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Il VAR ha reso il calcio un posto peggiore?© Getty Images

Il VAR ha reso il calcio un posto peggiore?

I limiti di un modello che ricerca un'oggettività impossibile

Valerio Santori (Contrasti)

13.06.2022 ( Aggiornata il 13.06.2022 10:00 )

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Cosa sta andando storto nell’utilizzo del VAR in Italia? Sì, perché qualcosa sta andando storto. Inutile girarci intorno, mentre le massime istituzioni del nostro calcio continuano a prodigarsi in spiegazioni sempre più accurate delle procedure di valutazione degli episodi dubbi, nonché delle percentuali di errori arbitrali evitati grazie al VAR, le polemiche tra tifosi e società sembrano addirittura aumentare. Il sistema calcio pare essere entrato anzi in una sorta di stato dissociativo, per usare le categorie della psicologia, tale per cui più il VAR “funziona”, ovvero il suo protocollo viene collaudato, più le sue decisioni vengono considerate ingiuste. Un non senso, apparentemente, che però come un lapsus freudiano potrebbe rispondere in realtà a logiche più profonde, da ricercare magari mettendo in discussione alcuni assunti dati al momento per scontati.

Il suo obiettivo era azzerare le polemiche

Secondo alcuni autorevoli esponenti della classe arbitrale, ad esempio, l’obiettivo dell’introduzione del VAR non sarebbe mai stato la riduzione delle polemiche tra tifosi o società. Come detto infatti dall’ex designatore Rizzoli nel 2019: “Il Var è un aiuto, uno strumento importante e utile. Nessuno ha paura di utilizzarlo o intenzione di farne a meno. Però, non eliminerà mai le polemiche: ognuno la vede a modo proprio”. Una posizione in netta antitesi rispetto a quella di varisti più decisi come Marcello Nicchi, che nel dicembre 2017 da presidente dell’AIA si compiaceva di un mondo del calcio finalmente pacificato sotto l’egida della videoassistenza: “Il Var ha portato serenità e azzerato le polemiche, e chi vuole parlare oggi di calcio si può sbizzarrire senza parlare futilmente di un calcio d’angolo o di un rigore”.

Al di là dell’effettiva veridicità delle dichiarazioni di Nicchi, il VAR viene introdotto proprio per avere un calcio più “giusto”, come dichiarato più volte dal presidente FIFA Gianni Infantino, e arbitri “più protetti”. Più che nel campo della tecnica siamo in quello della morale. Per questo la posizione rizzoliana rischia di essere ingenua: il VAR è uno strumento chiamato a migliorare un processo, certo, ma un processo fortemente innestato nella morale. La figura dell’arbitro nasce proprio per dirimere le polemiche tra le due squadre che si contendono la vittoria, e viene introdotta precisamente il 2 giugno 1891 in una riunione dell'International Board, su proposta della Football Association inglese, mentre prima di allora ci si era affidati al fai-da-te con risultati modesti.

Oltretutto ci sono passaggi del protocollo VAR che fanno direttamente riferimento alla “credibilità” dello strumento, e quindi alla necessità di non offrire il fianco a proteste di ogni sorta. Si pensi ad esempio alla scelta di usufruire, per la videoassistenza, solo delle stesse immagini che vengono trasmesse dai broadcast televisivi: come si legge nel manuale prodotto da FIFA e IFAB nel 2017, “l'integrità del sistema VAR sarebbe compromessa se i broadcast potessero mostrare filmati non disponibili al VAR/arbitro che contraddicono la decisione del VAR/arbitro”. Ciò nonostante il VAR, nel corso di quest’ultima stagione, pare aver definitivamente perduto quell’aura di infallibilità che stimolava le certezze di Nicchi.

“Ci sono squadre convinte di star lottando contro il Sistema”

Se prima gli errori della videoassistenza scandivano gli anni - dal rigore “in fuorigioco” concesso al Genoa contro la Juve nel 2017, al gol di mano di Cutrone in Milan-Lazio del 2018, fino al celebre non-fallo di mano di D’ambrosio in Fiorentina-Inter del 2019 e a Milan-Roma dell’ottobre 2020, in cui Giacomelli riuscì ad inventarsi un rigore per parte - in questa stagione abbiamo invece assistito ad un incremento delle sviste costante e inarrestabile.

Tra gli episodi più eclatanti, in ordine sparso, il rigore non concesso in Torino-Inter dopo il contatto Belotti-Ranocchia, il rigore concesso in Venezia-Bologna per fallo inesistente di Medel su Aramu, il bel gol in rovesciata annullato a Di Francesco in Empoli-Fiorentina per un impercettibile tocco di Pinamonti su Terracciano (episodio che farà sbottare di fronte alle telecamere il solitamente irreprensibile Andreazzoli: “Che l’arbitro cambi mestiere!”), il clamoroso errore in Milan-Spezia commesso dall’arbitro Serra, così “sereno”, per citare Nicchi, che è scoppiato a piangere in campo dopo essersi reso conto di aver tolto a Messias un gol buonissimo (qualora avesse applicato la regola del vantaggio). Un Serra tanto “protetto”, per dirla invece con Infantino, che da quel 17 gennaio non ha più arbitrato in Serie A se non come Assistente VAR.

E poi ovviamente il surreale gol in fuorigioco di Acerbi in Spezia-Lazio, l’errore simbolo della stagione della nostra classe arbitrale: la videoassistenza dalla sala di Lissone traccia la sua linea e convalida, ma traccia la linea sbagliata, non accorgendosi che il difensore laziale è ben oltre il portiere spezzino e quindi resta un solo uomo a difendere la porta (l’episodio farà dire a Mourinho che in fondo il calcio è rimasto quello di vent’anni fa: si può sempre segnare in fuorigioco). Per dire del clima che questi ultimi due errori hanno contribuito a creare, si pensi solo al ricorso del Codacons, che ha chiesto ufficialmente di rigiocare entrambe le partite.

Per non parlare delle ultimissime giornate: dell’intemerata di Mourinho contro Banti, colpevole di aver concesso alla Fiorentina un rigore a dir poco generoso per lievissimo tocco di Karsdorp su Nico Gonzalez (prima giudicato non falloso, e poi segnalato “illegalmente” da Guida al VAR), del gol ingiustamente convalidato a Leao contro l’Atalanta nella penultima giornata, o di episodi meno decisivi ma comunque inspiegabili, come la ripetizione del rigore di Insigne contro il Genoa, sempre nella penultima giornata, sempre su segnalazione del VAR, quando nessun genoano aveva invaso l’area di rigore.

Questa serie interminabile di errori ha intossicato il dibattito sportivo come forse non accadeva dai tempi delle intercettazioni calciopoliane, tanto che anche un indefesso sostenitore del videoarbitraggio come il giornalista Giovanni Capuano ha dovuto ammettere in un editoriale su Panorama che “ci sono squadre convinte di star lottando contro il Sistema con la S maiuscola”. Nello stesso articolo ha però anche tessuto le lodi del VAR, che a suo avviso “non è morto, con buona pace di chi vorrebbe metterselo alle spalle”. Perché se gli errori sono evidenti, è altrettanto evidente che si è trattato di “errori umani, non della tecnologia e nemmeno del protocollo”. Ha addossato quindi le responsabilità della “tossicità del dibattito” all’assenza di una cultura sportiva in Italia, dove “già l'errore di campo era mal sopportato, e quello davanti a uno schermo è diventato l'appiglio per gridare al complotto e allo scandalo”.

La posizione di Capuano può essere sotto molti aspetti condivisibile, è ben noto infatti il legame inscindibile tra cultura del sospetto e tifo nel nostro Paese, e però sembra stonare con la profondità del suo ragionamento la controargomentazione che adduce a favore del VAR: “gli interventi di correzione andati a buon fine sono molti di più”. Una considerazione che tenta ancora una volta, come nel caso di Rizzoli, di ricondurre la bontà del sistema VAR a mere questioni percentuali. Mentre, se si approfondissero meglio alcune storture sollevate nello stesso articolo, si potrebbe provare ad affrontare una discussione seria su cosa sia esattamente il VAR, senza escludere a priori la possibilità che il videoarbitraggio stesso possa avere degli aspetti problematici non riconducibili al rispetto dei protocolli.

Quella strana somiglianza con la “moviola in campo”

Come detto in precedenza, infatti, la tecnica non è mai neutrale. Tutt’al più svolge in maniera neutrale un compito profondamente innestato nella morale. E in questo senso la morale in Italia, il sentimento che cresce negli anni, si sviluppa fin dai tempi dei “processi del lunedì”. Ma sì, inutile girarci intorno, inutile l’utilizzo dell’inglese per nascondere la somiglianza: il Video Assistant Referee per noi italiani sarà sempre e solo la “moviola in campo” invocata per più di un decennio da Aldo Biscardi nei suoi vari “processi” televisivi! Sono stati in molti a riconoscere la paternità del nuovo strumento arbitrale al compianto giornalista molisano (che ci lasciava proprio nel 2017, nell’anno della “rivoluzione”), nonostante Pierluigi Collina si affrettasse già nel 2016 a dire che si trattava di “una cosa diversa”.

Sarà, ma non è che qualcuno sia ancora riuscito a spiegare chiaramente la differenza. Ciò che è certo è che il buon Biscardi non era mica interessato a pacificare il mondo sportivo come Nicchi, anzi, tutto il contrario! Le sue moviole erano consapevoli provocazioni volte ad aumentare gli ascolti televisivi, generando ancora più polemiche di prima, tant’è che non c’è mai stata un puntata del “processo” che sia finita senza litigi e voci accavallate, insulti e insinuazioni. E più o meno il risultato del VAR, nell’obiettivo di una presunta (e impossibile) oggettività, è stato lo stesso: non ci sono mai state tante polemiche come quest’anno dai tempi di calciopoli. E di quella infausta stagione sono tornate in auge anche le teorie del complotto, sbandierate di fronte alle telecamere perfino dagli addetti ai lavori.

Pensiamo alle dichiarazioni di allenatori come Mourinho e Gasperini, che hanno ipotizzato macchinazioni contro le loro squadre ordite non si sa bene da chi e per quale motivo. Viene allora da chiedersi se non sia proprio il meccanismo di funzionamento del VAR a esacerbare gli animi, rendendo più difficile sopportare i torti subiti. Portando l’arbitro al video, infatti, si è imposto per la prima volta nella storia del calcio un principio per nulla scontato e fino a poco tempo fa inammissibile: che le immagini dei replay siano più “vere” della percezione dal vivo in campo. Un principio che sta gradualmente trasformando l’intero Paese in una sorta di processo del lunedì perenne.

Sui social impazzano le sfide a colpi di fotogrammi, che a seconda dell’istante immortalato e dell’illuminazione riescono sempre (guarda caso) a portare la ragione dalla parte di chi li condivide. Addirittura su questioni teoricamente “oggettive” come i fuorigioco si alternano di settimana in settimana differenti valutazioni, tutte ovviamente contrastanti. Quindi c’è tutta la questione della comunicazione tra arbitro e sala VAR nel corso della partita, o meglio, delle sue tracce audio destinate a restare nei misteriosi archivi dell’AIA nonché a imporsi come nuovo feticcio per i polemisti di tutta Italia.

Una deriva che sta portando al contrario all’implementazione di un “processo di trasparenza” spinto all’estremo, che renderà a breve possibile la trasmissione in diretta TV delle comunicazioni tra arbitri nel corso delle partite. E non è tutto. Si vocifera addirittura di un prossimo canale televisivo tematico dell’AIA, in cui tutto il giorno si parlerà di episodi dubbi e VAR, errori e spiegazioni, protocolli, procedure… Nel fine di giungere ad un calcio oggettivo, un mezzo per generare ancora più confusione e quindi polemiche.

Per non finire tutti in tribunale

Il direttore del Foglio Claudio Cerasa è convinto che questo perverso desiderio di “trasparenza a tutti i costi” ricalchi un certo giustizialismo manettaro passato dalla politica al calcio, tanto che nel suo podcast Come il calcio spiega il mondo ha definito il VAR “nuovo populismo calcistico”. Trattasi di un “tentativo riuscitissimo”, secondo Cerasa, “di commissariare di fatto l’arbitro, mettendolo sotto schiaffo di uno strumento imposto dalla democrazia diretta del pubblico”: “Un Paese come l’Italia, schiavo per anni della cultura anti-casta, non poteva che essere all’avanguardia nello sperimentare un sistema come il VAR”. Un serio pericolo per il nostro Paese, quindi, poiché “ha l’effetto di aggredire un principio non negoziabile in una democrazia: rispettare chi fa rispettare le regole, accettando anche decisioni che si considerano ingiuste”.

Senza volare troppo alto, e lasciando quindi perdere la questione democratica, ci domandiamo più banalmente a cosa stia portando tutta questa “fame di verità” nel sistema calcio: a un ambiente più rancoroso, innanzitutto, a un calcio fotogrammistico a immagine e somiglianza dei processi di Biscardi, con gli errori arbitrali più evidenti che assumono le sembianze di spin-off netflixiani, vere e proprie saghe nella saga (a partire dal celebre Orsato gate, quello portato avanti da Le Iene in seguito a quella famosa mancata espulsione di Pjanic in Inter-Juve del 2018).

Basti guardare a cosa è successo nell'ultimo periodo all’arbitro Pairetto, nuovamente al centro delle polemiche dopo aver convalidato il gol in fuorigioco di Acerbi in Spezia-Lazio del 30 aprile scorso. Succede che durante la conferenza di fine anno dell’AIA vengano desecretati, manco fossero “x-files”, gli audio di quella partita maledetta, e che da questi audio risulti che dalla sala VAR di Lissone in realtà nessuno aveva dato l’ok all’arbitro per far riprendere il gioco, ma che questi lo avesse comunque captato erroneamente, interpretando un “ok” del tutto casuale pronunciato non si sa bene da chi come l’ok di fine check. Apriti cielo! Le vibes sono le stesse del dialogo De Falco-Schettino, per un semplice errore arbitrale che senza il VAR sarebbe presto stato dimenticato.

Ma sembrano soprattutto le azioni legali intentate dal Codacons per far rigiocare Milan-Spezia e Spezia-Lazio a fornirci l’antipasto peggiore di cosa ci potrebbe riservare il calcio dei prossimi anni: dato che la ricerca dell’oggettività si è infatti trasformata in dogma, al punto che è stato istituito una sorta di tribunale ausiliario che la certifichi - questo è in fondo la sala VAR di Lissone, Svizzera, nella quale gli addetti accedono e poi vengono isolati dal mondo esterno come in un’aula bunker - non è impensabile ipotizzare che presto si arriverà realmente a dover rigiocare alcune partite.

Vada per il Codacons, le cui rimostranze in questo Paese non sembrano essere prese molto in considerazione, ma quando si arriverà alle aule parlamentari (come è già accaduto in epoca pre-VAR per episodi anche meno gravi di quello di Acerbi), come andrà a finire? Immaginiamo un caso come quello di Pairetto sbarcare in un’aula parlamentare o peggio in un’aula del tribunale sportivo: quanti giudici saranno disposti a riconoscere la sua buona fede? Le giacchette nere dovranno dotarsi preventivamente di avvocati per praticare la professione? Nasceranno specializzazioni in “diritto del VAR” per formare legali aggiornati sul protocollo?

Insomma, al di là delle provocazioni, dopo cinque anni di implementazione i tempi sembrano maturi per una reale riflessione sulla natura paradossale di uno strumento nato per fare giustizia, ma che in realtà sta solo pompando a dismisura i sospetti e le illazioni, nella ricerca di un'oggettività impossibile. Una riflessione necessaria per cercare di migliorarlo o, se non è possibile, di ripensarlo, riportando così le lancette dell’orologio a cinque anni fa. In fin dei conti, qualcuno lo ricorderà, si giocava a calcio lo stesso.

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