udine segnando anche un bel gol, e giocando da titolare la finale di Coppa Uefa persa con lo Schalke 04. Nell&rsquo;estate del &rsquo;97 vol&ograve; in Germania, mentre Ronaldo sbarcava a Milano. <h2>Con la nazionale svizzera</h2> &nbsp; Quella nerazzurra &egrave; una parentesi nella carriera di un giocatore fondamentale per la sua Nazionale. Con la Svizzera ha giocato dal 1991 al 2001, un decennio in cui ha raccolto 79 presenze. Con la maglia elvetica esplode sotto la gestione del ct Hodgson, che poi infatti lo porter&agrave; con s&eacute; a Milano. Nei dieci anni in Nazionale ha affrontato l&rsquo;Italia diverse volte, di cui due con la fascia da capitano al braccio. La prima volta il 10 ottobre 1998, al vecchio &ldquo;Friuli&rdquo; di Udine, in un match valido per le qualificazioni agli Europei del 2000. Indossa la maglia numero 10 e viene schierato dal ct Gress nell&rsquo;insolito ruolo di trequartista alle spalle dell&rsquo;unica punta Chapuisat. Una doppietta di Alex Del Piero consent&igrave; all&rsquo;Italia di centrare la vittoria. La seconda partita &egrave; il match di ritorno contro gli azzurri. Si gioca il 9 giugno 1999 all&rsquo;Olympique de la Pontaise di Losanna, stavolta gioca nei due di centrocampo, ma la sostanza non cambia, con la Svizzera bloccata sullo 0-0. Ma quel giorno, &ldquo;Tre uomini e una gamba&rdquo; lo aveva gi&agrave; reso una celebrit&agrave;.

        Ha giocato 40 partite con l&rsquo;Inter, pi&ugrave; di 100 con il Bayern Monaco, nel suo palmar&egrave;s figurano Champions League, Coppa Uefa e Intercontinentale; eppure, Ciriaco Sforza viene ricordato ancora oggi per una battuta del film &ldquo;Tre uomini e una gamba&rdquo; del trio Aldo, Giovanni e Giacomo. Quest&rsquo;ultimo, in ospedale, non avendo pigiama, si fa prestare una maglietta dell&rsquo;Inter, squadra del cuore sua e del trio. Ma, come dice Aldo, &ldquo;Quella di Ronaldo era finita&rdquo;, e il povero Giacomino fu costretto a riposare con la casacca nerazzurra numero 21 di Sforza. L'esperienza di Sforza all'Inter &nbsp; Da quella scena in poi, il nome del centrocampista svizzero diviene celebre tra gli appassionati di cinema e calcio. Lui che, in realt&agrave;, con il Fenomeno brasiliano non ci gioc&ograve; mai insieme. Sforza ha giocato infatti una sola stagione all&rsquo;Inter, 1996-97. Regista, dovette sudarsi la maglia da titolare con l&rsquo;inglese Ince. Esord&igrave; a Udine segnando anche un bel gol, e giocando da titolare la finale di Coppa Uefa persa con lo Schalke 04. Nell&rsquo;estate del &rsquo;97 vol&ograve; in Germania, mentre Ronaldo sbarcava a Milano. Con la nazionale svizzera &nbsp; Quella nerazzurra &egrave; una parentesi nella carriera di un giocatore fondamentale per la sua Nazionale. Con la Svizzera ha giocato dal 1991 al 2001, un decennio in cui ha raccolto 79 presenze. Con la maglia elvetica esplode sotto la gestione del ct Hodgson, che poi infatti lo porter&agrave; con s&eacute; a Milano. Nei dieci anni in Nazionale ha affrontato l&rsquo;Italia diverse volte, di cui due con la fascia da capitano al braccio. La prima volta il 10 ottobre 1998, al vecchio &ldquo;Friuli&rdquo; di Udine, in un match valido per le qualificazioni agli Europei del 2000. Indossa la maglia numero 10 e viene schierato dal ct Gress nell&rsquo;insolito ruolo di trequartista alle spalle dell&rsquo;unica punta Chapuisat. Una doppietta di Alex Del Piero consent&igrave; all&rsquo;Italia di centrare la vittoria. La seconda partita &egrave; il match di ritorno contro gli azzurri. Si gioca il 9 giugno 1999 all&rsquo;Olympique de la Pontaise di Losanna, stavolta gioca nei due di centrocampo, ma la sostanza non cambia, con la Svizzera bloccata sullo 0-0. Ma quel giorno, &ldquo;Tre uomini e una gamba&rdquo; lo aveva gi&agrave; reso una celebrit&agrave;.       

L&rsquo;ex regista elvetico ha giocato due volte contro gli azzurri e raccolto 40 presenze in nerazzurro, ma &egrave; ricordato per una scena di "Tre uomini e una gamba"

Svizzera-Italia: Sforza, meteora all’Inter tra calcio e cinema

A quasi due mesi di distanza i ragazzi dell&rsquo;impresa di Wembley tornano a vestire la maglia azzurra. Lo fanno all&rsquo;Artemio Franchi di Firenze nel quarto turno delle qualificazioni mondiali contro la Bulgaria. Tutto questo non pu&ograve; che far tornare alla memoria al pallonaro popolo italico dolci ricordi che risalgono al 1994, quando contro i leoni dei Balcani ci giocammo nientemeno che una semifinale del mondiale americano. <h2>Il 1994 e il cammino mondiale</h2> Il nostro martoriato Paese nell&rsquo;estate del 1994 usciva da due degli anni pi&ugrave; burrascosi mai vissuti almeno dai tempi del dopoguerra. Mani Pulite aveva appena spazzato via quella che ancora oggi viene ricordata dagli storiografi come Prima Repubblica, la fiducia nel Parlamento e nelle istituzioni ha raggiunto i minimi storici e Berlusconi, per contrastare quei sondaggi che danno praticamente certa la vittoria della coalizione di centrosinistra, scende in campo in prima persona con un programma liberale, vincendo nelle elezioni di fine marzo. Ma agli occhi degli italiani si sa, per quanto importanti, la totalit&agrave; degli accadimenti politici cade pressoch&eacute; nell&rsquo;insignificanza di fronte a tre parole: Campionato del Mondo.&nbsp; Il torneo per la Nazionale guidata da Arrigo Sacchi inizia subito in salita. Complici probabilmente anche le temperature proibitive in cui si giocano spesso le partite del mondiale USA, gli azzurri faticano ad assimilare il dispendioso gioco del tecnico di Fusignano, perdendo il match d&rsquo;esordio per 1-0 contro l&rsquo;Irlanda. Nelle successive due gare l&rsquo;Italia sconfigge la Norvegia e pareggia con il Messico, legando il passaggio del turno ad un complicato incastro di differenza reti. Alla fine viene ripescata come miglior terza grazie alla goleada della Russia sul Camerun, ma le polemiche e le critiche travolgono Sacchi, reo di aver quasi perso il treno degli ottavi in un girone tutto sommato non proibitivo. Anche il turno successivo &egrave; un&rsquo;autentica agonia: gli azzurri acciuffano il pareggio in extremis dopo essere stati sotto per quasi tutto il match contro una modestissima Nigeria, prima di vincere per 2-1 nei supplementari. Con lo stesso risultato, anche se maturato nei 90 minuti, la Nazionale supera la Spagna ai quarti, grazie al gol del solito Roberto Baggio a tre minuti dal termine. <h2>Italia-Bulgaria, la vittoria di Baggio e di Pirro</h2> In semifinale ad attendere gli azzurri di Sacchi c&rsquo;&egrave; la Bulgaria, una formazione solida trascinata da una generazione di fenomeni guidati da Hristo Stoickov. La nazionale italiana, a differenza di tutte le uscite precedenti, inizia bene la gara e dopo 25 minuti &egrave; sopra di due gol grazie alle reti del solito, magnifico Divin Codino. Quasi allo scadere della prima frazione Pagliuca atterra Sirakov in area concedendo ai bulgari un tiro dal dischetto, prontamente trasformato in gol da Stoickov.&nbsp; Nella ripresa l&rsquo;11 di Sacchi si difende con diligenza e riesce a portare a casa il passaggio del turno. Nonostante l&rsquo;euforia collettiva per&ograve;, la vittoria sui bulgari si riveler&agrave; la pi&ugrave; classica delle vittorie di Pirro. Durante la seconda frazione infatti usciranno per infortunio sia Dino che Roberto Baggio, con quest&rsquo;ultimo che aveva fino ad allora rappresentato forse l&rsquo;unico spiraglio di luce nel buio della trequarti azzurra. Costacurta viene ammonito, vedendosi cos&igrave; costretto a saltare la finale, e aggiungendosi alla lista degli indisponibili. Al netto delle numerose defezioni,&nbsp; con&nbsp; Roberto Baggio e Franco Baresi a mezzo servizio, l&rsquo;Italia non riuscir&agrave; a superare il Brasile nella compianta finale di Pasadena.

        A quasi due mesi di distanza i ragazzi dell&rsquo;impresa di Wembley tornano a vestire la maglia azzurra. Lo fanno all&rsquo;Artemio Franchi di Firenze nel quarto turno delle qualificazioni mondiali contro la Bulgaria. Tutto questo non pu&ograve; che far tornare alla memoria al pallonaro popolo italico dolci ricordi che risalgono al 1994, quando contro i leoni dei Balcani ci giocammo nientemeno che una semifinale del mondiale americano.  Il 1994 e il cammino mondiale  Il nostro martoriato Paese nell&rsquo;estate del 1994 usciva da due degli anni pi&ugrave; burrascosi mai vissuti almeno dai tempi del dopoguerra. Mani Pulite aveva appena spazzato via quella che ancora oggi viene ricordata dagli storiografi come Prima Repubblica, la fiducia nel Parlamento e nelle istituzioni ha raggiunto i minimi storici e Berlusconi, per contrastare quei sondaggi che danno praticamente certa la vittoria della coalizione di centrosinistra, scende in campo in prima persona con un programma liberale, vincendo nelle elezioni di fine marzo. Ma agli occhi degli italiani si sa, per quanto importanti, la totalit&agrave; degli accadimenti politici cade pressoch&eacute; nell&rsquo;insignificanza di fronte a tre parole: Campionato del Mondo.&nbsp; Il torneo per la Nazionale guidata da Arrigo Sacchi inizia subito in salita. Complici probabilmente anche le temperature proibitive in cui si giocano spesso le partite del mondiale USA, gli azzurri faticano ad assimilare il dispendioso gioco del tecnico di Fusignano, perdendo il match d&rsquo;esordio per 1-0 contro l&rsquo;Irlanda. Nelle successive due gare l&rsquo;Italia sconfigge la Norvegia e pareggia con il Messico, legando il passaggio del turno ad un complicato incastro di differenza reti. Alla fine viene ripescata come miglior terza grazie alla goleada della Russia sul Camerun, ma le polemiche e le critiche travolgono Sacchi, reo di aver quasi perso il treno degli ottavi in un girone tutto sommato non proibitivo. Anche il turno successivo &egrave; un&rsquo;autentica agonia: gli azzurri acciuffano il pareggio in extremis dopo essere stati sotto per quasi tutto il match contro una modestissima Nigeria, prima di vincere per 2-1 nei supplementari. Con lo stesso risultato, anche se maturato nei 90 minuti, la Nazionale supera la Spagna ai quarti, grazie al gol del solito Roberto Baggio a tre minuti dal termine.  Italia-Bulgaria, la vittoria di Baggio e di Pirro  In semifinale ad attendere gli azzurri di Sacchi c&rsquo;&egrave; la Bulgaria, una formazione solida trascinata da una generazione di fenomeni guidati da Hristo Stoickov. La nazionale italiana, a differenza di tutte le uscite precedenti, inizia bene la gara e dopo 25 minuti &egrave; sopra di due gol grazie alle reti del solito, magnifico Divin Codino. Quasi allo scadere della prima frazione Pagliuca atterra Sirakov in area concedendo ai bulgari un tiro dal dischetto, prontamente trasformato in gol da Stoickov.&nbsp; Nella ripresa l&rsquo;11 di Sacchi si difende con diligenza e riesce a portare a casa il passaggio del turno. Nonostante l&rsquo;euforia collettiva per&ograve;, la vittoria sui bulgari si riveler&agrave; la pi&ugrave; classica delle vittorie di Pirro. Durante la seconda frazione infatti usciranno per infortunio sia Dino che Roberto Baggio, con quest&rsquo;ultimo che aveva fino ad allora rappresentato forse l&rsquo;unico spiraglio di luce nel buio della trequarti azzurra. Costacurta viene ammonito, vedendosi cos&igrave; costretto a saltare la finale, e aggiungendosi alla lista degli indisponibili. Al netto delle numerose defezioni,&nbsp; con&nbsp; Roberto Baggio e Franco Baresi a mezzo servizio, l&rsquo;Italia non riuscir&agrave; a superare il Brasile nella compianta finale di Pasadena.         

Nel mondiale a stelle e strisce gli azzurri vinsero la semifinale contro i leoni dei Balcani trascinati dal Divin Codino

Italia-Bulgaria USA 1994, il capolavoro di Roberto Baggio

L&rsquo;ultimo grande risultato dell&rsquo;Italbasket alle Olimpiadi fu l&rsquo;incredibile cammino con il quale, ad Atene, gli uomini di Carlo Recalcati si videro fermare solo in finale da un&rsquo;Argentina troppo forte e troppo organizzata. Non ci fu nulla da fare per gli stanchi reduci dalla battaglia conclusasi 100-91 contro i lituani, corazzata che da tutti veniva descritta come squadra pi&ugrave; organizzata per ambire all&rsquo;oro. Gli uomini di Meo Sacchetti dovranno cercare di emulare e dovranno ispirarsi alle gesta, a dir poco stoiche, del gruppo capitanato da Jack Galanda ai Giochi del 2004 in terra greca. <h2>Le prime partite dell'Italbasket</h2> Nella diffidenza generale la squadra di Charlie, come veniva chiamato ai tempi Recalcati, parte vincendo contro la Nuova Zelanda. &Egrave; una partita molto particolare nella quale gli azzurri prima sembrano essere intimoriti dall&rsquo;Haka Maori e dalla fisicit&agrave; degli oceanici, poi alla distanza esce fuori il talento e la vera anima di questo team che nella difficolt&agrave; del vero leader offensivo Basile trova le prestazioni sopra le righe dei comprimari della panchina per vincere.&nbsp;Pozzecco, convocato tra molte polemiche visto il suo carattere che &egrave; un eufemismo descrivere come complicato, lascia intendere fin da subito che sar&agrave; uno dei protagonisti della spedizione tricolore. Arrivano due sconfitte contro Serbia e Montenegro e Spagna che riportano l&rsquo;Italia sulla terra nonostante il buon inizio.&nbsp;I protagonisti di questa avventura sanno, per&ograve;, quali sono le loro potenzialit&agrave;.&nbsp;Gli azzurri inanellano altrettante vittorie, e si fanno due scalpi illustri come la Cina di Yao Ming e l&rsquo;Argentina di Manu Ginobili.&nbsp;Gli uomini di coach Recalcati si qualificano per i quarti dove incontrano e superano con discreta agevolezza Portorico per 83-70.&nbsp; <h2>&nbsp;Italia-Lituania: l'impresa di Atene 2004</h2> Il 27 agosto 2004 c&rsquo;&egrave; la semifinale e gli occhi del mondo cestistico sono tutti sui lituani, gi&agrave; dipinti come vincitori del titolo, che appaiono come un&rsquo;orchestra perfetta.&nbsp;Quando l&rsquo;approdo alla finale da parte di Stombergas, Lavrinovic e compagni sembra una pura formalit&agrave;, esce fuori tutto l&rsquo;orgoglio di una nazionale, quella azzurra, che fa della consapevolezza dei propri mezzi e del collettivo la vera arma in pi&ugrave; per sconfiggere l&rsquo;armata dell&rsquo;Europa dell&rsquo;Est.&nbsp;I lituani partono fortissimo ma l&rsquo;Italia &egrave; capace di ricucire il gap e di portarsi in vantaggio aiutata finalmente dai punti pesantissimi di Gianluca Basile. Non &egrave; solo il Baso a lasciare il segno con le sue &ldquo;triple ignoranti&rdquo;: Pozzecco semina il panico con le sue penetrazioni brucianti, Bulleri illumina, capitan Galanda suona la carica e anche i lunghi Marconato e Chiacig marcano il territorio.&nbsp;La Lituania &egrave; effettivamente pi&ugrave; preparata a questi palcoscenici e si rif&agrave; sotto ma la Nazionale Italiana non molla, difende forte sotto canestro e limita gli avversari sui tiri da 3 punti. Una tripla sensazionale di Basile, che chiude con 31 punti, trova la giugulare della partita e gli azzurri sono in finale olimpica per la seconda volta nella storia dopo Mosca 1980. <h2>La finale contro l'Argentina&nbsp;</h2> Poco importa se la stanchezza e le forze impiegate per domare un avversario cos&igrave; temibile, annebbiano la classe dimostrata fino a quel giorno e impongono una sonora sconfitta contro l&rsquo;Argentina guidata da Scola e Ginobili ai limiti dello straripante.&nbsp;La cavalcata dell&rsquo;Italia si infranse sul pi&ugrave; bello. Quella squadra rimarr&agrave; per&ograve; scolpita nella mente degli amanti della palla a spicchi e non solo, cos&igrave; denigrata all&rsquo;inizio e in grado di far ricredere i pi&ugrave; scettici imponendo il proprio ritmo ed il proprio gioco sul pitturato contro dei giganti assoluti della pallacanestro.

        L&rsquo;ultimo grande risultato dell&rsquo;Italbasket alle Olimpiadi fu l&rsquo;incredibile cammino con il quale, ad Atene, gli uomini di Carlo Recalcati si videro fermare solo in finale da un&rsquo;Argentina troppo forte e troppo organizzata. Non ci fu nulla da fare per gli stanchi reduci dalla battaglia conclusasi 100-91 contro i lituani, corazzata che da tutti veniva descritta come squadra pi&ugrave; organizzata per ambire all&rsquo;oro. Gli uomini di Meo Sacchetti dovranno cercare di emulare e dovranno ispirarsi alle gesta, a dir poco stoiche, del gruppo capitanato da Jack Galanda ai Giochi del 2004 in terra greca.  Le prime partite dell'Italbasket  Nella diffidenza generale la squadra di Charlie, come veniva chiamato ai tempi Recalcati, parte vincendo contro la Nuova Zelanda. &Egrave; una partita molto particolare nella quale gli azzurri prima sembrano essere intimoriti dall&rsquo;Haka Maori e dalla fisicit&agrave; degli oceanici, poi alla distanza esce fuori il talento e la vera anima di questo team che nella difficolt&agrave; del vero leader offensivo Basile trova le prestazioni sopra le righe dei comprimari della panchina per vincere.&nbsp;Pozzecco, convocato tra molte polemiche visto il suo carattere che &egrave; un eufemismo descrivere come complicato, lascia intendere fin da subito che sar&agrave; uno dei protagonisti della spedizione tricolore. Arrivano due sconfitte contro Serbia e Montenegro e Spagna che riportano l&rsquo;Italia sulla terra nonostante il buon inizio.&nbsp;I protagonisti di questa avventura sanno, per&ograve;, quali sono le loro potenzialit&agrave;.&nbsp;Gli azzurri inanellano altrettante vittorie, e si fanno due scalpi illustri come la Cina di Yao Ming e l&rsquo;Argentina di Manu Ginobili.&nbsp;Gli uomini di coach Recalcati si qualificano per i quarti dove incontrano e superano con discreta agevolezza Portorico per 83-70.&nbsp;  &nbsp;Italia-Lituania: l'impresa di Atene 2004  Il 27 agosto 2004 c&rsquo;&egrave; la semifinale e gli occhi del mondo cestistico sono tutti sui lituani, gi&agrave; dipinti come vincitori del titolo, che appaiono come un&rsquo;orchestra perfetta.&nbsp;Quando l&rsquo;approdo alla finale da parte di Stombergas, Lavrinovic e compagni sembra una pura formalit&agrave;, esce fuori tutto l&rsquo;orgoglio di una nazionale, quella azzurra, che fa della consapevolezza dei propri mezzi e del collettivo la vera arma in pi&ugrave; per sconfiggere l&rsquo;armata dell&rsquo;Europa dell&rsquo;Est.&nbsp;I lituani partono fortissimo ma l&rsquo;Italia &egrave; capace di ricucire il gap e di portarsi in vantaggio aiutata finalmente dai punti pesantissimi di Gianluca Basile. Non &egrave; solo il Baso a lasciare il segno con le sue &ldquo;triple ignoranti&rdquo;: Pozzecco semina il panico con le sue penetrazioni brucianti, Bulleri illumina, capitan Galanda suona la carica e anche i lunghi Marconato e Chiacig marcano il territorio.&nbsp;La Lituania &egrave; effettivamente pi&ugrave; preparata a questi palcoscenici e si rif&agrave; sotto ma la Nazionale Italiana non molla, difende forte sotto canestro e limita gli avversari sui tiri da 3 punti. Una tripla sensazionale di Basile, che chiude con 31 punti, trova la giugulare della partita e gli azzurri sono in finale olimpica per la seconda volta nella storia dopo Mosca 1980.  La finale contro l'Argentina&nbsp;  Poco importa se la stanchezza e le forze impiegate per domare un avversario cos&igrave; temibile, annebbiano la classe dimostrata fino a quel giorno e impongono una sonora sconfitta contro l&rsquo;Argentina guidata da Scola e Ginobili ai limiti dello straripante.&nbsp;La cavalcata dell&rsquo;Italia si infranse sul pi&ugrave; bello. Quella squadra rimarr&agrave; per&ograve; scolpita nella mente degli amanti della palla a spicchi e non solo, cos&igrave; denigrata all&rsquo;inizio e in grado di far ricredere i pi&ugrave; scettici imponendo il proprio ritmo ed il proprio gioco sul pitturato contro dei giganti assoluti della pallacanestro.       

Ai Giochi Olimpici in Grecia l&rsquo;Italia conquistava il secondo posto, suggellando una vera impresa

Italbasket: ad Atene 2004 la Nazionale si colora d’argento

Il 17 luglio 1994 il Mondiale Made in USA andava a rappresentare il suo ultimo atto: una finale altisonante che, come ventiquattro anni prima in Messico, poneva di fronte Italia e Brasile. Nel 1970 le due nazionali si erano gi&agrave; aggiudicate due campionati per parte: a chi vinceva sarebbe stata assegnata in via definitiva la Coppa Rimet. A Pasadena le rappresentative si ritrovavano col palmar&egrave;s ancora in situazione di parit&agrave;: 3 titoli a testa. Ma questa volta non ci sarebbe stato nessun conferimento definitivo del trofeo messo in palio dalla FIFA che, dal 1974, era itinerante per vocazione. Vincere, per&ograve;, significava ascendere in solitaria sulla vetta della classifica assoluta dei vincitori dei Mondiali: uno stimolo ulteriore per dare energia a due squadre arrivate a quel pomeriggio infuocato al limite della sopravvivenza agonistica, fiaccate da un mese di impegni da assolvere in condizioni climatiche proibitive disseminati nell&rsquo;immenso continente americano.&nbsp;Le esigenze televisive avevano suggerito agli organizzatori di programmare le partite a orari pomeridiani con temperature e tassi di umidit&agrave; elevatissimi che avevano prosciugato la resistenza dei giocatori, ai quali scendere in campo alle 12,30 di quella domenica assolata sembrava pi&ugrave; una condanna ai lavori forzati che l&rsquo;adrenalinica sfida da superare per vincere un campionato del mondo. <h2>Il cammino di Italia e Brasile</h2> Gli azzurri di Arrigo Sacchi erano arrivati a quell&rsquo;appuntamento dopo aver giocato le sei partite precedenti sulla East Coast, su e gi&ugrave; tra New York, Washington e Boston a raccogliere l&rsquo;affetto degli italiani emigrati in quelle terre dove avevano lavorato per costruire la loro vita. Era stato un percorso accidentato quello che aveva seguito la nostra Nazionale che, sconfitta all&rsquo;esordio dall&rsquo;Irlanda e in inferiorit&agrave; numerica nel successivo match vincente contro la Norvegia, era riuscita a ottenere la qualificazione agli ottavi solo rientrando nel novero delle migliori terze classificate. Un passaggio non proprio onorevole, soprattutto se paragonato alle aspettative che circondavano la spedizione, sbarcata in America con l&rsquo;intenzione di mostrare i miracoli del calcio scientifico di Sacchi. Invece, come gi&agrave; accaduto con Paolo Rossi nel 1982, fu necessario attendere il risveglio del nostro miglior giocatore, il buddhist Ponytail (come era stato ribattezzato dai giornalisti locali) Roberto Baggio, per avanzare nella competizione, dalla quale saremmo miseramente usciti nell&rsquo;ottavo di finale contro la Nigeria se, appunto, il Divin Codino non avesse estratto dal cilindro due gol che sottrassero la Nazionale all&rsquo;accanimento della critica. Il suo vero Mondiale cominci&ograve; l&igrave; e brill&ograve; otto giorni, il tempo che gli serv&igrave; per matare la Spagna e lasciare poche speranze in semifinale alla Bulgaria di Stoichkov, che a fine anno diventer&agrave; Pallone d&rsquo;Oro. Gi&agrave;, perch&eacute; quando il suo sogno da bambino di giocare la finale del Mondiale col Brasile si sta per realizzare, una fitta alla gamba lo costringe a uscire dal campo coi pensieri oscurati dalla paura di non poter giocare a Pasadena per sfidare i verdeoro, giunti a destinazione solidamente ancorati alla ricerca del risultato pi&ugrave; che ai fuochi pirotecnici di giocate ad effetto. Dopo il girone iniziale, Stati Uniti, Olanda e Svezia, eliminata a soli dieci minuti dai tempi supplementari, vengono debellate senza strapazzi dall&rsquo;apporto calibrato del duo offensivo Bebeto-Romario, punte di diamante di una formazione insolitamente parca nell&rsquo;elargire spettacolo, innervata dalla presenza di calciatori come Taffarel, Aldair, Branco, Dunga e Mazinho, transitati per la nostra Serie A ad apprendere nozioni di tattica poco praticate dalla Sele&ccedil;ao nel passato. <h2>La finale di Pasadena</h2> &ldquo;La&nbsp;California &egrave; candida come bucato e ha la testa vuota&rdquo; aveva scritto Jack Kerouac. Ed era proprio quella l&rsquo;impressione che dava il cielo sopra il Rose Bowl di Pasadena in quel 17 luglio, indelebilmente azzurro e sgombrato anche dall&rsquo;ombra di una sola nuvola. Baggio voleva esserci: &rdquo;Non giocare, per me, sarebbe beffa, rabbia, delusione e disperazione&rdquo; aveva detto alla vigilia. Sacchi non pu&ograve; opporsi alla sua scelta: sa di essere in debito di riconoscenza con colui che ha risolto problemi altrimenti insormontabili per le sue geometrie maniacali. Cos&igrave;, quando l&rsquo;arbitro Puhl fischia l&rsquo;inizio, Baggio &egrave; in campo: fasciato, menomato nelle movenze, disperatamente attaccato a un sogno che non &egrave; solo suo. Il Rose Bowl fiammeggia un calore che impedisce al match di avere un ritmo almeno accettabile: troppa la stanchezza accumulata in un mese di allenamenti, partite e trasferimenti. Pochi i sussulti: Massaro all&rsquo;inizio, poi Branco su punizione, un palo fortunoso di Mauro Silva nella ripresa. Baggio &egrave; statico: guarda il gioco, osserva i movimenti della partita, cerca di trovare lo spunto giusto per inserirsi nei momenti topici di una gara alla quale riesce a regalare tre tiri che non hanno la forza di sbloccare il risultato. Per la prima volta nella storia dei Mondiali sono necessari i calci di rigore per decidere il vincitore. Dopo gli errori di Baresi e Massaro, le residue speranze di non cadere nel girone degli sconfitti restano aggrappate al quinto rigore che Roberto deve tirare. E non c&rsquo;&egrave; pi&ugrave; niente da dire, n&eacute; da poter fare, quando il suo calcio, che di solito accarezza il pallone, stavolta asseconda l&rsquo;impennata di un destino avverso. Il Brasile vince cos&igrave; il suo quarto Mondiale e lo dedica alla memoria di Ayrton Senna, scomparso a Imola poco pi&ugrave; di due mesi prima.&nbsp;&nbsp;&nbsp; &nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;

        Il 17 luglio 1994 il Mondiale Made in USA andava a rappresentare il suo ultimo atto: una finale altisonante che, come ventiquattro anni prima in Messico, poneva di fronte Italia e Brasile. Nel 1970 le due nazionali si erano gi&agrave; aggiudicate due campionati per parte: a chi vinceva sarebbe stata assegnata in via definitiva la Coppa Rimet. A Pasadena le rappresentative si ritrovavano col palmar&egrave;s ancora in situazione di parit&agrave;: 3 titoli a testa. Ma questa volta non ci sarebbe stato nessun conferimento definitivo del trofeo messo in palio dalla FIFA che, dal 1974, era itinerante per vocazione. Vincere, per&ograve;, significava ascendere in solitaria sulla vetta della classifica assoluta dei vincitori dei Mondiali: uno stimolo ulteriore per dare energia a due squadre arrivate a quel pomeriggio infuocato al limite della sopravvivenza agonistica, fiaccate da un mese di impegni da assolvere in condizioni climatiche proibitive disseminati nell&rsquo;immenso continente americano.&nbsp;Le esigenze televisive avevano suggerito agli organizzatori di programmare le partite a orari pomeridiani con temperature e tassi di umidit&agrave; elevatissimi che avevano prosciugato la resistenza dei giocatori, ai quali scendere in campo alle 12,30 di quella domenica assolata sembrava pi&ugrave; una condanna ai lavori forzati che l&rsquo;adrenalinica sfida da superare per vincere un campionato del mondo. Il cammino di Italia e Brasile  Gli azzurri di Arrigo Sacchi erano arrivati a quell&rsquo;appuntamento dopo aver giocato le sei partite precedenti sulla East Coast, su e gi&ugrave; tra New York, Washington e Boston a raccogliere l&rsquo;affetto degli italiani emigrati in quelle terre dove avevano lavorato per costruire la loro vita. Era stato un percorso accidentato quello che aveva seguito la nostra Nazionale che, sconfitta all&rsquo;esordio dall&rsquo;Irlanda e in inferiorit&agrave; numerica nel successivo match vincente contro la Norvegia, era riuscita a ottenere la qualificazione agli ottavi solo rientrando nel novero delle migliori terze classificate. Un passaggio non proprio onorevole, soprattutto se paragonato alle aspettative che circondavano la spedizione, sbarcata in America con l&rsquo;intenzione di mostrare i miracoli del calcio scientifico di Sacchi. Invece, come gi&agrave; accaduto con Paolo Rossi nel 1982, fu necessario attendere il risveglio del nostro miglior giocatore, il buddhist Ponytail (come era stato ribattezzato dai giornalisti locali) Roberto Baggio, per avanzare nella competizione, dalla quale saremmo miseramente usciti nell&rsquo;ottavo di finale contro la Nigeria se, appunto, il Divin Codino non avesse estratto dal cilindro due gol che sottrassero la Nazionale all&rsquo;accanimento della critica. Il suo vero Mondiale cominci&ograve; l&igrave; e brill&ograve; otto giorni, il tempo che gli serv&igrave; per matare la Spagna e lasciare poche speranze in semifinale alla Bulgaria di Stoichkov, che a fine anno diventer&agrave; Pallone d&rsquo;Oro. Gi&agrave;, perch&eacute; quando il suo sogno da bambino di giocare la finale del Mondiale col Brasile si sta per realizzare, una fitta alla gamba lo costringe a uscire dal campo coi pensieri oscurati dalla paura di non poter giocare a Pasadena per sfidare i verdeoro, giunti a destinazione solidamente ancorati alla ricerca del risultato pi&ugrave; che ai fuochi pirotecnici di giocate ad effetto. Dopo il girone iniziale, Stati Uniti, Olanda e Svezia, eliminata a soli dieci minuti dai tempi supplementari, vengono debellate senza strapazzi dall&rsquo;apporto calibrato del duo offensivo Bebeto-Romario, punte di diamante di una formazione insolitamente parca nell&rsquo;elargire spettacolo, innervata dalla presenza di calciatori come Taffarel, Aldair, Branco, Dunga e Mazinho, transitati per la nostra Serie A ad apprendere nozioni di tattica poco praticate dalla Sele&ccedil;ao nel passato.  La finale di Pasadena &ldquo;La&nbsp;California &egrave; candida come bucato e ha la testa vuota&rdquo; aveva scritto Jack Kerouac. Ed era proprio quella l&rsquo;impressione che dava il cielo sopra il Rose Bowl di Pasadena in quel 17 luglio, indelebilmente azzurro e sgombrato anche dall&rsquo;ombra di una sola nuvola. Baggio voleva esserci: &rdquo;Non giocare, per me, sarebbe beffa, rabbia, delusione e disperazione&rdquo; aveva detto alla vigilia. Sacchi non pu&ograve; opporsi alla sua scelta: sa di essere in debito di riconoscenza con colui che ha risolto problemi altrimenti insormontabili per le sue geometrie maniacali. Cos&igrave;, quando l&rsquo;arbitro Puhl fischia l&rsquo;inizio, Baggio &egrave; in campo: fasciato, menomato nelle movenze, disperatamente attaccato a un sogno che non &egrave; solo suo. Il Rose Bowl fiammeggia un calore che impedisce al match di avere un ritmo almeno accettabile: troppa la stanchezza accumulata in un mese di allenamenti, partite e trasferimenti. Pochi i sussulti: Massaro all&rsquo;inizio, poi Branco su punizione, un palo fortunoso di Mauro Silva nella ripresa. Baggio &egrave; statico: guarda il gioco, osserva i movimenti della partita, cerca di trovare lo spunto giusto per inserirsi nei momenti topici di una gara alla quale riesce a regalare tre tiri che non hanno la forza di sbloccare il risultato. Per la prima volta nella storia dei Mondiali sono necessari i calci di rigore per decidere il vincitore. Dopo gli errori di Baresi e Massaro, le residue speranze di non cadere nel girone degli sconfitti restano aggrappate al quinto rigore che Roberto deve tirare. E non c&rsquo;&egrave; pi&ugrave; niente da dire, n&eacute; da poter fare, quando il suo calcio, che di solito accarezza il pallone, stavolta asseconda l&rsquo;impennata di un destino avverso. Il Brasile vince cos&igrave; il suo quarto Mondiale e lo dedica alla memoria di Ayrton Senna, scomparso a Imola poco pi&ugrave; di due mesi prima.&nbsp;&nbsp;&nbsp; &nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;       

Il 17 luglio 1994, nell'ultimo atto del Mondiale americano, gli azzurri si arresero alla Sele&ccedil;ao solo ai calci di rigore. Fatali gli errori dal dischetto di Baresi, Massaro e Baggio

Brasile-Italia, la finale maledetta di Usa '94

Eroi in patria, disastrosi in Italia. Non tutti gli spagnoli che sbarcano in Serie A riescono ad ambientarsi nel nostro campionato, anzi. La lista dei flop &egrave; lunga. Non ha una data di inizio precisa, ma degli alfieri rimasti nelle statistiche e nella mente dei tifosi. Il caso pi&ugrave; eclatante di tutti riguarda probabilmente Gaizka Mendieta. Cragnotti lo porta alla Lazio nel 2001 per sostituire le colonne Nedved e Veron. Sborsa 90 miliardi di lire per quello che allora era il miglior giocatore di un Valencia arrivato in finale di Champions League per due anni di fila: 53 gol in Spagna, nessuno in biancoceleste, dove non si impone anche a causa del ruolo non definito. Esterno destro, mezzala, regista: alla Lazio non sfonda mai, gioca 31 partite e dopo un solo anno va via, diventando probabilmente la pi&ugrave; grossa delusione spagnola di sempre in A. E il bello &egrave; che alla Lazio erano reduci dal flop De La Pe&ntilde;a. Titolare inamovibile del Barcellona di Ronaldo, arriv&ograve; a Roma sotto grandi aspettative e dopo una spesa di 30 miliardi. Nella stagione 1998-99 totalizz&ograve; solamente 23 presenze, accusando alcune carenze dal punto di vista fisico. Fece poi due comparsate nel 2001-02. <h2>Delusioni a Firenze</h2> Di &ldquo;bidoni&rdquo; spagnoli se ne intendono anche alla Fiorentina. Chiedete a Trapattoni di Guillermo Amor: per dieci anni colonna del Barcellona, uno degli uomini di Cruijff, arrivato al Franchi nel 1998 per portare lo scudetto in viola e andato via dopo due stagioni in cui probabilmente si &egrave; visto un lontano parente. A Firenze ci ricascarono qualche anno dopo, con Javier Portillo. Nell&rsquo;era del Real Madrid dei Galacticos, il giovane Portillo segna una valanga di gol nelle giovanili, meritando il debutto in prima squadra. Per concedergli spazio, i Blancos lo cedono alla Fiorentina nel 2004. Sbarca in Italia come &ldquo;nuovo Ra&uacute;l&rdquo;, in estate segna due gol in Coppa Italia e sembra il preludio a un grande acquisto. Segner&agrave; solo un gol in campionato al Chievo e un altro in coppa, andando via gi&agrave; a gennaio 2005. <h2>I bidoni nel capoluogo lombardo</h2> Neanche Inter e Milan sono scampate alla &ldquo;tassa&rdquo; dei flop iberici. I nerazzurri avevano trovato in Francisco Javier Farin&oacute;s il regista del futuro, quando lo acquistarono nel 2000 dal Valencia. Rimarr&agrave; famoso solo per aver sostituito in porta Francesco Toldo durante una partita di Coppa Uefa contro la sua ex squadra. Al Milan invece non si sono ancora dimenticati di Jos&eacute; Mari. Esploso nell&rsquo;Atletico Madrid grazie ad Arrigo Sacchi, in rossonero &egrave; solo il fantasma del centravanti visto al vecchio stadio Calder&oacute;n: solo 5 reti in tre anni a San Siro. Oggi &egrave; un bodybuilder. Stesso destino per Javi Moreno, protagonista nella Coppa Uefa 2000-01, quando segn&ograve; 6 reti portando in l'Alaves fino alla finale persa contro il Liverpool (5-4). Il Milan spese ben 30 miliardi che furono ripagati con due miseri centri in campionato.&nbsp;

        Eroi in patria, disastrosi in Italia. Non tutti gli spagnoli che sbarcano in Serie A riescono ad ambientarsi nel nostro campionato, anzi. La lista dei flop &egrave; lunga. Non ha una data di inizio precisa, ma degli alfieri rimasti nelle statistiche e nella mente dei tifosi. Il caso pi&ugrave; eclatante di tutti riguarda probabilmente Gaizka Mendieta. Cragnotti lo porta alla Lazio nel 2001 per sostituire le colonne Nedved e Veron. Sborsa 90 miliardi di lire per quello che allora era il miglior giocatore di un Valencia arrivato in finale di Champions League per due anni di fila: 53 gol in Spagna, nessuno in biancoceleste, dove non si impone anche a causa del ruolo non definito. Esterno destro, mezzala, regista: alla Lazio non sfonda mai, gioca 31 partite e dopo un solo anno va via, diventando probabilmente la pi&ugrave; grossa delusione spagnola di sempre in A. E il bello &egrave; che alla Lazio erano reduci dal flop De La Pe&ntilde;a. Titolare inamovibile del Barcellona di Ronaldo, arriv&ograve; a Roma sotto grandi aspettative e dopo una spesa di 30 miliardi. Nella stagione 1998-99 totalizz&ograve; solamente 23 presenze, accusando alcune carenze dal punto di vista fisico. Fece poi due comparsate nel 2001-02. Delusioni a Firenze  Di &ldquo;bidoni&rdquo; spagnoli se ne intendono anche alla Fiorentina. Chiedete a Trapattoni di Guillermo Amor: per dieci anni colonna del Barcellona, uno degli uomini di Cruijff, arrivato al Franchi nel 1998 per portare lo scudetto in viola e andato via dopo due stagioni in cui probabilmente si &egrave; visto un lontano parente. A Firenze ci ricascarono qualche anno dopo, con Javier Portillo. Nell&rsquo;era del Real Madrid dei Galacticos, il giovane Portillo segna una valanga di gol nelle giovanili, meritando il debutto in prima squadra. Per concedergli spazio, i Blancos lo cedono alla Fiorentina nel 2004. Sbarca in Italia come &ldquo;nuovo Ra&uacute;l&rdquo;, in estate segna due gol in Coppa Italia e sembra il preludio a un grande acquisto. Segner&agrave; solo un gol in campionato al Chievo e un altro in coppa, andando via gi&agrave; a gennaio 2005. I bidoni nel capoluogo lombardo  Neanche Inter e Milan sono scampate alla &ldquo;tassa&rdquo; dei flop iberici. I nerazzurri avevano trovato in Francisco Javier Farin&oacute;s il regista del futuro, quando lo acquistarono nel 2000 dal Valencia. Rimarr&agrave; famoso solo per aver sostituito in porta Francesco Toldo durante una partita di Coppa Uefa contro la sua ex squadra. Al Milan invece non si sono ancora dimenticati di Jos&eacute; Mari. Esploso nell&rsquo;Atletico Madrid grazie ad Arrigo Sacchi, in rossonero &egrave; solo il fantasma del centravanti visto al vecchio stadio Calder&oacute;n: solo 5 reti in tre anni a San Siro. Oggi &egrave; un bodybuilder. Stesso destino per Javi Moreno, protagonista nella Coppa Uefa 2000-01, quando segn&ograve; 6 reti portando in l'Alaves fino alla finale persa contro il Liverpool (5-4). Il Milan spese ben 30 miliardi che furono ripagati con due miseri centri in campionato.&nbsp;       

Da Mendieta, mister 90 miliardi, a Jos&eacute; Mari, sono tanti&nbsp;i calciatori iberici che hanno deluso nel nostro campionato

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