        Quanta Italia era passata sotto i ponti radio, quando per l'ultima domenica, durante quel Genoa-Juventus del 26 maggio 1991, ritmava col suo timbro inconfondibile il racconto di una partita? Cadevano dalla clessidra di una carriera scandita da gol e aggettivi sempre privi di svolazzi poetici non solo gli ultimi istanti di un campionato vinto da una Sampdoria memorabile, ma anche i momenti residuali di un presente che era gi&agrave; nostalgia: con l'ultima radiocronaca di campionato di Enrico Ameri se ne andavano quarant'anni abbondanti di un'Italia che nel frattempo era cambiata, si era evoluta, era peggiorata e si sarebbe scoperta di l&igrave; a poco anche pi&ugrave; corrotta di prima, ma che non aveva mai rinunciato al pi&ugrave; nazional-popolare dei suoi riti, altro che Festival di Sanremo: le dirette domenicali di "Tutto il calcio minuto per minuto", puntuali come il vassoio di pastarelle all'uscita dalle chiese, con la sacralit&agrave; delle voci che si sovrapponevano, la maggior parte delle quali rispondenti a una geopolitica calcistica della cronaca; con il gracchiare sublime e inconfondibile della timbrica di Sandro Ciotti, che pi&ugrave; la manopola centrava la frequenza e pi&ugrave; il racconto, competente come nessun altro e al tempo stesso na&iuml;f, graffiava come cartavetrata le prime ore del pomeriggio domenicale; con lui, Enrico Ameri, a troneggiare da "dominus" del minutaggio su ogni altra partita. A sentirlo raccontare da lui, il calcio lo si percepiva per ogni zolla sulla quale il gioco si sviluppava; lo avremmo visto sul serio un paio d'ore dopo nella sintesi di "Novantesimo Minuto", ogni volta trovando la conferma, nelle azioni salienti, di ci&ograve; che Ameri ci aveva fatto visualizzare attraverso quel tono di voce che faceva pensare al battito incessante dei martelletti di un qualche strumento a percussione su di un fondo metallico, con una specie di eco nitida nelle vocali che riusciva a sovrapporsi al clamore dello stadio dal quale trasmetteva. &nbsp;   Se quella di Ciotti, per distacco, era la voce pi&ugrave; caratteristica e senza alcun termine di paragone possibile, inarrivabile era ed &egrave; il ritmo di Ameri: una partita lenta e noiosa, raccontata da lui subiva lo stesso effetto che un sapiente maquillage opera su un volto anonimo e slavato; il racconto di Ameri, di per se stesso, si sovrapponeva all'evento conferendogli comunque quel po' di sacralit&agrave; e di pathos che lo sviluppo delle azioni in campo non riuscivano a produrre.  Il mese nel destino di Enrico Ameri&nbsp;  Aprile il suo mese, al principio come alla fine: nacque a Lucca, per poi crescere a Genova, dove fu naturale per lui diventare tifoso rossobl&ugrave;, il 15 del mese nel 1926; ha salutato il mondo il 7 aprile di venti anni fa, in una clinica di Albano. Un anno dopo Sandro Ciotti, un mese prima di Nando Martellini. Era entrato in RAI nel 1949, la sua prima radiocronaca fu Udinese-Milan della stagione 1954-55; per la radio raccont&ograve; anche la luna, la guerra in Indocina, il Nobel a Salvatore Quasimodo. Fu lui a ideare e condurre le prime due edizioni de "Il Processo del luned&igrave;", prima che venisse riplasmato da Biscardi. Quanto sarebbe ancora moderno e attuale il ritmo del suo racconto durante una partita? Moltissimo, forse oggi ancora pi&ugrave; di ieri, perch&eacute; torneremmo a capire la differenza tra chi non perde mai il ritmo e chi straparla per riempire i vuoti. Scusa, Ameri, se non abbiamo imparato la tua lezione.       

Il celebre giornalista e radiocronista &egrave; stato una delle voci storiche di Tutto il calcio minuto per minuto nonch&eacute; conduttore delle prime due edizioni de Il Processo del Luned&igrave;

Scusa Ameri, se ci manchi

        Cos'&egrave; stato l'Ajax di Crujiff? Cos'&egrave; stata l'Olanda del &ldquo;calcio totale&rdquo;? Una macchina di gioco spettacolo ma soprattutto un'organizzazione quasi maniacale che iniziava se non proprio dal portiere (uno diverso per il club e per la nazionale, comunque) da una difesa di piedi buoni e teste pensanti. Ridurre Ruud Krol a un terzino sinistro, lo era sia dell'Ajax che dell'Olanda, &egrave; banalissimo. Lui &egrave; stato molto di pi&ugrave;, un punto di riferimento per quelle squadre che non erano solo Crujiff e Neeskens, Van Hanegem e Rensenbrink. &nbsp;   Ruud Krol, destro a sinistra  Nato il 24 marzo del 1949, Krol fa in fretta a scalare le gerarchie all'Ajax partendo dalle giovanili. E anche dove trova teorici ostacoli li schiva per guadagnarsi spazio. Il ruolo di terzino destro che sarebbe il suo &egrave; gi&agrave; di Suurbier? Nessun problema, inizia a giocare a sinistra ed &egrave; come se non avesse fatto altro che occupare quella porzione di campo. L'importante &egrave; saper giocare nella ragnatela &ldquo;totale&rdquo; di Michels e poi di Kovacs, testa alta e piedi buoni, a volte centrocampista aggiunto, far sudare la palla pi&ugrave; che il proprio corpo. Un corpo che peraltro per l'epoca &egrave; quello di un corazziere, 1.85 per 80 chili: rapido e veloce, Krol non lascia passare uno spillo, nemmeno le alette frizzanti che lo puntano e lo dovrebbero mettere in difficolt&agrave;. Cos&igrave; vince tre volte di fila la Coppa Campioni anche se salta la prima finale di quell'Ajax, contro il Panathinaikos nel 1971, per un brutto infortunio alla gamba. Titolare inamovibile per&ograve; sia nel 1972 con l'Inter che nel 1973 con la Juventus, con Jair e Causio (non proprio due scappati di casa) che rimediano una magra figura. &Egrave; il 1974 e per un'intera generazione di calciatori olandesi c'&egrave; l'occasione del secolo: vincere il mondiale. Lo sappiamo tutti come si conclude, con la Germania Ovest che in finale disinnesca il piano-partita degli oranje, che si innervosiscono e perdono 2-1.    Krol gioca ogni minuto di quel mondiale, terzino sinistro libero di inserirsi come quando segna nel celebre 4-0 all'Argentina con una sventola da fuori (naturalmente di destro) sugli sviluppi di un calcio d'angolo. Non manca nemmeno al mondiale del 1978 dove &egrave; il capitano dell'Olanda. Sempre presente e nessun gol segnato stavolta, solo un'ammonizione nella finale contro l'Argentina persa 3-1: il canto del cigno di una generazione d'oro che anche a livello di competizioni per club inizia a soffire.   &nbsp; Napoli sogna  Estate 1980, l'Italia apre di nuovo le frontiere dopo 14 anni e arriva in Serie A un po' di tutto, seppur in quantit&agrave; limitata visto che c'&egrave; la possibilit&agrave; di un solo straniero per club: da Falcao a Luis Silvio Danuello, da Brady a Eneas, bidoni e campioni si mescolano. Il Napoli va sul sicuro e prende proprio Krol, reduce da una breve parentesi ai Vancouver Whitecaps, nell'ancora nebbioso campionato nordamericano dopo 12 anni all'Ajax: ha 31 anni, l'olandese, per molti &egrave; gi&agrave; sul viale del tramonto e in pi&ugrave; &egrave; costato 110 milioni. Il direttore sportivo Antonio Juliano in compenso rassicura: "Fidatevi di me". Certo, passare dall'Ajax a una squadra di met&agrave; classifica in Italia &egrave; un bel balzo, ma a Ruud basta poco per inserirsi. Non pi&ugrave; come terzino sinistro, seppur "totale", ma libero. I risultati si vedono subito perch&eacute; a 5 giornate dalla fine il Napoli &egrave; in vetta a pari punti con Juventus e Roma e ha la seconda difesa meno perforata. Poi il crollo, ma insomma per la squadra di Rino Marchesi &egrave; una stagione indimenticabile che si chiude con terzo posto bissato l'anno successivo da un quarto posto.    Krol resta a Napoli fino al 1984, mantenendo una forma fisica invidiabile e con le stimmate del leader: classe e signorilit&agrave; fino alla fine. Se ne va proprio poche settimane prima dell'arrivo di Maradona e sarebbe stato davvero bello vedere questi due giganti del calcio assieme. Chiude la carriera al Cannes, nel campionato francese.       

L'olandese ha avuto una vita calcistica lunghissima, vincendo tutto con l'Ajax "totale" degli anni Settanta e deliziando anche i tifosi del Napoli &nbsp;

Ruud Krol, il professore della difesa

        Riccioli scuri, fitti, e folti baffi d&rsquo;identico colore: a vedere il suo primo piano nelle figurine dell&rsquo;epoca, ci sarebbe stato da scommettere che fosse nato in un qualche punto d&rsquo;Italia da Napoli in gi&ugrave;, se non fosse stato gi&agrave; cos&igrave; noto e cos&igrave;, a suo modo, leggendario. Perch&eacute; Massimo Palanca &egrave; di Loreto, provincia di Ancona, dove &egrave; tornato a vivere oggi che ha settant&rsquo;anni e che di lui si sa poco, ma si ricorda molto, moltissimo. Ci sono storie di calcio che arrivano a diventare celeberrime e a restare scolpite nella memoria di generazioni di appassionati, anche se geograficamente e a livello di blasone si collocano ben distante dalle luci della ribalta nazionale e internazionale. Quella di Palanca non &egrave; solamente una delle tante storie da &ldquo;bomber di provincia&rdquo; delle quali &egrave; piena la storia del nostro calcio; con Palanca abbiamo anche il paradigma del livello tecnico complessivo del calcio italiano degli anni Settanta e Ottanta, particolarmente indicativo a maggior ragione perch&eacute; parliamo di una carriera trascorsa tutta lontano dal circuito metropolitano, se si eccettua la sua esperienza al Napoli. Una punta quasi tascabile, di un metro e settanta scarsi per un peso di pi&ugrave; o meno sessantacinque chilogrammi; due piedini numero trentasette, ancora pi&ugrave; compatti nella livrea nera degli scarpini che si usavano all&rsquo;epoca. Capacit&agrave; balistiche comprovate dalle statistiche complessive e da quelle particolari: uno che mette a segno 13 reti dalla bandierina del calcio d&rsquo;angolo non &egrave; uno che pesca il jolly di quando in quando, ma un calciatore che esibisce in modo ricorrente un tipo di giocata consolidata dall&rsquo;esercizio e dall&rsquo;attitudine, che danno corpo all&rsquo;intenzione e diventano per l&rsquo;avversario un fattore di rischio con il quale fare i conti. &nbsp; Palanca leader del Catanzaro  Venti anni di calcio, dalla Serie D alla Serie A, dal 1970 al 1990, in un&rsquo;Italia nel frattempo tanto cambiata, anche calcisticamente, al punto tale da ospitare sempre meno favole come quella di Palanca, che ha messo insieme 210 gol in 597 presenze, con la statistica di 147 gare e 39 reti in Serie A. Il primo salto in avanti nel 1973, dalla Serie D con la Passamonti Camerino alla C a Frosinone; una buona stagione in Ciociaria, un altro trampolino di lancio: il Catanzaro, che era retrocesso in B nel 1971. Ceravolo presidente, Gianni Di Marzio in panchina e i gol di Palanca, che quando aveva saputo della cessione aveva dovuto controllare sulla carta geografica la posizione di Catanzaro. Al suo primo anno il Catanzaro perde lo spareggio per salire in A, poi nella stagione 1975-76 con 11 gol in 33 partite Palanca trascina il Catanzaro alla seconda Serie A del club calabrese. Una retrocessione, poi una nuova promozione, quindi la stagione pi&ugrave; importante in assoluto, quella del 1979 -80, quando Palanca con il Catanzaro guidato da Mazzone arriver&agrave; a 10 gol in Serie A e sar&agrave; capocannoniere di Coppa Italia con 8 reti, fino alla semifinale contro la Juventus. L&rsquo;anno dopo &egrave; secondo alle spalle di Pruzzo, con un Catanzaro ottavo in classifica. A quel punto, quello che potrebbe essere il salto definitivo: passa al Napoli per un miliardo e 350 milioni, ma in Campania non riuscir&agrave; a ripetersi: una sola rete il primo anno, una cessione in prestito al Como il secondo, poi il ritorno per un&rsquo;altra stagione da una sola rete. Nell&rsquo;anno dell&rsquo;arrivo di Maradona, il Napoli lo gira al Foligno in C2, dove trascorrer&agrave; due stagioni, prima di tornare al Catanzaro per gli ultimi quattro anni da professionista, dal 1986 al 1990. Chiude la carriera con Catanzaro-Barletta 0-0 del 3 giugno 1990. &nbsp;       

Settant&rsquo;anni per il simbolo dei campioncini di provincia: prov&ograve; il salto nella grande metropoli, ma divenne la bandiera della Calabria che ce la faceva in Serie A

Palanca, tra Catanzaro e Napoli, il bomber del calcio d’angolo

        Non c&rsquo;era ancora la Coppa del Mondo, per le nazionali, cos&igrave; come erano di l&agrave; da venire le coppe europee per i club. Nei primi decenni del ventesimo secolo, dunque, per affrontare squadre o rappresentative di altri paesi l&rsquo;occasione, a parte amichevoli pi&ugrave; o meno prestigiose, la fornivano i Giochi Olimpici. Con tutto l&rsquo;aspetto pseudo dilettantesco e al contempo pionieristico che il contesto dell&rsquo;Olimpiade abbinato alla &ldquo;giovent&ugrave;&rdquo; del football assicuravano.&nbsp; &nbsp; Anni Venti, il calcio agli albori &nbsp; Che il calcio dovesse ancora, Gran Bretagna a parte, ratificare gerarchie e rapporti di forza lo dimostra il fatto che un secolo fa non era ancora cos&igrave; netto il divario tra squadre europee e compagini di altri continenti. In Sudamerica i brasiliani erano ancora dei circensi del football e le scuole calcistiche pi&ugrave; autorevoli erano senza ombra di dubbio quella Argentina e quella uruguaiana, entrambe caratterizzate da un&rsquo;anima europea. Il calcio africano, paradossalmente, non era ancora cos&igrave; indietro come sarebbe stato negli anni Cinquanta e Sessanta rispetto al Vecchio Continente, proprio perch&eacute; nessuno poteva avere alle spalle una storia lunga e gloriosa. Fa riflettere, in questo senso, il fatto che dagli anni Settanta in poi il Continente Nero avrebbe conosciuto l&rsquo;inizio della vera crescita del suo movimento calcistico.&nbsp; &nbsp; L&rsquo;Italia in rotta verso la gloria mondiale &nbsp; Riavvolgendo il nastro, la Nazionale italiana, nata nel 1910, quando arriva ai Giochi di Amsterdam nel 1928 ha gi&agrave; tre Olimpiadi alle spalle. 1912, 1920, 1924, con le ultime due edizioni in ordine cronologico che le avevano fruttato l&rsquo;approdo ai quarti di finale.&nbsp; A potersi permettere di far la voce forte &egrave; l&rsquo;Uruguay, alla vigilia: i sudamericani hanno gi&agrave; vinto l&rsquo;oro a Parigi e sono destinati alla vittoria, cos&igrave; come faranno la parte dei padroni alla prima edizione del Campionato del mondo due anni dopo. L&rsquo;Italia, che vive la fase embrionale di un gruppo che si toglier&agrave; due soddisfazioni mondiali consecutive negli Anni Trenta, batte al primo turno la Francia per 4-3. Nel secondo confronto le tocca la Spagna, spazzata via con un 7-1 nella ripetizione del match, dopo l&rsquo;1-1 della prima gara (all&rsquo;epoca non erano contemplati i rigori). In semifinale gli azzurri soccombono a testa alta proprio contro l&rsquo;Uruguay, arrendendosi per&ograve; solo con un rocambolesco 3-2 contro la Celeste. Azzurri in lotta per la medaglia di bronzo. Ad attenderli, il 9 giugno 1928, un impronosticato e impronosticabile alla vigilia Egitto, che nel frattempo ha eliminato Turchia e Portogallo, pur avendo incassato sei reti dall&rsquo;Argentina. &nbsp; Italia-Egitto, partita da record &nbsp; Gara pirotecnica, dispensatrice di reti, con gli egiziani che, pur inferiori tecnicamente, profondono un impegno che mette agonisticamente in crisi l&rsquo;Italia nella prima parte, nonostante il doppio vantaggio nei primi quindici minuti; lo dimostra il fatto che venga subito riacciuffata dall&rsquo;Egitto con una doppietta di Riad. Solo al quarantesimo giro di lancetta Elvio Banchero riporta in vantaggio gli azzurri, che da quel momento in poi macinano gioco e reti, chiudendo il primo tempo sul 5-2 e poi dominando la ripresa fino al definitivo 11-3. Non c&rsquo;&egrave; bisogno di dire che si tratta di un risultato record, destinato a rimanere tale nella storia della FIGC. Triplette di Baloncieri, Banchero e Magnozzi, doppietta di Schiavio.&nbsp; Con questa medaglia di bronzo Fulvio Bernardini e compagni assicurano alla Nazionale italiana il primo prestigioso alloro di una storia che in quegli anni vive la sua alba.&nbsp;       

Giochi Olimpici di Amsterdam, 1928: la nazionale azzurra conquista il primo risultato di rilievo della sua storia: podio olimpico, praticamente un terzo posto mondiale

Il primo squillo dell’Italia “mondiale”

        &nbsp; La prima volta non si scorda mai. Nella vita, come nel calcio. Sessant'anni fa, l'Atalanta portava a casa il suo primo trofeo ufficiale: la Coppa Italia, vinta il 2 giugno del 1963 nella finale disputata allo stadio San Siro di Milano. I nerazzurri affrontarono e batterono nettamente il Torino, festeggiando un trofeo strameritato. Gli uomini di Paolo Tabanelli furono protagonisti di una grande stagione, culminata con l&rsquo;ottavo posto in serie A e con il successo nella coppa nazionale. Era l'Atalanta di Pizzaballa, il portiere dalla figurina introvabile; di Domenghini, nato nella provincia di Bergamo e lanciato nel grande calcio dal club nerazzurro; di Da Costa, che dopo gli anni alla Roma ha ritrovato a Bergamo una seconda giovinezza. Una squadra guidata sapientemente da Tabanelli, che dopo le esperienze con Sampdoria, Bari e Spal, trova a Bergamo una squadra in grado di apprendere nel dettagli i suoi dettami tattici. &nbsp; Il cammino in Coppa Italia L'Atalanta gioca una grande Coppa Italia, onorando al massimo la competizione sin dai primi turni. Nella gara inaugurale i bergamaschi battono ed eliminano il Como, al termine di una sfida equilibrata e decisa nei tempi supplementari. Dopo l'iniziale vantaggio (gol di Da Costa e Domenghini), l'Atalanta viene raggiunta dai lombardi. Nell'extra time decidono la sfida il secondo centro di Domenghini e la rete finale di Nova. Nel secondo turno gli uomini di Tabanelli eliminano il Catania, grazie ad una doppietta di Christensen. Si arriva cos&igrave; ai quarti di finale. I nerazzurri sconfiggono 2-0 il Padova, trascinati dai gol di Da Costa e Calvanese. Le due semifinali vedono affrontarsi Atalanta e Bari e Torino-Verona. I bergamaschi regolano i pugliesi 1-0 grazie ad una rete di Da Costa, mentre i granata si impongono 2-1 sul Verona. La finale &egrave; prevista il 2 giugno in campo neutro, allo stadio Meazza di San Siro.&nbsp;  &nbsp; Domenghini decisivo in finale&nbsp; Tabanelli deve rinunciare a Da Costa, ma punta tutto sull'estro di Larsen e sull'esplosivit&agrave; di Domenghini. I due atalantini sono i pi&ugrave; intraprendenti ed in grado di mettere in seria difficolt&agrave; la difesa granata. Il Torino, guidato da Giacinto Ellena, schiera Bearzot (futuro ct azzurro campione del mondo nel 1982) in difesa, davanti a Lido Vieri (pap&agrave; di Christian). I granata partono forte e creano il primo pericolo con un incursione di Hitchens. Ma alla prima occasione, l'Atalanta va subito a segno: calcio di punizione battuto dal limite dell'area da Larsen e colpo di testa perfetto sul secondo palo di Domenghini, che anticipa Bearzot e batte Vieri. Il Torino prova a reagire, ma va a sbattere contro la difesa atalantina. Nella ripresa, dopo quattro minuti, arriva il raddoppio: Magistrelli, ala sinistra dell'Atalanta, supera con un pallonetto Buzzacchera, terzino del Torino, ma poco prima di calciare viene anticipato da Domenghini, che al volo insacca la rete del 2-0. L'ala bergamasca si ripete all'82', siglando il terzo gol al termine di uno slalom perfetto e dopo aver superato anche Vieri in uscita. A poco serve il gol della bandiera granata, arrivato due minuti dopo con Ferrini, che dal limite lascia partire un tiro che si spegne nell'angolo basso alla destra di Pizzaballa; l'Atalanta pu&ograve; far festa.       

Era il 2 giugno 1963 il giorno quando la Dea guidata da Tabanelli conquist&ograve; il primo e al momento ultimo trofeo: la Coppa Italia contro il Torino in finale

Domenghini fa tris, l’Atalanta prende la prima coppa

        Una squadra di met&agrave; classifica della Serie A che mette sotto contratto uno dei migliori giocatori del mondo: anche questo era il nostro campionato negli anni Ottanta, il decennio d'oro del pallone italiano, quando uno come Zico poteva finire all'Udinese. L'1 giugno del 1983, quarant'anni fa, l'annuncio ufficiale del brasiliano in Friuli. &nbsp; Zico all'Udinese, il colpo Il 15 maggio era finito il campionato, con la grande vittoria della Roma di Nils Liedholm, trascinata tra gli altri in campo da un altro brasiliano, quel Paulo Roberto Falcao che al mondiale del 1982 assieme proprio a Zico aveva messo in difficolt&agrave; la nazionale di Enzo Bearzot. Il centrocampista aveva segnato il 2-2, l'attaccante era stato "massaggiato" da Claudio Gentile, rendendosi pericoloso solo in pochissime occasioni, finendo pure con la maglia squarciata. Da tre anni avevano riaperto le frontiere, in Serie A, e praticamente tutti i migliori erano venuti a giocare. Anche molti "bidoni", certo, ma in generale il livello si era alzato, e dovevano ancora arrivare altri fenomeni come Maradona o Rummenigge. In compenso gente come Falcao o gli juventini Boniek e Platini rappresentavano l'ambizione di certi club di avere il meglio in circolazione.  Nessuno, per&ograve;, si sarebbe aspettato un colpo del genere dall'Udinese, che aveva chiuso il campionato 1982-83 al sesto posto, niente male, grazie a venti pareggi, ma con un attacco asfittico (25 gol in 30 giornate). Ecco l'ultima formazione dei friulani di quella stagione, 1-1 con l'Avellino (tanto per cambiare): Borin, Galparoli, Tesser, Gerolin, Edinho, Cattaneo, Causio, Miano, Mauro, Surjak e Virdis. Allenatore Enzo Ferrari, solo omonimo del "Drake" della casa automobilistica. Maglia numero 10 sulle spalle di Ivica Surjak, fantasista jugoslavo (oggi sarebbe croato) autore di appena 2 gol in 29 partite, ma destinato all'addio. O meglio, ad essere "parcheggiato" per un anno in tribuna con uno stipendio di 300 milioni di lire, perch&eacute; solo due stranieri potevano scendere in campo e per Surjak, pennellone mancino di 1.90, non c'era pi&ugrave; posto. L'altro intoccabile naturalmente era Edinho, difensore brasiliano tuttofare. La 10 sarebbe toccata, invece, ad Arthur Coimbra Antunes meglio conosciuto come Zico.  Zico all'Udinese, i dettagli Architetto di questa operazione clamorosa &egrave; Franco Dal Cin, all'epoca quarantenne drittone del mercato. Dopo settimane di spifferi in cui si dava il "Pel&eacute; bianco" nei radar della Roma, della Juventus o del Real Madrid, ecco l'annuncio ufficiale, l'1 giugno 1983: in cambio di 4 miliardi Zico si sarebbe trasferito dal Flamengo, la squadra con cui tra le altre cose aveva vinto due volte la Coppa Libertadores, all'Udinese. Dal Cin aveva chiuso tutto da un mese, addirittura provando a depistare gli operatori di mercato buttando l&igrave; il nome di Batista, che invece poi finir&agrave; alla Lazio. Contratto di un miliardo di lire lordo al giocatore per due stagioni con l'obbligo da parte di Zico di rinunciare a tutti i diritti di sfruttamento della sua immagine. Di mezzo c'&egrave; pure una misteriosa societ&agrave;, la Grouping Limited, con sede legale a Londra in una chiesa sconsacrata che come capitale ha appena 4 sterline, ma che acquista parte del cartellino del fuoriclasse brasiliano per 3,5 miliardi. Questa storia ha tutto per essere degna di un libro giallo. Anche perch&eacute; mentre i tifosi friulani esultano si scomodano a intervenire Luciano Lama, segretario generale della Cgil ("Lamberto Mazza, presidente dell'Udinese, spende miliardi per Zico ma intanto mette in cassa integrazione i suoi impiegati della Zanussi"), e soprattutto il presidente della Federcalcio, Federico Sordillo. Per quest'ultimo l'affare si &egrave; chiuso troppo tardi e il giocatore non pu&ograve; vestire il bianconero. Aggiungendo che per gli stranieri si stanno spendendo troppi soldi. Apriti cielo, la gente di Udine scender&agrave; in piazza nelle settimane successive al grido di "Zico o Austria", minacciando clamorose secessioni. Per fortuna di tutti la situazione si calmer&agrave; e a luglio arriver&agrave; l'ufficialit&agrave;, dopo un mese di limbo. Si scomoder&agrave; persino il Presidente della Repubblica, Sandro Pertini: &laquo;Mi piacerebbe vedere il brasiliano nel nostro campionato&raquo;. Ed effettivamente succeder&agrave; proprio questo: Zico all'Udinese (e negli stessi giorni anche Cerezo alla Roma), roba da matti.       

Il 1&deg; giugno 1983 il club friulano annunci&ograve; l'acquisto del fuoriclasse brasiliano per 4 miliardi: un colpo sensazionale che rischi&ograve; di provocare scossoni anche a livello geopolitico

Zico-Udinese, un affare che fece storia

        Cosa sta andando storto nell&rsquo;utilizzo del VAR in Italia? S&igrave;, perch&eacute; qualcosa sta andando storto. Inutile girarci intorno, mentre le massime istituzioni del nostro calcio continuano a prodigarsi in spiegazioni sempre pi&ugrave; accurate delle procedure di valutazione degli episodi dubbi, nonch&eacute; delle percentuali di errori arbitrali evitati grazie al VAR, le polemiche tra tifosi e societ&agrave; sembrano addirittura aumentare. Il sistema calcio pare essere entrato anzi in una sorta di stato dissociativo, per usare le categorie della psicologia, tale per cui pi&ugrave; il VAR &ldquo;funziona&rdquo;, ovvero il suo protocollo viene collaudato, pi&ugrave; le sue decisioni vengono considerate ingiuste. Un non senso, apparentemente, che per&ograve; come un lapsus freudiano potrebbe rispondere in realt&agrave; a logiche pi&ugrave; profonde, da ricercare magari mettendo in discussione alcuni assunti dati al momento per scontati. Il suo obiettivo era azzerare le polemiche Secondo alcuni autorevoli esponenti della classe arbitrale, ad esempio, l&rsquo;obiettivo dell&rsquo;introduzione del VAR non sarebbe mai stato la riduzione delle polemiche tra tifosi o societ&agrave;. Come detto infatti dall&rsquo;ex designatore Rizzoli nel 2019: &ldquo;Il Var &egrave; un aiuto, uno strumento importante e utile. Nessuno ha paura di utilizzarlo o intenzione di farne a meno. Per&ograve;, non eliminer&agrave; mai le polemiche: ognuno la vede a modo proprio&rdquo;. Una posizione in netta antitesi rispetto a quella di varisti pi&ugrave; decisi come Marcello Nicchi, che nel dicembre 2017 da presidente dell&rsquo;AIA si compiaceva di un mondo del calcio finalmente pacificato sotto l&rsquo;egida della videoassistenza: &ldquo;Il Var ha portato serenit&agrave; e azzerato le polemiche, e chi vuole parlare oggi di calcio si pu&ograve; sbizzarrire senza parlare futilmente di un calcio d&rsquo;angolo o di un rigore&rdquo;. Al di l&agrave; dell&rsquo;effettiva veridicit&agrave; delle dichiarazioni di Nicchi, il VAR viene introdotto proprio per avere un calcio pi&ugrave; &ldquo;giusto&rdquo;, come dichiarato pi&ugrave; volte dal presidente FIFA Gianni Infantino, e arbitri &ldquo;pi&ugrave; protetti&rdquo;. Pi&ugrave; che nel campo della tecnica siamo in quello della morale. Per questo la posizione rizzoliana rischia di essere ingenua: il VAR &egrave; uno strumento chiamato a migliorare un processo, certo, ma un processo fortemente innestato nella morale. La figura dell&rsquo;arbitro nasce proprio per dirimere le polemiche tra le due squadre che si contendono la vittoria, e viene introdotta precisamente il 2 giugno 1891 in una riunione dell'International Board, su proposta della Football Association inglese, mentre prima di allora ci si era affidati al fai-da-te con risultati modesti. Oltretutto ci sono passaggi del protocollo VAR che fanno direttamente riferimento alla &ldquo;credibilit&agrave;&rdquo; dello strumento, e quindi alla necessit&agrave; di non offrire il fianco a proteste di ogni sorta. Si pensi ad esempio alla scelta di usufruire, per la videoassistenza, solo delle stesse immagini che vengono trasmesse dai broadcast televisivi: come si legge nel manuale prodotto da FIFA e IFAB nel 2017, &ldquo;l'integrit&agrave; del sistema VAR sarebbe compromessa se i broadcast potessero mostrare filmati non disponibili al VAR/arbitro che contraddicono la decisione del VAR/arbitro&rdquo;. Ci&ograve; nonostante il VAR, nel corso di quest&rsquo;ultima stagione, pare aver definitivamente perduto quell&rsquo;aura di infallibilit&agrave; che stimolava le certezze di Nicchi.  &ldquo;Ci sono squadre convinte di star lottando contro il Sistema&rdquo; Se prima gli errori della videoassistenza scandivano gli anni - dal rigore &ldquo;in fuorigioco&rdquo; concesso al Genoa contro la Juve nel 2017, al gol di mano di Cutrone in Milan-Lazio del 2018, fino al celebre non-fallo di mano di D&rsquo;ambrosio in Fiorentina-Inter del 2019 e a Milan-Roma dell&rsquo;ottobre 2020, in cui Giacomelli riusc&igrave; ad inventarsi un rigore per parte - in questa stagione abbiamo invece assistito ad un incremento delle sviste costante e inarrestabile. Tra gli episodi pi&ugrave; eclatanti, in ordine sparso, il rigore non concesso in Torino-Inter dopo il contatto Belotti-Ranocchia, il rigore concesso in Venezia-Bologna per fallo inesistente di Medel su Aramu, il bel gol in rovesciata annullato a Di Francesco in Empoli-Fiorentina per un impercettibile tocco di Pinamonti su Terracciano (episodio che far&agrave; sbottare di fronte alle telecamere il solitamente irreprensibile Andreazzoli: &ldquo;Che l&rsquo;arbitro cambi mestiere!&rdquo;), il clamoroso errore in Milan-Spezia commesso dall&rsquo;arbitro Serra, cos&igrave; &ldquo;sereno&rdquo;, per citare Nicchi, che &egrave; scoppiato a piangere in campo dopo essersi reso conto di aver tolto a Messias un gol buonissimo (qualora avesse applicato la regola del vantaggio). Un Serra tanto &ldquo;protetto&rdquo;, per dirla invece con Infantino, che da quel 17 gennaio non ha pi&ugrave; arbitrato in Serie A se non come Assistente VAR. E poi ovviamente il surreale gol in fuorigioco di Acerbi in Spezia-Lazio, l&rsquo;errore simbolo della stagione della nostra classe arbitrale: la videoassistenza dalla sala di Lissone traccia la sua linea e convalida, ma traccia la linea sbagliata, non accorgendosi che il difensore laziale &egrave; ben oltre il portiere spezzino e quindi resta un solo uomo a difendere la porta (l&rsquo;episodio far&agrave; dire a Mourinho che in fondo il calcio &egrave; rimasto quello di vent&rsquo;anni fa: si pu&ograve; sempre segnare in fuorigioco). Per dire del clima che questi ultimi due errori hanno contribuito a creare, si pensi solo al ricorso del Codacons, che ha chiesto ufficialmente di rigiocare entrambe le partite. Per non parlare delle ultimissime giornate: dell&rsquo;intemerata di Mourinho contro Banti, colpevole di aver concesso alla Fiorentina un rigore a dir poco generoso per lievissimo tocco di Karsdorp su Nico Gonzalez (prima giudicato non falloso, e poi segnalato &ldquo;illegalmente&rdquo; da Guida al VAR), del gol ingiustamente convalidato a Leao contro l&rsquo;Atalanta nella penultima giornata, o di episodi meno decisivi ma comunque inspiegabili, come la ripetizione del rigore di Insigne contro il Genoa, sempre nella penultima giornata, sempre su segnalazione del VAR, quando nessun genoano aveva invaso l&rsquo;area di rigore.  Questa serie interminabile di errori ha intossicato il dibattito sportivo come forse non accadeva dai tempi delle intercettazioni calciopoliane, tanto che anche un indefesso sostenitore del videoarbitraggio come il giornalista Giovanni Capuano ha dovuto ammettere in un editoriale su Panorama che &ldquo;ci sono squadre convinte di star lottando contro il Sistema con la S maiuscola&rdquo;. Nello stesso articolo ha per&ograve; anche tessuto le lodi del VAR, che a suo avviso &ldquo;non &egrave; morto, con buona pace di chi vorrebbe metterselo alle spalle&rdquo;. Perch&eacute; se gli errori sono evidenti, &egrave; altrettanto evidente che si &egrave; trattato di &ldquo;errori umani, non della tecnologia e nemmeno del protocollo&rdquo;. Ha addossato quindi le responsabilit&agrave; della &ldquo;tossicit&agrave; del dibattito&rdquo; all&rsquo;assenza di una cultura sportiva in Italia, dove &ldquo;gi&agrave; l'errore di campo era mal sopportato, e quello davanti a uno schermo &egrave; diventato l'appiglio per gridare al complotto e allo scandalo&rdquo;. La posizione di Capuano pu&ograve; essere sotto molti aspetti condivisibile, &egrave; ben noto infatti il legame inscindibile tra cultura del sospetto e tifo nel nostro Paese, e per&ograve; sembra stonare con la profondit&agrave; del suo ragionamento la controargomentazione che adduce a favore del VAR: &ldquo;gli interventi di correzione andati a buon fine sono molti di pi&ugrave;&rdquo;. Una considerazione che tenta ancora una volta, come nel caso di Rizzoli, di ricondurre la bont&agrave; del sistema VAR a mere questioni percentuali. Mentre, se si approfondissero meglio alcune storture sollevate nello stesso articolo, si potrebbe provare ad affrontare una discussione seria su cosa sia esattamente il VAR, senza escludere a priori la possibilit&agrave; che il videoarbitraggio stesso possa avere degli aspetti problematici non riconducibili al rispetto dei protocolli.  Quella strana somiglianza con la &ldquo;moviola in campo&rdquo; Come detto in precedenza, infatti, la tecnica non &egrave; mai neutrale. Tutt&rsquo;al pi&ugrave; svolge in maniera neutrale un compito profondamente innestato nella morale. E in questo senso la morale in Italia, il sentimento che cresce negli anni, si sviluppa fin dai tempi dei &ldquo;processi del luned&igrave;&rdquo;. Ma s&igrave;, inutile girarci intorno, inutile l&rsquo;utilizzo dell&rsquo;inglese per nascondere la somiglianza: il Video Assistant Referee per noi italiani sar&agrave; sempre e solo la &ldquo;moviola in campo&rdquo; invocata per pi&ugrave; di un decennio da Aldo Biscardi nei suoi vari &ldquo;processi&rdquo; televisivi! Sono stati in molti a riconoscere la paternit&agrave; del nuovo strumento arbitrale al compianto giornalista molisano (che ci lasciava proprio nel 2017, nell&rsquo;anno della &ldquo;rivoluzione&rdquo;), nonostante Pierluigi Collina si affrettasse gi&agrave; nel 2016 a dire che si trattava di &ldquo;una cosa diversa&rdquo;. Sar&agrave;, ma non &egrave; che qualcuno sia ancora riuscito a spiegare chiaramente la differenza. Ci&ograve; che &egrave; certo &egrave; che il buon Biscardi non era mica interessato a pacificare il mondo sportivo come Nicchi, anzi, tutto il contrario! Le sue moviole erano consapevoli provocazioni volte ad aumentare gli ascolti televisivi, generando ancora pi&ugrave; polemiche di prima, tant&rsquo;&egrave; che non c&rsquo;&egrave; mai stata un puntata del &ldquo;processo&rdquo; che sia finita senza litigi e voci accavallate, insulti e insinuazioni. E pi&ugrave; o meno il risultato del VAR, nell&rsquo;obiettivo di una presunta (e impossibile) oggettivit&agrave;, &egrave; stato lo stesso: non ci sono mai state tante polemiche come quest&rsquo;anno dai tempi di calciopoli. E di quella infausta stagione sono tornate in auge anche le teorie del complotto, sbandierate di fronte alle telecamere perfino dagli addetti ai lavori. Pensiamo alle dichiarazioni di allenatori come Mourinho e Gasperini, che hanno ipotizzato macchinazioni contro le loro squadre ordite non si sa bene da chi e per quale motivo. Viene allora da chiedersi se non sia proprio il meccanismo di funzionamento del VAR a esacerbare gli animi, rendendo pi&ugrave; difficile sopportare i torti subiti. Portando l&rsquo;arbitro al video, infatti, si &egrave; imposto per la prima volta nella storia del calcio un principio per nulla scontato e fino a poco tempo fa inammissibile: che le immagini dei replay siano pi&ugrave; &ldquo;vere&rdquo; della percezione dal vivo in campo. Un principio che sta gradualmente trasformando l&rsquo;intero Paese in una sorta di processo del luned&igrave; perenne.  Sui social impazzano le sfide a colpi di fotogrammi, che a seconda dell&rsquo;istante immortalato e dell&rsquo;illuminazione riescono sempre (guarda caso) a portare la ragione dalla parte di chi li condivide. Addirittura su questioni teoricamente &ldquo;oggettive&rdquo; come i fuorigioco si alternano di settimana in settimana differenti valutazioni, tutte ovviamente contrastanti. Quindi c&rsquo;&egrave; tutta la questione della comunicazione tra arbitro e sala VAR nel corso della partita, o meglio, delle sue tracce audio destinate a restare nei misteriosi archivi dell&rsquo;AIA nonch&eacute; a imporsi come nuovo feticcio per i polemisti di tutta Italia. Una deriva che sta portando al contrario all&rsquo;implementazione di un &ldquo;processo di trasparenza&rdquo; spinto all&rsquo;estremo, che render&agrave; a breve possibile la trasmissione in diretta TV delle comunicazioni tra arbitri nel corso delle partite. E non &egrave; tutto. Si vocifera addirittura di un prossimo canale televisivo tematico dell&rsquo;AIA, in cui tutto il giorno si parler&agrave; di episodi dubbi e VAR, errori e spiegazioni, protocolli, procedure&hellip; Nel fine di giungere ad un calcio oggettivo, un mezzo per generare ancora pi&ugrave; confusione e quindi polemiche. Per non finire tutti in tribunale Il direttore del Foglio Claudio Cerasa &egrave; convinto che questo perverso desiderio di &ldquo;trasparenza a tutti i costi&rdquo; ricalchi un certo giustizialismo manettaro passato dalla politica al calcio, tanto che nel suo podcast Come il calcio spiega il mondo ha definito il VAR &ldquo;nuovo populismo calcistico&rdquo;. Trattasi di un &ldquo;tentativo riuscitissimo&rdquo;, secondo Cerasa, &ldquo;di commissariare di fatto l&rsquo;arbitro, mettendolo sotto schiaffo di uno strumento imposto dalla democrazia diretta del pubblico&rdquo;: &ldquo;Un Paese come l&rsquo;Italia, schiavo per anni della cultura anti-casta, non poteva che essere all&rsquo;avanguardia nello sperimentare un sistema come il VAR&rdquo;. Un serio pericolo per il nostro Paese, quindi, poich&eacute; &ldquo;ha l&rsquo;effetto di aggredire un principio non negoziabile in una democrazia: rispettare chi fa rispettare le regole, accettando anche decisioni che si considerano ingiuste&rdquo;. Senza volare troppo alto, e lasciando quindi perdere la questione democratica, ci domandiamo pi&ugrave; banalmente a cosa stia portando tutta questa &ldquo;fame di verit&agrave;&rdquo; nel sistema calcio: a un ambiente pi&ugrave; rancoroso, innanzitutto, a un calcio fotogrammistico a immagine e somiglianza dei processi di Biscardi, con gli errori arbitrali pi&ugrave; evidenti che assumono le sembianze di spin-off netflixiani, vere e proprie saghe nella saga (a partire dal celebre Orsato gate, quello portato avanti da Le Iene in seguito a quella famosa mancata espulsione di Pjanic in Inter-Juve del 2018). Basti guardare a cosa &egrave; successo nell'ultimo periodo all&rsquo;arbitro Pairetto, nuovamente al centro delle polemiche dopo aver convalidato il gol in fuorigioco di Acerbi in Spezia-Lazio del 30 aprile scorso. Succede che durante la conferenza di fine anno dell&rsquo;AIA vengano desecretati, manco fossero &ldquo;x-files&rdquo;, gli audio di quella partita maledetta, e che da questi audio risulti che dalla sala VAR di Lissone in realt&agrave; nessuno aveva dato l&rsquo;ok all&rsquo;arbitro per far riprendere il gioco, ma che questi lo avesse comunque captato erroneamente, interpretando un &ldquo;ok&rdquo; del tutto casuale pronunciato non si sa bene da chi come l&rsquo;ok di fine check. Apriti cielo! Le vibes sono le stesse del dialogo De Falco-Schettino, per un semplice errore arbitrale che senza il VAR sarebbe presto stato dimenticato.  Ma sembrano soprattutto le azioni legali intentate dal Codacons per far rigiocare Milan-Spezia e Spezia-Lazio a fornirci l&rsquo;antipasto peggiore di cosa ci potrebbe riservare il calcio dei prossimi anni: dato che la ricerca dell&rsquo;oggettivit&agrave; si &egrave; infatti trasformata in dogma, al punto che &egrave; stato istituito una sorta di tribunale ausiliario che la certifichi - questo &egrave; in fondo la sala VAR di Lissone, Svizzera, nella quale gli addetti accedono e poi vengono isolati dal mondo esterno come in un&rsquo;aula bunker - non &egrave; impensabile ipotizzare che presto si arriver&agrave; realmente a dover rigiocare alcune partite. Vada per il Codacons, le cui rimostranze in questo Paese non sembrano essere prese molto in considerazione, ma quando si arriver&agrave; alle aule parlamentari (come &egrave; gi&agrave; accaduto in epoca pre-VAR per episodi anche meno gravi di quello di Acerbi), come andr&agrave; a finire? Immaginiamo un caso come quello di Pairetto sbarcare in un&rsquo;aula parlamentare o peggio in un&rsquo;aula del tribunale sportivo: quanti giudici saranno disposti a riconoscere la sua buona fede? Le giacchette nere dovranno dotarsi preventivamente di avvocati per praticare la professione? Nasceranno specializzazioni in &ldquo;diritto del VAR&rdquo; per formare legali aggiornati sul protocollo? Insomma, al di l&agrave; delle provocazioni, dopo cinque anni di implementazione i tempi sembrano maturi per una reale riflessione sulla natura paradossale di uno strumento nato per fare giustizia, ma che in realt&agrave; sta solo pompando a dismisura i sospetti e le illazioni, nella ricerca di un'oggettivit&agrave; impossibile. Una riflessione necessaria per cercare di migliorarlo o, se non &egrave; possibile, di ripensarlo, riportando cos&igrave; le lancette dell&rsquo;orologio a cinque anni fa. In fin dei conti, qualcuno lo ricorder&agrave;, si giocava a calcio lo stesso.       

I limiti di un modello che ricerca un'oggettivit&agrave; impossibile

Il VAR ha reso il calcio un posto peggiore?

        Jongbloed; Suurbier, Rijsbergen, Haan, Krol; Jansen, Neeskens, van Hanegem; Rep, Rensenbrink, Cruijff. Allenatore: Rinus Michels. Una messa cantata, l&rsquo;elenco di quei miti di un calcio che non conosceva le &ldquo;rose ampie&rdquo; ma si basava sulle granitiche certezze di una formazione-monolite, che i tifosi potevano snocciolare a memoria. Gli undici che al sole pallido di una Germania con la Guerra Mondiale che si allontanava sempre di pi&ugrave;, mentre quella Fredda continuava a ricordarle ci&ograve; che era stato, si apprestavano a scendere in campo nella finale del Campionato del Mondo del 1974. Di fronte, i padroni di casa campioni d&rsquo;Europa della Germania Ovest, capitanati dal Kaiser, Franz Beckenbauer. La strada per arrivare a quel pomeriggio del 7 luglio 1974, di fronte agli oltre 75.000 stipati nell&rsquo;imponente Olympiastadion di Monaco di Baviera, non &egrave; stata facile, anzi. Una lunga assenza Non &egrave; un mistero, infatti, che degli Oranje non si abbiano tracce nella principale competizione per nazionali dall&rsquo;edizione successiva il loro esordio in Italia, nel 1934: quattro anni dopo, in Francia, la breve corsa dei Paesi Bassi s&rsquo;interruppe agli ottavi per mano della Cecoslovacchia.&nbsp;Da quel mondiale che precedette la guerra e che obblig&ograve; il calcio internazionale a fermarsi fino al Maracanazo del 1950, gli olandesi vissero un lungo confino: iniziarono a riaffacciarsi sui grandi palcoscenici solo con l&rsquo;arrivo degli anni &lsquo;70. Quattro Coppe dei Campioni consecutive per le squadre olandesi, una del Feijenoord di van Hanegem guidato da Ernst Happel; tre dell&rsquo;Ajax di Cruijff, guidato da Rinus Michels prima e ?tefan Kov&aacute;cs poi.&nbsp;Eppure, nonostante gli straordinari successi internazionali delle squadre di club, l&rsquo;Olanda non riusc&igrave; a partecipare neppure alla fase finale degli Europei del 1972.&nbsp;  L'Arancia Meccanica verso il Mondiale 1974 La rincorsa ai Mondiali del &lsquo;74 inizia il 1&deg; novembre del 1972, al De Kuip di Rotterdam, gremito per l&rsquo;occasione. Si capisce subito che c&rsquo;&egrave; qualcosa di nuovo nell&rsquo;aria e che quel soprannome, Arancia Meccanica, che identificher&agrave; l&rsquo;Olanda di Cruijff nell&rsquo;immaginario collettivo, &egrave; quanto di pi&ugrave; appropriato possibile per indicare &rdquo;l&rsquo;ultra-violenza&rdquo; con cui stordisce gli avversari.&nbsp;Cruijff, che nel 1973 voler&agrave; nella Barcellona che si ribella anche agli ultimi scampoli della dittatura di Franco, &egrave; ormai baluardo di una nazionale che l&rsquo;ha visto esordire appena diciannovenne: 7 settembre 1966, qualificazioni agli Europei italiani; Olanda-Ungheria 2-2, Johan realizza la rete del momentaneo 2-0. La sorte dei predestinati.&nbsp;La Coppa del Mondo in Germania inizia, per Cruijff e compagni, il 15 giugno. &Egrave; vero che il calcio olandese arriva da un fantastico poker con le proprie squadre nella Coppa dei Campioni, ma &egrave; altrettanto vero che &ndash; vista la concorrenza &ndash; la formazione di Michels non pu&ograve; comunque essere considerata la favorita del torneo. Ci sono le finaliste di Mexico &lsquo;70, seppur profondamente cambiate: il Brasile, dopo dodici anni, affronta questa particolare competizione senza Pel&egrave;; l&rsquo;Italia, dal canto suo, punta sul gruppo di giocatori della Lazio fresca Campione d&rsquo;Italia, capitanati da Giorgio Chinaglia; quello del CT Valcareggi si riveler&agrave; un errore fatale, con una Nazionale spaccata in clan che &ndash; dopo aver rischiato la figuraccia contro Haiti &ndash; non riuscir&agrave; a superare il girone eliminatorio. C&rsquo;&egrave; poi l&rsquo;Argentina, che &egrave; sempre l&rsquo;Argentina; la sorprendente Polonia di Lato e la Germania Ovest, reduce da una finale persa immeritatamente nel 1966 e dalla storica e sfortunata semifinale con l&rsquo;Italia del 1970. C&rsquo;&egrave;, infine, una novit&agrave; che caratterizza l&rsquo;edizione del 1974: la mitica Coppa Rimet va in pensione; chi si aggiudicher&agrave; la vittoria finale, potr&agrave; infatti alzare al cielo di Monaco la nuova Coppa del Mondo FIFA. &Egrave; un piccolo, ulteriore, segnale di un calcio in evoluzione che sta gi&agrave; vivendo la sua nuova rivoluzione: nel decennio precedente ha contato e vissuto sulle magie dei vari Pel&egrave;, Di Stefano, Pusk&aacute;s ed Eusebio, ma ora &egrave; alla ricerca di un nuovo emblema in cui riconoscersi.&nbsp;Mentre Cruijff si appresta a colmare definitivamente quel vuoto calcistico lasciato dai miti che l&rsquo;hanno preceduto, su un polveroso campetto nei pressi di Buenos Aires un ragazzino di nome Diego Armando, maglia numero 10 sulle spalle, palleggia sognando di giocare e vincere quel mondiale che &egrave; speranza, obiettivo, miraggio per ogni bambino che vive dell&rsquo;amore che solo quella sfera sa dare. Ma questa &egrave; un&rsquo;altra storia, che passer&agrave; anche attraverso quella Barcellona che per Johan sar&agrave; seconda casa e madre.  Il Mondiale 1974 dell'Olanda Il primo ostacolo si chiama Uruguay; ostacolo, si fa per dire, poich&eacute; la gara &egrave; una sorta di monologo che delizia i palati fini; doppietta di Rep con gol in apertura e chiusura di partita e primi due punti in cascina. Cruijff segna una gran rete con sombrero incorporato, ma in fuorigioco.&nbsp;Dopo esser stati fermati sullo 0-0 dalla Svezia, i tulipani giocano l&rsquo;ultima gara del girone il 23 giugno contro la Bulgaria al Westfalenstadion, l&rsquo;attuale Signal Iduna Park. Due volte Neeskens, poi Rep e de Jong, su splendido assist di Cruijff, firmano il 4-1 finale: primo posto e qualificazione al secondo girone, quello che precede le finali. Brasile, Germania Est e Argentina: procede cos&igrave; il cammino degli olandesi verso la gloria; si rafforza qui quel soprannome, Arancia Meccanica, che sa di calcistica violenza per quanto riguarda l&rsquo;annientamento dell&rsquo;avversario a livello, tecnico, tattico, fisico.&nbsp;Crujiff &egrave; stato fino a questo momento quasi in disparte, sebbene abbia sfornato assist e guadagnato rigori. Non basta per&ograve;, a colui che dei Drughi di arancio vestiti &ndash; sfruttando il parallelo con il capolavoro cinematografico di Kubrik&nbsp; &ndash;&nbsp;&egrave; il capo indiscusso. Il 26 giugno si gioca a Gelsenkirken, patria dell&rsquo;acciaio: farebbe comodo intorno alle caviglie per parare i colpi dei mai teneri argentini. Bastano 11&rsquo; perch&eacute; il Profeta del gol &ndash; Ciotti dixit &ndash; decida di imprimere il suo marchio su questo suo unico &ndash; lui ancora non lo sa&nbsp; &ndash; Mondiale. Tocco in profondit&agrave; di Van Hanegem; controllo di destro, aggiramento del portiere Carnevali col sinistro ed &egrave; 1-0. Il canovaccio della gara non cambia: si continua a giocare quasi esclusivamente a una sola porta. Krol, sugli sviluppi di un calcio d&rsquo;angolo, rafforza le condizioni di una partita a senso unico; Rep a poco pi&ugrave; di un quarto d&rsquo;ora dal termine buca ancora di testa Carnevali su assist di Cruijff: emblematica la reazione di Rinus Michels, che ghigna sfregandosi le mani per la soddisfazione e la crescente convinzione che sia lui il &ldquo;Ludovico Van&rdquo;, direttore di un&rsquo;orchestra che inizia a suonare &ldquo;la gran nona&rdquo;. Il suggello non pu&ograve; che essere del capitano, numero 14 sulle spalle, che non conosce banalit&agrave; neanche per la rete del 4-0: il suo esterno destro, da posizione defilata, sublima una gara perfetta.&nbsp;La Germania Est &ndash; seppur gratificata dalla storica vittoria su quella Ovest nel primo girone &ndash; non pu&ograve; rappresentare un ostacolo per l&rsquo;inarrestabile onda arancione. Neeskens e Rensenbrink sbrigano la pratica proiettando la squadra alla penultima delle fatiche che la separano da una storica finale di Coppa del mondo. Dall&rsquo;altra parte c&rsquo;&egrave; il Brasile, pallido ricordo della squadra mitologica di quattro anni prima, se non per la classe di Jairzinho e, soprattutto, Rivelino. 4 punti a testa, differenza reti migliore per l&rsquo;Olanda che, come tutte le squadre votate mentalmente al gioco e allo spettacolo, non si accontenta del pari.&nbsp;Il Brasile, in blu per l&rsquo;occasione, sembra quel gran boxeurche, pugno dopo pugno, gambe molli e riflessi lenti, percepisce la forza devastante dell&rsquo;avversario e il fatto che il ring, per sopraggiunti limiti d&rsquo;et&agrave;, ha iniziato a respingerlo. I verdeoro si aggrappano all&rsquo;orgoglio e tirano fuori tutta la cattiveria possibile: sono tante le entrate ben oltre il limite del consentito ed &egrave; quasi un miracolo che terminino la partita con un solo uomo in meno. L&rsquo;Olanda non si spaventa, produce il suo gioco fino al meritato gol del vantaggio: assist dalla destra di Cruijff e Neeskens, in spaccata, batte &Eacute;merson Leao con un&rsquo;imprendibile traiettoria a pallonetto. Passano 14&rsquo;, siamo al 64&rsquo;, e un fuorigioco si mostra insensibile, negando un fantastico gol in lob al capitano olandese. &Egrave; nel giro completo di lancette successivo, per&ograve;, che la &ldquo;gran nona del Ludovico Van&rdquo; raggiunge finalmente il suo quarto movimento, l&rsquo;inno alla gioia. Krol serve Rensenbrink, il quale si gira e lancia ancora il futuro libero del Napoli sulla fascia sinistra: il cross di prima &egrave; certo di pregevole fattura ma &egrave; innalzato a pennellata immortale dal tuffo in spaccata di Cruijff, l&igrave;, al centro dell&rsquo;area di rigore, dove confeziona, con la leggiadria di una farfalla e la rapacit&agrave; di un bomber, il capolavoro del 2-0. Gioco, partita, incontro. Quello che avviene all&rsquo;Olympiastadion quel 7 luglio 1974 &egrave; quasi un dettaglio nella nostra storia. Il 2-1 con cui la Germania Ovest si laurea Campione del Mondo trasmette solo la freddezza statica di un risultato. Il calore della leggenda si pu&ograve; spesso offrire, nello sport, sedendo al tavolo degli sconfitti, come avvenne quel giorno: &ldquo;Se avessimo vinto noi quella finale &ndash; ebbe a dire Cruijff &ndash; nessuno parlerebbe ancora oggi di quanto fossimo bravi e della perfezione del calcio che giocavamo&rdquo;.        

La cavalcata dell'irripetibile nazionale olandese nell'estate del '74. I ragazzi di Michels &nbsp;si arresero in finale ai tedeschi, ma l'eredit&agrave; che hanno lasciato vale pi&ugrave; di una coppa

Il Mondiale dell'Arancia Meccanica di Cruijff

Una rivoluzione epocale che negli anni &rsquo;70 ha cambiato il modo di interpretare il gioco. Il numero 14 dell&rsquo;Ajax e della nazionale olandese ne &egrave; stato il massimo esponente

PODCAST - Johan Cruijff: il profeta del calcio totale

Una vittoria all&rsquo;insegna dell&rsquo;esperienza e della tecnica. Enrico Guidi dopo aver dato il suo preziosissimo contributo nella vittoria del Perugia nel torneo a squadre contro il Subbuteo Club Sombrero di San Miniato conquista anche il torneo individuale nella prima tappa della disciplina del Subbuteo Tradizionale valida per la 19&deg; edizione del Guerin Subbuteo battendo di misura per 1-0 Pier Luigi Signoretti (Subbuteo Club Sombrero) al termine di una prestazione di grande solidit&agrave; difensiva e tattica.  Una manifestazione, il Guerin Subbuteo, che nasce nel 1978 dalla collaborazione tra il patron Edilio Parodi (la cui azienda importava il celebre gioco da tavolo apprezzato dagli appassionati di calcio) e il celebre verdolino diretto all&rsquo;epoca da Italo Cucci e che in breve tempo diventa il sogno di ogni appassionato di Subbuteo, il quale spedendo il modulo presente all&rsquo;interno del Guerino, ha la possibilit&agrave; di partecipare alle selezioni regionali, e, in caso di vittoria, disputare la finale a Genova, potendo cos&igrave; anche interagire tra giocatori provenienti da ogni parte d&rsquo;Italia. Dopo l&rsquo;ultima edizione (la numero 18) del 1995 che vede la vittoria di Mario Corradi di Milano nella categoria Seniores e di Efrem Intra di Bergamo per la seconda volta nella categoria Juniores (bissando cos&igrave; il successo dell&rsquo;anno prima), dopo 26 anni di assenza il Guerin Subbuteo &egrave; ripartito pi&ugrave; forte che mai grazie alla sinergia tra il nostro giornale e la FISCT (Federazione Calcio da Tavolo), Eleven Sports e Subbuteoland, con il Centro Tecnico Federale di Reggio Emilia. Se fino agli ottavi di finale le partite pi&ugrave; salienti sono state trasmesse dal canale You Tube della FISCT (You Fisct), dai quarti di finale fino alla finale le partite sono state trasmesse gratuitamente da Eleven Sports, con la possibilit&agrave; anche in questi giorni di poter rivivere le emozioni provate in questi giorni al Subbuteoland. A cominciare dalla vittoria, come dicevamo di Enrico Guidi, che abbiamo raggiunto nelle scorse ore per commentare questa sua doppia vittoria nella prima tappa del circuito Subbuteo Tradizionale della 19&deg; edizione del Guerin Subbuteo.    L&#39;intervista a Enrico Guidi  Ciao Enrico, ancora complimenti per la doppia vittoria (a livello individuale e di squadra) nell&rsquo;evento di Subbuteo Tradizionale legato al Guerin Subbuteo. Che effetto ti fa legare il tuo nome a questo trofeo, tornato a nuova vita quest&rsquo;anno grazie all&rsquo;accordo tra Guerino e F.I.S.C.T.?  Che ricordi hai di questo torneo, nelle sue edizioni precedenti?  &ldquo;Ciao Ruggero, grazie per i complimenti sempre graditi! Vedere scritto il proprio nome su un albo d&#39;oro cos&igrave; importante &egrave; una bellissima sensazione, farlo poi 2 volte in 2 giorni &egrave; stupendo. Il Guerin Subbuteo &egrave; il torneo per eccellenza, mi ricordo da piccolo l&#39;attesa per l&#39;uscita del coupon e le grandi sfide a livello regionale per arrivare alle fasi finali nazionali. E poi, com&rsquo;era bello vedere il trofeo in bronzo che il giornale di Italo Cucci aveva messo in palio&rdquo;.  Enrico, so che tu ami tantissimo il mondo del calcio da tavolo, e ti ricordo impegnato per diverse stagioni nel Blackrose di Roma per poi approdare negli ultimi anni in una realt&agrave; solida e di valore come quella di Perugia. Possiamo raccontare ai nostri lettori com&rsquo;&egrave; attualmente costituito il campionato di serie A, da quante squadre &egrave; costituito, e ogni quanto si gioca il campionato?  &ldquo;Sono ancora legato al BlackRose a livello di amicizia con alcuni dei ragazzi che tutt&#39;ora giocano l&agrave; come tu hai detto, ma ora gioco nel club di Perugia con il quale in 2 anni abbiamo avuto molti successi sia come team sia individuali. Il Club milita nella categoria Calcio Tavolo in Serie A, mentre nella categoria Subbuteo Tradizionale &egrave; in Serie B. I campionati FISCT delle due specialit&agrave; sono divise come nel calcio in Serie A, B e C ed i campionati di ingresso in base alle iscrizioni annuali. Si gioca ogni anno il Campionato, la Coppa Italia e la SuperCoppa FISCT insieme al circuito dei tornei strutturato come nel tennis&rdquo;.  Passiamo ora a parlare del Guerin Subbuteo di quest&rsquo;anno, e in particolare dell&rsquo;evento di Subbuteo Tradizionale a cui hai partecipato, sia singolarmente, che con la tua squadra. Ci puoi raccontare, a beneficio dei lettori interessati, in quanti fasi era costituito il torneo, quanti partecipanti eravate, ecc?  &ldquo;Il Guerin Subbuteo da questa stagione ha ripreso la sua vita con un accordo tra la FISCT ed il giornale; &egrave; suddiviso per il momento in 3 tappe diverse, una per il Calcio Tavolo, una per il Subbuteo Tradizionale e l&#39;ultima per tutti gli Juniores italiani. Nella tappa di Subbuteo Tradizionale a cui ho partecipato si sono registrati 20 team e 118 giocatori da tutta Italia mentre nella precedente tappa per il Calcio Tavolo si &egrave; registrata la presenza di 11 team e circa 42 giocatori. Ora attendiamo l&#39;ultima prova solo per i ragazzi sui quali la FISCT vuole concentrare la sua attenzione per il futuro di questo gioco&rdquo;.    &copy; Subbuteoland  Soffermandoci invece sulla tua esperienza personale, in che momento hai capito che avresti potuto vincere il torneo di Subbuteo Tradizionale, e, se posso, l&rsquo;emozione che hai provato una volta che l&rsquo;arbitro ha dichiarato la conclusione della finale (che ti ha visto battere per 1-0 Pier Luigi Signoretti)?  &ldquo;Ho capito che avrei fatto un gran torneo gi&agrave; dal sabato dove ho vinto 6 partite su 6. Ho iniziato la domenica con lo stesso ritmo di gioco senza troppi errori ed alla fine ho concluso con altre 9 vittorie su 9 match e l&#39;emozione che ho provato &egrave; stata unica per me. Sono stato subito subissato di telefonate e messaggi nonostante il treno che mi attendeva in stazione. Bellissimo davvero tutto.....lo rifarei immediatamente&rdquo;.  A chi vuoi dedicare la vittoria di questa finale?  &ldquo;La vittoria la dedico alla mia famiglia (in particolare a mia moglie e mio figlio) perch&eacute; mi permette di fare queste cose lontano da loro per 3 giorni, al capitano De Francesco che ha sempre creduto in me, e per ultimo ma non ultimo al mio grande amico Severino Gara che dopo una bella convalescenza, sta tornando pi&ugrave; forte di prima&rdquo;.  Quali sono i prossimi impegni della tua squadra?  &ldquo;Guarda, i prossimi impegni sono di sicuro per il mio club, che parteciper&agrave; al torneo internazionale di Roma e poi, si spera, ai Campionati Italiani sia Individuali sia a Squadre&rdquo;.    &copy;Subbuteoland  Ti ringraziamo davvero di cuore, Enrico, per aver partecipato a questa nostra intervista, e rinnoviamo,di vero cuore, i pi&ugrave; sinceri complimenti a te e al Perugia per la vittoria individuale e di squadra nel torneo di Subbuteo Tradizionale del Guerin Subbuteo.  &ldquo;Grazie a te per l&#39;intervista ed un saluto a tutti i lettori&rdquo;.  Prossimo appuntamento con il Guerin Subbuteo sar&agrave; il prossimo 5 Dicembre sempre al Subbuteoland di Reggio Emilia con il Guerin Junior. 

Doppia affermazione per il giocatore del Perugia che nella prima tappa del Subbuteo Tradizionale valida per la 19&deg; edizione del Guerin Subbuteo conquista sia torneo individuale che quello a squadre.

Guerin Subbuteo: Enrico Guidi e la doppietta di Reggio Emilia

Gianluigi Buffon indossa di nuovo la casacca del Parma, dopo la festa scudetto della Roma nel 2001 all&#39;Olimpico, quando, simbolicamente, gli fu tolta dai tifosi romanisti, in una invasione di campo che aveva anticipato la fine della partita.&nbsp; In questa lunga parentesi l&#39;acquisto della Juventus per 75 miliardi di lire - la cifra pi&ugrave; alta pagata per un giocatore dalla squasdra di Torino fino a quel momento e la pi&ugrave; alta mai pagata per un portiere in Europa, fino al 2018 - un anno al&nbsp;Paris Saint-Germain e il ritorno alla Juventus.&nbsp; Un ritorno che per alcuni &egrave; un romantico ritorno alle origini, per altri un estremo tentativo per avere una chances per giocare i mondiali&nbsp;del 2022 in Qatar, per altri ancora l&#39;incapacit&agrave; di lasciare un mondo, quello del calcio, di cui &egrave; stato a buon titolo protagonista per pi&ugrave; di 20 anni. Quale che sia la motivazione, al momento non &egrave; dato sapere, ma per certo la Serie B si &egrave; arricchita in questa stagione di un top player di livello mondiale, accendendo un riflettore in pi&ugrave; su un campionato che sempre pi&ugrave; assomiglia ad una A2 e non a una serie B.

Gianluigi Buffon dopo 20 anni di nuovo con la casacca giallo-blu

Little Elm, Texas, &egrave; un buon posto per viverci? Nel 2000 quando George W. Bush era ancora governatore, questo posto era l&rsquo;oscuro dormitorio affacciato sul lago Lewiswille. Abitavano in tutto 3600 persone, consapevoli di presidiare una zona dimenticabile schiacciata dal sole. Se ti servivano un paio di calzini, dovevi salire in auto e andare a Dallas, a quaranta chilometri. Adesso ci vivono pi&ugrave; di cinquantamila persone, ovunque trovi parchi, campi di calcio, piscine immerse nel verde, strade dritte e ben segnalate, gente cordiale che ti d&agrave; una mano se ti sei perso con il navigatore.  Little Elm, che in italiano chiameresti Piccolo Olm, o Olmatello, &egrave; uno dei posti in Texas cresciuti pi&ugrave; velocemente: la media delle abitazioni non ha pi&ugrave; di quindici anni. Quello che &egrave; successo qui &egrave; il paradigma del calcio americano: in meno di vent&rsquo;anni &egrave; passato da entit&agrave; soporifera a nuovo piccolo Eden del pallone.   Il campionato professionistico della Mls non c&rsquo;entra, il calcio professionistico qui &egrave; ancora eccitante come osservare la vernice asciugarsi sulla parete, ma le academy stanno diventando una miniera.   Le societ&agrave; di calcio stanno ingaggiando centinaia di tecnici europei, la federazione ha messo in piedi un sistema alla francese tipo Clairefontaine, con istruttori che girano gli Stati Uniti, individuano i migliori talenti e li inseriscono in un programma di formazione tecnica. Weston McKennie ha vissuto a Little Elm i primi anni della sua vita, prima di trasferirsi in Germania al seguito del padre, militare, e poi tornare in Usa per giocare a Dallas. In realt&agrave; Weston sognava di diventare un giocatore di football dei Washington Redskins, il che equivaleva abbastanza a un peccato mortale, visto che a pochi chilometri da casa giocavano i Dallas Cowboys, la franchigia pi&ugrave; popolare in tutti gli Stati Uniti, la Juventus d&rsquo;America. Ma poi abbiamo visto che il destino per il ragazzo aveva deciso un percorso diverso.   Oltre alla mano divina, c&rsquo;entra l&rsquo;organizzazione federale, i cui frutti cominciano a vedersi anche in Europa.    Weston fa parte dei fantastici dieci americani che sono entrati nelle liste della Champions League. Dieci. Giovani, di talento, ambiziosi. A ottobre in cinque hanno giocato in contemporanea nella stessa giornata. L&rsquo;ultima volta in cui il calcio americano aveva visto una presenza cos&igrave; massiccia in Champions League era stato il 20 novembre del 2012: quel giorno avevano giocato Jermaine Jones (Schalke), Sacha Kljestan (Anderlecht) e Oguchi Onyewu (Malaga). Stavolta era successo con Christian Pulisic, okay, 22 anni, promosso nel Borussia Dortmund quando aveva 17 anni e passato al Chelsea per 60 milioni, giocatore americano pi&ugrave; pagato della storia. Con Gio Reyna, talento del Borussia. Tyler Adams, 21 anni, Lipsia, allevato nell&rsquo;academy dei New York Red Bulls, diventando professionista a sedici anni. E il figlio di un ex giocatore dei Mustangs Colorado, Ethan Horvath, 25 anni, portiere del Bruges e della nazionale, arrivato in Belgio passando dai norvegesi del Tippeligaen. E Sergino Dest, invece, che &egrave; entrato dalla porta principale: dopo essere cresciuto all&rsquo;Ajax, &egrave; diventato il primo americano della storia del Barcellona a partire nell&rsquo;undici titolare, con Lionel Messi, Antoine Griezman e Gerard Pique. E poi &egrave; toccato a McKennie, con la Juve. Ma ci sono anche gli altri. Konrad de la Fuente, 19 anni, Miami, arrivato a Barcellona dove il padre aveva trovato lavoro al consolato di Haiti. Alex Mendez, Ajax ,cresciuto nei Los Angeles Galaxy, Zac Steffen che da bambino giocava difensore e ora fa il portiere al Manchester City e Chris Richards, arrivato al Bayern Monaco partendo dall&rsquo;Alabama.    Qualcosa sta cambiando, anche se da noi in Italia &egrave; sempre difficile andare oltre il tinello di casa. Quando parli a qualcuno degli americani, si fermano a Alexi Lalas del Padova e a Michael Bradley della Roma. Del primo ricordano l&rsquo;aria country, dell&rsquo;altro la testa pelata come di un Venusiano arrivato dallo spazio. La Juve &egrave; riuscita a guardare oltre, ma &egrave; un caso abbastanza isolato. &laquo;In Italia - spiega Peter Curto, direttore del dipartimento calcio dell&rsquo;agenzia Pny Sports di New York che cura contratti e comunicazione degli atleti - sono tutti convinti di essere troppo esperti per fidarsi del calcio americano. Ma la situazione sta cambiando. Molti club, soprattutto tedeschi, ma anche Barcellona e Valencia, seguono i giovani migliori e li fanno venire. Ai tornei giovanili dove viene mostrato il meglio, ci sono molti osservatori, tranne quelli dei club italiani&raquo;. Ora che i giovani americani sono entrati in Champions League, li hanno scoperti anche da noi. Ma, forse, in molti casi, &egrave; troppo tardi. &laquo;Reyna &egrave; il futuro golden boy - spiega Curto - ha tecnica, &egrave; veloce, molto intelligente. L&rsquo;altro &egrave; McKennie, uno di quelli che ha ampi margini di miglioramento, &egrave; in un campionato nuovo, bisogna dargli tempo&raquo;.  Il calcio in Usa vive una nuova ondata di successo. Dei quasi 12 milioni di tesserati nelle squadre di calcio il 71 per cento ha tra i 6 e i 24 ani, pi&ugrave; di 4 milioni ha tra i 6 e i 12 anni, il 36 per cento &egrave; formato da ragazze. I tifosi americani, secondo dati Fifa, sono circa 30 milioni, ma una cifra destinata a raddoppiare nei prossimi cinque anni, grazie alla dirette tv dei maggiori campionati euroche vengono trasmesse ogni giorno sui canali americani. La diffusione dei gaming Fifa sta allevando nuove generazioni non solo di appassionati, ma di bambini che sognano di diventare Messi e Ronaldo. Ora guardano Pulisic e Reyna.  La Bundesliga al momento sembra il torneo di riferimento, anche perch&eacute; per fisicit&agrave; &egrave; quella che pi&ugrave; si adatta al calcio americano, molto forte nella corsa e nel contatto, ma ancora indietro sulla tecnica e la flessibilit&agrave; tattica. Ma la strada &egrave; tracciata. I dieci giovani Usa di Champions hanno mobilitato i media, occupato le copertine dei magazines, e avviato quell&rsquo;effetto emulazione che porta le academy a popolarsi. Dietro i &ldquo;fantastici 10&rdquo;, altri gi&agrave; scalpitano: come Brenden Aaronson, 20 anni, che a gennaio dovrebbe passare dai Philadelphia Union al Salisburgo; Gianluca Busio, 18 anni, seguito l&rsquo;estate scorsa dalla Fiorentina, e adesso nel mirino del Barcellona assieme a Cade Cowell, 17, attaccante californiano gi&agrave; in gol nella Mls. Altri verranno.  Marco Messina &egrave; un ragazzo di Brooklyn di origine italiana. Ex giocatore di calcio, ha fondato con il suo amico Michael Kantaris IFTVOfficial, una vivace web tv che parla della Serie A con ironia e competenza. In poco tempo hanno raggiunto pi&ugrave; di 70 mila followers su Twitter, il giocatore dell&rsquo;Atalanta Marten de Roon li segue con passione, cos&igrave; come Giuseppe Rossi e vecchie star come David Beckham e Fabio Cannavaro. Messina vede qualcosa di nuovo nei giovani americani di Champions: &laquo;&Egrave; la prima volta che mi succede - spiega - dai tempi di Donovan e Dampsey. Amavo quei giocatori ma nessuno era in grado di farmi dire wow questi domineranno in Europa, ora invece abbiamo una serie di giovani che mi fanno sentire l&rsquo;orgoglio, da ragazzo cresciuto in America&raquo;. &laquo;Ti fanno sperare - continua - talenti come Pulisic o Reyna, un ragazzo davvero emozionante da vedere. Per me lui pu&ograve; diventare un&rsquo;ispirazione per i giovani&raquo;. Ma il suo favorito &egrave; un altro, e non solo perch&eacute; Messina &egrave; tifoso della Juventus. &laquo;McKennie&raquo;, dice subito. &laquo;Deve ancora mostrare tutto il suo valore. Andrea Pirlo in lui ha visto un giocatore. Il mio terapista ha lavorato con Weston e mi ha detto che &egrave; davvero forte, &egrave; un carrarmato, molto disciplinato, determinato a crescere ogni giorno. Non credo che la Juventus abbia voluto fare solo un&rsquo;operazione di marketing, per aprirsi agli Stati Uniti. Weston ha energia, nella fase di riconquista palla e ripartenza, lui pu&ograve; dare il suo contributo&raquo;. Quando era piccolo, Messina non aveva molti amici che giocavano con lui a pallone: &laquo;Erano due, entrambi figli di immigrati. Tutti gli altri preferivano il baseball, il football, il basket. Adesso mi guardo attorno e vedo che tutti vogliono giocare a calcio, tutti lo fanno, il calcio &egrave; diventato cool e questo alla fine aiuter&agrave; a crescere ancora. E amo questa cosa, non solo da ameriocano, ma da persona che ha il sangue italiano&raquo;. 

McKennie, Pulisic, Reyna e gli altri giovani statunitensi che partecipano al pi&ugrave; importante torneo europeo hanno avviato l&rsquo;effetto emulazione e le academy si riempiono di ragazzi

10 Yankee targati Champions

Essere identificato come uno dei baby talenti del calcio olandese e chiamarsi Johan a inizio anni &rsquo;70 in Olanda pu&ograve; essere un&rsquo;arma a doppio taglio. Ma Johannes Jacobus Neeskens ha saputo beneficiare fin da subito del taglio appropriato. Biondo, occhi verdi, in possesso di notevoli doti atletiche, prima di approdare all&rsquo;Ajax inizia con il piccolo Racing Club Heemstede, squadra della cittadina a 30 chilometri da Amsterdam in cui nasce e cresce. L&rsquo;arrivo al De Meer non &egrave; semplice. Nella precedente esperienza si trovava ai confini del professionismo: allenamenti serali tre volte la settimana e livello onestamente basso. Alla corte del maestro Michels cambia tutto: non solo per il piccolo Johan, ma per Rinus stesso.&nbsp;  Come giocava Johan Neeskens  &nbsp;  Centrocampista puro, arrivato nella capitale olandese con l&rsquo;etichetta di mediano-incontrista, si trasformer&agrave; presto nel pi&ugrave; emblematico tuttocampista del &ldquo;Totaalvoetbal&rdquo;. Soprannominato &ldquo;Johan segundo&rdquo;, del Profeta del gol seguir&agrave; addirittura le orme, non solo per coprirgli costantemente le spalle&hellip; gioca dietro al 14, il ragazzo venuto da Heemstede. Ci si stabilir&agrave; per tanti anni, ma nel fascino della squadra di Michels, che sia biancorossa o arancione, risiede una costante: non &egrave; inusuale trovarlo davanti a Cruijff, anzi. &Egrave; cos&igrave; che funziona il &ldquo;Calcio totale&rdquo;: non esistono posizioni fisse, tutti possono stazionare, a seconda del momento della gara e dei movimenti della squadra, in un ruolo non assegnato sulla lavagna tattica. Neeskens &egrave; l&rsquo;emblema di questo concetto. Parte in mezzo al campo e rompe il gioco come pochi, le sue scivolate sono arte pura: nonostante non sia lunghissimo (175 cm), arpiona il pallone come una piovra. Poi? Smista e imbuca, certo, ma non &egrave; raro vederlo andare a concludere la manovra a centro area, magari con un volo d&rsquo;angelo: anche nelle conclusioni aeree &egrave; eccezionale. Fondamentalmente non ci sono aggettivi corretti per descrivere le caratteristiche di Johan Neeskens, certamente ne servirebbero troppi&hellip; forse il pi&ugrave; calzante &egrave; proprio quello pi&ugrave; utilizzato accanto alla parola calcio negli anni &rsquo;70: totale. Difensore, centrocampista e attaccante. Grintoso, cattivo e tecnico. In possesso di un tiro secco e deciso, capace di mettere in porta i compagni senza neanche guardarli: gli mancano solo i guanti&hellip;  Le vittorie all&rsquo;Ajax e al Barcellona  &nbsp;  Lui si &egrave; autodefinito &ldquo;un mediano che sa segnare&rdquo;: umile e limitativo. Veste la maglia dei &ldquo;Figli degli dei&rdquo; per quattro stagioni. Insieme al &ldquo;Pel&eacute; Bianco&rdquo; trascina la squadra di Rinus Michels prima e Stefan Kovacs poi alla conquista di tre Coppe dei Campioni consecutive, due Eredivisie, due Coppe d&rsquo;Olanda, una Coppa Intercontinentale e una Supercoppa Uefa. Oltre che prezioso in fase di recupero e costruzione, il suo apporto alla causa &egrave; strabiliante anche in zona gol: saranno 39 in 171 match giocati, un immensit&agrave; per un calciatore che teoricamente gioca mediano. Nel 1974 fa le valigie e raggiunge Cruijff a Barcellona &ndash; il Profeta del gol era approdato in Catalogna nel &rsquo;73 &ndash; &nbsp;per ricreare quell&rsquo;asse centrale che fa invidia a mezza Europa. Dal punto di vista dei successi in blaugrana non va come previsto: una squadra con due calciatori di tale caratura non pu&ograve; accontentarsi di vincere una Coppa del Re (una volta partito Cruijff, che aveva conquistato la Liga 1973-74, Neeskens mette in bacheca la Coppa delle Coppe 1979). Questo non cancella lo straordinario ricordo lasciato nel cuore dei tifosi del Bar&ccedil;a, che per trovare due fenomeni di eguale portata a centrocampo dovranno aspettare i tempi del Tiki-Taka di Guardiola, orchestrato alla perfezione in campo da Xavi e Iniesta.    Neeskens, protagonista assoluto anche nel Calcio totale dell&rsquo;Arancia Meccanica  &nbsp;  Nella memoria collettiva degli appassionati resta il primo minuto della finale di Coppa del Mondo 1974 tra Germania Ovest e Olanda. Guardando l&rsquo;azione che porta all&rsquo;immediato vantaggio olandese si pu&ograve; riassumere il Calcio totale di Rinus Michels. Johan Cruijff batte il calcio d&rsquo;inizio, la sfera viene passata all&rsquo;indietro e fatta sfilare per la retroguardia Oranje: Krol, Rijsbergen, Haan e Suurbier. Nel frattempo Cruijff, l&rsquo;attaccante, arretra diventando l&rsquo;ultimo uomo. Haan gli lascia il pallone e si sgancia. La sfera viene condotta in avanti per poi tornare tra i piedi del 14: dopo nemmeno un minuto tutti hanno gi&agrave; invertito le posizioni iniziali. Cruijff vede un varco e s&rsquo;infila come un coltello nel burro nella difesa tedesca per poi essere steso da Hoeness all&rsquo;ingresso in area: rigore. L&rsquo;arbitro Taylor ha appena fischiato e il 13 &ndash; lo specialista Neeskens &ndash; ha gi&agrave; il pallone tra le mani: bomba centrale e Maier battuto. Per Johan segundo (al quinto gol nel Mondiale) e compagni sembra il preludio verso un successo inevitabile. La storia dir&agrave; altro, esattamente come quattro anni pi&ugrave; tardi, quando sar&agrave; l&rsquo;Argentina padrona di casa (come la Germania nel &rsquo;74) ad alzare al cielo la coppa. Due dispiaceri enormi nella carriera di Neeskens, ma forse anche nella memoria di ogni appassionato che ha visto giocare quella squadra fantastica: ancora oggi ci si chiede come non possa aver vinto nulla. La carriera del fenomenale centrocampista olandese in Nazionale era iniziata nel 1970, all&rsquo;et&agrave; di 19 anni, mentre si chiuder&agrave; nel 1981 con un bottino da attaccante: 17 reti in 49 gare. Nel mezzo anche l&rsquo;inaspettata eliminazione nella semifinale di Euro &rsquo;76 per mano dei futuri campioni cecoslovacchi. Quel giorno, proprio un&rsquo;espulsione di Neeskens per un fallo di reazione spalanc&ograve; la strada al successo di Panenka e compagni.  &nbsp; 

Nato a Heemstede il 15 settembre 1951, ha vinto tutto con l&#39;Ajax e seguito Cruijff a Barcellona. &Egrave; stato imprescindibile per gli schemi di Rinus Michels

Johan Neeskens, il tuttocampista dell&#39;Olanda del &quot;Calcio totale&quot;

        &laquo;Lo sport serio non ha niente a che vedere con il fair play. &Egrave; semmai strettamente legato all&rsquo;astio, alla gelosia, alla vanagloria, alla noncuranza di qualsiasi regola e al sadico piacere di assistere a manifestazioni di violenza: in altre parole &egrave; come la guerra, ma senza l&rsquo;esecuzione&raquo;. Con queste parole George Orwell parlava, in chiave pessimistica, dello sport professionistico, paragonandolo alla guerra. A dirla tutta, non c&rsquo;&egrave; mai stato nulla di tanto distante. Sin dall&rsquo;alba dei tempi gli agoni e le competizioni sportive si sono sempre contraddistinte per la loro funzione pacifica. Nella Grecia classica ad esempio, ogni 4 anni si tenevano i Giochi di Olimpia, durante i quali tutte le guerre in corso venivano interrotte da una tregua. Verso la fine del diciannovesimo secolo Pierre de Coubertin, padre dello sport moderno, ha raccolto questo lascito e in nome di quello spirito ha creato le Olimpiadi moderne. C&rsquo;&egrave; stato un preciso momento storico nel corso dello scorso secolo in cui per&ograve;, le parole guerra e calcio sono state vicine come non mai. La delicata situazione del Centro America  Centro America, 1969. I rapporti tra El Salvador e Honduras non sono mai stati idilliaci, i due piccoli Stati confinanti si portano avanti scaramucce e antipatie irrisolte sin dai tempi dell&rsquo;indipendenza salvadoregna. Le dispute sono principalmente territoriali, El Salvador lamenta la sovranit&agrave; honduregna sul Golfo di Fonseca, area riparata dagli uragani&nbsp;che spesso devastano l'America centrale, da sempre un punto nevralgico per le rotte commerciali che, costeggiando il Pacifico, fanno la spola tra il Nord e il Sudamerica. Altro punto cardine dell&rsquo;astio tra le due nazioni &egrave; scaturito dall&rsquo;arrivo di circa 300.000 salvadoregni in Honduras nel 1967, dovuto ad un accordo commerciale tra i due paesi, poi rispediti a casa dal governo honduregno nell&rsquo;aprile del &rsquo;69, contravvenendo a tale accordo. Per un motivo o un altro, quel preciso pezzo di centro America &egrave; una vera e propria polveriera.&nbsp; Le qualificazioni mondiali, la situazione precipita  Ad inserirsi in questo clima e a far precipitare la situazione ci pensano le qualificazioni al Mondiale del 1970. Le nazionali di entrambi i paesi superano i propri gironi e si incontrano in semifinale in un doppio scontro. Il primo si gioca in Honduras dove la nazionale salvadoregna decide di giungere il pi&ugrave; tardi possibile per evitare problemi. Ma i problemi arrivano lo stesso. L&rsquo;albergo dove alloggiano i calciatori viene praticamente preso d&rsquo;assalto, centinaia di honduregni passano la notte a suonare clacson e a urlare per impedire ai calciatori di El Salvador di riposare. La mattina seguente la nazionale salvadoregna trova il pullman con le ruote squarciate. &Egrave; l&rsquo;8 giugno del 1969, la partita, giocata in un clima tesissimo, finisce 1-0 per i padroni di casa. I maltrattati ospiti per&ograve; giurano vendetta. Una settimana dopo si gioca il ritorno all&rsquo;Estadio de la Flor Blanca di El Salvador. Anche qui la notte prima del match si trasforma in un inferno per la squadra ospite. I salvadoregni ripagano pan per focaccia, devastano l&rsquo;albergo dove alloggia la nazionale dell&rsquo;Honduras, uccidono addirittura il giovane accompagnatore salvadoregno costringendo ad intervenire l&rsquo;esercito che scorter&agrave; i calciatori al campo dopo una notte completamente insonne. La partita non ha storia. Gli honduregni, stremati e concentrati esclusivamente sul riportare a casa la pelle, nemmeno la giocano, finisce 3-0 per El Salvador. In un calcio in cui non veniva contato il numero dei gol segnati ai fini della qualificazione, si rende necessario uno spareggio in campo neutro. La CONCACAF opta per lo Stadio Azteca di Citt&agrave; del Messico. Le squadre si affrontano cos&igrave; il 26 giugno. Lo stadio &egrave; preso d&rsquo;assalto da migliaia di tifosi di entrambe le squadre e nonostante le autorit&agrave; locali, al fine di evitare incidenti, dispongono ben 5.000 agenti di polizia a presidiare l&rsquo;evento, le due tifoserie riescono a venire a contatto gi&agrave; dentro lo stadio, specie dopo la fine della gara. A spuntarla sul campo &egrave; la nazionale salvadoregna, grazie ad un gol nel primo tempo supplementare dopo che nei 90 minuti si era giunti sul risultato di 2-2. Al fischio finale i tifosi honduregni esplodono di rabbia, cercando di venire a contatto coi rivali. Da l&igrave; in poi si scatena una vera e propria guerriglia urbana nei dintorni dell&rsquo;Azteca che dura per ore.&nbsp; L&rsquo;interruzione dei rapporti diplomatici e il conflitto  L&rsquo;Honduras vive la sconfitta come une vera e propria ingiustizia, nei giorni successivi al match si moltiplicano gli episodi di violenza nei confronti dei salvadoregni rimasti sul suolo honduregno. Tegucigalpa interrompe i rapporti diplomatici con El Salvador, la guerra &egrave; vicina. Il 14 luglio del 1969, El Salvador, conscio della netta superiorit&agrave; delle sue truppe di terra, attacca simultaneamente sia a nord che a sud. Il presidente Fidel Sanchez Hernandez giustificher&agrave; l&rsquo;attacco come &ldquo;un atto necessario per difendere la propria dignit&agrave; e la sovranit&agrave; nazionale&rdquo;. Dopo alcuni giorni di incontrastato dominio salvadoregno via terra, la superiore forza aerea dell&rsquo;Honduras riesce a far perdere il terreno conquistato da El Salvador nei primi giorni di conflitto. Il 18 luglio l&rsquo;OSA, l&rsquo;Organizzazione degli Stati Americani, impone il cessate il fuoco. La guerra, di fatto, termina con il ripristino dello status quo ante bellum. Il giornalista polacco Ryszard Kapuscinski, in Honduras durante il conflitto, dir&agrave;: &laquo;I due governi sono rimasti soddisfatti della guerra, perch&eacute; per qualche giorno Honduras e El Salvador hanno riempito le prime pagine dei giornali di tutto il mondo e suscitato l'interesse dell'opinione pubblica internazionale. I piccoli Stati del Terzo, del Quarto e di tutti gli altri mondi possono sperare di suscitare qualche interesse solo quando decidono di spargere sangue. Strano ma vero&raquo;.       

52 anni fa, dopo una partita di qualificazione per il Mondiale messicano, inizi&ograve; un conflitto tra Honduras ed El Salvador&nbsp;

Il 14 luglio del 1969 scoppiò la guerra del calcio

        Per 23 anni, fino al 2017, &egrave; stato la prima voce di &ldquo;Tutto il calcio minuto per minuto&rdquo;, la storica trasmissione di Radio Rai. Ha raccontato in diretta 19 scudetti, otto Olimpiadi, sei Mondiali di calcio, tra cui quello di Germania 2006. Riccardo Cucchi resta uno dei radiocronisti pi&ugrave; importanti del nostro Paese, al pari, ormai possiamo dirlo, di altri giganti come Ameri, Ciotti e Provenzali (suoi maestri) e Carosio. Come ha iniziato il lavoro di giornalista? &laquo;Ho cominciato come forse non avrei mai immaginato: &egrave; stato il coronamento di un sogno che avevo da bambino. Mio padre mi trasmise l&rsquo;amore per la radio e, ascoltandola, mi innamorai del calcio grazie alle parole di Ameri, Ciotti, Provenzali, addirittura di Carosio, che da ascoltatore ricordo ancora. Prima ancora di entrare in uno stadio, vedevo i colori delle squadre e dei campi da gioco grazie alle parole di questi straordinari maestri. Ho coltivato questo sogno giocando con un registratore a bobina con il quale&hellip; inventavo radiocronache. Poi, nel 1979, la Rai indisse un concorso al quale partecipai da laureato senza nutrire alcuna speranza. Invece superai la prova scritta e alla prova orale mi trovai davanti Sergio Zavoli, che mi disse: &ldquo;Che cosa vorresti fare se decidessimo di prenderti?&rdquo;. Io risposi con coraggio: &rdquo;Il mio sogno &egrave; quello di fare il radiocronista&rdquo;. A quel punto lui mi mise subito in difficolt&agrave; chiedendomi di fare una telecronaca inventata sul momento. Uno Juventus-Milan immaginario, inventato utilizzando calciatori reali: fu il passe-partout che apr&igrave; il mio ingresso in Rai&raquo;. Qual &egrave; l&rsquo;episodio della vita professionale che ricorda con maggior piacere? &laquo;Ce ne sono tanti. Cominciai a lavorare al fianco di quelli che per me erano dei miti inarrivabili: il ricordo pi&ugrave; bello di quel periodo fu quando la Rai, in uno degli step di formazione che dovetti seguire, mi fece affiancare in silenzio una radiocronaca. Ero vicino a Enrico Ameri a San Siro prendendo appunti, io che lo ascoltavo alla radio fino a poco tempo prima. In quel frangente l&rsquo;unica concessione che mi fu fatta era quella di prendere il conto dei calci d&rsquo;angolo, segnandoli su un foglietto e passando il dato ad Ameri che riferiva agli ascoltatori. Questo &egrave; uno dei ricordi che coltivo con maggiore gelosia perch&eacute; per me quell&rsquo;impatto fu veramente straordinario&raquo;. Al contrario, qualcosa che avrebbe preferito non vivere nella sua carriera? &laquo;Vedi, normalmente siamo chiamati a raccontare una partita di calcio. A volte, per&ograve;, succede di trovarsi di fronte a episodi che non avremmo mai voluto vivere. Ne cito due in particolare: l&rsquo;attentato nel &rsquo;96 alle Olimpiadi di Atlanta e la partita di Ivan (Italia-Serbia al Ferraris nel 2010, ndr). Nel primo caso mi trovavo l&igrave; per raccontare, appunto, le Olimpiadi e mentre ascoltavo un concerto dei Blues Brothers all&rsquo;interno del parco olimpico scoppi&ograve; una bomba. Dovetti passare da ascoltatore di un concerto a giornalista che raccontava ci&ograve; che era accaduto sotto i suoi occhi. Naturalmente fu un momento molto triste perch&eacute; l&rsquo;Olimpiade &egrave; una festa e come tale non pu&ograve; prevedere che qualcuno possa perdere la vita per un gesto infame come un atto terroristico. E poi ricordo quella partita che non si gioc&ograve; mai, quell&rsquo;Italia-Serbia a Genova che fu interrotta da un pazzo che abbiamo spesso confuso con un tifoso. Io e altri colleghi rimanemmo incollati al microfono per raccontare ci&ograve; che rese ancor pi&ugrave; evidente la fragilit&agrave; dello sport, la fragilit&agrave; del calcio, che purtroppo di fronte a questi episodi non riesce a mettere in campo tutte quelle energie, anche culturali, che dovrebbero superare le crisi politiche, il terrorismo, la violenza. Purtroppo il calcio &egrave; fragile e spesso viene in qualche modo colpito rimanendo vittima di queste spiacevoli situazioni&raquo;.&nbsp; Ameri, Ciotti e Provenzali sono stati i suoi maestri: vuole provare, in poche parole, a descrivere ciascuno di loro? &laquo;Innanzitutto penso che dobbiamo tutti dire grazie al nostro &ldquo;nonno&rdquo;, cio&egrave; colui che ha aperto la strada alle radiocronache sportive, quelle calcistiche in particolare: Nicol&ograve; Carosio. Ha inventato un gergo al quale tutti noi, Ameri e Ciotti in passato ma anche l&rsquo;ultima generazione di radiocronisti, facciamo ancora affidamento. Se noi diciamo, ad esempio, &ldquo;cerchio di centrocampo&rdquo;, se usiamo tutti i termini che in qualche modo disegnano la geografia del campo per chi ascolta e il campo non ce l&rsquo;ha davanti agli occhi, lo dobbiamo a Nicol&ograve; Carosio. Ameri e Ciotti sono stati per &ldquo;Tutto il calcio&rdquo; quello che per il ciclismo sono stati Coppi e Bartali. Il loro dualismo, la loro rivalit&agrave;, lo &ldquo;scusa Ameri, grazie Ciotti&rdquo; sono stati il simbolo di questa trasmissione. Completamente diversi. Trascinatore, grande narratore Enrico Ameri: un eloquio fluido, una voce straordinariamente bella, elegante, calda e la capacit&agrave; di trasferire tutti noi nello stadio. Dall&rsquo;altra parte Sandro Ciotti &egrave; stato in grado di trasformare un difetto per chi fa radio, una voce non perfetta, nella cifra stilistica del suo modo di raccontare il calcio: non aveva gli stessi ritmi di Ameri, lo sapeva, non poteva competere sulla velocit&agrave; del racconto. Ma &egrave; riuscito a &ldquo;gareggiare&rdquo; alla pari facendo ricorso alla sua straordinaria competenza tecnica: &egrave; stato uno dei pi&ugrave; grandi intenditori di calcio, anche perch&eacute;, tra l&rsquo;altro, lui da giovane giocava. Un uomo di grande cultura, con un bagaglio lessicale straordinario e un&rsquo;ironia che lo ha sempre contraddistinto. &Egrave; stato da questo punto di vista un riferimento inimitabile. Se Carosio e Ameri ci hanno regalato delle cose che abbiamo potuto utilizzare, credo che sarebbe impossibile per chiunque pensare di poter dire &ldquo;ventilazione inapprezzabile, fallo proditorio, spalti gremiti al limite della capienza&rdquo;: sono frasi che appartengono a Ciotti, nessuno di noi si pu&ograve; pi&ugrave; permettere di ripeterle&raquo;. Al termine della sua ultima telecronaca, in qualche modo, ha fatto outing, dichiarando di essere un tifoso della Lazio. Voleva essere una dichiarazione d&rsquo;amore nei confronti della squadra di cui &egrave; appassionato oppure una confessione da legare comunque alla sua professionalit&agrave;? &laquo;Faccio una premessa: diffidate di quei colleghi che fanno questo mestiere e dicono di non essere tifosi. Non si pu&ograve; cominciare ad amare il calcio se prima non si &egrave; tifosi. S&igrave;, dichiarai la mia fede laziale perch&eacute; per quarant&rsquo;anni mi sono sentito domandare: lei per chi tifa? E io rispondevo inesorabilmente: se c&rsquo;&egrave; una squadra per la quale parteggio lo saprete quando avr&ograve; smesso di lavorare. L&rsquo;ho fatto alla fine perch&eacute; sono convinto che ognuno di noi, specialmente chi lavora nel servizio pubblico, ha un obbligo fondamentale, etico, morale, deontologico: rispettare la passione di tutti, essere terzo rispetto all&rsquo;evento che racconta. Lo sforzo poteva essere vanificato se avessi dichiarato in anticipo la mia fede calcistica. Sarebbe bastato un aggettivo o una valutazione non condivisa per poter far dire: ecco, lo ha detto perch&eacute; &egrave; tifoso di quella squadra. &Egrave; molto importante avere, soprattutto alla radio, la fiducia dell&rsquo;ascoltatore. Noi siamo i suoi occhi, lui non vede, deve potersi fidare delle nostre parole e deve potersi fidare, evidentemente, della nostra lealt&agrave;. Non dichiarare la propria fede calcistica aiuta chi ascolta a fidarsi di noi&raquo;. Quanto c&rsquo;&egrave; di storico e quanto di passionale in &ldquo;Tutto il calcio minuto per minuto&rdquo;? &laquo;Di storico, e non ne erano consapevoli tutti gli ideatori della trasmissione, c&rsquo;&egrave; che &ldquo;Tutto il calcio&rdquo; &egrave; la prima &ldquo;all news&rdquo; della storia dell&rsquo;informazione, il primo prodotto che racconta un evento mentre si sviluppa, aprendo finestre su tanti campi collegati e nel quale la breaking news &egrave; il gol che viene raccontato dal radiocronista che irrompe con il clamore del pubblico. La radio che inventa se stessa: da questo punto di vista il valore storico di &ldquo;Tutto il calcio&rdquo; &egrave; straordinario. E poi passione, perch&eacute; chiunque abbia sentito una sola volta la trasmissione sa perfettamente che l&rsquo;assenza di immagini coinvolge in un meccanismo straordinario chi racconta e chi ascolta: passione di chi ascolta che attende il vantaggio della propria squadra; passione di chi racconta perch&eacute; non ci sono immagini e l&rsquo;emozione pu&ograve; essere trasmessa a chi ascolta soltanto se chi racconta &egrave; realmente emozionato. Senza passione un radiocronista sarebbe freddo. Se in televisione si pu&ograve; concedere a un telecronista di essere asettico, &egrave; impossibile concedere assenza di passione a chi fa radio, proprio perch&eacute; la radio non ha immagini, quindi c&rsquo;&egrave; bisogno di emozionarsi. Quello che pu&ograve; essere un difetto secondo alcuni, secondo me rimane il grande privilegio della radio, perch&eacute; chi ascolta, attraverso la propria fantasia, si crea le immagini. Da ragazzo, quando ascoltavo &ldquo;Tutto il calcio&rdquo;, mi immaginavo i gol e le azioni raccontate e poi, quando guardavo &ldquo;90&deg; minuto&rdquo;, la mia curiosit&agrave; era quella di vedere il gol che avevo sentito raccontare per confrontare la mia immaginazione con la realt&agrave;. E, molto spesso, devo dire che il confronto era straordinario&raquo;.       

Lo storico radiocronista ripercorre la sua carriera: gli appunti per Enrico Ameri, il dualismo di quest&rsquo;ultimo con Sandro Ciotti, gli insegnamenti dei suoi maestri e un unico filo conduttore, la passione

Riccardo Cucchi: «Ascoltavo “Tutto il calcio minuto per minuto” e immaginavo i gol. E poi…»

Una trasmissione radiofonica divenuta nel corso degli anni un appuntamento imperdibile la domenica pomeriggio, se non addirittura un vero e proprio punto di riferimento. Tra i programmi che ogni giorno ci regala Radio Rai, non c&#39;&egrave; dubbio che quello pi&ugrave; amato ed apprezzato dagli appassionati di calcio sia &ldquo;Tutto il Calcio minuto per minuto&rdquo;, che proprio oggi compie 60 anni. Un compleanno che verr&agrave; festeggiato questa sera a partire dalle 21:05 fino alle 23:30 (diretta ovviamente su Radio 1 Rai) con un appuntamento speciale negli studi di Via Asiago 10 a Roma dal titolo &quot;Buon Compleanno Tutto il Calcio. Una storia lunga 60 anni&quot; presentato dall&#39;attuale conduttore di &ldquo;Tutto Il Calcio&rdquo;, Filippo Corsini, assieme a Savino Zaba e alla Presidente del Comitato Direttivo della Divisione Calcio Femminile della Figc, Ludovica Mantovani, in cui verr&agrave; ripercorsa la storia del programma attraverso le voci dei conduttori e dei radiocronisti pi&ugrave; celebri, oltre ovviamente ad interventi dei protagonisti, degli addetti ai lavori, di calciatori, allenatori, e dirigenti del calcio italiano in un ideale mix di calcio e musica.  Una storia, quella di &ldquo;Tutto Il Calcio&rdquo; che prende il via nella stagione 1959/1960, quando l&#39;allora capo della Redazione Sportiva Rai Guglielmo Moretti ascoltando la trasmissione radiofonica sportiva francese &quot;Sports et Musique&quot; in cui alcuni inviati collegandosi dai campi raccontavano le partite del campionato di Rugby, decide di portare il format in Italia adattandolo al calcio (in vista anche di un possibile utilizzo per le Olimpiadi di Roma del 1960) grazie al preziosissimo supporto di Sergio Zavoli e di Roberto Bortoluzzi.  Dopo le trasmissioni sperimentali iniziate nell&#39;autunno 1959, il 10 Gennaio 1960 viene trasmessa sul Programma Nazionale (solamente dal 1975 verr&agrave; assunta l&#39;attuale denominazione di Radio 1) dalla sede Rai di Milano di Corso Sempione la prima puntata ufficiale di &ldquo;Tutto il Calcio minuto per minuto&rdquo; affidata alla conduzione del gi&agrave; citato Bortoluzzi, e con gli inviati sui campi di gioco pronti a darsi la linea per aggiornare i radioascoltatori sui secondi tempi delle partite del campionato di Serie A (solamente a partire dalla stagione 1987/88 sar&agrave; infatti possibile trasmettere anche la radiocronaca dei primi tempi). Come ricordato nel 2010 dall&#39;allora caporedattore dello sport di Radio Rai (e voce storica di Tutto Il Calcio) Riccardo Cucchi nella puntata celebrativa dei 50 anni realizzata all&#39;interno del programma radiofonico Zona Cesarini, tre sono i campi collegati in quella prima storica puntata: Milano per Milan-Juventus con Nicol&ograve; Carosio, Bologna per Bologna-Napoli con Enrico Ameri, e Alessandria per Alessandria-Padova con Andrea Boscione. Dai campi non collegati le variazioni di punteggio vengono comunicate da Bortoluzzi dallo studio centrale, mentre la prima interruzione da parte di un radiocronista per segnalare un goal in diretta sar&agrave; di Enrico Ameri per segnalare una delle due reti di Enrico Manfredini con cui la Roma batter&agrave; in trasferta l&#39;Inter a San Siro il 10 Aprile 1960 (3-1 il punteggio finale). Da quel momento in poi ciascun radiocronista collegato (in caso di rete segnata sul proprio campo) potr&agrave; intervenire in diretta per segnalare la variazione di punteggio. Fin da subito la trasmissione riscuote un grandissimo successo tra gli appassionati di calcio al punto che in breve tempo la radio diventa la compagna ideale con cui poter seguire le partite nel caso in cui non fosse stato possibile andare allo stadio.  Se come sopra scritto solamente dalla stagione 1987/88 Tutto il Calcio avrebbe potuto raccontare non solo i secondi tempi delle partite, ma anche i primi tempi, per anni la celebre trasmissione radiofonica venne sospesa in occasione delle ultime giornate di campionato per paura che potesse in qualche modo condizionare l&#39;esito finale del torneo sia per quanto riguarda la lotta per lo scudetto, sia per quanto riguarda la lotta per non retrocedere. Peraltro legata a questa decisione &egrave; anche una vecchissima leggenda metropolitana che vede come protagonista l&#39;indimenticabile radiocronista romano Sandro Ciotti, reo di aver pronunciato durante la radiocronaca di Catania-Inter il 4 Giugno 1961 in occasione del 2-0 della formazione etnea la celebre esclamazione &ldquo;Clamoroso al Cibali&rdquo;! Peccato per&ograve; che si tratti di un vero e proprio falso storico: non solamente Ciotti non pronunci&ograve; mai quella esclamazione, ma sopratutto il 4 Giugno 1961 non vi fu alcuna puntata di Tutto il Calcio (e di conseguenza alcuna radiocronaca di Catania-Inter) per gli ovvi motivi sopra spiegati. Solamente a partire dal 1970 a Tutto Il Calcio verr&agrave; consentito di seguire anche le ultime giornate di campionato, permettendo cos&igrave; agli appassionati di poter seguire per radio anche le ultime decisive sfide valide per lo scudetto o per la zona retrocessione. Questa, ad esempio la puntata di &ldquo;Tutto Il Calcio&rdquo; del 6 Maggio 1979, penultima giornata del campionato di Serie A 1978/79, in cui possiamo ascoltare sia un breve cenno dei principali fatti avvenuti nel corso del primo tempo, che le radiocronache dei secondi tempi dai campi collegati che vedranno il Milan laurearsi con una giornata di anticipo per la 10&deg; volta Campione d&#39;Italia..  Quattro i conduttori principali che si sono alternati nello studio centrale (situato fino alla stagione 1999/2000 negli studi Rai di Corso Sempione a Milano, e poi dalla stagione 2000/2001 a Roma nel Centro Rai di Saxa Rubra): Roberto Bortoluzzi (1960-1987), Massimo De Luca (1987-1992), Alfredo Provenzali (1992-2012) e Filippo Corsini (2012-oggi).  Una delle pagine pi&ugrave; emozionanti nella storia di Tutto Il Calcio Minuto per Minuto &egrave; stata sicuramente quella datata 13 Gennaio 2003: all&#39;inizio della puntata al fianco di Alfredo Provenzali troviamo proprio il primo storico conduttore Roberto Bortoluzzi, in quello che &egrave; stato il suo ultimo saluto ai fedeli ascoltatori della trasmissione calcistica.  Tantissimi i radiocronisti che con la loro voce hanno saputo regalare delle vere e proprie emozioni agli appassionati di calcio: ricordiamo in particolare Nicol&ograve; Carosio, Enrico Ameri, Sandro Ciotti, Andrea Boscione, Adone Caparezzi, Claudio Ferretti, Beppe Viola, Nico Sapio, Enzo Foglianese, Ezio Luzzi, Italo Moretti (scomparso nelle scorse ore). Soffermandoci ai primi anni 2000, non possiamo non ricordare Riccardo Cucchi (entrato a Tutto Il Calcio nel 1982, e divenuto dal 1995 prima voce prima di andare in pensione al termine della partita Inter-Empoli il 12 Febbraio 2017), Bruno Gentili, Livio Forma, Emanuele Dotto, Tonino Raffa, Carlo Verna (attualmente Presidente dell&#39;Ordine Dei Giornalisti), Enzo Delvecchio, Antonello Orlando, Giulio Delfino,Federico Calcagno, Tarcisio Mazzeo, Ugo Russo. Sul finire degli anni 80 poi &ldquo;Tutto Il Calcio&rdquo; ha cominciato ad occuparsi anche di discipline extra-calcistiche: &egrave; il caso ad esempio della Formula 1 e della MotoGp di cui vengono forniti dei brevi aggiornamenti al termine del giro di collegamenti dai vari campi di calcio.  Un&#39;altra emozionante pagina nella storia di Tutto Il Calcio &egrave; stata sicuramente quella datata 10 Gennaio 2010: in occasione dei 50 anni della trasmissione al fianco dei consueti radiocronisti vengono richiamate in forza alcune storiche voci della trasmissione tra cui quella di Nicoletta Grifoni (la prima voce femminile a debuttare a Tutto Il Calcio nel 1988; dopo di lei nel corso degli anni sarebbero seguite Gabriella Fortuna, Sara Meini).  Una puntata, quella dei 50 anni di Tutto Il Calcio, che Alfredo Provenzali chiude ricordando la coincidenza di Juventus-Milan, e al contempo l&#39;inventore della trasmissione, Guglielmo Moretti.  Attualmente la squadra radiocronache di Tutto Il Calcio &egrave; costituita dal veterano Francesco Repice, da Giovanni Scaramozzino, Manuel Codignoni (oltre al calcio ha ereditato lo spazio relativo alla Formula 1, curato fino al Gp d&#39;Australia 2019 da Giulio Delfino), Daniele Fortuna,Giuseppe Bisantis, Diego Carmignani, Massimo Barchesi e Cristiano Piccinelli.  Diverse le sigle che hanno caratterizzato Tutto Il Calcio: se inizialmente l&#39;apertura veniva lasciata allo spot di una ditta di liquori (Stock 84), dall&#39;Ottobre 1976 al 1983 ad aprire la trasmissione &egrave; la canzone Caravan nell&#39;esibizione di Eumir Deodato. Se nel 1988, in piena gestione De Luca Tutto il Calcio veniva aperto da un motivo appositamente composto da Mauro Lusini, non c&#39;&egrave; il minimo dubbio che la sigla pi&ugrave; celebre &egrave; rappresentata dalla canzone &ldquo;A Taste Of Honey&quot; di&nbsp;Herp Albert&nbsp;&amp; The Tijuana Brass, utilizzata per Tutto Il Calcio dall&#39;11 Settembre 1983 al 19 Giugno 1988, e dal 1992 ad oggi.  Tantissime le emozioni che Tutto Il Calcio ci ha raccontato in tutti questi anni in cui giocoforza anche il format della trasmissione per via delle modifiche al calendario della Serie A (con partite in programma non pi&ugrave; la sola domenica pomeriggio come agli esordi, ma anche il sabato pomeriggio alle 15 e alle 18, il sabato sera alle 20:45, la domenica mattina alle 12:30, la domenica sera alle 20:45, e in alcuni casi anche il monday night sempre alle 20:45) ha dovuto subire delle modifiche, aprendo alle partite di Serie B e agli aggiornamenti da studio delle partite dei principali campionati esteri, ma mantenendo inalterata quella magia che ogni domenica accompagna tutti gli italiani. Una magia lunga 60 anni. 

Il 10 Gennaio 1960 nasce la celebre trasmissione di Radio Rai, divenuta nel corso degli anni un vero e proprio punto di riferimento per gli appassionati di calcio.

I 60 anni di Tutto il Calcio minuto per minuto

Dalla paura di restare senza lavoro alla certezza di essere diventato l&#39;eroe di Istanbul per aver parato il rigore decisivo. Il calcio non &egrave; nuovo nel regalare emozioni, e cos&igrave; fa testo la finale di Supercoppa Europea, disputata mercoled&igrave; 14 Agosto nella capitale turca, e che ha visto al termine di una sfida piuttosto equilibrata tra Liverpool e Chelsea i Reds guidati da Jurgen Klopp alzare la coppa messa in palio tra i vincitori della Champions League e quella di Europa League dopo aver battuto per 7-6 ai calci di rigore (1-1 dopo i tempi regolamentari; 2-2 alla fine dei supplementari) i Blues di Frank Lampard. Una vittoria decisa dal 32enne portiere spagnolo Adrian che riesce a parare il quinto e ultimo rigore calciato dall&#39;attaccante del Chelsea Abraham. Un rigore che, volendo esser fiscali, doveva essere ribattuto da parte del 22enne attaccante di origini nigeriane in quanto al momento di battere il penalty il portiere dei Reds aveva i piedi fuori dalla linea di porta (cosa che le nuove regole stabilite lo scorso maggio dall&#39;International Board e dalla Fifa non consentono), ma che non scalfisce in nessuna maniera il contributo determinante di Adrian nella vittoria del Liverpool in Supercoppa.  Una storia nella storia, quella del 32enne portiere originario di Siviglia se teniamo conto che dopo sei stagioni disputate nel West Ham Adrian dopo aver perso il posto di titolare la scorsa stagione per via dell&#39;ingaggio di Fabianski aveva lasciato gli Hammers alla scadenza del contratto senza una squadra. Solamente lo scorso 5 Agosto &egrave; arrivata la proposta del Liverpool come vice Alisson che Adrian accetta subito, senza pensare che neanche cinque giorni dopo in seguito all&#39;infortunio patito dal brasiliano nella gara inaugurale della Premier vinta in casa dai Reds contro il Norwich, sar&agrave; proprio lui a prendere il comando della difesa, confermato non solo ieri in Supercoppa ma anche per le prossime giornate di campionato in vista del rientro di Alisson.  Se da una parte Adrian verr&agrave; ricordato nella storia del Liverpool come l&#39;eroe della Supercoppa vinta a Istanbul (in quella stessa citt&agrave; che vide il 25 Maggio 2005 presso lo stadio Olimpico Atat&uuml;rk i Reds allora guidati da Rafael Benitez prima rimontare tra primo e secondo tempo uno svantaggio di tre reti, e poi battere ai rigori il Milan di Carlo Ancelotti nella finale di Champions League), dall&#39;altra bisogna anche dire che il Liverpool visto in campo mercoled&igrave; sera solo in alcuni frangenti ha mostrato quel gioco tipico della formazione di Klopp alla base ad esempio della decisiva rimonta ai danni del Barcellona nella semifinale di ritorno di Champions League giocata in casa lo scorso 7 Maggio all&#39;Old Trafford. Se in parte pu&ograve; aver sicuramente inciso il caldo, dall&#39;altra anche la scelta di Klopp di inserire nella formazione titolare Oxlade-Chamberlain al posto di Firmino ha avuto le sue conseguenze sopratutto nei primi 45 minuti, con l&#39;inglese apparso piuttosto in difficolt&agrave;. Con l&#39;ingresso in campo ad inizio della ripresa del brasiliano al posto di Oxlade-Chamberlain, i Reds hanno sicuramente ritrovato un punto di riferimento in avanti con Man&egrave; (autore sia del pareggio che del momentaneo vantaggio del Liverpool) e Salah tornati ad essere incisivi, ma solo in alcuni frangenti.  Merito anche dell&#39;interessante disposizione tattica del Chelsea che ha dimostrato una volta di pi&ugrave; sotto la gestione Lampard di essere una squadra che fa gioco, e che nella finale di Supercoppa di mercoled&igrave; sera ha trovato in Kant&egrave; e in Giroud (partiti titolari al contrario dell&#39;esordio in Premier contro il Manchester United di Solskjaer) degli autentici punti di riferimento. Una squadra, il Chelsea, che alla vigilia della partita veniva data abbondantemente sfavorita dai pronostici, e che alla fine invece se l&#39;&egrave; giocata a viso aperto contro i vincitori della Champions riuscendo a mantenere la calma anche dopo essere passata in svantaggio grazie alla doppietta di Man&egrave;, e trovando il pareggio su un calcio di rigore piuttosto discusso (per un presunto contatto tra il portiere dei Reds Adrian e il giovane attaccante dei Blues Abraham, entrato al 74&deg; al posto di Giroud), che Jorginho non sbaglia, portando i suoi ai rigori. Tra i protagonisti della partita in casa Chelsea, da sottolineare la consueta generosa prova di Emerson Palmieri (tra i migliori nella disfatta di Manchester di domenica scorsa), che, seppur con un fastidio agli adduttori nella parte finale di gara non esita a battere uno dei rigori segnandolo, cos&igrave; come merita di essere segnalata la gara del giovane Mason Mount (subentrato al 74&deg; al posto di Pulisic, autore di un bellissimo goal, annullato dal guardalinee per fuorigioco), che gi&agrave; domenica scorsa all&#39;Old Trafford aveva ben impressionato e che in Supercoppa riesce anche a trovare la via del goal, annullato anche in questo caso per fuorigioco. L&#39;unico aspetto su cui Frank Lampard dovr&agrave; lavorare non poco in vista delle prossime gare &egrave; sicuramente la difesa, che anche mercoled&igrave; sera &egrave; sembrata ballare non poco. Essendo il Chelsea bloccato sul mercato fino al Giugno 2020 per via di alcune violazioni punite dalla FIFA relative al trasferimento di 29 giocatori minori di 18 anni, ai Blues non resta che aspettare il ritorno in difesa di Antonio R&uuml;diger per ritrovare una ulteriore solidit&agrave; difensiva.  La finale di Supercoppa Europea, infine, ci regala l&#39;ottima prova della terna femminile guidata dall&#39;arbitro francese Virginie Frappart e delle sue assistenti (l&#39;italiana Manuela Nicolosi che da quindici anni vive in Francia, e l&#39;irlandese Michelle O&#39;Neill). Se la Frappart ha adottato uno stile di arbitraggio tipicamente inglese fischiando solamente quando era necessario e con la massima autorit&agrave; guadagnandosi il massimo rispetto da parte dei giocatori in campo, altrettanto valida &egrave; stata la prestazione delle due guardalinee, abili a rilevare con la massima precisione dei fuorigioco che presumibilmente sarebbero sfuggiti a tanti colleghi maschi. Uno su tutti il fuorigioco sul goal di Pulisic, difficile da trovare inizialmente, ma che le immagini televisive hanno confermato implacabilmente. L&#39;augurio veramente sincero &egrave; quello di poter rivedere questa stessa terna arbitrale femminile in qualche gara di Champions e/o Europa League: sarebbe il miglior messaggio possibile da parte dell&#39;Uefa che quella di mercoled&igrave; sera non &egrave; stata solo una passerella promozionale, ma l&#39;inizio di una nuova era nel mondo del calcio in cui per dirigere una partita ad alto livello non &egrave; importante il genere maschile o femminile quanto la reale bravura in campo. 

Il 32enne portiere spagnolo senza lavoro fino a pochi giorni fa &egrave; stato decisivo nella conquista della Supercoppa Europea da parte del Liverpool al termine di una partita che ha visto il Chelsea in crescita rispetto all&#39;esordio in campionato. Promossa l&#39;arbitro francese Stephanie Frappart.

La rivincita di Adrian e la vittoria del Liverpool in Supercoppa Europea

Un anticipo della Bundesliga che verr&agrave;. Bayern Monaco e Borussia Dortmund si sono dati battaglia questo fine settimana nella finale della Supercoppa di Germania (la DFL-Supercup) che ha visto i gialloneri di Lucien Favre mettere fine al tris di successi consecutivi della formazione bavarese guidata da Niko Kovac battendola per 2-0. Un successo (il primo di Favre sulla panchina tedesca) che non solo consente al Borussia di conquistare la sua sesta Supercoppa di Germania avvicinandosi cos&igrave; al Bayern (vincitore di ben 7 Supercoppe), ma che ribadisce una volta di pi&ugrave; come in questo momento la stessa formazione giallonera abbia una posizione di vantaggio rispetto agli storici rivali bavaresi grazie al contributo fondamentale del suo gioiellino, il 19enne talento inglese Jadon Sancho.  Dopo un primo tempo affrontato quasi sottotono &egrave; nella ripresa che il giovane attaccante inglese di origini trinidadiane si sveglia recuperando nei primi minuti di gioco una palla persa a centrocampo da Thiago Alcantara (autore di una partita da dimenticare), andando cos&igrave; a fornire ad Alcacer l&#39;assist per il vantaggio del Dortmund, su cui il portiere del Bayern e della nazionale tedesca Manuel Neuer non pu&ograve; fare nulla. Sancho sar&agrave; fondamentale anche nell&#39;azione del definitivo 2-0, in quanto nel momento migliore del Bayern (che poco prima su incursione di Kimmisch in area di rigore aveva sfiorato il pari, sventato solamente dall&#39;intervento del portiere del Dortmund, Hitz) riuscir&agrave; a ripartire dalla propria area di rigore e in contropiede a fulminare in area Neuer, facendogli passare il pallone addirittura sotto le gambe.  Una partita, quella di Supercoppa, che, quindi conferma una volta di pi&ugrave; le doti tecniche di Sancho, abile nei dribbling e nelle ripartenze in contropiede e che, dopo essersi fatto notare tra il 2016 e il 2017 a livello di nazionale giovanile segnando 7 goal in 11 partite nella Nazionale inglese Under 16, e portando l&#39;Under 17 a conquistare sia il secondo posto nell&#39;Europeo di categoria segnando cinque reti, sia il Mondiale (sebbene il contributo sia stato limitato alla fase a gironi), solamente lo scorso anno grazie all&#39;avvento di Favre sulla panchina del Dortmund &egrave; riuscito finalmente a mostrare in campionato tutto il suo potenziale segnando 12 goal nelle 31 partite giocate, con l&#39;obiettivo quest&#39;anno di fare ancora meglio. Un giocatore, Sancho, ingaggiato dal Dortmund nell&#39;estate 2017 dalle giovanili del Manchester City per farne l&#39;erede di Dembel&egrave;, passato poco prima al Barcellona, e in cui sia il club giallonero, sia sopratutto i tifosi credono molto, e il cui talento &egrave; stato riconosciuto anche oltremanica dal Guardian, al punto da inserirlo nel 2017 tra i 60 migliori calciatori nati nel 2000.  Non si pensi per&ograve; che dietro la vittoria del Borussia ci sia solamente la firma di Sancho, in quanto l&#39;altra grande causa che ha portato alla disfatta del Bayern Monaco in Supercoppa di Germania &egrave; rappresentata in ottica di calciomercato dal mancato rafforzamento della rosa della formazione bavarese rispetto alla passata stagione. Se neanche pochi mesi fa gli uomini di Kovac erano riusciti a vincere Bundesliga (con un punto di vantaggio sul Dortmund dopo averlo battuto 5-0 nel confronto diretto avvenuto lo scorso aprile) e Coppa di Germania (contro il Lipsia), allo stato attuale la formazione bavarese sembra quasi l&#39;ombra di se stessa, con una difesa che anche contro il Borussia ha ballato fin troppo (con Thiago Alcantara come detto assai deludente, e con il trio Kimmich-Boateng e Sule incapace di prendere le misure agli avversari) concedendo troppe occasioni da rete. Se a questo aggiungiamo anche gli addii di Hummels (passato proprio al Dortmund ed infortunatosi in fase di allenamento), Robben (ritiratosi a fine stagione), Ribery (in procinto di andare a giocare o in Cina o in Arabia) e James Rodriguez (passato al Real Madrid) si capace come, nonostante l&#39;ingaggio dei giovani difensori francesi Hernandez e Pavard, campioni del mondo lo scorso anno nella Francia guidata da Didier Deschamps e tenuti in panchina sabato da Kovac, ci sia ancora molto da fare in ottica mercato, sopratutto in fase offensiva. In Supercoppa Coman e Lewandowski hanno fatto quello che hanno potuto, ma come ammesso anche dal polacco (apparso in ritardo di preparazione) quello che pi&ugrave; di tutto manca al Bayern non sono i giovani, destinati con il tempo a mostrare il proprio potenziale, quanto i giocatori capaci di dare da subito il proprio contributo.  Non &egrave; un caso che nei giorni scorsi veniva dato per certo l&#39;interessamento del Bayern per l&#39;attaccante del Manchester City Leroy San&egrave;, che secondo i media tedeschi sarebbe dovuto approdare a Monaco di Baviera nei primi giorni di questa settimana. Non c&#39;&egrave; dubbio, per&ograve;, che l&#39;infortunio al ginocchio destro occorso ieri pomeriggio al giocatore tedesco di origini senegalesi (per il quale il Bayern era pronto a sborsare una cifra pari a 200 milioni di euro, e pi&ugrave; precisamente 100 milioni per il City, pi&ugrave; un quinquennale da 20 milioni lordi a stagione per il giocatore) nella finale di Community Shield rischia (in attesa di ulteriori esami medici) di far saltare l&#39;obiettivo principale della formazione bavarese per questa sessione di calciomercato,  Una cosa, comunque &egrave; certa: San&egrave; o non San&egrave; il Bayern Monaco ha il disperato bisogno di trovare un rinforzo in avanti possibilmente prima dell&#39;inizio della Bundesliga, che scatter&agrave; Venerd&igrave; 16 Agosto con l&#39;anticipo serale che vedr&agrave; in campo proprio i bavaresi contro l&#39;Hertha Berlino, in modo da non veder pregiudicata la propria leadership in campionato a favore degli storici rivali del Dortmund. Prima che sia troppo tardi. 

Il 19enne attaccante inglese asfalta un Bayern indebolito rispetto alla passata stagione, regalando a Lucien Favre il primo trofeo sulla panchina del Borussia Dortmund.

Il talento di Sancho e la sconfitta del Bayern in Supercoppa di Germania

        Il ritorno della SPAL in Serie A ha riproposto al grande pubblico la partita con la Juventus, match contraddittorio per l&rsquo;elevato dislivello tecnico esistente tra le due squadre. Che, a pensarci bene, sono distanti non solo nella classifica del campionato ma anche per le rappresentazioni socio-culturali che simboleggiano. La SPAL, Societ&agrave; Polisportiva Ars et Labor, fu fondata dal sacerdote salesiano Pietro Acerbis; la Juventus &egrave;, da sempre, la squadra della Fiat e degli Agnelli, la famiglia pi&ugrave; potente d&rsquo;Italia. Il gioviale sorriso dei ferraresi abbonda di scherzi e malizie inappropriate a dipingere quello pi&ugrave; contenuto, semplicemente cortese dei torinesi. C&rsquo;&egrave; un uomo, per&ograve;, che ha saputo vestire, in momenti diversi della sua carriera, con la stessa dignit&agrave; e lo stesso portamento le divise di entrambe le societ&agrave;: Fabio Capello. Forse perch&eacute; uomo nato e cresciuto in un paese di confine, Pieris, capace di portare a sintesi realt&agrave; distanti tra loro a met&agrave; strada tra la montagna e il mare, la solida cultura contadina del Friuli e la propensione all&rsquo;apertura commerciale di una citt&agrave; di mare come Trieste. Il giovane Fabio mosse i suoi primi passi da calciatore a Ferrara, dove si spost&ograve; ancora in et&agrave; scolare. Abitava con un altro futuro allenatore, anche lui goriziano: Edy Reja. Si formarono insieme in quella citt&agrave; dove le ragazze che studiavano alle magistrali li vedevano affacciati alla finestra di quell&rsquo;appartamento sopra la sede della SPAL, con qualche timido sorriso e delle frasi sommesse che arrangiavano un appuntamento per fare una passeggiata e conoscersi. Ma il calcio, anche se a Ferrara Capello trover&agrave; moglie, restava il suo pensiero dominante, primo motore di azioni e opere che, dopo i primi due anni di apprendistato, lo portarono a prendersi le chiavi del centrocampo della squadra. Fabio &egrave; sempre stato un centrocampista: mai dieci metri pi&ugrave; indietro, nessuna velleit&agrave; di avanzare il raggio d&rsquo;azione a ridosso della porta avversaria se non per qualche inserimento nei momenti opportuni per risultare decisivo. Probabilmente la sua terra d&rsquo;origine gli ha dato la capacit&agrave; di avere equilibrio, di capire sempre il momento e il posto giusto dove andare. E nel 1967 quel posto &egrave; Roma, citt&agrave; nella quale Capello, amante d&rsquo;arte e della pittura, si lascia incantare dalle luci e dalla storia, tanto da chiedere al presidente Marchini, nell&rsquo;estate del 1969, di non essere ceduto alla Juventus, che gi&agrave; lo cerca e lo avr&agrave; comunque un anno pi&ugrave; tardi. E&rsquo; a Torino che don Fabio, come lo chiameranno qualche lustro pi&ugrave; avanti i madrileni, si perfeziona professionalmente. Gioca con campioni assoluti, sviluppa e leviga doti di leadership e un gioco essenziale, pragmatico, comunque elegante nella sobriet&agrave; di uno stile che ben si combina all&rsquo;austerit&agrave; sabauda. Coltiva l&rsquo;amicizia con un altro friulano come Dino Zoff, esordisce in nazionale ed entra nella storia per segnare il gol della vittoria che il 14 novembre 1973 consente per la prima volta all&rsquo;Italia di espugnare Londra nel tempio di Wembley. Con la Vecchia Signora vince tre campionati prima di indossare l&rsquo;ultima maglia della sua carriera da giocatore, quella del Milan che, pi&ugrave; che con le prestazioni dei suoi ultimi quattro anni sul campo, spesso subordinate a una condizione fisica non pi&ugrave; ottimale, render&agrave; immenso allenandone i campioni degli anni novanta. Da calciatore prima, da allenatore poi, Capello ha rappresentato nei fatti qualcosa di diverso rispetto ai clich&eacute; che giornalisti e agiografi hanno avuto la necessit&agrave; di assegnargli. Spesso dipinto come un sergente di ferro per via delle linee guida improntate a disciplina e cultura del lavoro che chiedeva ai suoi uomini di seguire per raggiungere risultati d&rsquo;eccellenza, Capello ha saputo declinare nel calcio la capacit&agrave; di muoversi tra sottili equilibri che caratterizza gli uomini di confine. Esigente, anche con se stesso, mai intransigente (se lo fosse stato, con lui Cassano non avrebbe mai giocato), dietro all&rsquo;immagine burbera che ha preferito esprimere di s&eacute;, nel tempo &egrave; riuscito a mantenere intatto l&rsquo;interesse per l&rsquo;arte e la psicologia individuale, peculiarit&agrave; che gli ha consentito di guidare al successo uomini spesso complicati, difficili da gestire, compresi anche grazie alle esperienze collezionate nel lungo viaggio che Fabio Capello cominci&ograve; nella SPAL degli anni Sessanta. &nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;              Visualizza questo post su Instagram  Il giovane Fabio mosse i suoi primi passi da calciatore a Ferrara. Abitava con un altro futuro allenatore: Edy Reja. Si formarono insieme in quella citt&agrave; dove le ragazze che studiavano alle magistrali li vedevano affacciati alla finestra di quell&rsquo;appartamento sopra la sede della Spal. Ma il calcio restava il suo pensiero dominante. Dopo due anni di apprendistato prese le chiavi del centrocampo della squadra. Fabio &egrave; sempre stato un centrocampista: mai dieci metri pi&ugrave; indietro. Nel 1967 approda alla Roma, citt&agrave; nella quale Capello, amante d&rsquo;arte e pittura, si lascia incantare dalle luci e dalla storia, tanto da chiedere al presidente Marchini, nel 1969, di non essere ceduto alla Juventus, che gi&agrave; lo cerca e lo avr&agrave; comunque un anno pi&ugrave; tardi. E&rsquo; a Torino che don Fabio si perfeziona professionalmente. Sviluppa e leviga doti di leadership e un gioco essenziale, pragmatico, comunque elegante nella sobriet&agrave; di uno stile che ben si combina all&rsquo;austerit&agrave; sabauda. Coltiva l&rsquo;amicizia con un altro friulano come Dino Zoff, esordisce in nazionale ed entra nella storia per segnare il gol della vittoria che il 14 novembre 1973 consente per la prima volta all&rsquo;Italia di espugnare Londra nel tempio di Wembley. Con la vecchia Signora vince tre campionati. Il grande doppio ex di Spal-Juventus &egrave; Fabio Capello. #amodonostro#ilcuoio#spaljuventus#spaljuve#seriea#serieatim#fabiocapello#capello#spal#juventus#juve#juventusfc#vecchiasignora#stadiopaolomazza#paolomazza#football#calcio#story#legend#azzurri#nazionale#wembley#ferrara#torino#italy#italia#scudetto#campioniditalia Un post condiviso da  Il Cuoio (@ilcuoio) in data: Apr 13, 2019 at 4:48 PDT            

Don Fabio cominci&ograve; la sua carriera calcistica a Ferrara prima di transitare per Roma e fare poi il grande salto a Torino

Capello, una cartolina tra SPAL e Juventus

Un torneo destinato alle squadre vincitrici delle rispettive coppe nazionali. Con questi presupposti nacque nella stagione 1960/61 la Coppa Delle Coppe, destinata nel tempo a diventare la terza coppa europea per club assieme alla Champions League e alla Coppa Uefa (denominazione assunta dal 1971 al 2009, quando sotto la Presidenza Platini si trasform&ograve; in Uefa Europa League. In precedenza, dal 1955 al 1971 si chiamava Coppa delle Fiere). Un&#39;avventura, quella della Coppa delle Coppe che dur&ograve; 38 anni fino al termine della stagione 1998/1999, quando, in seguito alla decisione della Uefa di ampliare il numero delle squadre ammesse per nazione alla Champions League (4 per le prime tre squadre classificate nel ranking Uefa), il torneo venne di fatto soppresso. Da sottolineare come sia nella prima che nell&#39;ultima edizione a vincere&nbsp; la Coppa Delle Coppe sia stata una formazione italiana: se nel 1960/61 a vincere fu la Fiorentina che trionf&ograve; nella doppia finale di andata e ritorno contro il Glasgow Rangers (2-0 a Glasgow, 2-1 a Firenze), nel 1998/99 fu la Lazio ad aggiudicarsi l&#39;ultima edizione del torneo battendo per 2-1 in campo neutro al Villa Park di Birmingham il Maiorca di Hector Cuper&nbsp; (7&deg; Vieri (L), 11&deg; Dani (M), 81&deg; Nedved (L)).  Con il passare degli anni le Coppe europee hanno cambiato via via la loro connotazione, con la sparizione dell&#39;Intertoto (che consentiva l&#39;accesso alla Coppa Uefa) nel 2008 e l&#39;inserimento dei playoff, ma con il limite che sempre pi&ugrave; spesso le Federazioni pi&ugrave; piccole non avevano la possibilit&agrave; di poter quanto meno approdare a una competizione europea. Per questi motivi, negli scorsi mesi il Comitato Esecutivo dell&#39;Uefa ha cominciato sempre pi&ugrave; a valutare la possibilit&agrave; di poter reintrodurre un terzo torneo per club europei da affiancare a Champions ed Europa League, finch&egrave; nella giornata di ieri a Dublino, in occasione del sorteggio dei gironi di qualificazione a Euro 2020, la Uefa ha deciso di tornare definitivamente indietro sui propri passi, istituendo a partire dalla stagione 2021/2022 un nuovo torneo riservato ai club europei, dalla denominazione provvisoria di Uefa Europa League 2 (UEL2).  Dalle prime informazioni raccolte, lo scopo del torneo &egrave; quello di dare maggiore spazio alle Federazioni meno presenti in Champions ed Europa League, anche se questo non implicherebbe l&#39;assenza delle federazioni pi&ugrave; prestigiose. Una su tutte l&#39;Italia, la quale parteciperebbe a questo torneo con la settima classificata in Serie A. Secondo quanto comunicato dalla Uefa saranno 32 le squadre che parteciperanno alla fase a gironi dell&#39;UEL2, stesso numero di Champions ed Europa League (da capire in questo ultimo caso come verranno ridotte da 48 a 32 le squadre facenti parte della fase a gironi), in modo tale da poter garantire a 34 Paesi (contro i 26 attuali) la partecipazione alla prima fase delle principali competizioni europee per club della UEFA.  Secondo quanto riportano le prime comunicazioni in merito, le 32 squadre di UEL2 dovranno essere suddivise in 8 gironi da 4 squadre, a cui faranno seguito come in Champions e dal 2021 anche in Europa League ottavi di finale, quarti, semifinali e finale. Previsto poi un ulteriore turno eliminatorio prima degli ottavi di finale, a cui parteciperanno sia le squadre seconde classificate, sia le squadre terze classificate nei rispettivi gironi in Europa League.   Per quanto riguarda gli orari delle partite, se la Champions League nel triennio 2021/2024 continuer&agrave; a giocarsi di marted&igrave; e mercoled&igrave; con gli slot orari delle 19 e delle 21 introdotti questa stagione, Europa League ed UEL2 giocheranno entrambe di gioved&igrave;, con il nuovo torneo che oltre ad ospitare delle partite negli slot delle 19 e delle 21 al pari dell&#39;Europa League tradizionale, preveder&agrave; alcune partite anche di pomeriggio (per la precisione alle 16:30), cos&igrave; come avveniva molti anni fa nelle coppe europee. Il programma dell&#39;UEL2 prevede la disputa di 141 partite suddivise in 15 settimane, come l&#39;Europa League. La vincitrice dell&#39;UEL2 verr&agrave; automaticamente promossa la stagione successiva in Uefa Europa League, al pari di quanto sta gi&agrave; avvenendo proprio in Europa League, con la vincitrice che viene promossa d&#39;ufficio in Champions League. Infine, verranno giocate nella stessa settimana le finali delle tre coppe europee: se la nuova competizione vedr&agrave; giocarsi mercoled&igrave; il suo atto conclusivo, gioved&igrave; e sabato saranno i giorni rispettivi della finale di Europa League e di Champions League. 

A quasi vent&#39;anni dall&#39;abolizione della Coppa delle Coppe, il Comitato Esecutivo dell&#39;Uefa ha deciso di dar vita a partire dal 2021 a una terza competizione europea per club, che provvisoriamente &egrave; stata denominata UEL2.

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