        Fu il trasferimento del secolo, Johann Cruijff al Barcellona, nell'agosto del 1973: 60 milioni di pesetas, al giorno d'oggi circa 361mila euro. Anche per rendersi conto di quanto &egrave; cambiato il mercato in termini di cifre, naturalmente. Soldi versati all'Ajax, ma prima presenza ufficiale solo due mesi dopo. Il motivo? Problemi nel transfert, roba che adesso si risolverebbe in poche ore e che invece nel 1973 poteva essere ancora un grosso problema. Dopodich&eacute;, il 28 ottobre 1973, il debutto in maglia blaugrana con gol incluso: e per Crujiff cominci&ograve; un'epopea indimenticabile. &nbsp;   Crujiff, cambio radicale  "Il profeta del gol" dice Barcellona dopo aver vinto tutto con l'Ajax, la squadra e il club di casa. Tre Coppe dei Campioni consecutive, tre Palloni d'Oro consecutivi, una riscrittura quasi letterale delle regole del calcio, un ruolo anche del giocatore professionista reinventato, la personalit&agrave; di chi sa di essere di un livello superiore. Sceglie il Barcellona, ed &egrave; questo l'altro colpo di genio, l'ennesimo, in un periodo storico unico nella sua storia almeno per la Spagna: durante la dittatura franchista, che &egrave; agli sgoccioli, si sa, ma &egrave; ancora abbastanza opprimente. Il 20 dicembre di quel 1973, per dire, salta per aria Carrero Blanco, il vice del "Caudillo", in un attentato a Madrid perpetrato dai terroristi baschi dell'Eta. Non va al Real, naturalmente, ma in quella Catalunya ribelle e omaggiata da Orwell ai tempi della Guerra Civile Spagnola. Problemi "tecnici", comunque, con il transfert. E per due mesi il Barcellona non pu&ograve; schierare il suo nuovo fuoriclasse, ma arrangiarsi con chi ha, e non &egrave; granch&eacute;: Costas-Sotil-Juanito &egrave; il tridente, pi&ugrave; Rexach alle spalle e soprattutto Rinus Michels in panchina, il santone del calcio olandese che ha svezzato tutta una serie di grandi talenti oranje, Crujiff compreso. Le prime nove partite del Bar&ccedil;a in stagione sono un pianto: quattro sconfitte, due pareggi e tre vittorie inclusa quella inutile contro il Nizza che non evita l'eliminazione dalla Coppa Uefa. C'&egrave; anche uno 0-0 strappato al Camp Nou al Real Madrid che alleggerisce la situazione, ma il 28 ottobre 1973 il Barcellona sfida il Granada ed &egrave; quattordicesimo in classifica in campionato.    &nbsp; Subito doppietta  "A las cinco de la tarde", alle cinque del pomeriggio come le corride, ecco Barcellona-Granada. Ovazione in un Camp Nou gremito, anche se gli andalusi possono schierare dei difensori che farebbero girare al largo qualsiasi attaccante, come l'uruguaiano Castillo chiamato "El mudo". Gente che tra palla e gamba non &egrave; che faccia molta differenza. Il Granada in generale si presenta abbottonatissimo, capita l'antifona meglio non lanciarsi all'attacco e sperare nelle "patadas", negli interventi rudi diciamo, dei vari Castillo o Pedro Fernandez, paraguaiano, un altro non grande fine dicitore. E in effetti nel primo tempo la strategia funziona alla grande. Cruijff o non-Cruijff, dopo 44 minuti &egrave; ancora 0-0, prima che l'olandese con una magia sulla fascia si liberi e metta al centro per il vantaggio segnato da Marcial dopo un errore del portiere Izkoa. Sgommata Bar&ccedil;a nel momento peggiore possibile per prendere un gol, nella ripresa l'esito &egrave; inevitabile: il Granada crolla e i padroni di casa dilagano con Crujiff che finalmente pu&ograve; dimostrare alla Spagna chi &egrave;. Doppietta per il numero 9, il 14 non si pu&ograve; prendere, e una gigantesca ventata d'aria fresca sull'ambiente. Sar&agrave; un caso, ma da l&igrave; in avanti il Barcellona non perder&agrave; pi&ugrave;. Anzi, andr&agrave; a dominare il campionato vincendolo addirittura con 8 punti di vantaggio sulla seconda, l'Atletico Madrid. Quattordici anni dopo l'ultima volta, il Bar&ccedil;a &egrave; campione di Spagna, e Johann subito trasformato in divinit&agrave;. Tempo pochi mesi e nel febbraio 1974 chiamer&agrave; suo figlio Jordi, sfidando le autorit&agrave; franchiste: rivoluzionario e controcorrente come sempre.&nbsp; &nbsp; &nbsp; TABELLINO &nbsp; Barcellona - Granada 4-0 (1-0) Marcatori: 44'pt Marcial, 6'st Cruijff, 14'st Sotil, 23'st Crujiff Barcellona: Sadurn&iacute;, Rif&eacute;, Torres, Costas, De la Cruz, Juan Carlos, Juanito, Asensi, Cruijff, Sotil, Marcial. All.Michels Granada: Izcoa, Montero Castillo, Falito, Fern&aacute;ndez, Toni, Santi (Cabrera 75'), Chirri, Ja&eacute;n, Quiles, Due&ntilde;as (Mart&iacute;n 59'), Porta. All.Joseito &Aacute;rbitro: Soto Montesino. Ammonito: Fern&aacute;ndez (G).       

Era il 28 ottobre 1973 e il Profeta del Gol debutt&ograve; con i catalani dopo due mesi di tira e molla con il transfert

Cruijff al Barcellona, e fu rivoluzione

        Dove vai se il brasiliano non ce l'hai? Sembra quello il ritornello dell'estate 1983, quella di "Vamos a la playa" dei Righeira, canzone da ombrellone per eccellenza. E sotto l'ombrellone le squadre della Serie A trovano sul mercato moltissimi brasiliani, considerati la panacea di tutti i mali, chiss&agrave;. Nomi clamorosi e meno conosciuti, il contagio &egrave; enorme. Senza contare altri colpi pi&ugrave; vicini a noi e i soliti immancabili bidoni. "L'altro Brasile", titola il Guerin Sportivo in uno dei numeri dell'estate 1983, e ha ragione.&nbsp; &nbsp; Le stelle, Zico e Cerezo Un anno dopo aver perso malamente ai mondiali contro l'Italia di Bearzot e Paolo Rossi, due undicesimi di quel Brasile stellare vengono a giocare in Italia. L'operazione pi&ugrave; clamorosa la mette a segno la piccola Udinese, che per una cifra mai del tutto riconosciuta ma intorno ai 6 miliardi di lire porta in Friuli nientemeno che Zico. Parliamo di uno dei migliori calciatori del pianeta, vincitore della Coppa Libertadores, perfetto esecutore di calci di punizione, che si trasferisce in una squadra che non ha mai lottato nemmeno minimamente per lo scudetto. Segner&agrave; 19 gol al primo anno, meno al secondo. L'altra stella brasiliana che viene in Serie A &egrave; Toninho Cerezo, formidabile tuttocampista come si direbbe oggi, che dall'Atletico Mineiro arriva a rinforzare in cambio di 6 miliardi la squadra campione d'Italia, la Roma. Sar&agrave; l'inizio di una lunga storia d'amore con il nostro paese, dove trascorrer&agrave; un decennio passando in seguito alla Sampdoria e vincendo lo scudetto nel 1991. Una Roma che oltre a Cerezo si rinforza con Ciccio Graziani, strappato alla Fiorentina. L'obiettivo &egrave; di fare pi&ugrave; strada possibile soprattutto in Europa, in Coppa Campioni. &nbsp; Gli oggetti misteriosi: Eloi, Batista, Luvanor e Pedrinho Dicevamo per&ograve;, "Dove vai se il brasiliano non ce l'hai?". Il Genoa opta per Eloi, all'anagrafe Francisco Chagas Eloia. Due anni prima al Mundialito con il Santos aveva fatto faville, ma non se l'era filato nessuno. Quando arriva ha 28 anni, i capelli lunghi e ricci e i baffi: tutti biondi, naturalmente. Sar&agrave; per la saudade o per il gioco del Grifo totalmente non adatto a lui, ma &egrave; un disastro totale. Il culmine in negativo lo tocca quando i tifosi della Sampdoria durante uno dei due derby di campionato fanno entrare sugli spalti una scimmietta con la maglia numero 10, per prenderlo in giro. Intanto si dice che la moglie Aparecida si sia ambientata a Genova molto meglio di Eloi. Dir&agrave;: "Mi &egrave; mancato un po&rsquo; di aiuto in campo. Ero anche uno specialista delle punizioni ma a fine allenamento i portieri scappavano subito a casa. In generale credo mi passassero poco il pallone". Categoria bidone o quasi, insomma. Un po' come Batista, che la Lazio sceglie forse non convintissima e che si rivela essere un centrocampista lentissimo per la Serie A. I biancocelesti peraltro fanno tutto per metterlo a disagio in campo. Poi c'&egrave; il Catania neopromosso del presidente Angelo Massimino, quello del "Manca l'amalgama, andiamo a comprarlo". Dopo aver vaneggiato per tutta l'estate gli arrivi di Prohaska dall'Inter e di un misterioso "di cui Zoff ci guarda ancora il palo" (forse era il polacco Kupcewicz, che al mondiale '82 aveva preso appunto il palo contro l'Italia), il presidentissimo si inventa Luvanor e Pedrinho: costo, 3 miliardi. L'allenatore Gianni Di Marzio forse avrebbe voluto qualcosa di diverso, gente pi&ugrave; pronta. Il Catania batter&agrave; tutti i record negativi in quanto a punti e vittorie, una sola in 30 partite. Altri due brasiliani "esperti" di Serie A cambiano maglia in quell'estate. Dirceu dal Verona va al Napoli, mentre Juary dall'Inter va all'Ascoli. &nbsp; Milan all'inglese, ecco Luther Blisset Se la Juventus prende Laudrup per prestarlo alla Lazio e Tacconi dall'Avellino per farne il portiere del futuro dopo Zoff e l'Inter lo sfortunato belga Ludo Coeck, il Milan punta sull'Inghilterra. Rossoneri neopromossi in A e che continuano nella tradizione recente britannica: dopo due anni di Joe Jordan, non benissimo, il Milan prende un attaccante inglese che al Watford ha segnato una caterva di gol. Si chiama Luther Blisset, "Lutero il bombardiere nero", ancora oggi ricordato come uno dei peggiori bidoni mai visti in A. Per fortuna che l'altro straniero i rossoneri lo indovinano, &egrave; l'onesto difensore belga Eric Gerets. Nell'estate dei bomber fa scalpore il colpo del Torino che per quasi 4 miliardi strappa al Cesena l'austriaco Schachner, mentre Ramon Diaz dal Napoli passa all'Avellino. Il Pisa invece si assicura l'olandese Wim Kieft, che far&agrave; assolutamente il suo, strappandolo nientemeno che all'Ajax. In ambito italiano ecco l'addio di Oriali all'Inter dopo oltre un decennio, direzione Fiorentina. Mentre il Verona zitto zitto inizia a costruire l'ossatura della squadra che vincer&agrave; lo scudetto: in poche settimane arrivano infatti Galderisi dalla Juventus, Fontolan dal Como, Bruni dalla Reggiana e Ferroni dalla Sampdoria, pi&ugrave; il bomber Iorio dalla Roma che per&ograve; l'anno successivo sar&agrave; ceduto.       

Serie A ricchissima e attiva con i giocatori sudamericani, quella di 40 anni fa. Nel bene e nel male, da Cerezo alla Roma a Zico all'Udinese, fino a Juary all'Avellino &nbsp;

Amarcord estate 1983, il mercato dei brasiliani

        Chi prende l&rsquo;Inter? Se lo chiedeva qualche anno fa, tra il sacro e il profano, Luciano Ligabue scrivendo Hai un momento, Dio? traccia del vendutissimo album Buon compleanno Elvis, che spianava definitivamente la strada del successo al cantautore di Correggio. La domanda che si poneva Ligabue &egrave; quella che, mutate le maglie, si fanno i tifosi di qualsiasi squadra nei mesi estivi, quando il calcio giocato spesso latita e per poterne parlare non rimane che ripiegarsi su qualche episodio della stagione appena conclusa o provare a immaginare come sar&agrave; quella ventura. Qui subentra il calciomercato con le sue promesse e le sue illusioni, le aspettative e le scommesse, le voci che si rincorrono scappate da un pertugio che trafigge i muri della riservatezza o messe in giro per sviare l&rsquo;attenzione da trattative che hanno bisogno dell&rsquo;ombra per andare a buon fine. Una rappresentazione sempre in scena che riempie di contenuti spesso effimeri i media tradizionali e quelli social, salvando dal blocco dello scrittore giornalisti un tempo costretti a inventare i pezzi dal nulla per spargere un po&rsquo; di inchiostro sulle pagine sportive dei quotidiani. ? La prima sede del calciomercato Diversamente dalle liturgie celebrate negli stadi, il mercato dei calciatori non &egrave; nato col gioco. Almeno fino alla prima met&agrave; del secolo scorso, i cambi di squadra dei giocatori avvenivano con incontri tra rappresentanti delle societ&agrave; nei luoghi pi&ugrave; disparati: tribune, spogliatoi, ristoranti. Le cifre che ruotavano intorno ai giocatori erano importanti ma non si avvicinavano in alcun modo a quelle stratosferiche che caratterizzano i cambi di casacca odierni. Forse anche per questo non si sentiva il bisogno di trovare un luogo deputato ad accogliere gli operatori che gestivano le trattative. Il primo a sentire la necessit&agrave; di avere un posto che, a mo&rsquo; di ufficio, desse adeguato contorno allo svolgimento delle negoziazioni finalizzate alla compravendita dei calciatori fu il nobile Raimondo Lanza Branciforte di Trabia, presidente del Palermo dal gennaio 1951 al giugno 1952, che dette inizio all&rsquo;uso di ricevere in albergo proprietari di club e dirigenti per preparare e chiudere accordi. Ci voleva una figura eclettica ed esuberante come la sua per dare inizio a una consuetudine poi radicatasi negli anni. Combattente e medagliato sia nella guerra civile spagnola che nella Seconda guerra mondiale, amante del calcio, dell&rsquo;automobilismo (corse alla Targa Florio) e della pallanuoto, Lanza di Trabia amava ospitare in una suite dell&rsquo;hotel Gallia a Milano i suoi interlocutori, facendo spesso sfoggio di stratagemmi negoziali di rara astuzia per portare a compimento le sue operazioni. Si narra, ad esempio, che molte trattative le conduceva mentre faceva il bagno, senza curarsi di emergere nudo dalla vasca non appena terminate le abluzioni: un modo efficace per mettere in imbarazzo gli astanti e spingerli a concludere i contratti. Il Gallia divent&ograve; cos&igrave; la prima sede storica del calciomercato italiano, albergo di lusso nel quale, nel corso degli anni, trovarono modo di esprimere il loro genio negoziale dirigenti del calibro di Gipo Viani, Paolo Mazza e Italo Allodi. In assenza di amichevoli e tornei internazionali ideati dal marketing del nuovo calcio, l&rsquo;hotel Gallia suggeriva a giornalisti assetati di notizie quelle poche informazioni sulle quali costruire i pezzi per i giornali. ?  Calciomercato, via dal Gallia And&ograve; cos&igrave; fino al 1969 quando qualcuno, nel celebre albergo milanese, non riusc&igrave; pi&ugrave; a sopportare la confusione che regnava in hotel durante le settimane di contrattazione estiva. Gi&agrave;, perch&eacute; oltre all&rsquo;andirivieni sempre pi&ugrave; frenetico e meno principesco nei modi degli addetti ai lavori, davanti alla sede di quella che era ormai diventata una fiera dei sogni si accalcavano i tifosi in attesa di qualche notizia che potesse cambiare le sorti della loro squadra nella stagione successiva: troppo per una location che non limitava la sua clientela a presidenti di squadre di calcio e direttori sportivi. Cos&igrave;, il 28 aprile del 1969, la direzione del Gallia invi&ograve; una comunicazione ai presidenti:&nbsp;&ldquo;Nell&rsquo;approssimarsi del periodo in cui qui a Milano si svolgono quegli annuali incontri che corrono sotto la denominazione di mercato del calcio, ed allo scopo di evitare gli incresciosi e poco edificanti affollamenti di estranei e curiosi, purtroppo creatosi in passato nelle sale del nostro albergo, questa direzione &egrave; venuta nella determinazione di non consentire in tale periodo l&rsquo;accesso ai locali dell&rsquo;albergo alle persone che non vi soggiornano&rdquo;. Parole accompagnate dai fatti: l&rsquo;aria condizionata venne spenta e i lussuosi tappeti rimossi. Era necessario trovare un&rsquo;altra sede. ?Fu l&rsquo;Hilton, sempre a Milano, a proporsi come erede del Gallia, dando un impulso nuovo alla struttura approntando una sala stampa, linee telefoniche e telex: il calciomercato si avviava ad essere sempre pi&ugrave; cool.  Le altre sedi del calciomercato italiano Gli anni Settanta assistettero al lievitare esponenziale delle cifre che caratterizzavano i trasferimenti: da quello clamoroso del 1975 di Giuseppe Savoldi dal Bologna al Napoli per un importo complessivo di due miliardi di lire allo scioglimento della compropriet&agrave; di Paolo Rossi tra Juventus e Lanerossi Vicenza (Pablito venne valutato dal presidente Farina pi&ugrave; di cinque miliardi), il valzer dei bonifici divent&ograve; sempre pi&ugrave; vorticoso e anche le sedi dove si definivano gli accordi sembrarono volerne seguire il ritmo. Dall&rsquo;Hotel Leonardo da Vinci a Milanofiori, dall&rsquo;Ata Executive fino ad arrivare allo Starhotels Business Palace, negli anni le squadre si sono costruite negli alberghi tra i pi&ugrave; glamour della capitale economica del Paese. Oggi i riferimenti si sono ulteriormente allargati: oltre a ritornare al Gallia, le trattative di quest&rsquo;estate troveranno sede anche presso lo Sheraton milanese mentre l&rsquo;Hilton Rome Airport, situato nei pressi dell&rsquo;aeroporto internazionale di Fiumicino, allargher&agrave; alla Citt&agrave; Eterna il perimetro di azione di avvocati, dirigenti e procuratori, abili maghi nell&rsquo;arricchire se stessi e i propri assistiti alimentando i sogni di milioni di tifosi.        

Dagli anni Cinquanta gli alberghi di Milano ospitano proprietari, dirigenti e procuratori. Oggi le trattative si svolgono anche a Roma nei pressi dell&rsquo;aeroporto di Fiumicino &nbsp;

Calciomercato, dal Gallia all’Hilton: le sedi che hanno fatto la storia

        Estate, tempo di calciomercato. Flusso di voci ininterrotto che surfeggia su indiscrezioni filtrate da dirigenti compiacenti o procuratori alla ricerca del modo migliore per fare affari, amici di questo o quel giocatore che girano soffiate. Tutti alla ricerca di un colpo che possa soddisfare i club (venditori e acquirenti), gli agenti, i calciatori e i tifosi. In questo tourbillon di attese che solleticano fantasia e aspettative, ci sono anche giocatori che agli accordi presi da altri decidono di non sottostare. Oggi, in tempi nei quali la sentenza Bosman gli ha dato pieno potere, una via pi&ugrave; semplice da seguire. Ma anche in passato, quando gli assi della pedata non potevano proferire parola sugli accordi che i presidenti prendevano tra loro, c&rsquo;era chi riusciva a dire no. Eccezioni, scelte controcorrente, mosche bianche dal carattere poco propenso a rinunciare alle proprie inclinazioni. Decisioni che, nel crocevia dove convergono carriera, interessi e sentimenti, si orientavano nella direzione meno battuta. I no di Gigi Riva&nbsp; Come quella che pi&ugrave; di una volta intraprese Gigi Riva, campione simbolo del Cagliari dello scudetto, che negli anni Settanta resistette alle sirene che venivano dalla terraferma. Dopo aver accettato controvoglia il trasferimento in Sardegna, Rombo di Tuono di quell&rsquo;isola divenne simbolo. Ogni estate le big del nord, soprattutto la Juventus, facendo leva sulle loro capacit&agrave; economiche, a turno avanzavano offerte per provare a strappare l&rsquo;attaccante di Leggiuno da quello che era diventato il suo habitat naturale, affidandosi al potere ipnotico del denaro. Riva, per&ograve;, conosceva l&rsquo;aridit&agrave; di una vita senza sentimenti. Quelli che, in Sardegna, la gente gli aveva riconosciuto senza parsimonia. Fu evidente nel 1973, quando la Juventus, per ingaggiarlo, propose ai rossobl&ugrave; 400 milioni di lire oltre al trasferimento di quattro giocatori di primo livello: Bettega, Gentile, Cuccureddu e Musiello. Un&rsquo;operazione dal valore complessivo di 2 miliardi e 300 milioni di lire. Una follia che sollev&ograve; tumulti di piazza quando il passaggio di Riva alla corte degli Agnelli sembr&ograve; in dirittura d&rsquo;arrivo. Minacce di bombe e di attentati e l&rsquo;eventualit&agrave; del rapimento del presidente cagliaritano Arrica dissuasero la Juventus dall&rsquo;andare avanti in quella trattativa diventata impossibile anche per la posizione assunta dallo stesso Riva che, deluso dalla societ&agrave; che aveva portato avanti la negoziazione senza interpellarlo direttamente, si era sentito trattato come un oggetto. Fu il suo rifiuto finale, definitivo, quello che lo radic&ograve; per sempre a quella che era diventata la sua terra. &nbsp; &nbsp; Calciomercato: il gran rifiuto di Riva alla Juve Il tentativo di Virdis Quattro anni pi&ugrave; tardi le negoziazioni tra Cagliari e Juventus si rinnovarono per un altro attaccante: Pietro Paolo Virdis. Anch&rsquo;egli, come Riva, si dimostr&ograve; completamente refrattario all&rsquo;idea del trasferimento a Torino, cosa data per fatta dai giornali dopo che varie fonti avevano dato per ultimato l&rsquo;accordo tra le societ&agrave;. Sembrava tutto fatto fino a quando Virdis trov&ograve; la forza di manifestare la sua opposizione a quell&rsquo;intesa. Apriti cielo: Gianni Agnelli, uomo non avvezzo a raccogliere dinieghi, soprattutto se provenienti da un ragazzo di vent&rsquo;anni al quale si stava prospettando un futuro radioso, and&ograve; su tutte le furie. Ma perch&eacute; Virdis non voleva andare a Torino? Una domanda alla quale rispose a mente fredda una volta ritiratosi: &rdquo;Non volevo lasciare la Sardegna. Poi quell'anno avevamo perso gli spareggi per salire in Serie A, e non me la sentivo di lasciare il Cagliari in B". Parole quasi struggenti se confrontate alle cronache di oggi, dove qualunque scelta sembra indirizzata solo da guadagno e carriera. Alla fine prevalse la ragion di stato e Virdis, obtorto collo, cambi&ograve; maglia. Ma dimostr&ograve; che dietro al portafoglio un cuore ce l&rsquo;aveva.  Il &ldquo;gran rifiuto&rdquo; di Pablito Nel 1979 il &ldquo;gran rifiuto&rdquo; del calciomercato estivo tocc&ograve; a Paolo Rossi farlo. Reduce dalla fallimentare stagione che aveva visto retrocedere il suo Lanerossi Vicenza (nonostante i 15 gol messi a referto) Pablito doveva essere venduto. Si fece sotto il Napoli, i giornali dettero la notizia del trasferimento. Ma nessuno aveva fatto i conti con la sensibilit&agrave; del centravanti esploso dodici mesi prima nel Mondiale argentino. Napoli significava un mondo di attenzioni e aspettative che lui, timido e riservato, non si sentiva in grado di sostenere. &ldquo;Per me viene prima la vita e poi la professione -&nbsp;dichiar&ograve; -. Che vengo a fare a Napoli, il salvatore della patria? Con la gente che mi compra le sigarette e dorme per strada sotto casa mia, per vegliarmi: sono molto cari, ma non sono la persona giusta&rdquo;. Parole che, lette oggi, portano il peso dei loro anni. Anni nei quali, oltre al denaro, qualche giocatore aveva anche altri pensieri da coltivare.  Massimo Briaschi: "Lazio? No, grazie" Nel 1984 uno dei grandi affari del calciomercato sembrava essere quello che Giorgio Chinaglia, presidente della Lazio, stava per chiudere con la Juventus: il passaggio dei gioielli biancocelesti Giordano e Manfredonia in bianconero. Operazione dolorosa ma necessaria per sanare le casse esauste della societ&agrave;, i cui proventi sarebbero stati in parte reinvestiti per costruire la nuova squadra. In questo accordo rientrava Massimo Briaschi, attaccante del Genoa molto gradito alla Lazio. La Juve lo acquist&ograve; per girarlo ai capitolini, senza considerare che l&rsquo;attaccante veneto, compagno di Pablito ai tempi del Vicenza, a Roma non ci voleva proprio andare. Dopo anni passati in club di bassa classifica, Briaschi voleva giocarsi le sue chance di competere ad alti livelli. Chinaglia le prov&ograve; tutte per convincerlo: offr&igrave; un contratto triennale molto remunerativo (all&rsquo;epoca si parl&ograve; di circa un miliardo di lire) e noleggi&ograve; uno yacht nel Golfo di Napoli sul quale poterlo incontrare. Ma, complice anche il fallimento della trattativa che avrebbe dovuto portare Giordano e Manfredonia a Torino, non ci fu nulla da fare. Briaschi rimase alla Juventus e, nei tre anni di permanenza in bianconero, si tolse lo sfizio di vincere, tra l&rsquo;altro, scudetto e Coppa dei Campioni. Le scelte di Toldo, Rui Costa e Zanetti Nel 2001 anche la Fiorentina si trov&ograve; nella necessit&agrave; di sistemare il bilancio attraverso la vendita dei suoi migliori giocatori. La propriet&agrave; aveva trovato l&rsquo;accordo col Parma per vendere Toldo e Rui Costa alla considerevole cifra di 140 miliardi di lire. I due, per&ograve;, non vollero andare ai ducali, preferendo sistemarsi sulle due sponde dei Navigli: Toldo scelse l&rsquo;Inter e il portoghese il Milan, nonostante il ricavato complessivo delle transazioni fosse inferiore rispetto a quanto era disposto a pagare il Parma. Ormai la sentenza Bosman dava ai calciatori un potere praticamente assoluto. Durante quell&rsquo;estate dest&ograve; una certa sorpresa anche il no che Javier Zanetti disse al Real Madrid: un trasferimento che sembrava fatto ma che alla fine si blocc&ograve; davanti alla volont&agrave; del giocatore, la cui famiglia si era ambientata molto bene a Milano e non aveva voglia di cambiare aria. L'argentino fin&igrave; la sua carriera all&rsquo;Inter indossandone la maglia per altri tredici anni prima di entrare nei quadri direttivi della societ&agrave;.  Di Natale, niente Juventus Altra scelta controcorrente fu quella di Antonio Di Natale che nel 2010, dopo sei anni passati a Udine e decine di gol (29 in campionato solo nella stagione appena ultimata), sembrava avviato a spiccare finalmente il volo verso un top club come la Juventus, alla ricerca di nuovi uomini coi quali inseguire i successi perduti dopo il deludente settimo posto conseguito nel precedente campionato. Quando le firme sembravano solo una formalit&agrave;, Di Natale si tir&ograve; indietro, convinto dalle pressioni della piazza e dalle preferenze espresse dalla famiglia, che a Udine si trovava bene e non intendeva trasferirsi. Di Natale finir&agrave; la carriera a Udine giocandovi fino al 2016. Il doppio slalom di Berbatov A chiusura di questa piccola antologia merita di essere ricordato un caso probabilmente unico, quello del quale si rese protagonista Dimitar Berbatov, che a poche ore dalla chiusura del calciomercato 2012 aveva preso un aereo per andare a firmare con la Fiorentina, che per&ograve; non lo vide mai arrivare in sede. Forse perch&eacute; Marotta, AD della Juventus, dichiar&ograve; di aver raggiunto un accordo con l&rsquo;attaccante. In realt&agrave; verr&agrave; beffato anche lui, perch&eacute; alla fine Berbatov firmer&agrave; per gli inglesi del Fulham. Una delle vicende pi&ugrave; spericolate da cogliere nello scenario del calciomercato, mai banale e spesso prodigo di racconti ai limiti dell&rsquo;inverosimile.       

Da Pietro Paolo Virdis a Massimo Briaschi fino ad arrivare a Javier Zanetti e Antonio Di Natale: i casi in cui, anche prima della sentenza Bosman, i calciatori si sono opposti ai trasferimenti

Calciomercato, da Gigi Riva a Paolo Rossi: c'è chi dice no

        Ci sono giocatori che &ldquo;ballano&rdquo; una sola stagione, con una maglia, eppure sono destinati a restare scolpiti nella memoria dei tifosi che la venerano. A Hidetoshi Nakata, giapponese del distretto di Yamanashi, classe 1977, bastarono soltanto sei mesi in pi&ugrave;, a conti fatti. Un giapponese a Roma Nel gennaio del 2000 il nipponico era passato alla Roma, dal Perugia, per l&rsquo;allora &ldquo;normale&rdquo; cifra di 30 miliardi di lire, pi&ugrave; il cartellino di Alenichev. Un investimento che venne comunque ritenuto ingente, anche se Nakata qualcosa di buono con gli umbri lo aveva gi&agrave; messo in mostra. Nonostante l&rsquo;esborso, quando giunge a Roma non &egrave; altro che il sostituto &ldquo;ufficiale&rdquo; di Francesco Totti e per questo motivo non vede il campo con regolarit&agrave;. In ogni caso nella sua prima mezza stagione firma tre reti in diciotto presenze, giocando anche in Coppa Italia e Coppa Uefa. Nel campionato successivo, il primo e unico intero in maglia giallorossa, gioca ancora meno. In termini assoluti ottiene ventidue presenze, ma diluite in molti pi&ugrave; incontri. Poco male, visto l&rsquo;esito di quel 2000-01 che vede la Roma conquistare il suo terzo tricolore. Decisivo per lo scudetto L&rsquo;uomo giusto, al giusto momento; o col giusto subentro, secondo l&rsquo;intuizione di Fabio Capello in una serata non casuale: nella sfida pi&ugrave; importante e di conseguenza decisiva di quella stagione, i giallorossi si ritrovano in svantaggio di due reti a Torino contro la Juventus. Capello toglie dal campo Totti per dare spazio proprio al fantasista giapponese. Da quel momento, Nakata &ldquo;scrive&rdquo; la sua serata magica, che &egrave; anche la pi&ugrave; importante della carriera: prima mette a segno, con una conclusione secca e precisa, il gol che dimezza le distanze; poco dopo crea i presupposti per la rete del pareggio di Montella. Quel punto conquistato nella serata torinese si dimostrer&agrave; decisivo per le sorti del campionato. Intervistato da Eurosport, di quella rete Nakata disse: "Il gol alla Juventus me lo ricordano ancora tanti tifosi italiani, soprattutto gli juventini. &Egrave; stato uno dei momenti pi&ugrave; belli della mia carriera". Una serata che gli ha garantito in eterno le chiavi del cuore dei romanisti, ma che non basta per permettergli di conquistarsi il rinnovo. Nell&rsquo;estate del 2001, saluta la Roma con 40 presenze, 6 reti e quel memorabile scudetto. &nbsp;       

Prelevato dal Perugia nel gennaio del 2000, rimase nella Capitale una stagione e mezza risultando decisivo per la conquista del terzo tricolore giallorosso

Calciomercato: Nakata alla Roma, un colpo da scudetto

        Anche se solo in prestito, il trasferimento di Alvaro Recoba dall&rsquo;Inter al Venezia, avvenuto nel gennaio del 1999, resta ancora oggi una delle operazioni di calciomercato invernale pi&ugrave; riuscite di sempre. El Chino ha 22 anni ed &egrave; approdato in nerazzurro nell&rsquo;estate del &lsquo;97. Pupillo di Moratti, che lo ha fortemente voluto dopo averlo visionato in alcuni filmati, fantasista dalla classe sopraffina e dal mancino sublime, Recoba non &egrave; riuscito a trovare lo spazio che merita in squadra. La presenza di attaccanti come Ronaldo, Baggio, Zamorano e Ventola e di centrocampisti offensivi come Djorkaeff e Pirlo, lo ha relegato ai margini della rosa. Sono solo 74 i minuti accumulati in quattro gare tra campionato, Coppa Italia e Champions League dal Chino nella prima parte del 1998-99. Spezzoni che vanno a sommarsi alle poche presenze messe a referto nella stagione precedente, quando comunque aveva regalato sprazzi da fuoriclasse come la doppietta all&rsquo;esordio contro il Brescia, nel giorno in cui San Siro accoglieva Ronaldo il Fenomeno, di fatto oscurando la prima presenza in Serie A dell&rsquo;acquisto pi&ugrave; atteso dai tempi di Maradona. &ldquo;Anche io ero al debutto quel giorno, ma ero solo un ragazzo che veniva dall&rsquo;Uruguay, una sorta di attore non protagonista al fianco del Fenomeno. Ebbi la fortuna di entrare contro il Brescia e feci due goal. Il giorno dopo i giornali dissero che avevo salvato l&rsquo;allenatore&rdquo;. (cit. Alvaro Recoba).&nbsp; L'intuzione di Marotta che cambi&ograve; la stagione&nbsp; Come dicevamo, una trattativa che ha fatto storia ma nata per caso, solo grazie a una circostanza fortunosa. Infatti il Venezia &ndash; che in campionato occupa l&rsquo;ultimo posto in classifica e per questo deve assolutamente rinforzare la rosa &ndash; si butta a capofitto su Federico Giunti. Con l&rsquo;ok del presidente Zamparini il dg dei lagunari &ndash; un giovane Beppe Marotta &ndash; parte alla volta di Parma per chiudere. L&rsquo;imprevisto, per&ograve;, &egrave; dietro l&rsquo;angolo: il centrocampista giallobl&ugrave; firma col Milan. Arriva proprio dal giovane Marotta l&rsquo;idea geniale, fondamentale per rimediare a una circostanza inattesa che potrebbe non andare a genio all&rsquo;esuberante presidente Zamparini. Contatta cos&igrave; il ds nerazzurro Sandro Mazzola per provare a intavolare una trattativa per il prestito di Recoba. Per tutte le circostanze sopra elencate, la buona riuscita dell&rsquo;operazione converrebbe all&rsquo;Inter, al Venezia e al giocatore stesso: i nerazzurri avrebbero la possibilit&agrave; di vedere all&rsquo;opera con continuit&agrave; il talento uruguagio; i lagunari beneficerebbero delle sue prestazioni per inseguire una salvezza insperata; El &nbsp;Chino potrebbe finalmente dimostrare al pubblico italiano quello che &egrave; veramente capace di fare. &nbsp;&ldquo;Oltre alla competenza ci vuole sempre un po&rsquo; di fortuna. Prendemmo Recoba perch&eacute; mentre stavo andando a Parma a chiudere per Giunti, Oriali mi disse che Galliani aveva appena trovato un accordo con il giocatore. Chiamai Mazzola solo perch&eacute; dovevo sopperire al mancato arrivo di Giunti&rdquo; (cit. Beppe Marotta).&nbsp; Recoba a Venezia: sei mesi fantastici Recoba sbarca in laguna cambiando totalmente il destino della squadra di Novellino. L&rsquo;uruguagio passa nella citt&agrave; dell&rsquo;amore i sei mesi migliori della sua altalenante carriera. In campo &egrave; un genio: dipinge con il sinistro traiettorie da vero artista. Sono 10 capolavori in 19 presenze, reti che consentono al Venezia non solo di salvarsi risalendo dall&rsquo;ultimo posto in classifica, ma anche di farlo con una giornata d&rsquo;anticipo. Nella partita disputata contro chi? Contro l&rsquo;Inter ovviamente: uno spettacolare 3-1 al Penzo. Chino non segna, ma regala giocate di classe pura che culminano in una festa indimenticabile per Venezia e i suoi tifosi: prima l&rsquo;assist per l&rsquo;1-0 di Volpi, poi la punizione del 2-0, che colpisce la traversa, sbatte sulla schiena di Frey e termina in rete. Tra le 10 perle di Recoba in arancioneroverde, resta memorabile la tripletta segnata alla Fiorentina di Batistuta, con due reti arrivate grazie alle sue velenose punizioni. Il grande amore di Moratti per Recoba&nbsp; Al termine della stagione torner&agrave; a Milano, dove rimarr&agrave; fino al 2007 riuscendo a vincere due campionati, due Coppe Italia e due Supercoppe senza per&ograve; mai mostrare appieno le potenzialit&agrave; del suo immenso talento. Rester&agrave; comunque nel cuore dei tifosi interisti, soprattutto in quello di Massimo Moratti: &ldquo;Recoba non &egrave; un calciatore, Recoba &egrave; il calcio. Lui ha fatto cose che i giocatori normali non fanno. Chi ho amato di pi&ugrave; tra lui e Ronaldo? Erano due cose diverse: Ronaldo era il migliore al mondo e quindi lo ammiravo per questo, mentre Recoba non ci aspettavamo che fosse cos&igrave; forte. Alla fine si tende ad amare di pi&ugrave; colui che ti sorprende e quindi dico il Chino&rdquo;. &nbsp; &nbsp; &nbsp; &nbsp; &nbsp; &nbsp; &nbsp; &nbsp; &nbsp; &nbsp;       

Nella sessione di riparazione del 1999 i lagunari in piena crisi si assicurarono in prestito le prestazioni di un campione che cambi&ograve; le sorti della stagione

Calciomercato invernale, Recoba al Venezia e quella salvezza insperata

Gli eventi pi&ugrave; importanti del primo mese dell&#39;anno: tennis, football americano e il calcio, con un viaggio nel tempo alla ricerca della storia della sessione invernale del calciomercato. L&#39;agenda sar&agrave; disponibile in edicola il 31 dicembre 2021 con Corriere dello Sport-Stadio e Tuttosport

L'agenda dello sport de Il Cuoio: gennaio 2022... e non solo

        Il lancio del contratto pi&ugrave; famoso della storia del calciomercato. &Egrave; quello che il 1&deg; settembre 2008 Federico Pastorello, intermediario della trattativa che dovrebbe riportare Diego Milito al Genoa dal Saragozza, effettua alle 19.02 nel box della Lega Calcio. &Egrave; l&rsquo;ultimo, estremo, tentativo di porre fine a una trattativa faticosissima e piena di colpi di scena. Il grande ritorno  Diego Milito, al Genoa, ci &egrave; gi&agrave; stato dal 2004 al 2005. Con i suoi gol trascina i genoani in Serie A, ma il celebre caso di illecito nella partita contro il Venezia fa s&igrave; che la giustizia sportiva condanni il Grifone alla retrocessione in C1. L&rsquo;argentino vola cos&igrave; in Spagna, al Real Saragozza, dove in tre anni segna una caterva di gol. Il Genoa, che nel frattempo &egrave; tornato da una stagione in Serie A, nel 2008 decide di riprenderlo, forte della volont&agrave; del giocatore di tornare in Liguria. Ma la trattativa non &egrave; semplice. Il Saragozza si fa forte infatti di un&rsquo;offerta del Tottenham che &egrave; di 2 milioni superiore a quella del presidente Preziosi, ovvero 8 milioni pi&ugrave; bonus. Il Genoa aveva gi&agrave; preso giocatori come Bocchetti, Criscito e Jankovic, ma serviva un attaccante, anche perch&eacute; nella prima giornata del campionato 2008-09 gli uomini di Gasperini perdono a Catania. Ma il Saragozza non vuole far partire il giocatore. Serve tutta la mediazione di Pastorello e di Fernando Hidalgo, agente di Milito, per sbloccare la situazione. Il contenzioso &egrave; legato anche a un debito che il club spagnolo ha nei confronti dell&rsquo;attaccante argentino.&nbsp; Il celebre lancio del contratto  Il 1&deg; settembre alle ore 19 il calciomercato chiude, e a pochi minuti dal termine Milito &egrave; ancora un giocatore del Saragozza. Che d&agrave; l&rsquo;ok finale solo alle 18.55, dopo che il Genoa offre 10 milioni pi&ugrave; bonus. Tutti gli addetti ai lavori firmano i vari documenti. Una parte di questi viene spedita in Lega, ma c&rsquo;&egrave; ancora il contratto di Milito da depositare. Pastorello lo consegna a un collaboratore dicendogli di sbrigarsi a portarlo negli uffici. Tranquillizzatosi, alle 19.02 si avvicina al box della Lega e trova il collaboratore fuori dalla porta con il contratto in mano. Gli dice che &egrave; tutto chiuso. Pastorello allora agisce d&rsquo;istinto, sfrutta la sua altezza e, letteralmente, lancia il contratto di Milito all&rsquo;interno del box un attimo prima che le porte si chiudano. &Egrave; lo sliding doors del campionato del Genoa: perch&eacute; grazie ai (tanti) gol del Principe, i rossobl&ugrave; si qualificheranno all&rsquo;Europa League. E pazienza se a causa di quell&rsquo;episodio arriver&agrave; una multa da 10.000 euro.&nbsp;E Pastorello? Qualche tempo dopo, quando Milito &egrave; gi&agrave; all&rsquo;Inter, seduto in tribuna a San Siro l&rsquo;agente sente una pacca sulla spalla e una voce che esclama: &laquo;Ecco la persona che devo ringraziare per avermi riportato in Italia&raquo;. Superfluo specificare di chi sia quella voce.&nbsp; &nbsp;        

L'argentino torna in rossobl&ugrave; dopo la parentesi al Real Saragozza: necessaria una trattativa estenuante e dal finale epico con il famoso lancio del contratto

Calciomercato, il colpo dell'ultimo giorno: Milito al Genoa

        Avrebbero potuto chiamarli &ldquo;Il Gatto e la Volpe&rdquo;, tanta era l&rsquo;intesa tra i due quando si apriva la stagione del calciomercato. Perch&eacute; uno seguiva l&rsquo;altro e viceversa, la mente e il braccio di decine di trattative andate a bersaglio per il Milan. Ariedo Braida e Adriano Galliani, in rigoroso ordine alfabetico, erano una coppia assortita benissimo, come quelle degli attaccanti di una volta. Dal 1986 al 2013 hanno lavorato assieme, prima che Braida lasciasse la carica di direttore sportivo: un quarto di secolo, comunque, da ricordare. Dal Monza al Milan  Tra i due, quello con un&rsquo;esperienza anche da calciatore era Braida, ex attaccante anche in Serie A con il Brescia, il Varese e il Cesena. Addirittura era stato capocannoniere di un campionato di B, sempre con il Varese. Arriva al Milan, Braida, dopo una breve trafila da dirigente con il Monza e l&rsquo;Udinese. A parte i friulani, &egrave; in terra lombarda che germoglia il suo nome, che va ad accoppiarsi, sempre a proposito di Monza, con quello di Adriano Galliani, fidatissimo braccio destro di Silvio Berlusconi. &ldquo;Il dottore&rdquo; &egrave; il primo amministratore delegato del Milan nella nuova presidenza di &ldquo;Sua Emittenza&rdquo;, ma &egrave; soprattutto colui nel 1981 aveva chiamato Braida al Monza quando aveva appena smesso di giocare con il Sant&rsquo;Angelo Lodigiano. Un&rsquo;amicizia gi&agrave; formata, quindi, e che si rinsalda in rossonero, dove anche grazie alle munifiche tasche di Berlusconi &egrave; pi&ugrave; facile muoversi sul mercato. Braida diventa direttore generale, il grande tessitore delle manovre da mantenere segrete, l&rsquo;uomo di cui fidarsi al momento di un acquisto, con Galliani sempre accanto. &Egrave; l&rsquo;inizio di un memorabile ciclo di vittorie per il Milan. I tre olandesi rossoneri  La partenza &egrave; lanciata, ma i frutti si vedono solo al secondo anno. &Egrave; quello con Sacchi in panchina, ma soprattutto con gli olandesi, che da due diventano tre nel 1988. Si comincia con Van Basten e Gullit, uno strappato alla Fiorentina e pagato appena 1,8 miliardi dall&rsquo;Ajax e l&rsquo;altro gi&agrave; pi&ugrave; famoso, Pallone d&rsquo;Oro nel 1987 e costato al Milan ben 13 miliardi, per l&rsquo;epoca un record. Il trittico oranje, quello che entrer&agrave; nell&rsquo;immaginario collettivo di quel periodo di grandi successi, si completa con Franklin &ldquo;Frankie&rdquo; Rijkaard, acquistato dallo Sporting Lisbona per 2,5 miliardi nonostante una mezza sommossa dei tifosi portoghesi per impedire il trasferimento. Tanto che, sar&agrave; lo stesso Braida a confermarlo, il contratto con l&rsquo;accordo firmato se lo era messo nelle mutande. La forza dei soldi, che per&ograve; vanno spesi bene onde evitare clamorosi flop. Tipo l&rsquo;argentino Borghi, voluto fortissimamente dal presidente Berlusconi, acquistato e mai visto in rossonero perch&eacute; non compatibile con il gioco di Arrigo Sacchi. Sono gli anni in cui il Milan comunque prende fino a sei stranieri, lasciandone tre in tribuna o mandandoli in prestito altrove, gente che una volta tornata in rossonero lascer&agrave; il segno: due esempi su tutti, Zvonimir Boban e Dejan Savicevic, 10 miliardi per il primo e 13 per il secondo. Oppure che crea una rosa gigantesca, inaugurando l&rsquo;epoca del turnover, con riserve che altrove sarebbero titolari inamovibili (De Napoli, Nava, Gambaro, Di Canio), pagando tantissimo anche per i giovani italiani, come Lentini. Persino le sconfitte possono essere delle occasioni per mettere il mirino su alcuni giocatori: &egrave; quello che succede nel 1993, quando dopo averci perso contro in finale di Coppa Campioni, Braida e Galliani vanno dall&rsquo;Olympique Marsiglia e comprano il difensore-centrocampista Marcel Desailly per 10 miliardi, trasformandolo in un elemento chiave della squadra che vincer&agrave; in Italia e in Europa l&rsquo;anno successivo. Stessa falsariga per Weah, contro cui il Milan non perde (anzi, che elimina in semifinale di Champions), ma che viene strappato al Psg per 13 miliardi nel 1995. Investimenti sbagliati e il nuovo ciclo Ancelotti  Non &egrave; sempre andata bene, comunque, per il duo dirigenziale pi&ugrave; vincente nella storia del Milan. A met&agrave; degli anni Novanta alcuni investimenti sbagliati dopo l&rsquo;epopea con Fabio Capello mettono sotto accusa Galliani e Braida, che cominciano ad abusare dei &ldquo;parametri zero&rdquo;, i giocatori che, una volta scaduto il contratto, sono liberi senza indennizzo. Il tentativo di ricreare un blocco olandese come dieci anni prima naufraga con Reiziger-Davids-Kluivert-Bogarde, tutti arrivati senza spendere una lira e tutti pi&ugrave; o meno rispediti al mittente con perdite. Anche certi giocatori che invece vengono pagati profumatamente deludono: nomi tipo Ziege o Ba, che vincono lo scudetto del 1999 ma da comprimari. Spese che crescono, ma che invece portano enormi dividendi, sono quelle a cavallo del millennio, quando viene costruito il tridente che andr&agrave; a dominare in Europa: Shevchenko (41 miliardi nel 1999), Rui Costa (85) e Filippo Inzaghi (40 + Cristian Zenoni valutato 30), questi ultimi due nel 2001. Sono alcuni dei tasselli del nuovo grande ciclo vincente con Ancelotti in panchina: sempre nel 2001 arriva Andrea Pirlo per 30 miliardi, ma &egrave; nell&rsquo;estate successiva che si completa il capolavoro, con l&rsquo;acquisto di Nesta per 30 milioni (adesso di euro, col nuovo cambio) dalla Lazio e soprattutto lo scambio alla pari con l&rsquo;Inter tra Seedorf e Coco. Un colpo da maestro in un agosto, quello del 2002, che porta addirittura Rivaldo, fresco campione del mondo con il Brasile, a zero dal Barcellona. Il fantasista mancino non combiner&agrave; granch&eacute; al Milan, ma anche giocando da fermo metter&agrave; lo zampino in pi&ugrave; di un&rsquo;occasione, specie in Champions League, dove i rossoneri tornano a trionfare dopo 9 anni. Un altro brasiliano, pi&ugrave; giovane, costato un po&rsquo; di pi&ugrave; ma per cifre comunque irrisorie (7,5 milioni) sar&agrave; l&rsquo;anno successivo un altro dei grandissimi colpi della coppia Braida-Galliani, che non si lascia condizionare dal nome un po&rsquo; strano e sferra l&rsquo;assalto vincente a Kak&aacute;. Inutile specificare quanto e cosa porter&agrave; questo ragazzo dalla faccia pulita al Milan. Merito anche di Leonardo, uno dei tanti collaboratori oppure osservatori che hanno affiancato i due dirigenti rossoneri, consentendo di segnalare talenti ancora sconosciuti e quindi meno costosi in anticipo sulla concorrenza.  Le cessioni dolorose  La Champions vinta nel 2007 &egrave; un po&rsquo; il canto del cigno della grande epopea rossonera berlusconiana. Da l&igrave; in avanti, come in una sorta di onda che si ritrae, le grandi cifre sono quelle in entrata piuttosto che in uscita. Gli acquisti che si dimostreranno realmente validi sono pochissimi, paragonati poi al loro valore. C&rsquo;&egrave; ancora spazio per qualche colpo a effetto, persino insperato come peso specifico, ad esempio Ronaldinho nel 2009. L&rsquo;ultimo scudetto &egrave; del 2011, con trascinatore Zlatan Ibrahimovic, strappato al Barcellona, e due giovani brasiliani: Thiago Silva e Pato, quest&rsquo;ultimo arrivato ancora minorenne ma poi persosi tra infortuni e problemi personali. Il sipario cala definitivamente nel 2013, quando Ariedo Braida lascia il Milan lasciando un vuoto incolmabile. Difficile trovare un altro grande tessitore delle trattative, un altro conoscitore del mercato internazionale come l&rsquo;ex attaccante del Varese, che diventer&agrave; consulente addirittura del Barcellona. La presidenza Berlusconi &egrave; stata grandissima anche per merito di questi due dirigenti che di colpi ne hanno sbagliati pochissimi. Inseparabili, inscindibili come ruolo, tifosi anch&rsquo;essi del Milan, a volte anche in maniera scomposta ma mai volgare, ciascuno col proprio stile: 27 anni di successi indimenticabili.       

Prima al Monza e poi in rossonero: storia di un rapporto durato 27 anni che ha arricchito la bacheca della societ&agrave; durante l&rsquo;era Berlusconi

Braida-Galliani, soci e amici per il Milan

        Firenze era in subbuglio da mesi; il Conte Pontello pi&ugrave; d&rsquo;una volta s&rsquo;era trovato cortei di tifosi viola sotto casa, o meglio lungo il percorso tra la sua abitazione e i suoi cantieri. In altre occasioni gli era capitato di stare cenando in un ristorante del centro e di essere avvicinato da eleganti clienti tifosi viola i quali, con modi cortesi ma sprezzanti al tempo stesso, gli ricordavano che &egrave; inutile vantare titoli nobiliari se poi non si hanno i soldi. I soldi per fare cosa, in particolare? Per trattenere Roberto Baggio a Firenze, ovviamente; per non recidere il legame tra una citt&agrave;, con la tifoseria viola come avamposto sentimentale e volano di rivendicazione, e il suo fuoriclasse pi&ugrave; grande e rappresentativo dai tempi di Giancarlo Antognoni. Il legame con la Fiorentina e la citt&agrave; Ma Baggio cosa diceva, nel frattempo, durante una stagione quasi paradossale, con la Viola che in campionato annaspava per non essere risucchiata del tutto dalle sabbie mobili della zona retrocessione e che in Coppa Uefa invece inanellava partite sempre pi&ugrave; convincenti, tanto da arrivare a raggiungere la finale proprio contro la Juventus che stava tentando in ogni modo - e con ogni cifra - di portar via da Firenze il fantasista vicentino? In sostanza, laconicamente, Baggio ripeteva come un mantra un solo concetto: di non voler venir via da Firenze, di sentirsi legato indissolubilmente tanto alla citt&agrave; quanto alla tifoseria e che se proprio doveva accadere, altri si sarebbero poi dovuti assumere la responsabilit&agrave; di spiegare i fatti a una piazza in subbuglio pi&ugrave; o meno dal mese di gennaio del 1990, via via sempre pi&ugrave; ostile, alla fine inferocita contro una societ&agrave; che aveva intessuto e ricamato non soltanto una trattativa, ma anche una via preferenziale per Gianni Agnelli. Ci aveva provato anche il Milan, velatamente e con Berlusconi che aveva sondato in prima persona, ma i Pontello avevano sempre assicurato alla societ&agrave; pi&ugrave; detestata dai tifosi viola che avrebbero dato priorit&agrave; all&rsquo;offerta di Madama. Una doppia scaturigine di rabbia; tripla, se consideriamo l&rsquo;epilogo delle due finali Uefa contro i bianconeri, con la Fiorentina costretta a disputare il ritorno casalingo sul neutro di Avellino e con pi&ugrave; di una recriminazione per le decisioni arbitrali. Parlava poco e in modo quasi sempre sibillino Antonio Caliendo, il procuratore di Baggio, che fino al giorno dell&rsquo;annuncio della cessione, che nelle sue tasche avrebbe portato tre miliardi di lire, era sembrato poco pi&ugrave; di un turista interessato, con poche parole strategiche il cui succo era sempre il medesimo: dipende dai Pontello, dalla loro volont&agrave; o meno di trattenere il giocatore a Firenze. Alla fine la Fiorentina otterr&agrave; dalla Juventus 25 miliardi di lire pi&ugrave; il cartellino di Buso.  Il risentimento dei tifosi viola  In mezzo, proprio affinch&eacute; non mancasse nulla alla (apparente) complessit&agrave; della trama di una vicenda il cui finale col senno di poi appariva scontato quasi da subito, bisogna aggiungere che si era alla vigilia del campionato del mondo che si sarebbe disputato in Italia, con la Nazionale di Azeglio Vicini che si era radunata a Coverciano. Quei giorni di maggio bruciavano nella gola e negli occhi dei tifosi fiorentini tra risentimento e lacrimogeni, con Baggio costretto a raggiungere il centro d&rsquo;allenamento sdraiato in una volante della polizia. Nessuno meglio di lui, negli anni a seguire, avrebbe sintetizzato meglio quel periodo: "Ero circondato dal risentimento di quelli che avrei voluto fossero ancora i miei tifosi". La guerra per Baggio        

Estate 1990: il fantasista passa ai bianconeri per 25 miliardi pi&ugrave; Buso tra il risentimento e le proteste dei tifosi della Fiorentina&nbsp;&nbsp;

Calciomercato: Baggio alla Juve, Firenze furiosa

        In estate, ogni storia sembra una favola. &Egrave; il tempo degli innamoramenti e delle trattative di calciomercato, di sogni che a volte durano lo spazio di una stagione. La ricerca del colpo a effetto accomuna tutti i presidenti, e tutti i tifosi. Ma non sempre quei colpi ottengono l&rsquo;effetto voluto. Negli anni Novanta, quando la Serie A era il campionato pi&ugrave; bello e ambito del mondo grazie alle Sette Sorelle, la corsa al campione straniero ha allargato gli orizzonti dei sogni e arricchito i cassetti dei rimpianti. Ne sa qualcosa l&rsquo;Inter, che tra la fine della presidenza Pellegrini e l&rsquo;inizio della gestione di Massimo Moratti, ha guardato all&rsquo;estero per tentare di reggere la concorrenza del Milan.  Bergkamp e Jonk: i due olandesi all'Inter  Nell&rsquo;estate del 1993, con questo obiettivo Pellegrini ha annunciato ai giornalisti l&rsquo;acquisto di due calciatori olandesi che spiazzano tutti: Dennis Bergkamp, per cui la societ&agrave; investe i soldi incassati per la vendita di un altro incompreso in Italia, il tedesco Matthias Sammer futuro Pallone d&rsquo;Oro; e Wim Jonk. Bergkamp &egrave; considerato l&rsquo;erede di Van Basten all&rsquo;Ajax, con cui ha segnato pi&ugrave; di 100 gol. Ma soprattutto era il primo nome nella lista della Juventus, che per&ograve; pare non abbia accettato la sua pressione per avere con s&eacute; anche Jonk. L&rsquo;Inter, invece, dice s&igrave;. Non &egrave; la prima volta che ha vissuto situazioni simili. Andreas Brehme, terzino tedesco che segn&ograve; il rigore decisivo nella finale dei Mondiali del 1990, passava come il &ldquo;pacco regalo&rdquo; per arrivare a Lothar Matth&auml;us. L&rsquo;attaccante olandese ha anche meditato di lasciare il calcio, ma il suo senso estetico per il gioco non si adatta a una squadra che ingloba stranieri ma gioca all&rsquo;italiana. Non a caso andr&agrave; a illuminare l&rsquo;Arsenal insieme a un&rsquo;altra stella vittima di una clamorosa incomprensione nella storia della Serie A.  Vieira, una sola stagione al Milan C&rsquo;&egrave; l&rsquo;Arsenal anche nel destino di Patrick Vieira. Quando, da teenager, il centrocampista era soltanto una promessa del Cannes, Ariedo Braida ha l&rsquo;intuizione giusta e per sette miliardi lo porta al Milan. &Egrave; l&rsquo;estate del 1995. In quel campionato, che il Milan chiuder&agrave; vincendo lo scudetto, gioca appena due partite. Fabio Capello lo considera troppo acerbo e Oscar Tabarez, che lo sostituisce nell&rsquo;estate del 1996, non lo vede proprio. Vieira accetta cos&igrave; l&rsquo;offerta dell&rsquo;Arsenal, che lo paga 4,5 milioni di sterline. Il resto, come si dice in questi casi, &egrave; storia.  Henry alla Juventus  Si tratta, naturalmente, del francese Thierry Henry. Nei suoi sei mesi e mezzo alla Juventus, ha spiegato di aver giocato quasi tutte le partite senza comprendere esattamente quale dovesse essere il suo ruolo. Carlo Ancelotti lo schierava da tornante, defilato e lontano dalla porta. Non ha mai capito che il suo posto &egrave; da attaccante, e lo considera ancora oggi il pi&ugrave; grande errore della sua carriera insieme al no a Roberto Baggio quando allenava il Parma.  Estate 1995: Rambert in nerazzurro Il 1995 rester&agrave; nella storia anche per l&rsquo;arrivo in Italia, sempre all&rsquo;Inter, di Sebastian Rambert e Roberto Carlos. Rambert &egrave; un attaccante argentino di vent&rsquo;anni che ha esordito giovanissimo nell&rsquo;Independiente con cui ha segnato 14 gol. Ha un fisico esile e un talento ammirato da molti. Perfino il grande Omar Sivori ne resta colpito e prova a convincere la Juventus ad acquistarlo. Non nasconde il suo rammarico, poi, quando l&rsquo;argentino prende la via di Milano. Costato cinque miliardi, Rambert si rivela un giocatore acerbo, dal carattere chiuso, che spesso vaga per il campo completamente estraneo alla manovra dell&rsquo;Inter. Nemmeno il cambio di allenatore, il passaggio da Ottavio Bianchi all&rsquo;inglese Roy Hodgson, cambiano le cose. Rambert verr&agrave; venduto e non realizzer&agrave; mai quel potenziale annunciato tra enormi fanfare. Nel corso della stagione, Moratti &egrave; costretto a dare ragione a Diego Maradona, che elogia l&rsquo;altro argentino arrivato dal Banfield, Javier Zanetti, per cinque miliardi ma praticamente a fari spenti. &ldquo;Il vero colpaccio l&rsquo;Inter l&rsquo;ha fatto con Javier Zanetti, che &egrave; un autentico fenomeno, altro che Rambert&rdquo;. Game, set and match per il Pibe de Oro.   Moratti e i 10 miliardi per Roberto Carlos Moratti ha azzeccato un altro colpo in quel 1995. Per dieci miliardi di lire dell&rsquo;epoca, ha acquistato un terzino sinistro brasiliano di 22 anni che sogna di diventare il migliore del mondo nel suo ruolo, Roberto Carlos. L&rsquo;impatto &egrave; devastante: segna 4 gol nelle prime 5 partite. Sigilli che diventeranno la sua condanna. &ldquo;Mi hanno spostato in una posizione pi&ugrave; avanzata, mi hanno fatto giocare anche come attaccante e ho sofferto molto - dir&agrave; anni dopo in un&rsquo;intervista pubblicata sul canale Instagram della FIFA -. Ho parlato con il presidente per dirgli che non potevo giocare in quella posizione, perch&eacute; poi ci sarebbe stata la Coppa America e per essere convocato dovevo fare l&rsquo;esterno&rdquo;. Non ci pu&ograve; credere Fabio Capello, allenatore dei Blancos, che si fa mandare un fax per leggere nero su bianco che davvero l&rsquo;Inter l&rsquo;ha messo in vendita. E chiede al presidente Lorenzo Sanz di fare di tutto per portarlo a Madrid. L&rsquo;accordo, racconter&agrave; Roberto Carlos, lo troveranno in dieci minuti. La Serie A perde il simbolo dei campioni incompresi che hanno attraversato il nostro calcio negli anni Novanta.       

Da Roberto Carlos a Vieira, passando per Henry e Bergkamp: i giocatori che hanno deluso per poi esplodere nelle squadre estere

Calciomercato anni '90: errori di valutazione e campioni incompresi

        Quello che conta &egrave; sempre il punto di vista, dal quale si inquadrano le cose e che alla fine stila il bilancio tra il dare e l&rsquo;avere, tra ci&ograve; che poteva essere e ci&ograve; che &egrave; stato, nel bene e nel male; tra quello che sei e quello che gli altri vedono, o hanno visto negli anni. Non c&rsquo;&egrave; nulla di pi&ugrave; individuale e soggettivo, quindi se nessuno potr&agrave; mai pretendere di spiegarlo del tutto a chi giudica da fuori, nessun altro potr&agrave; mai accampare il diritto di giudicare. Vale per la vita di ogni individuo, quindi vale anche per la carriera di un calciatore; forse, di un attaccante in modo particolare, perch&eacute; oltre il numero dei gol, che restano indelebili negli almanacchi, c&rsquo;&egrave; anche il loro peso, l&rsquo;impatto che hanno avuto presso i tifosi propri e quelli avversari; la scia che lasciano nel tempo e i motivi per i quali la gente li ricorda. Perch&eacute; questo discorso ha un senso maggiore se riferito a un mondo e a un calcio di provincia? &Egrave; presto detto: perch&eacute; ogni aneddoto ha un peso maggiore, perch&eacute; gli episodi hanno una maniera tutta propria di restare memorabili, quando agli onori scontati delle cronache preferiscono il clamore generato da ci&ograve; che &egrave; inatteso, perch&eacute; viene da un mondo piccolo che senza sfigurare si misura col grande, ben sapendo che le proporzioni resteranno le stesse, ma l&rsquo;orgoglio per ci&ograve; che si &egrave; realizzato &ndash; mai participio fu pi&ugrave; adatto &ndash; pu&ograve; essere addirittura pi&ugrave; duraturo che in un &ldquo;altrove&rdquo; pi&ugrave; grande.   L'esordio di Serie A e il titolo di capocannoniere  Questo discorso lo capiva bene uno come Dario H&uuml;bner; o forse all&rsquo;inizio non lo capiva ancora, di certo se lo &egrave; cucito addosso adattandoselo come un vestito d&rsquo;alta sartoria sfoggiato per una cerimonia nella chiesetta di una piazza dove tutti si conoscono: lo ha tradotto nella sequela delle sue reti, di stagione in stagione, di categoria in categoria, di titolo in titolo di capocannoniere, perch&eacute; &egrave; riuscito a esserlo in Serie C, poi in B e infine in A, dove &egrave; arrivato a trent&rsquo;anni, quando la maggior parte di quelli che hanno giocato negli stadi dove ogni insulto ti entra dritto nei timpani gi&agrave; pensano a metter su una trattoria, o un&rsquo;agenzia di assicurazioni. Spalle ampie e progressione inesorabile come metafora di una fame calcistica rimasta tale anche quando la pancia era piena da un po&rsquo;; lui che fino a un certo punto della carriera i panini se li portava in fabbrica per la pausa del pranzo. Forse &egrave; anche per questo, anzi &egrave; senz&rsquo;altro per questo che dopo i cinque anni di Cesena in Serie B, dal 1992 al 1997, si &egrave; ritrovato a San Siro con la maglia del Brescia a rubare la scena a Ronaldo il Fenomeno, il giorno in cui il brasiliano esordiva con l&rsquo;Inter e in cui H&uuml;bner la metteva dentro per primo, al minuto 73, prima che si scatenasse Recoba per la doppietta finale. E sempre per lo stesso motivo, nella sua ultima stagione con le Rondinelle, nel 2000-2001, si &egrave; ritrovato a duettare con Roberto Baggio, i cui giri di lancetta hanno premiato le sportellate del Bisonte, visto che nel frattempo gli avevano cucito addosso il soprannome di &ldquo;Tatanka&rdquo;. E aveva galoppato in praterie di erba bruciata come in tappeti verde smeraldo da posticipo televisivo, nel frattempo, sempre senza smarrire quelle due cose per le quali ancora oggi ha un senso celebrarlo: il senso del gol, che &egrave; qualcosa pi&ugrave; del fiuto, e l&rsquo;impossibilit&agrave; di essere altro da ci&ograve; che era sempre stato, sin da quando mollava il borsello col cestino per il pranzo per prendere il borsone da calcio. E quando l&rsquo;anno seguente se ne and&ograve; al Piacenza, sempre nella massima categoria, esib&igrave; un modo tutto suo di attraversare quello che per il punto di vista altrui era il viale del tramonto di Dario H&uuml;bner: vincendo la classifica dei cannonieri con 24 reti, in condominio con un certo David Trezeguet. E una terza cosa era sempre rimasta la stessa, visto che rinasceva, &egrave; il caso di dirlo, dalle proprie ceneri: la sigaretta che fumava nell&rsquo;intervallo, uguale a quella o quelle prima della partita, alle altre dopo la doccia. Un&rsquo;abitudine alla quale non aveva rinunciato, non per spavalderia ma per la consueta naturalezza.  Fine carriera  Ancona, Perugia, Mantova, Chiari e via riscendendo di categoria, fino alla C1 e a tante altre stagioni in Eccellenza, perch&eacute; si era ritrovato a casa, cos&igrave; come si era sentito anche scendendo in campo a Milano, a Roma, a Napoli, perch&eacute; l&rsquo;area di rigore &egrave; sempre lunga e larga alla stessa maniera, in fondo, cambia solo il casino che c&rsquo;&egrave; attorno. Almeno &egrave; cos&igrave; che l&rsquo;ha sempre vissuta lui, triestino di nonno tedesco, spigoli nel naso e nel cognome, che un giorno venne descritto in questo modo dal presidente bresciano Corioni: &ldquo;Senza grappini e sigarette sarebbe il migliore di tutti&rdquo;. Ci permettiamo di dissentire: senza grappini e sigarette non sarebbe stato del tutto Dario H&uuml;bner, uno che ancora oggi ricordiamo pi&ugrave; di tanti altri che sono evaporati sulle panchine della Juventus, del Milan o dell&rsquo;Inter.        

Sbarca in Serie A a 30 anni con il Brescia poi &egrave; capocannoniere a 35 con il Piacenza: una lunga storia di gol, in ogni categoria e con ogni maglia

Calciomercato, Dario Hübner: il re dei bomber di provincia

        &laquo;&Egrave; colpa mia, solo Dio pu&ograve; sapere che cosa mi sia passato per la testa quando ho commesso quel fallo su Charles. Di sicuro c&rsquo;&egrave; solo una cosa: non far&ograve; pi&ugrave; interventi del genere. Purtroppo il giorno della finalissima contro il Nottingham ero ancora pi&ugrave; carico di quando &egrave; iniziata la semifinale Mondiale con la Germania. Sentivo troppo un appuntamento importante per me e, soprattutto, per i tifosi del Tottenham. Mi dispiace&raquo;. Sono le tristi parole espresse da Paul Gascoigne ai microfoni del Sun, pochi giorni dopo la finale di FA Cup giocata il 18 maggio 1991. Il dispiacere, per&ograve;, non coinvolge solo l&rsquo;estroso fantasista inglese: oltre a Gazza, che dovr&agrave; restare fermo ai box per l&rsquo;intera stagione successiva, coinvolge anche tifosi e dirigenza della Lazio. Proprio in quel periodo Gianmarco Calleri, con la solita stretta collaborazione del ds Carlo Regalia, sta definendo il passaggio in biancoceleste del centrocampista. Sul fallo senza senso ai danni del terzino del Forest &ndash; dal quale scaturir&agrave; il vantaggio della squadra di Brian Clough, prima della vittoriosa rimonta degli Spurs &ndash; Gazza ha la peggio, compromettendo in primis la carriera, ma anche la sua imminente esperienza in Serie A. Cambiano cos&igrave;, repentinamente e inaspettatamente, le sfumature di una trattativa che comunque andr&agrave; in porto. Il Tottenham &egrave; in crisi, ha bisogno di cedere, mentre la Lazio non vuole rinunciare a un campione, un po&rsquo; pazzo s&igrave;, ma pur sempre un calciatore che porterebbe un entusiasmo senza precedenti sotto i riflettori di una piazza che vuole tornare alla ribalta.&nbsp; La lunga trattativa  Gascoigne &egrave; tra i calciatori pi&ugrave; forti al mondo. Solo pochi mesi prima &egrave; stato un fenomeno come Diego Armando Maradona a incoronarlo pubblicamente come suo successore. Il gravissimo infortunio influisce sulle cifre dell&rsquo;operazione tra Lazio e Tottenham, ma ai tifosi importa poco: sognano lo sfrontato fuoriclasse inglese. A conferma di ci&ograve;, uno striscione esposto all&rsquo;Olimpico il 26 maggio &rsquo;91, in occasione dell&rsquo;ultima gara di campionato contro la Samp fresca scudettata: &ldquo;Happy birthday Gazza!&rdquo;. Il giorno dopo quella partita, infatti, Gascoigne avrebbe soffiato su 24 candeline. Sono proprio quelle le ore in cui la dirigenza biancoceleste chiude i discorsi con gli Spurs, assicurandosi, a partire dalla stagione 1992-93, uno dei pi&ugrave; forti in circolazione. L&rsquo;accordo viene raggiunto da Carlo Regalia e Maurizio Manzini: la Lazio verser&agrave; nelle casse del Tottenham una prima tranche che si aggira intorno agli otto miliardi di lire (la seconda arriver&agrave; nell&rsquo;estate successiva con Sergio Cragnotti al timone). Questa transazione consente al club inglese di tappare il buco con l&rsquo;esigente Midland Bank. Inoltre, viene pattuito che Gascoigne si curer&agrave; in Italia: &laquo;Noi paghiamo ma vogliamo la responsabilit&agrave; del recupero fisico del giocatore&raquo;. Un altro snodo fondamentale riguarda il contratto del calciatore: partir&agrave; ufficialmente dal 1&deg; luglio 1992, consentendo alla Lazio di non occupare lo slot per lo straniero senza poterne beneficiare. Sar&agrave; proprio questo tassello, una volta ceduto definitivamente Pedro Troglio, a consentire l&rsquo;acquisto di un altro grandissimo come Thomas Doll.&nbsp;&nbsp; L&rsquo;arrivo a Roma e le prime parole&nbsp;  Gascoigne sbarca a Fiumicino accolto da una marea di tifosi il 22 agosto 1991. Il giorno dopo ecco le prime parole: &laquo;Sono qui per prendere la tintarella e guidare la Lazio a ritmo di rap. Una cortesia: chiamatemi Gazza. Paul &egrave; un&rsquo;esclusiva delle donne che mi invitano a letto&raquo;. Gazza si presenta nella sala dell&rsquo;Hilton cos&igrave;, accolto dal presidente Calleri e dai tifosi vip Sandra Milo ed Enrico Montesano, con buffi occhiali, scoppoletta degli Irriducibili e sciarpetta biancoceleste al collo: &egrave; uno spettacolo. Le risposte ai giornalisti sono tutto un programma, ma c&rsquo;&egrave; anche un messaggio: &laquo;Per combattere gli Hooligans &egrave; necessario educare le nuove generazioni, recuperare antichi valori, imporre una filosofia diversa. Il calcio &egrave; allegria, ironia, divertimento: una poesia di emozioni&raquo;. Dell&rsquo;Inghilterra gli mancheranno i giornalisti, che lo seguivano ovunque. Alla domanda del perch&eacute; ha scelto la Lazio risponde: &laquo;Per amore. Proprio cos&igrave;. E non &egrave; retorica. A Fiumicino mi sono commosso. Tanta gente, un&rsquo;accoglienza fantastica. Indimenticabile. Trasciner&ograve; la Lazio&hellip;&raquo;. La sera stessa si reca all&rsquo;Olimpico per assistere all&rsquo;amichevole di lusso tra biancocelesti e Real Madrid. 40mila spettatori tutti per lui. La Curva Nord gli dedica tre disegni &ndash; una pinta di birra, un dolce, una ragazza senza veli &ndash; e uno striscione che recita: &ldquo;Noi ti vogliamo cos&igrave;&rdquo;. Giro di campo di rito ed entusiasmo alle stelle: nonostante manchi ancora un anno al suo debutto ufficiale, la Gazza-mania &egrave; gi&agrave; contagiosamente scoppiata.        

Nonostante il grave infortunio la trattativa con il Tottenham viene chiusa gi&agrave; a maggio, ad agosto l&rsquo;arrivo a Fiumicino:&nbsp; &egrave; delirio generale biancoceleste

Calciomercato: estate 1991, alla Lazio arriva Paul Gascoigne

        Il colpo dei colpi, quello che un tifoso della Roma sognava dai tempi di Falcao. L&rsquo;estate del 2000, quella che apre il nuovo millennio, non &egrave; un&rsquo;estate qualunque nella Capitale. Pochi giorni prima era impazzata la festa della Lazio per lo scudetto. Uno choc per i tifosi romanisti, che avranno ben presto modo di riprendersi.   Il Re Leone &egrave; della Roma  Appena cinque giorni dopo la vittoria dei biancocelesti si vocifera di un acquisto clamoroso: Gabriel Omar Batistuta. L&rsquo;attaccante pi&ugrave; forte al mondo, o gi&ugrave; di l&igrave;. Una bandiera della Fiorentina che fino a quel momento aveva resistito agli assalti dei pi&ugrave; importanti club d&rsquo;Europa. Sembrava una voce di mercato destinata solo a far sognare come tante altre prima e dopo di quella. E invece non era cos&igrave;. Il 2 giugno 2000, attraverso un comunicato ufficiale, la Roma annuncia l&rsquo;acquisto del Re Leone. Una reazione d&rsquo;orgoglio di Franco Sensi che voleva dare a Fabio Capello una Ferrari che doveva solo tagliare il traguardo a fine stagione e scucire il tricolore alla Lazio di Cragnotti. Una trattativa per nulla facile anche se Cecchi Gori, patron viola, aveva aperto subito la porta ai giallorossi dopo i tentativi vani di Inter e (appunto) Lazio: &ldquo;Se devo vendere Batistuta, lo vendo alla Roma&rdquo;. Di certo non a buon mercato.   La trattativa per Batigol  La trattativa &egrave; lunga e faticosa, tra il 22 e il 23 maggio l&rsquo;agente di Batistuta, Settimio Aloisio, arriva nella Capitale per chiudere l&rsquo;accordo e la febbre a Roma sale mentre a Firenze ci si divide tra chi non la prende bene (eufemismo) suggerendo di abbattere subito la statua a lui dedicata sotto la Fiesole e chi piange di tristezza augurandogli di vincere quello che in viola non era riuscito a fare. Le radio romane tengono incollati ai loro microfoni migliaia di spettatori, in attesa di buone notizie. Poi, la sera del 23 maggio, Aloisio d&agrave; ai tifosi ci&ograve; che fremevano di sentire: &ldquo;Ci siamo, &egrave; quasi fatta, manca solo firma, che Gabriel potrebbe mettere in Argentina. Non possiamo ancora dare l&rsquo;annuncio per problemi tecnici, ma c&rsquo;&egrave; solo la Roma, presto definiremo tutto&rdquo;. Devono passare diversi giorni di snervante attesa. C&rsquo;&egrave; chi ancora non ci crede. Poi il 2 giugno arriva l&rsquo;annuncio che chiude la questione. La Roma acquista Batistuta per la cifra monstre di 70 miliardi di lire, la pi&ugrave; alta mai spesa, fino a quel momento, per un giocatore ultratrentenne. Un colpo pazzesco, che in un attimo spazza via l&rsquo;ultima stagione deludente e oscura la festa scudetto dall&rsquo;altra parte del Tevere. Arriveranno anche quelli di Samuel, Emerson e Zebina in una squadra gi&agrave; fortissima formata dai vari Totti, Montella, Cafu e Candela. Il 6 giugno Batistuta riceve il primo grande abbraccio della Curva Sud. Piena, pienissima nonostante il caldo torrido che segna l&rsquo;inizio della stagione estiva romana. Un anno e 11 giorni dopo sar&agrave; festa grande per il terzo scudetto. Un lieto fine di un colpo di mercato che finora non ha avuto eguali nella storia romanista. Calciomercato 1980, la riapertura delle frontiere in Serie A       

Nell&rsquo;estate del 2000 il presidente Sensi regal&ograve; l&rsquo;attaccante argentino ai tifosi giallorossi

Calciomercato: Batistuta alla Roma, fu l'inizio del sogno

        L&rsquo;avvento del terzo millennio per il calcio italiano ha rappresentato l&rsquo;ultimo gradino della sua evoluzione o il primo della sua involuzione, il principio di una recessione economica che per qualche stagione &egrave; stata occultata dalle prestigiose &ldquo;figurine&rdquo; che ancora abitavano nella nostra Serie A? Forse entrambe le cose, in un interregno di calcistici lussi e progressivi indebitamenti, di gestioni economiche la cui manchevolezza si riusciva a nascondere come cenere sotto il tappeto degli introiti derivanti da diritti televisivi ancora remunerativi e plusvalenze gestite ad arte, come se il gioco potesse durare all&rsquo;infinito.&nbsp;Di certo c&rsquo;era ancora modo per sognare e spazio per... segnare, tanti gol ancora d&rsquo;autore, col prezioso inchiostro che irrorava contratti munifici.&nbsp;    Il terzo millennio inizia nel nome di Roma  La congrega delle Sette sorelle, arsenico e vecchi scudetti, ma anche nuovi se pensiamo al 2000 della Lazio di Cragnotti e al Tricolore scucito nell&rsquo;anno successivo alla casacca dei biancocelesti dalla Roma di Franco Sensi, il quale per il solo acquisto di Omar Gabriel Batistuta dalla Fiorentina aveva messo sul banco una fiche da settanta miliardi di lire. Settanta.&nbsp;Il primo decennio del ventunesimo secolo &egrave; una decade colma di paradossi, per il calcio italiano che, fra le righe, riesce a laurearsi anche Campione del mondo per la quarta volta nel corso della sua storia, con il sovrappi&ugrave; costituito dal fatto che il titolo iridato arriva nel cuore dell&rsquo;estate pi&ugrave; torbida, controversa, scandalosa e svoltasi nei palazzi di giustizia dell&rsquo;intero corso della nostra storia pallonara.&nbsp; Calciomercato story anni '70 e '80: la rivoluzione del pallone  Gli arrivi e le partenze dei grandi fuoriclasse  E i fuoriclasse, gli inquilini che in modo o nell&rsquo;altro ancora conferivano il massimo lustro al nostro torneo? Continuano a venire, ma cominciano ad andare; basti pensare a ci&ograve; che accade a Milano, su entrambe le sponde del Ticino, dove i rossoneri continuano a vincere, anche in Europa, mentre i nerazzurri di Massimo Moratti profondono grandi sforzi economici per ritrovarsi alla fine ad averlo soltanto annusato, il benedetto o maledetto Tricolore, fino al redde rationem di Calciopoli e con il culmine, a cavallo del decennio, rappresentato dal Triplete conseguito sotto la guida tecnica di Jos&eacute; Mourinho. Ma, per tornare all&rsquo;inizio del decennio, bisogna ricordare che al termine della paradossale stagione 2001-2002, con lo scudetto pi&ugrave; ufficiosamente vinto e pi&ugrave; ufficialmente gettato alle ortiche della storia, ossia quello che l&rsquo;Inter di Ronaldo vede svanire in casa di una Lazio &ndash; apparentemente &ndash; demotivata, il Fenomeno brasiliano decide di lasciare l&rsquo;Italia alla volta di Madrid, sponda Real. Nella stagione successiva, un altro brasiliano, preso a condizioni vantaggiosissime, con un nome che potrebbe prestarsi a grossolane ironie alle quali non si sottrae Luciano Moggi per primo, arriva per fare la storia con la maglia del Milan: comincia l&rsquo;era di Kak&agrave;, un compendio vivente di tutte le doti che deve avere il moderno trequartista, il tutto espresso con la massima eleganza possibile.&nbsp;  Le vicende di mercato e i grandi flop  Raccontiamo, dunque, anche in questo terzo numero della nostra Calciomercato Story, vicende epocali di mercato, discussi cambi di maglia come quelli Nedved dalla Lazio alla Juventus o di Emerson, con tanto di discutibile certificato medico per depressione, dalla Roma sempre ai bianconeri. Passando per l&rsquo;approdo di grandi fuoriclasse, alcuni giovani, altri pi&ugrave; che affermati: Ibrahimovic per la Juventus, Eto&rsquo;o per l&rsquo;Inter pi&ugrave; vincente di sempre nel primo decennio del duemila; poi, per la seconda decade, quando il centro della scena continentale cominciava a essere occupato in pianta stabile da altri tornei, Premier League in testa, gli acquisti juventini di Carlos Tevez nel 2013 e, soprattutto, quello di Cristiano Ronaldo nel 2018. Vi raccontiamo i blitz dirigenziali, gli stratagemmi e il tira e molle sulle cifre, a suon di clausole, premi e ingaggi il pi&ugrave; possibile spalmati. Non potevano mancare, anche stavolta, i clamorosi fallimenti, le storie del rendimento vicino allo zero di tanti, troppi presunti campioni annunciati col neretto dei titolo, con i roboanti soprannomi e poi implosi all&rsquo;ingiallire delle prime foglie autunnali: tutti quelli che ballarono una sola estate, che in cambio di ingaggi a volte principeschi hanno reso in cambio al calcio italiano soltanto qualche memorabile fotogramma per &ldquo;Mai dire gol&rdquo;.&nbsp; Calciomercato story anni '90: la Serie A delle Sette Sorelle  I patron, i dirigenti illuminati e i bomber di provincia  E proprio perch&eacute; a un certo punto sono iniziati a scarseggiare i denari, sono saliti in cattedra i grandi, smaliziati e competenti dirigenti che il talento lo sono andati a scovare quando ancora erano pochi gli zeri della valutazione: un presidente come Giampaolo Pozzo, un direttore sportivo sui generis come Walter Sabatini, un veterano costruttore di squadre come Rino Foschi. Vi raccontiamo il loro modo di pensare e allestire calcio, parametrando competenza a risorse economiche.&nbsp;Gi&agrave;, ma perch&eacute; in copertina abbiamo scelto di mettere Dario Hubner, un attaccante che ha vestito solo maglie di provincia, esclusa una breve tourn&eacute;e estiva con il Milan? Perch&eacute; pagine a loro modo gloriose, anche se meno patinate, sono state scritte lontano dai focolai d&rsquo;interesse metropolitani e perch&eacute; l&rsquo;area di rigore misura gli stessi passi al &ldquo;Rigamonti&rdquo; di Brescia come sotto le gradinate di San Siro, dove &egrave; capitato che proprio uno come Hubner abbia rubato la scena a Ronaldo, anche se solo per una domenica, cos&igrave; come ha costretto David Trezeguet a condividere lo scettro di capocannoniere. E come lui Tot&ograve; Di Natale, che per amore dell&rsquo;Udinese fece il gran rifiuto, o Cristiano Lucarelli, che per un &ldquo;Deh&rdquo; livornese in pi&ugrave; ha rinunciato a qualche zero nel conto corrente. Le loro stesse carriere, grazie alla scelta calcisticamente decentrata ed esistenziale che hanno fatto, oggi le ricordiamo molto pi&ugrave; nitidamente che se fossero finiti a fare i comprimari in un grande club. Non &egrave; un paradosso: &egrave; un capitolo di quel grande, controverso, a volte fosco ma sempre appassionante romanzo che &egrave; sempre stata la nostra Serie A. &nbsp;        

Dai grandi acquisti (e non) dei primi anni 2000 all'arrivo in bianconero di CR7, passando per presidenti, dirigenti e bomber di provincia

Calciomercato story: top e flop della Serie A nel terzo millennio

Le epocali vicende di mercato, i clamorosi flop, i discussi cambi di maglia, i bomber e i grandi presidenti protagonisti, nel bene e nel male, del XXI secolo

PODCAST - Calciomercato story: i primi 21 anni del nuovo millennio in Serie A

I grandi acquisti che hanno segnato gli ultimi ventuno anni della Serie A

Da Batistuta a CR7: il calciomercato del nuovo millennio

        "Giorno felice, vengo per vincere lo scudetto!" cos&igrave; parl&ograve;, dalla Bolivia, Luis Nazario da Lima, Ronaldo, quello &ldquo;vero&rdquo; come ricordano e amano precisare ancora oggi molti interisti nostalgici quando si trovano a parlare di un quinquennio durante il quale manc&ograve; soltanto lo scudetto. Lui si trovava su quelle alture dall&rsquo;aria rarefatta dove col Brasile avrebbe conquistato la Copa Am&egrave;rica, mentre in Italia all&rsquo;alba del 21 giugno 1997 si diffondeva la notizia che il giorno prima Massimo Moratti aveva perfezionato il suo acquisto dal Barcellona, al termine di una trattativa epocale che prevedeva il versamento di una clausola rescissoria da 48 miliardi di lire. Calciomercato, la ripicca di Cordova: dalla Roma alla Lazio  La trattativa per portare il Fenomeno a Milano&nbsp;  C&rsquo;&egrave; una versione, a met&agrave; strada tra cronaca e letteratura popolare, che vuole che l&rsquo;infatuazione del patron nerazzurro per il Fenomeno, rigorosamente con la maiuscola, abbia una data precisa, ovvero quella del 13 aprile del 1997, quando in casa dell&rsquo;Atletico Madrid, al &ldquo;Vicente Calderon&rdquo;, Ronaldo con la maglia del Barcellona si era reso autore di una prestazione sontuosa, siglando una tripletta annichilente per i Colchoneros padroni di casa. Come &egrave; facile immaginare, da quella sera di primavera in poi venne imbastita una trattativa non solo onerosa (oltre ai 48 miliardi della clausola, ci sarebbero stati da versare ovviamente i soldi dell&rsquo;ingaggio, ovvero 6 miliardi all&rsquo;anno per cinque anni), ma anche particolarmente farraginosa per pi&ugrave; di un motivo: innanzitutto, attraverso la mediazione dell&rsquo;agente Giovanni Branchini e grazie all&rsquo;operato di Luisito Suarez e Sandro Mazzola, la gestione del prevedibile braccio di ferro con la dirigenza catalana, che mirava a far rinnovare il contratto al Fenomeno per poi poter giocare al rialzo sul prezzo e che alla fine della trattativa ricever&agrave; per decisione della FIFA un &ldquo;indennizzo&rdquo; extra di tre miliardi. In secondo luogo, sul giocatore era piombata anche la Lazio pi&ugrave; munifica di sempre, quella al cui vertice sedeva Sergio Cragnotti. Moratti, nei giorni pi&ugrave; caldi della trattativa, parlava di Ronaldo come di uno che, ancora prima di apporre la sua firma cos&igrave; costosa, in un modo o nell&rsquo;altro si sentisse gi&agrave; interista: "Cragnotti pu&ograve; dire quello che vuole, ma questa non &egrave; un&rsquo;asta, altrimenti avremmo gi&agrave; rinunciato: se il giocatore sceglier&agrave; l&rsquo;Inter, &egrave; perch&eacute; gli siamo simpatici". I ben noti slanci sentimentali del presidente, uniti forse a una captatio benevolentiae preventiva.&nbsp;  La clausola rescissoria del Barcellona  Gi&agrave; ma, visto che l&rsquo;abbiamo nominata pi&ugrave; di una volta, che cos&rsquo;era e come funzionava la cosiddetta clausola rescissoria di cui sopra? Lo potremmo sintetizzare dicendo che in realt&agrave; era stata l&rsquo;Associazione calciatori spagnola a volerla, facendo passare questa norma come una grande conquista; in fondo, a voler essere maliziosi, potremmo usare la seguente similitudine: si trattava del cartellino del prezzo appiccicato a ogni giocatore. Buon per l&rsquo;Inter, intervenuta quando la clausola su Ronaldo era ancora enorme (48), non grottesca (120) come sarebbe diventata se il Barcellona gli avesse fatto firmare il nuovo contratto.&nbsp;Tornando all&rsquo;arrivo del Fenomeno nel calcio italiano, da quel momento cominciava l&rsquo;avventura in maglia nerazzurra del pi&ugrave; iconico degli stranieri interisti dell&rsquo;era moderna; una vicenda alla quale nulla manc&ograve;, a livello di romanzo popolare: l&rsquo;amore, il tradimento, l&rsquo;odio (non solo sportivo) verso l&rsquo;ex. Infine, la felicit&agrave; intravista e mai afferrata, ossia lo scudetto. Calciomercato: i favolosi anni '90 delle Sette Sorelle       

L&rsquo;innamoramento del presidente Moratti, la trattativa estenuante e i sogni scudetto di un fuoriclasse che ha incantato i tifosi nerazzurri

Calciomercato: Ronaldo, il Fenomeno che conquistò Milano

        Da bandiera della Roma a pedina imprescindibile del centrocampo della Lazio. Da idolo della tifoseria giallorossa, a calciatore stimato da tutto l&rsquo;ambiente biancoceleste. Il caso di Franco, per tutti &ldquo;Ciccio&rdquo; Cordova, resta ancora oggi argomento di discussione tra i tifosi delle due squadre. Alcuni laziali hanno fatto fatica a digerirne l&rsquo;approdo a Tor di Quinto, ma sono diventati in breve tempo i suoi primi sostenitori. I giallorossi hanno reagito con stupore al suo trasferimento da una sponda all&rsquo;altra del Tevere, ma poi, una volta capiti i motivi, non lo hanno mai giudicato. Anzi, qualcuno &egrave; pure andato all&rsquo;Olimpico per vederlo in azione durante le gare dei biancocelesti. &ldquo;Ciccio, la Roma ti ha tradito, la Lazio ti ha capito&rdquo;, recitava uno striscione issato dai tifosi laziali durante un match casalingo. Una sintesi perfetta, che spiega in poche parole uno dei casi di mercato pi&ugrave; spinosi e ambigui degli Anni Settanta. Calciomercato story anni '70 e '80: la rivoluzione del pallone  Dagli esordi fino al Brescia  La storia calcistica di Cordova inizia a Salerno, dove esordisce in prima squadra. Dalla Campania passa subito in Serie A al Catania, nel 1963. In Sicilia si mette in evidenza come uno dei centrocampisti pi&ugrave; tecnici del campionato. A credere nelle sue qualit&agrave; &egrave; l&rsquo;Inter del &ldquo;Mago&rdquo; Herrera, che lo vuole a Milano per fare il sostituto di Corso. Ma il carattere burrascoso ed eccentrico del calciatore, mal si sposa con la rigidit&agrave; dell&rsquo;allenatore nerazzurro, che lo boccia prematuramente. Ciccio si riscatta immediatamente, prima a Brescia, poi nella Roma, dove si trasferisce l&rsquo;estate del 1967. A volerlo nella Capitale &egrave; Oronzo Pugliese, che lo trasforma in leader del centrocampo.  Cordova in giallorosso  Cordova diventa immediatamente un idolo per tutti i tifosi della Roma. Gioca con i giallorossi nove stagioni, colleziona pi&ugrave; di 200 presenze in Serie A e, dalla stagione 1972-73, indossa con orgoglio la fascia di capitano. Sposa la figlia del presidente giallorosso Marchini, l&rsquo;attrice Simona, e sembra destinato a chiudere la carriera con il club giallorosso. Ma con l&rsquo;avvento di Anzalone le cose cambiano drasticamente. Il rapporto tra i due non sboccia. Anzi: il presidente prima lo mette fuori squadra, poi lo cede al Verona. Cordova, che legge la notizia sui giornali, non viene interpellato e si trova di fronte al fatto compiuto. Prova a chiedere ad Anzalone di rimanere nella Capitale, ma una volta capite le intenzioni del patron romanista, studia la pi&ugrave; incredibile delle ripicche. Evita il trasferimento in Veneto e con un escamotage riesce a riscattare il suo cartellino, liberandosi da ogni vincolo. Ciccio pu&ograve; accordarsi con chi vuole e sceglie la Lazio, che gli offre l&rsquo;occasione di rimanere nella Capitale.  Il cambio di sponda  L&rsquo;inizio &egrave; traumatico: i romanisti si ribellano, i laziali fanno fatica a digerirlo. Lui stesso &egrave; dubbioso. Il giorno del suo esordio (contro la Juventus all&rsquo;Olimpico) &egrave; titubante. Mentre tutti i suoi compagni entrano in campo, lui &egrave; ancora incerto se indossare o meno la maglia della Lazio. Uno dei dirigenti laziali, Parruccini, lo implora e lo convince. Ma una volta messa la casacca laziale, la onora per tre stagioni esaltanti. Cordova regala al centrocampo biancoceleste qualit&agrave; ed esperienza. Con Vinicio la Lazio gioca un calcio divertente e spettacolare, che esalta le doti di Cordova, diventato in breve tempo leader e uomo spogliatoio. Sulla sponda biancoceleste del Tevere vive una seconda giovinezza. Gioca 85 partite in campionato, 14 in Coppa Italia e tre in Coppa Uefa. Sostituisce in campo e nei cuori dei tifosi, un totem come Mario Frustalupi, il faro della mediana laziale dello scudetto. Nel 1979, a 35 anni, lascia definitivamente la Capitale per Avellino. Stavolta il suo trasferimento fu meno traumatico e discusso. Calciomercato: i favolosi anni '90 delle Sette Sorelle       

Nove anni in giallorosso, 139 partite da capitano, poi il litigio con il presidente Anzalone e l&rsquo;incredibile passaggio in biancoceleste nel 1976

Calciomercato, la ripicca di Cordova: dalla Roma alla Lazio

        Ci sono centrocampisti d&rsquo;attacco che il ruolo di trequartista lo ricoprono; ce ne sono altri, molto pi&ugrave; rari, che lo incarnano. Manuel Rui Costa &egrave; appartenuto a questa cerchia ristretta, tecnicamente elitaria, esteticamente deliziosa. Lo aveva capito prima di tutti gli altri un signore che a Lisbona gli aveva spalancato le porte delle giovanili del Benfica, dopo averlo visto in una partitella. Rui Costa doveva compiere ancora sei anni, quel signore si chiamava Eusebio. &nbsp; Cruijff lo voleva al Barcellona&nbsp;  Qualche anno pi&ugrave; tardi, un&rsquo;altra leggenda gli aveva messo gli occhi addosso, con molte pi&ugrave; referenze a suffragio e con la certezza di averlo a disposizione di l&igrave; a qualche settimana: Johan Cruijff lo aveva scelto per il suo Barcellona. L&rsquo;affare era dato per concluso al punto tale che tanto in Portogallo quanto in Spagna stavano gi&agrave; circolando sue foto con addosso la maglia del club catalano. Affare &ldquo;concluso&rdquo; per il corrispettivo di nove miliardi di lire. In quegli stessi giorni, per&ograve;, si verificava l&rsquo;avvicendamento ai vertici del Benfica, le cui casse societarie languivano e il presidente appena eletto, Manuel Damasio, si riserva di non giudicare bastevole quell&rsquo;offerta, chiedendo due miliardi in pi&ugrave;. In quello stesso periodo, un dirigente della Fiorentina aveva messo gli occhi addosso a Rui Costa durante l&rsquo;Europeo Under 21; un dirigente non casuale, che risponde al nome di Giancarlo Antognoni, uno che pu&ograve; giudicare un calciatore, in particolare per quel ruolo, da un solo passaggio filtrante.&nbsp;  La mossa di Antognoni e lo sbarco a Firenze  Qualche giorno dopo, si concretizza l&rsquo;offerta della Fiorentina, mentre i dirigenti del Barcellona si sono indispettiti; c&rsquo;&egrave; soltanto uno scoglio, non di natura economica ma riguardante le ambizioni del giocatore: come convincerlo ad accettare il trasferimento a Firenze quando si &egrave; gi&agrave; visto con la maglia blaugrana addosso? E&rsquo; qui che arriva la &ldquo;giocata&rdquo;, dal punto di vista dirigenziale, da parte di Antognoni, che punta sull&rsquo;appeal dei propri trascorsi da fuoriclasse pi&ugrave; che su quello rappresentato dalla maglia viola: &laquo;Sogno di consegnarti la mia maglia numero 10&hellip;&raquo;; come a dire che ha gi&agrave; visto, non semplicemente intravisto, in lui il suo degno erede. Rui Costa si convince, anche in ragione di quei due miliardi in pi&ugrave; che rappresentano una maggiore boccata di ossigeno per il Benfica e per il suo dissesto finanziario; lo fa anche per quello che considera il club della sua vita. Non pu&ograve; ancora sapere che un&rsquo;altra vita calcistica lo attende gi&agrave;, sotto la Cupola di Brunelleschi. &nbsp;        

Cruijff lo aveva gi&agrave; scelto per il suo Barcellona, le elezioni presidenziali&nbsp;del Benfica cambiano lo scenario: e il fantasista sbarc&ograve; alla Fiorentina

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