Forse alcuni tra i pi&ugrave; grandi appassionati di Capitan Tsubasa, celeberrimo manga e anime giapponese conosciuto da noi con il nome di Holly &amp; Benji, ricorderanno Ramon Victorino, la Pantera Nera del Sud America che con la sua velocit&agrave; e il suo tiro insidioso veste la maglia dell&rsquo;Uruguay durante il Torneo Internazionale di Parigi. Questo personaggio, come altri all&rsquo;interno dell&rsquo;opera, &egrave; ispirato ad un giocatore realmente esistito: Waldemar Victorino. <h2>Gli anni in Uruguay e le vittorie</h2> Nato a Montevideo il 22 maggio del 1952, trascorre la maggior parte della sua carriera con club della capitale uruguaiana: esordisce con il Cerro, per vestire poi le maglie di Progreso e Club Atletico River Plate. Nel frattempo &egrave; anche uno dei giocatori che indossano la maglia della nazionale con pi&ugrave; continuit&agrave;: a fine carriera conter&agrave; ben 33 presenze impreziosite da 15 marcature. La svolta arriva nel 1979, quando approda al Nacional portandolo con i suoi gol alla vittoria della Coppa Libertadores oltre che della Coppa Intercontinentale in finale contro il Nottingham Forest. Quest&rsquo;ultimo match, disputato a Tokyo, far&agrave; innamorare il 20enne&nbsp;Yoichi Takahashi, creatore di Holly &amp; Benji, dell&rsquo;attaccante sudamericano, che tra l&rsquo;altro decide la partita con una rete. <h2>L&rsquo;esperienza deludente in Serie A</h2> Tra la fine del 1980 e l&rsquo;inizio del 1981 va in scena, proprio in Uruguay, il Mundialito, torneo riservato esclusivamente alle nazionali vincitrici di una Coppa del Mondo. Il 3 gennaio l&rsquo;Uruguay batte l&rsquo;Italia per 2-0, Victorino &egrave; l&rsquo;indiscusso protagonista del match, non d&agrave; tregua a Collovati e segna anche la rete del raddoppio. Alvaro Amarugi ne rimane profondamente colpito e poco pi&ugrave; di un anno dopo, nell&rsquo;estate del 1982, lo porta a Cagliari. L&rsquo;anno in rossobl&ugrave; &egrave; a dir poco disastroso: Victorino, ormai nel pieno della fase calante della sua carriera, fa poco o nulla, costringendo <a href="https://www.guerinsportivo.it/news/il-cuoio/ultimo-dribbling/2022/03/23-5243308/gustavo_giagnoni_l_allenatore_col_colbacco_che_stese_causio">Giagnoni</a> a lasciarlo in panchina. Il Cagliari a fine stagione retrocede e ad oggi l&rsquo;attaccante uruguaiano &egrave; ricordato dai tifosi sardi come una delle pi&ugrave; grandi delusioni di sempre.&nbsp;

        Forse alcuni tra i pi&ugrave; grandi appassionati di Capitan Tsubasa, celeberrimo manga e anime giapponese conosciuto da noi con il nome di Holly &amp; Benji, ricorderanno Ramon Victorino, la Pantera Nera del Sud America che con la sua velocit&agrave; e il suo tiro insidioso veste la maglia dell&rsquo;Uruguay durante il Torneo Internazionale di Parigi. Questo personaggio, come altri all&rsquo;interno dell&rsquo;opera, &egrave; ispirato ad un giocatore realmente esistito: Waldemar Victorino. Gli anni in Uruguay e le vittorie Nato a Montevideo il 22 maggio del 1952, trascorre la maggior parte della sua carriera con club della capitale uruguaiana: esordisce con il Cerro, per vestire poi le maglie di Progreso e Club Atletico River Plate. Nel frattempo &egrave; anche uno dei giocatori che indossano la maglia della nazionale con pi&ugrave; continuit&agrave;: a fine carriera conter&agrave; ben 33 presenze impreziosite da 15 marcature. La svolta arriva nel 1979, quando approda al Nacional portandolo con i suoi gol alla vittoria della Coppa Libertadores oltre che della Coppa Intercontinentale in finale contro il Nottingham Forest. Quest&rsquo;ultimo match, disputato a Tokyo, far&agrave; innamorare il 20enne&nbsp;Yoichi Takahashi, creatore di Holly &amp; Benji, dell&rsquo;attaccante sudamericano, che tra l&rsquo;altro decide la partita con una rete. L&rsquo;esperienza deludente in Serie A Tra la fine del 1980 e l&rsquo;inizio del 1981 va in scena, proprio in Uruguay, il Mundialito, torneo riservato esclusivamente alle nazionali vincitrici di una Coppa del Mondo. Il 3 gennaio l&rsquo;Uruguay batte l&rsquo;Italia per 2-0, Victorino &egrave; l&rsquo;indiscusso protagonista del match, non d&agrave; tregua a Collovati e segna anche la rete del raddoppio. Alvaro Amarugi ne rimane profondamente colpito e poco pi&ugrave; di un anno dopo, nell&rsquo;estate del 1982, lo porta a Cagliari. L&rsquo;anno in rossobl&ugrave; &egrave; a dir poco disastroso: Victorino, ormai nel pieno della fase calante della sua carriera, fa poco o nulla, costringendo Giagnoni a lasciarlo in panchina. Il Cagliari a fine stagione retrocede e ad oggi l&rsquo;attaccante uruguaiano &egrave; ricordato dai tifosi sardi come una delle pi&ugrave; grandi delusioni di sempre.&nbsp;       

L&rsquo;attaccante sudamericano, dopo una carriera pi&ugrave; che discreta, arriv&ograve; nel nostro campionato ma non riusc&igrave; a lasciare il segno

Waldemar Victorino, quella meteora dell’Uruguay che deluse Cagliari

In Inghilterra lo hanno soprannominato Magic Box, la scatola magica. Tanto piccolo per la sua statura, tanto grande per la sua carriera e per il suo talento. Gianfranco Zola &egrave; stato ed &egrave; tuttora il prodotto calcistico d'esportazione per eccellenza della Sardegna, anche se &egrave; fuori dall'isola che &egrave; diventato grande, prima di tornare a casa per chiudere con la maglia che aveva sognato di indossare per una vita. Zola &egrave; nato a Oliena, un paesino della provincia di Nuoro, ma ha iniziato a muovere i primi passi da calciatore nella Nuorese, e poi nella Torres. &Egrave; l&igrave; che fu notato nel 1989 da Luciano Moggi, che decise di fargli fare il doppio salto dalla Serie C1 alla Serie A: arriv&ograve; a Napoli e, al primo anno, vinse lo scudetto con la squadra che era trascinata da Diego Armando Maradona. Zola, con il pallone tra i piedi, parlava la stessa lingua, anche per questo strinse subito un ottimo rapporto con Maradona e con Careca: proprio al posto del brasiliano, impegnato come Alemao nelle qualificazioni al Mondiale di Italia '90, Zola inizi&ograve; a giocare da titolare il campionato 1989-1990, contribuendo con due gol alla vittoria dello scudetto, il primo e unico nella sua carriera. La prima rete arriv&ograve; il 3 dicembre 1989 contro l'Atalanta (vittoria per 3-1, doppietta di Crippa), la seconda contro il Genoa: un gol, questo, arrivato nei minuti di recupero (dopo il vantaggio di Francini e il pareggio di Paz), e che permise al Napoli di vincere 2-1 e di mantenere inalterato il distacco di due punti dal Milan. Pochi mesi dopo la vittoria del campionato, arriv&ograve; anche la conquista della Supercoppa. Nella prima stagione a Napoli, Zola aveva collezionato soltanto 18 presenze: per questo, all'inizio della stagione 1990-91, fu vicino al passaggio al Lecce, ma proprio quando la trattativa sembrava sul punto di concludersi, il club decise di confermarlo in squadra. E, sul finire di quel campionato, eredit&ograve; la maglia numero 10 di Maradona. La terza stagione a Napoli (1991-92) fu quella della svolta: in panchina c'era Claudio Ranieri, che port&ograve; la squadra al quarto posto. Zola disput&ograve; tutte le partite, segnando 12 gol e andando in doppia cifra per la prima volta nella sua carriera in Serie A, riuscendosi a ripetere anche l'anno dopo, con altre 12 reti in 33 presenze prima del suo passaggio al Parma. Il divorzio arriv&ograve; dopo 105 presenze e 32 reti in campionato che, sommate a quelle nelle coppe, fecero 36 gol in 136 partite. <h2>L'arrivo al Cagliari a fine carriera</h2> Prima di chiudere la carriera, Gianfranco aveva un desiderio: quello di vestire la maglia del Cagliari. Lo esaud&igrave; nell'estate del 2003, dopo aver concluso la sua esperienza con il Chelsea. Il Cagliari era in Serie B, ma a Zola la categoria faceva poca differenza: era una questione di cuore, non di prestigio. Il suo, in carriera, lo aveva fatto abbondantemente. Con lui torn&ograve; a Cagliari anche Gianluca Festa, ma l'inizio di stagione dei rossobl&ugrave; non fu per niente positivo, e non solo perch&eacute; la squadra si trov&ograve; costretta a giocare le prime partite a Tempio Pausania per i lavori di rifacimento al manto erboso del Sant'Elia. Sulla panchina del Cagliari c'era Gian Piero Ventura, ma dopo 16 giornate Cellino decise di esonerarlo e di chiamare al suo posto Edy Reja. Le cose, inizialmente, non migliorarono, ma con l'inizio del 2004 il Cagliari - trascinato anche dai gol e dalla classe di Zola - riusc&igrave; a cambiare marcia: alla fine della stagione, furono 13 i gol segnati in 43 partite, in un campionato a 24 squadre che si concluse con il ritorno dei sardi in Serie A. Zola, ovviamente, rimase a Cagliari per godersi in A l'ultima stagione della sua carriera: un anno che fu meno prolifico per il fantasista sardo, nove gol in 31 partite, ma che per la squadra inizi&ograve; benissimo. Ben 13 punti nelle prime otto partite, e un quarto posto a met&agrave; del girone di andata che illuse i tifosi. Nel ritorno, invece, il Cagliari non riusc&igrave; a restare su quei livelli, chiudendo al 12&deg; posto. Le soddisfazioni, per&ograve;, arrivarono dalla Coppa Italia, con il Cagliari che elimin&ograve; Triestina, Lazio e Sampdoria, prima di arrendersi in semifinale all'Inter. Al Sant'Elia, nella gara di andata, fin&igrave; 1-1 grazie anche a uno splendido gol su punizione proprio di Zola, ma al ritorno i nerazzurri vinsero 3-1 a San Siro spezzando il sogno della squadra nel frattempo passata nelle mani di Daniele Arrigoni. La carriera da calciatore di &ldquo;Magic Box&rdquo; &egrave; finita il 29 maggio 2005 a Torino, contro la Juventus: i bianconeri vinsero 4-2, ma i due gol del Cagliari li segn&ograve; entrambi Gianfranco Zola, che fu applaudito anche dai tifosi avversari. Un premio a una carriera straordinaria, iniziata e finita in Sardegna.

        In Inghilterra lo hanno soprannominato Magic Box, la scatola magica. Tanto piccolo per la sua statura, tanto grande per la sua carriera e per il suo talento. Gianfranco Zola &egrave; stato ed &egrave; tuttora il prodotto calcistico d'esportazione per eccellenza della Sardegna, anche se &egrave; fuori dall'isola che &egrave; diventato grande, prima di tornare a casa per chiudere con la maglia che aveva sognato di indossare per una vita. Zola &egrave; nato a Oliena, un paesino della provincia di Nuoro, ma ha iniziato a muovere i primi passi da calciatore nella Nuorese, e poi nella Torres. &Egrave; l&igrave; che fu notato nel 1989 da Luciano Moggi, che decise di fargli fare il doppio salto dalla Serie C1 alla Serie A: arriv&ograve; a Napoli e, al primo anno, vinse lo scudetto con la squadra che era trascinata da Diego Armando Maradona. Zola, con il pallone tra i piedi, parlava la stessa lingua, anche per questo strinse subito un ottimo rapporto con Maradona e con Careca: proprio al posto del brasiliano, impegnato come Alemao nelle qualificazioni al Mondiale di Italia '90, Zola inizi&ograve; a giocare da titolare il campionato 1989-1990, contribuendo con due gol alla vittoria dello scudetto, il primo e unico nella sua carriera. La prima rete arriv&ograve; il 3 dicembre 1989 contro l'Atalanta (vittoria per 3-1, doppietta di Crippa), la seconda contro il Genoa: un gol, questo, arrivato nei minuti di recupero (dopo il vantaggio di Francini e il pareggio di Paz), e che permise al Napoli di vincere 2-1 e di mantenere inalterato il distacco di due punti dal Milan. Pochi mesi dopo la vittoria del campionato, arriv&ograve; anche la conquista della Supercoppa. Nella prima stagione a Napoli, Zola aveva collezionato soltanto 18 presenze: per questo, all'inizio della stagione 1990-91, fu vicino al passaggio al Lecce, ma proprio quando la trattativa sembrava sul punto di concludersi, il club decise di confermarlo in squadra. E, sul finire di quel campionato, eredit&ograve; la maglia numero 10 di Maradona. La terza stagione a Napoli (1991-92) fu quella della svolta: in panchina c'era Claudio Ranieri, che port&ograve; la squadra al quarto posto. Zola disput&ograve; tutte le partite, segnando 12 gol e andando in doppia cifra per la prima volta nella sua carriera in Serie A, riuscendosi a ripetere anche l'anno dopo, con altre 12 reti in 33 presenze prima del suo passaggio al Parma. Il divorzio arriv&ograve; dopo 105 presenze e 32 reti in campionato che, sommate a quelle nelle coppe, fecero 36 gol in 136 partite. L'arrivo al Cagliari a fine carriera Prima di chiudere la carriera, Gianfranco aveva un desiderio: quello di vestire la maglia del Cagliari. Lo esaud&igrave; nell'estate del 2003, dopo aver concluso la sua esperienza con il Chelsea. Il Cagliari era in Serie B, ma a Zola la categoria faceva poca differenza: era una questione di cuore, non di prestigio. Il suo, in carriera, lo aveva fatto abbondantemente. Con lui torn&ograve; a Cagliari anche Gianluca Festa, ma l'inizio di stagione dei rossobl&ugrave; non fu per niente positivo, e non solo perch&eacute; la squadra si trov&ograve; costretta a giocare le prime partite a Tempio Pausania per i lavori di rifacimento al manto erboso del Sant'Elia. Sulla panchina del Cagliari c'era Gian Piero Ventura, ma dopo 16 giornate Cellino decise di esonerarlo e di chiamare al suo posto Edy Reja. Le cose, inizialmente, non migliorarono, ma con l'inizio del 2004 il Cagliari - trascinato anche dai gol e dalla classe di Zola - riusc&igrave; a cambiare marcia: alla fine della stagione, furono 13 i gol segnati in 43 partite, in un campionato a 24 squadre che si concluse con il ritorno dei sardi in Serie A. Zola, ovviamente, rimase a Cagliari per godersi in A l'ultima stagione della sua carriera: un anno che fu meno prolifico per il fantasista sardo, nove gol in 31 partite, ma che per la squadra inizi&ograve; benissimo. Ben 13 punti nelle prime otto partite, e un quarto posto a met&agrave; del girone di andata che illuse i tifosi. Nel ritorno, invece, il Cagliari non riusc&igrave; a restare su quei livelli, chiudendo al 12&deg; posto. Le soddisfazioni, per&ograve;, arrivarono dalla Coppa Italia, con il Cagliari che elimin&ograve; Triestina, Lazio e Sampdoria, prima di arrendersi in semifinale all'Inter. Al Sant'Elia, nella gara di andata, fin&igrave; 1-1 grazie anche a uno splendido gol su punizione proprio di Zola, ma al ritorno i nerazzurri vinsero 3-1 a San Siro spezzando il sogno della squadra nel frattempo passata nelle mani di Daniele Arrigoni. La carriera da calciatore di &ldquo;Magic Box&rdquo; &egrave; finita il 29 maggio 2005 a Torino, contro la Juventus: i bianconeri vinsero 4-2, ma i due gol del Cagliari li segn&ograve; entrambi Gianfranco Zola, che fu applaudito anche dai tifosi avversari. Un premio a una carriera straordinaria, iniziata e finita in Sardegna.       

Il fantasista sardo, nato a Oliena, ha chiuso&nbsp;la carriera con la maglia rossobl&ugrave; nel 2005. Dalla Torres part&igrave; verso il grande calcio, approdando in azzurro nel 1989

Cagliari-Napoli: la partita di Gianfranco Zola

Quando Nen&eacute; approda in Sardegna, ha gi&agrave; giocato con Pel&eacute; e Sivori. Buono di carattere, figlio d&rsquo;arte, ha un padre calciatore che al pallone ha dato pi&ugrave; di quanto abbia ricevuto e per questo si &egrave; messo a fare l&rsquo;elettricista. La mamma vorrebbe che il figlio ne seguisse l&rsquo;ultimo esempio, ma il richiamo del bianconero del Santos &egrave; troppo forte. &Egrave; la squadra di Pel&eacute;, che a 17 anni ha gi&agrave; vinto un Mondiale e incantato una nazione. Segna alla prima in bianconero, contro la Juventude di Sao Paulo. In bianconero continuer&agrave;, in una squadra che alla stessa giovent&ugrave; si ispira, prima ancora che la giovinezza diventasse simbolo di una diversa stagione, gi&agrave; dalla nascita sulla panchina di un liceo molto ben frequentato gi&agrave; quel primo novembre 1897. Nen&eacute;, ormai sar&agrave; chiaro, dopo aver vinto diversi titoli fra campionato paulista, Coppa Libertadores e Coppa Intercontinentale, arriva alla Juventus colpita da questo brasiliano che dialoga con Pel&eacute; con una naturalezza disarmante. Il tecnico Amaral lo dispone sulla linea di Sivori in un sostanziale 4-2-4 dai risultati balbettanti. Ma quel brasiliano educato e garbato, che a Torino incontra la sua futura moglie, piace a tutti. Amaral viene esonerato, arriva Monzeglio, gentiluomo d&rsquo;altri tempi, che lo dirotta al centro dell&rsquo;attacco. La Juve ha bisogno di cancellare il ricordo di Charles, ma Nen&eacute; &egrave; al massimo un centrocampista offensivo, un attaccante esterno, non certo un numero 9. Nemmeno 11 gol gli valgono la conferma. <h2>Nen&eacute; e la storia d'amore con il Cagliari&nbsp;</h2> Un&rsquo;isola che guarda il mare &egrave; una protezione dalla nostalgia. &Egrave; un abbraccio davanti al blu delle possibilit&agrave;. La Sardegna nell&rsquo;Italia del boom economico, delle 600 sull&rsquo;Autostrada del Sole e dei frigoriferi comprati con le cambiali sembra ancora un luogo lontano. Ma non c&rsquo;&egrave; posto abbastanza distante dall&rsquo;orizzonte di Nen&eacute; che a Cagliari mette piede nel 1964.&nbsp;&Egrave; il Cagliari di Riva, Albertosi e Boninisegna, che gi&agrave; nell&rsquo;Italia dei movimenti studenteschi culla il desiderio di scudetto. Un sogno realizzato la stagione successiva, in quel 1970 che per Brera ha davvero spinto la Sardegna nella geografia italiana. Cagliari e la Sardegna tutta lo adotta, come ha fatto con Gigi Riva, come poi far&agrave; con Fabrizio De Andr&eacute; all&rsquo;Agnata ripagandolo anche con un sequestro da prima pagina. Come il cantautore genovese, in questi posti davanti al mare, con questi cieli sopra il mare, Nen&eacute; non si sapr&agrave; raccontare ma rimane. Gioca fino al 1976, quando del suo Cagliari restano solo i ricordi. Maestro da giocatore, di calcio e fair play, &egrave; stato a lungo lo straniero con pi&ugrave; presenze nel club, 311, superato poi da Diego Lopez. &Egrave; diventato poi maestro di giovani, e ha ripercorso la stessa tratta allenando a Cagliari e alla Juventus, dopo i successi con la Primavera della Fiorentina. In bianconero &egrave; stato tecnico di Claudio Marchisio che l&rsquo;ha omaggiato di un dolce ricordo nel giorno della morte: "Ho avuto la fortuna di averti come allenatore, mi hai insegnato a calciare con tutti e due i piedi".&nbsp;La sua &egrave; una collana anche di dolori e difficolt&agrave;, che si chiude in un ospizio di Capoterra, periferia di Cagliari. Muore qui, nel 2016. Protetto dalla nostalgia.

        Quando Nen&eacute; approda in Sardegna, ha gi&agrave; giocato con Pel&eacute; e Sivori. Buono di carattere, figlio d&rsquo;arte, ha un padre calciatore che al pallone ha dato pi&ugrave; di quanto abbia ricevuto e per questo si &egrave; messo a fare l&rsquo;elettricista. La mamma vorrebbe che il figlio ne seguisse l&rsquo;ultimo esempio, ma il richiamo del bianconero del Santos &egrave; troppo forte. &Egrave; la squadra di Pel&eacute;, che a 17 anni ha gi&agrave; vinto un Mondiale e incantato una nazione. Segna alla prima in bianconero, contro la Juventude di Sao Paulo. In bianconero continuer&agrave;, in una squadra che alla stessa giovent&ugrave; si ispira, prima ancora che la giovinezza diventasse simbolo di una diversa stagione, gi&agrave; dalla nascita sulla panchina di un liceo molto ben frequentato gi&agrave; quel primo novembre 1897. Nen&eacute;, ormai sar&agrave; chiaro, dopo aver vinto diversi titoli fra campionato paulista, Coppa Libertadores e Coppa Intercontinentale, arriva alla Juventus colpita da questo brasiliano che dialoga con Pel&eacute; con una naturalezza disarmante. Il tecnico Amaral lo dispone sulla linea di Sivori in un sostanziale 4-2-4 dai risultati balbettanti. Ma quel brasiliano educato e garbato, che a Torino incontra la sua futura moglie, piace a tutti. Amaral viene esonerato, arriva Monzeglio, gentiluomo d&rsquo;altri tempi, che lo dirotta al centro dell&rsquo;attacco. La Juve ha bisogno di cancellare il ricordo di Charles, ma Nen&eacute; &egrave; al massimo un centrocampista offensivo, un attaccante esterno, non certo un numero 9. Nemmeno 11 gol gli valgono la conferma. Nen&eacute; e la storia d'amore con il Cagliari&nbsp; Un&rsquo;isola che guarda il mare &egrave; una protezione dalla nostalgia. &Egrave; un abbraccio davanti al blu delle possibilit&agrave;. La Sardegna nell&rsquo;Italia del boom economico, delle 600 sull&rsquo;Autostrada del Sole e dei frigoriferi comprati con le cambiali sembra ancora un luogo lontano. Ma non c&rsquo;&egrave; posto abbastanza distante dall&rsquo;orizzonte di Nen&eacute; che a Cagliari mette piede nel 1964.&nbsp;&Egrave; il Cagliari di Riva, Albertosi e Boninisegna, che gi&agrave; nell&rsquo;Italia dei movimenti studenteschi culla il desiderio di scudetto. Un sogno realizzato la stagione successiva, in quel 1970 che per Brera ha davvero spinto la Sardegna nella geografia italiana. Cagliari e la Sardegna tutta lo adotta, come ha fatto con Gigi Riva, come poi far&agrave; con Fabrizio De Andr&eacute; all&rsquo;Agnata ripagandolo anche con un sequestro da prima pagina. Come il cantautore genovese, in questi posti davanti al mare, con questi cieli sopra il mare, Nen&eacute; non si sapr&agrave; raccontare ma rimane. Gioca fino al 1976, quando del suo Cagliari restano solo i ricordi. Maestro da giocatore, di calcio e fair play, &egrave; stato a lungo lo straniero con pi&ugrave; presenze nel club, 311, superato poi da Diego Lopez. &Egrave; diventato poi maestro di giovani, e ha ripercorso la stessa tratta allenando a Cagliari e alla Juventus, dopo i successi con la Primavera della Fiorentina. In bianconero &egrave; stato tecnico di Claudio Marchisio che l&rsquo;ha omaggiato di un dolce ricordo nel giorno della morte: "Ho avuto la fortuna di averti come allenatore, mi hai insegnato a calciare con tutti e due i piedi".&nbsp;La sua &egrave; una collana anche di dolori e difficolt&agrave;, che si chiude in un ospizio di Capoterra, periferia di Cagliari. Muore qui, nel 2016. Protetto dalla nostalgia.        

Arriv&ograve; nel 1964 dopo gli anni? al Santos di Pel&eacute; e alla Juventus con Sivori. Gioc&ograve; 12 stagioni, vinse uno storico scudetto e nell&rsquo;isola rest&ograve; per tutta la vita

Nené, il “brasiliano di Sardegna” che ha fatto la storia del Cagliari

Enzo Francescoli, da tutti conosciuto con l&rsquo;appellativo di Principe, soprannome affibbiatogli dal giornalista e scrittore uruguagio Victor Hugo Morales. Prima di diventare Principe, il ragazzo di Montevideo veniva sopranominato El Flaco, per via della gracile struttura fisica. In Italia abbiamo poi avuto un altro Principe, Diego Milito. I pi&ugrave; giovani forse non sanno che lo pseudonimo dell&rsquo;attaccante argentino deriva proprio dall'imbarazzante somiglianza con il fuoriclasse uruguaiano. Per rendere l&rsquo;idea della grandezza di Francescoli, basta ricordare che una divinit&agrave; calcistica come Zinedine Zidane ha voluto omaggiare il primogenito con il nome del suo idolo, Enzo. A Zizou, marsigliese classe &lsquo;72, &egrave; bastato ammirare per una sola stagione le danze e le veroniche di Francescoli, che ha vestito la maglia dell&rsquo;OM nel 1989-90. A Marsiglia ha conquistato il titolo e sfiorato la finale di Coppa dei Campioni, arrendendosi solo in semifinale al Benfica di Eriksson, poi sconfitto dal Milan di Sacchi.&nbsp; <h2>Il Mondiale di Italia &rsquo;90 e l&rsquo;inimmaginabile approdo al Cagliari</h2> Le giocate illuminanti sfoggiate nella sua prima stagione europea, unite a quelle con cui ha ammaliato i tifosi del River negli anni precedenti, lo accompagnano a Italia &rsquo;90 con l&rsquo;aura di stella assoluta della Celeste. Una Nazionale che delude le aspettative, vincendo una sola partita nel girone e sbattendo sul muro degli azzurri negli ottavi. Per portarlo a Cagliari &egrave; fondamentale il ruolo del procuratore Paco Casal, presenza fissa all&rsquo;interno del ritiro della nazionale sudamericana durante il Mondiale. L&rsquo;agente, curatore degli interessi di gran parte della rosa, viene accusato dalla stampa di aver distratto i suoi assistiti, al fine di trovar loro sistemazione nel campionato pi&ugrave; ambito al mondo. In passato Francescoli era gi&agrave; stato vicino all&rsquo;approdo nello Stivale: ci avevano provato senza successo il Milan, la Roma, l'Inter e, soprattuto, la Juventus. Impensabile che una squadra reduce da una doppia promozione dalla C alla A potesse acquisatre un campione di tale fama. Il presidente sardo Antonino Orr&ugrave; si trova a Veronello (sede del ritiro della Celeste) per ultimare l&rsquo;acquisto del jolly Pepe Herrera e del giovane talentuoso attaccante Daniel Fonseca. Parte proprio da Casal la pazza idea di portare Francescoli a Cagliari. La trattiva con l&rsquo;OM &egrave; serrata: decisiva risulter&agrave; poi la volont&agrave; del giocatore, attratto dalla Serie A e spinto da una voglia di cambiamento e rivalsa. I tifosi sardi sognano: Francescoli &egrave; gi&agrave; osannato come una divinit&agrave; ancor prima di scendere in campo.&nbsp; <h2>Il curriculum di un campione&nbsp;</h2> Calciatore dalla classe sopraffina in grado di svariare su tutto il fronte d&rsquo;attacco. &Egrave; un 9, &egrave; un 10, &egrave; la rappresentazione della bellezza sul rettangolo verde. Fino all&rsquo;arrivo nel nostro campionato gioca da attaccante puro, segnando valanghe di gol con la maglia del River Plate. Con i Millonarios milita per tre stagioni, vincendo un campionato e due titoli di capocannoniere. Per molti &egrave; ancora inspiegabile il trascorso nel triennio successivo al Racing Club di Parigi, club decaduto e che il magnate Jean-Luc Lagardere, proprietario del colosso Matra, voleva portare al top del calcio francese. Con l'Uruguay si &egrave; gi&agrave; aggiudicato due edizioni della Copa America (&lsquo;83 e &lsquo;87). Doveroso raccontare ci&ograve; che accade nell&rsquo;edizione del 1983, quando El Flaco viene premiato come miglior giocatore del torneo. Nella bolgia del Centenario di Montevideo &ndash; dove va in scena la finale d&rsquo;andata tra Uruguay e Brasile &ndash; gioca una partita leggendaria, impreziosita da un episodio particolare. Al 41&deg; chiude l&rsquo;uno due con un compagno e segna. L&rsquo;arbitro, per&ograve;, inspiegabilmente fischia un fallo della difesa e annulla. Nel chiudere il triangolo con Francescoli, Acosta era stato travolto al limite dell&rsquo;area. Sulla mattonella si presenta Enzo: la sua punizione &egrave; un capolavoro che rende giustizia alla Celeste. "Il soprannome nasce perch&eacute; io canticchiavo sempre il 'tango Principe'. Una volta Enzo segn&ograve; una rete e io ripetei una parte: 'Pr&igrave;ncipe soy, tengo un amor y es el goal'. Quel soprannome gli calzava alla perfezione, perch&eacute; aveva un&rsquo;aria malinconica ma un portamento davvero principesco". Quando sette anni pi&ugrave; tardi approda a Cagliari, El Flaco &egrave; diventato Principe. Giunge in Sardegna dopo una stagione da 11 reti col Marsiglia che fruttano un titolo e, a livello personale, il premio come miglior giocatore della Ligue 1.&nbsp; <h2>Francescoli a Cagliari, un fenomeno al Sant&rsquo;Elia</h2> La prima perla con la nuova maglia &egrave; una classica punizione a scavalcare la barriera, segnata alla terza giornata nella sconfitta sul campo dell&rsquo;Atalanta. Eppure, nonostante le esaltanti premesse, il Cagliari di Ranieri non decolla. Il talento di Francescoli non luccica e la squadra termina il girone d&rsquo;andata relegata ai margini della classifica. &ldquo;Quando sono arrivato non riposavo da quattro anni, ero stanco. Sono arrivato anche a dubitare di me stesso, perch&eacute; la palla mi passava sotto al piede, oppure se provavo a dribblare da un lato il difensore capiva sempre in anticipo le mie intenzioni&rdquo;, inoltre, il Principe aveva saltato gran parte della preparazione: si verr&agrave; poi a sapere che stava giocando con una tibia incrinata. I sardi riescono comunque a salvarsi grazie a un grandissimo girone di ritorno. La stella uruguagia comincia a riacquisire luce, segna tre gol, tra cui uno splendido tiro al volo acrobatico sul campo del Toro. Nella gara d&rsquo;esordio del campionato successivo si rivede, finalmente, il vero Francescoli. Al Sant&rsquo;Elia arriva la Samp scudettata: il Principe pareggia dal dischetto il vantaggio firmato Silas e, prima del 3-2 del connazionale Herrera, regala un capolavoro. Partendo da sinistra supera con un tunnel Mannini e fa girare la sfera sul palo lungo: qui c&rsquo;&egrave; tutto Francescoli. I rossobl&ugrave;, nel frattempo passati nelle mani di Mazzone, chiudono la stagione al 13&deg; posto. L&rsquo;uruguagio entra definitivamente nel cuore dei tifosi. A referto ci sono altri quattro gol &ndash; due magistrali punizioni e due spunti da campione &ndash; oltre alle decine di giocate illuminanti e di corridoi geniali offerti ai compagni. Tutto questo a conferma di quanto in Italia Francescoli abbia arretrato la sua posizione, trasformandosi pi&ugrave; in una mezzapunta, in un trequartista d&rsquo;eccellenza. La terza annata &egrave; indimenticabile, la migliore dal punto di vista delle marcature (7) e dei risultati: il Cagliari di Mazzone centra una storica qualificazione Uefa. Il Principe regala un finale di campionato da fenomeno (5 reti nelle ultime 4). &ldquo;Se il livello che ho avuto l&rsquo;ultima stagione di Cagliari, e di Marsiglia, lo avessi dimostrato con la Juve o il Milan, oggi sarei in Italia quello che sono per i tifosi del River&rdquo;, s&igrave; perch&eacute;, dopo una stagione passata al Torino &ndash; in cui non brilla come a Cagliari &ndash; torna in Argentina per scrivere la storia. <h2>Il sogno di ogni sudamericano&nbsp;</h2> Se nel &lsquo;95 alla conquista del torneo di Apertura e della terza Copa America con l&rsquo;Uruguay fa da contraltare la cocente sconfitta nella semifinale Libertadores, nel &lsquo;96 corona il sogno di ogni calciatore sudamericano. In campionato &egrave; per la terza volta in carriera re dei marcatori, ma l&rsquo;apoteosi &egrave; la Copa Libertadores. Il 26 giugno 1996, tra fumogeni, coriandoli e fuochi d&rsquo;artificio, in un&rsquo;atmosfera da brividi che solo l&rsquo;incandescente pubblico argentino sa offrire, guida da capitano il River alla vittoria. L&rsquo;andata contro l&rsquo;Am&eacute;rica de Cali termina 1-0. Al ritorno il Monumental &egrave; una bolgia insormontabile per i colombiani: una doppietta del giovane Hernan Crespo regala&nbsp;al River Plate la seconda Libertadores della sua storia, a Francescoli la gloria eterna. Il Principe, nato a Montevideo il 12 novembre di 60 anni fa, risulta essere uno dei calciatori pi&ugrave; amati di sempre dai tifosi Millonarios. Oggi ricopre il ruolo ds del club. Una leggenda senza tempo per il River, che ha legato il suo nome a una societ&agrave; italiana come il Cagliari, issandosi per classe e fascino tra i pi&ugrave; rappresentativi anche della squadra sarda, forse secondo solo all&rsquo;inarrivabile Gigi Riva.

        Enzo Francescoli, da tutti conosciuto con l&rsquo;appellativo di Principe, soprannome affibbiatogli dal giornalista e scrittore uruguagio Victor Hugo Morales. Prima di diventare Principe, il ragazzo di Montevideo veniva sopranominato El Flaco, per via della gracile struttura fisica. In Italia abbiamo poi avuto un altro Principe, Diego Milito. I pi&ugrave; giovani forse non sanno che lo pseudonimo dell&rsquo;attaccante argentino deriva proprio dall'imbarazzante somiglianza con il fuoriclasse uruguaiano. Per rendere l&rsquo;idea della grandezza di Francescoli, basta ricordare che una divinit&agrave; calcistica come Zinedine Zidane ha voluto omaggiare il primogenito con il nome del suo idolo, Enzo. A Zizou, marsigliese classe &lsquo;72, &egrave; bastato ammirare per una sola stagione le danze e le veroniche di Francescoli, che ha vestito la maglia dell&rsquo;OM nel 1989-90. A Marsiglia ha conquistato il titolo e sfiorato la finale di Coppa dei Campioni, arrendendosi solo in semifinale al Benfica di Eriksson, poi sconfitto dal Milan di Sacchi.&nbsp; Il Mondiale di Italia &rsquo;90 e l&rsquo;inimmaginabile approdo al Cagliari Le giocate illuminanti sfoggiate nella sua prima stagione europea, unite a quelle con cui ha ammaliato i tifosi del River negli anni precedenti, lo accompagnano a Italia &rsquo;90 con l&rsquo;aura di stella assoluta della Celeste. Una Nazionale che delude le aspettative, vincendo una sola partita nel girone e sbattendo sul muro degli azzurri negli ottavi. Per portarlo a Cagliari &egrave; fondamentale il ruolo del procuratore Paco Casal, presenza fissa all&rsquo;interno del ritiro della nazionale sudamericana durante il Mondiale. L&rsquo;agente, curatore degli interessi di gran parte della rosa, viene accusato dalla stampa di aver distratto i suoi assistiti, al fine di trovar loro sistemazione nel campionato pi&ugrave; ambito al mondo. In passato Francescoli era gi&agrave; stato vicino all&rsquo;approdo nello Stivale: ci avevano provato senza successo il Milan, la Roma, l'Inter e, soprattuto, la Juventus. Impensabile che una squadra reduce da una doppia promozione dalla C alla A potesse acquisatre un campione di tale fama. Il presidente sardo Antonino Orr&ugrave; si trova a Veronello (sede del ritiro della Celeste) per ultimare l&rsquo;acquisto del jolly Pepe Herrera e del giovane talentuoso attaccante Daniel Fonseca. Parte proprio da Casal la pazza idea di portare Francescoli a Cagliari. La trattiva con l&rsquo;OM &egrave; serrata: decisiva risulter&agrave; poi la volont&agrave; del giocatore, attratto dalla Serie A e spinto da una voglia di cambiamento e rivalsa. I tifosi sardi sognano: Francescoli &egrave; gi&agrave; osannato come una divinit&agrave; ancor prima di scendere in campo.&nbsp;  Il curriculum di un campione&nbsp; Calciatore dalla classe sopraffina in grado di svariare su tutto il fronte d&rsquo;attacco. &Egrave; un 9, &egrave; un 10, &egrave; la rappresentazione della bellezza sul rettangolo verde. Fino all&rsquo;arrivo nel nostro campionato gioca da attaccante puro, segnando valanghe di gol con la maglia del River Plate. Con i Millonarios milita per tre stagioni, vincendo un campionato e due titoli di capocannoniere. Per molti &egrave; ancora inspiegabile il trascorso nel triennio successivo al Racing Club di Parigi, club decaduto e che il magnate Jean-Luc Lagardere, proprietario del colosso Matra, voleva portare al top del calcio francese. Con l'Uruguay si &egrave; gi&agrave; aggiudicato due edizioni della Copa America (&lsquo;83 e &lsquo;87). Doveroso raccontare ci&ograve; che accade nell&rsquo;edizione del 1983, quando El Flaco viene premiato come miglior giocatore del torneo. Nella bolgia del Centenario di Montevideo &ndash; dove va in scena la finale d&rsquo;andata tra Uruguay e Brasile &ndash; gioca una partita leggendaria, impreziosita da un episodio particolare. Al 41&deg; chiude l&rsquo;uno due con un compagno e segna. L&rsquo;arbitro, per&ograve;, inspiegabilmente fischia un fallo della difesa e annulla. Nel chiudere il triangolo con Francescoli, Acosta era stato travolto al limite dell&rsquo;area. Sulla mattonella si presenta Enzo: la sua punizione &egrave; un capolavoro che rende giustizia alla Celeste. "Il soprannome nasce perch&eacute; io canticchiavo sempre il 'tango Principe'. Una volta Enzo segn&ograve; una rete e io ripetei una parte: 'Pr&igrave;ncipe soy, tengo un amor y es el goal'. Quel soprannome gli calzava alla perfezione, perch&eacute; aveva un&rsquo;aria malinconica ma un portamento davvero principesco". Quando sette anni pi&ugrave; tardi approda a Cagliari, El Flaco &egrave; diventato Principe. Giunge in Sardegna dopo una stagione da 11 reti col Marsiglia che fruttano un titolo e, a livello personale, il premio come miglior giocatore della Ligue 1.&nbsp; Francescoli a Cagliari, un fenomeno al Sant&rsquo;Elia La prima perla con la nuova maglia &egrave; una classica punizione a scavalcare la barriera, segnata alla terza giornata nella sconfitta sul campo dell&rsquo;Atalanta. Eppure, nonostante le esaltanti premesse, il Cagliari di Ranieri non decolla. Il talento di Francescoli non luccica e la squadra termina il girone d&rsquo;andata relegata ai margini della classifica. &ldquo;Quando sono arrivato non riposavo da quattro anni, ero stanco. Sono arrivato anche a dubitare di me stesso, perch&eacute; la palla mi passava sotto al piede, oppure se provavo a dribblare da un lato il difensore capiva sempre in anticipo le mie intenzioni&rdquo;, inoltre, il Principe aveva saltato gran parte della preparazione: si verr&agrave; poi a sapere che stava giocando con una tibia incrinata. I sardi riescono comunque a salvarsi grazie a un grandissimo girone di ritorno. La stella uruguagia comincia a riacquisire luce, segna tre gol, tra cui uno splendido tiro al volo acrobatico sul campo del Toro. Nella gara d&rsquo;esordio del campionato successivo si rivede, finalmente, il vero Francescoli. Al Sant&rsquo;Elia arriva la Samp scudettata: il Principe pareggia dal dischetto il vantaggio firmato Silas e, prima del 3-2 del connazionale Herrera, regala un capolavoro. Partendo da sinistra supera con un tunnel Mannini e fa girare la sfera sul palo lungo: qui c&rsquo;&egrave; tutto Francescoli. I rossobl&ugrave;, nel frattempo passati nelle mani di Mazzone, chiudono la stagione al 13&deg; posto. L&rsquo;uruguagio entra definitivamente nel cuore dei tifosi. A referto ci sono altri quattro gol &ndash; due magistrali punizioni e due spunti da campione &ndash; oltre alle decine di giocate illuminanti e di corridoi geniali offerti ai compagni. Tutto questo a conferma di quanto in Italia Francescoli abbia arretrato la sua posizione, trasformandosi pi&ugrave; in una mezzapunta, in un trequartista d&rsquo;eccellenza. La terza annata &egrave; indimenticabile, la migliore dal punto di vista delle marcature (7) e dei risultati: il Cagliari di Mazzone centra una storica qualificazione Uefa. Il Principe regala un finale di campionato da fenomeno (5 reti nelle ultime 4). &ldquo;Se il livello che ho avuto l&rsquo;ultima stagione di Cagliari, e di Marsiglia, lo avessi dimostrato con la Juve o il Milan, oggi sarei in Italia quello che sono per i tifosi del River&rdquo;, s&igrave; perch&eacute;, dopo una stagione passata al Torino &ndash; in cui non brilla come a Cagliari &ndash; torna in Argentina per scrivere la storia.  Il sogno di ogni sudamericano&nbsp; Se nel &lsquo;95 alla conquista del torneo di Apertura e della terza Copa America con l&rsquo;Uruguay fa da contraltare la cocente sconfitta nella semifinale Libertadores, nel &lsquo;96 corona il sogno di ogni calciatore sudamericano. In campionato &egrave; per la terza volta in carriera re dei marcatori, ma l&rsquo;apoteosi &egrave; la Copa Libertadores. Il 26 giugno 1996, tra fumogeni, coriandoli e fuochi d&rsquo;artificio, in un&rsquo;atmosfera da brividi che solo l&rsquo;incandescente pubblico argentino sa offrire, guida da capitano il River alla vittoria. L&rsquo;andata contro l&rsquo;Am&eacute;rica de Cali termina 1-0. Al ritorno il Monumental &egrave; una bolgia insormontabile per i colombiani: una doppietta del giovane Hernan Crespo regala&nbsp;al River Plate la seconda Libertadores della sua storia, a Francescoli la gloria eterna. Il Principe, nato a Montevideo il 12 novembre di 60 anni fa, risulta essere uno dei calciatori pi&ugrave; amati di sempre dai tifosi Millonarios. Oggi ricopre il ruolo ds del club. Una leggenda senza tempo per il River, che ha legato il suo nome a una societ&agrave; italiana come il Cagliari, issandosi per classe e fascino tra i pi&ugrave; rappresentativi anche della squadra sarda, forse secondo solo all&rsquo;inarrivabile Gigi Riva.        

Idolo di Zidane che lo ha ammirato a Marsiglia, ha vinto tutto con i Millonarios e fatto innamorare i tifosi rossobl&ugrave;. Un campione di fama mondiale nato a Montevideo il 12 novembre di 60 anni fa

Enzo Francescoli, il Principe uruguagio di River Plate e Cagliari

Il 30 maggio del 1965 il campionato di Bologna e Cagliari ha ben poco da dire. Gli emiliani sono lontani dalla vetta della classifica raggiunta la stagione precedente, invece i sardi, al loro debutto nella massima serie, si godono la prima partita giocata nel capoluogo emiliano.&nbsp; <h2>I campioni e la rivelazione</h2> I padroni di casa, che giocano con lo scudetto cucito sul petto vinto nella fantastica stagione precedente, dopo l'entusiasmante spareggio contro l&rsquo;Inter di Herrera, sembrano l&rsquo;opaco ricordo di quel gruppo che, trascinato da Nielsen e dai suoi 21 gol, sbaragli&ograve; tutti. A due giornate dal termine si trovano a 34 punti, lontanissimo da una vetta a cui in questa stagione non hanno mai ambito. I sardi sono qualche punto indietro, ma con uno spirito completamente opposto: arrivati nella massima serie proprio nel 1964-65, sono la vera rivelazione del campionato, la salvezza &egrave; ampiamente raggiunta anche grazie al giovanissimo&nbsp;Gigi Riva.&nbsp; <h2>Nen&eacute; e Rizzo show</h2> A dire il vero nessuna delle due squadre ha molto da chiedere a questa partita e il primo tempo rispecchia in pieno la mentalit&agrave; rinunciataria di entrambe le formazioni. Pochissime emozioni, partita ai limiti del soporifero e squadre che tornano negli spogliatoi sullo 0-0. Nell&rsquo;intervallo Silvestri, il tecnico dei sardi, striglia i suoi e li invita ad affrontare i restanti 45&rsquo; minuti con un piglio pi&ugrave; aggressivo. Gli ospiti non se lo fanno ripetere due volte e la ripresa &egrave; tutta un&rsquo;altra partita: nel giro di neanche 30 minuti il Cagliari ne fa tre, due con Nen&eacute; e uno con Rizzo (per il Bologna il gol del momentanneo 1-1 viene firmato da Haller). Quest&rsquo;ultimo si &egrave; dimostrato una vera spina nel fianco della difesa bolognese. La marcatura a zona degli emiliani gli ha permesso di fare il bello e il cattivo tempo, impostando la manovra dei sardi senza particolari difficolt&agrave;. A seguire la partita in tribuna c'&egrave; anche&nbsp;il commissario tecnico della Nazionale Edmondo Fabbri&nbsp;che sicuramente ha preso nota del giovane centrocampista ospite.&nbsp;

        Il 30 maggio del 1965 il campionato di Bologna e Cagliari ha ben poco da dire. Gli emiliani sono lontani dalla vetta della classifica raggiunta la stagione precedente, invece i sardi, al loro debutto nella massima serie, si godono la prima partita giocata nel capoluogo emiliano.&nbsp; I campioni e la rivelazione I padroni di casa, che giocano con lo scudetto cucito sul petto vinto nella fantastica stagione precedente, dopo l'entusiasmante spareggio contro l&rsquo;Inter di Herrera, sembrano l&rsquo;opaco ricordo di quel gruppo che, trascinato da Nielsen e dai suoi 21 gol, sbaragli&ograve; tutti. A due giornate dal termine si trovano a 34 punti, lontanissimo da una vetta a cui in questa stagione non hanno mai ambito. I sardi sono qualche punto indietro, ma con uno spirito completamente opposto: arrivati nella massima serie proprio nel 1964-65, sono la vera rivelazione del campionato, la salvezza &egrave; ampiamente raggiunta anche grazie al giovanissimo&nbsp;Gigi Riva.&nbsp; Nen&eacute; e Rizzo show A dire il vero nessuna delle due squadre ha molto da chiedere a questa partita e il primo tempo rispecchia in pieno la mentalit&agrave; rinunciataria di entrambe le formazioni. Pochissime emozioni, partita ai limiti del soporifero e squadre che tornano negli spogliatoi sullo 0-0. Nell&rsquo;intervallo Silvestri, il tecnico dei sardi, striglia i suoi e li invita ad affrontare i restanti 45&rsquo; minuti con un piglio pi&ugrave; aggressivo. Gli ospiti non se lo fanno ripetere due volte e la ripresa &egrave; tutta un&rsquo;altra partita: nel giro di neanche 30 minuti il Cagliari ne fa tre, due con Nen&eacute; e uno con Rizzo (per il Bologna il gol del momentanneo 1-1 viene firmato da Haller). Quest&rsquo;ultimo si &egrave; dimostrato una vera spina nel fianco della difesa bolognese. La marcatura a zona degli emiliani gli ha permesso di fare il bello e il cattivo tempo, impostando la manovra dei sardi senza particolari difficolt&agrave;. A seguire la partita in tribuna c'&egrave; anche&nbsp;il commissario tecnico della Nazionale Edmondo Fabbri&nbsp;che sicuramente ha preso nota del giovane centrocampista ospite.&nbsp;       

Il 30 maggio del 1965 Nen&eacute; (doppietta) e Rizzo piegarono i campioni d&rsquo;Italia. Fin&igrave; 3-1 per i sardi con tutti i gol realizzati nella ripresa

Bologna-Cagliari, il primo precedente in Emilia

Roberto Muzzi inizia la carriera calcistica nella societ&agrave; romana del Morena, prima di passare alla Pro Calcio Italia. Da l&igrave; il provino e il tesseramento con la Roma. In maglia giallorossa, dopo aver fatto tutta la trafila nel settore giovanile, esordisce in prima squadra l&rsquo;11 febbraio 1990 allo stadio Flaminio contro l&rsquo;Inter, lanciato nella mischia da Gigi Radice. Con la Roma gioca fino al novembre 1993, quando viene ceduto in prestito al Pisa: dopo una stagione positiva passa al Cagliari.&nbsp; <h2>Al Cagliari i migliori anni di bomber Muzzi</h2> &nbsp; In Sardegna vive gli anni pi&ugrave; belli ed entusiasmanti della sua carriera, tra gol, dribbling, scatti poderosi, tiri dalla distanza e incursioni pericolose. Raggiunge con i tifosi rossobl&ugrave; un feeling speciale. Un amore nato in maniera spontanea e che si &egrave; rafforzato nel tempo. Arrivato con la nomea di attaccante di movimento, pi&ugrave; propenso ad aiutare la punta centrale che al gol, il suo rapporto con la rete non &egrave; ancora eccelso: in giallorosso ha timbrato sei volte il cartellino in quattro anni, mentre in Toscana di gol ne ha segnati 8. In Sardegna trova due punte di spessore, Luis Oliveira e Dely Valdes, ed un tecnico, Oscar Washington Tabarez, in grado di far coesistere tre attaccanti veloci, potenti ed estremamente tecnici. Sotto la guida del maestro uruguaiano, Muzzi esplode. Parte largo a destra, con licenza di accentrarsi e devastare le difese avversarie con potenza e velocit&agrave;. Inizia a segnare con mostruosa regolarit&agrave;, andando a rete per sette gare consecutive. Segna in tutti i modi: di testa, con il destro e con il mancino, da fuori area e soprattutto in rovesciata, il suo marchio di fabbrica. La sua specialit&agrave;. Indimenticabile quella messa a segno contro il Piacenza. Un gesto atletico eccezionale, un gol che ha ricordato ai tifosi pi&ugrave; attempati le gesta del grande Gigi Riva. Emozionante la sfida contro la Juventus del gennaio 1995. Sotto i colpi del suo bomber, la squadra di Tabarez umilia la formazione di Marcello Lippi, destinata a fine stagione a vincere scudetto e Coppa Italia. A parte una sfortunata stagione, Muzzi in Sardegna finisce sistematicamente in doppia cifra. Quando i rossobl&ugrave; retrocedono, nel 1997, Roberto non abbandona la nave, anzi, nonostante un rapporto non idilliaco con Ventura, trascina i compagni in Serie A. Sono stati cinque anni ricchi di soddisfazione: 157 presenze e 64 gol. Probabilmente il culmine della sua carriera.&nbsp; <h2>Quattro stagioni all&rsquo;Udinese e tanti gol</h2> &nbsp; Nell&rsquo;estate del 1999 passa all&rsquo;Udinese, dove continua a segnare con continuit&agrave;. Sono 12 le reti messe a referto nella prima stagione in Friuli, che inizia benissimo con il gol all&rsquo;esordio in campionato contro il Venezia. Alla settima torna a Cagliari, dove si rende protagonista con una splendida doppietta per la quale non esulta, uscendo tra gli applausi nel corso del secondo tempo. Nella stagione successiva salta parecchie gare per infortunio, ma mantiene comunque una buona media gol, trionfando in estate nella Coppa Intertoto, dove va a segno nella finale di ritorno. Altre due annate in Friuli prima di esaudire il sogno che culla fin da bambino, basti pensare che ai tempi della Roma un totem come Bruno Conti, allora responsabile del settore giovanile giallorosso, lo costrinse a togliersi la catenina con l&rsquo;aquila per poter entrare a Trigoria. <h2>Il sogno realizzato con l&rsquo;arrivo alla Lazio</h2> &nbsp; Nonostante la realizzazione del sogno di approdare alla Lazio, durante la sua seconda esperienza capitolina Muzzi vive due stagioni complicate. Arriva a Formello nel momento peggiore della storia biancoceleste, con lo spettro del fallimento dietro l&rsquo;angolo. Nel primo anno, &egrave; il 2003-04, sotto la guida di Roberto Mancini, gioca la Champions League e vince la Coppa Italia. Anche in maglia biancoceleste si toglie la soddisfazione di segnare un magnifico gol in rovesciata, contro il Besiktas in una sfida di Champions. Ma la situazione economica laziale &egrave; drammatica: urge un ridimensionamento tecnico ed economico. Il nuovo patron Lotito impone una drastica riduzione dei costi: Muzzi resta e contribuisce a raggiungere la salvezza, festeggiata a Palermo, l&rsquo;ultima giornata, con un suo gol. Il cuore gli consiglia di rimanere nella Capitale, ma la testa gli impone altre scelte. Prima il Torino, poi il Padova, alla costante ricerca delle prodezze e dei numeri che gli hanno permesso di lasciare un ricordo indelebile nel Cagliari e nell&rsquo;Udinese: le due squadre nelle quali si &egrave; visto il vero &ldquo;Bomber Muzzi&rdquo;. &nbsp; &nbsp; &nbsp; &nbsp;

Roberto Muzzi inizia la carriera calcistica nella societ&agrave; romana del Morena, prima di passare alla Pro Calcio Italia. Da l&igrave; il provino e il tesseramento con la Roma. In maglia giallorossa, dopo aver fatto tutta la trafila nel settore giovanile, esordisce in prima squadra l&rsquo;11 febbraio 1990 allo stadio Flaminio contro l&rsquo;Inter, lanciato nella mischia da Gigi Radice. Con la Roma gioca fino al novembre 1993, quando viene ceduto in prestito al Pisa: dopo una stagione positiva passa al Cagliari.&nbsp;  Al Cagliari i migliori anni di bomber Muzzi  &nbsp;  In Sardegna vive gli anni pi&ugrave; belli ed entusiasmanti della sua carriera, tra gol, dribbling, scatti poderosi, tiri dalla distanza e incursioni pericolose. Raggiunge con i tifosi rossobl&ugrave; un feeling speciale. Un amore nato in maniera spontanea e che si &egrave; rafforzato nel tempo. Arrivato con la nomea di attaccante di movimento, pi&ugrave; propenso ad aiutare la punta centrale che al gol, il suo rapporto con la rete non &egrave; ancora eccelso: in giallorosso ha timbrato sei volte il cartellino in quattro anni, mentre in Toscana di gol ne ha segnati 8. In Sardegna trova due punte di spessore, Luis Oliveira e Dely Valdes, ed un tecnico, Oscar Washington Tabarez, in grado di far coesistere tre attaccanti veloci, potenti ed estremamente tecnici. Sotto la guida del maestro uruguaiano, Muzzi esplode. Parte largo a destra, con licenza di accentrarsi e devastare le difese avversarie con potenza e velocit&agrave;. Inizia a segnare con mostruosa regolarit&agrave;, andando a rete per sette gare consecutive. Segna in tutti i modi: di testa, con il destro e con il mancino, da fuori area e soprattutto in rovesciata, il suo marchio di fabbrica. La sua specialit&agrave;. Indimenticabile quella messa a segno contro il Piacenza. Un gesto atletico eccezionale, un gol che ha ricordato ai tifosi pi&ugrave; attempati le gesta del grande Gigi Riva. Emozionante la sfida contro la Juventus del gennaio 1995. Sotto i colpi del suo bomber, la squadra di Tabarez umilia la formazione di Marcello Lippi, destinata a fine stagione a vincere scudetto e Coppa Italia. A parte una sfortunata stagione, Muzzi in Sardegna finisce sistematicamente in doppia cifra. Quando i rossobl&ugrave; retrocedono, nel 1997, Roberto non abbandona la nave, anzi, nonostante un rapporto non idilliaco con Ventura, trascina i compagni in Serie A. Sono stati cinque anni ricchi di soddisfazione: 157 presenze e 64 gol. Probabilmente il culmine della sua carriera.&nbsp;  Quattro stagioni all&rsquo;Udinese e tanti gol  &nbsp;  Nell&rsquo;estate del 1999 passa all&rsquo;Udinese, dove continua a segnare con continuit&agrave;. Sono 12 le reti messe a referto nella prima stagione in Friuli, che inizia benissimo con il gol all&rsquo;esordio in campionato contro il Venezia. Alla settima torna a Cagliari, dove si rende protagonista con una splendida doppietta per la quale non esulta, uscendo tra gli applausi nel corso del secondo tempo. Nella stagione successiva salta parecchie gare per infortunio, ma mantiene comunque una buona media gol, trionfando in estate nella Coppa Intertoto, dove va a segno nella finale di ritorno. Altre due annate in Friuli prima di esaudire il sogno che culla fin da bambino, basti pensare che ai tempi della Roma un totem come Bruno Conti, allora responsabile del settore giovanile giallorosso, lo costrinse a togliersi la catenina con l&rsquo;aquila per poter entrare a Trigoria.    Il sogno realizzato con l&rsquo;arrivo alla Lazio  &nbsp;  Nonostante la realizzazione del sogno di approdare alla Lazio, durante la sua seconda esperienza capitolina Muzzi vive due stagioni complicate. Arriva a Formello nel momento peggiore della storia biancoceleste, con lo spettro del fallimento dietro l&rsquo;angolo. Nel primo anno, &egrave; il 2003-04, sotto la guida di Roberto Mancini, gioca la Champions League e vince la Coppa Italia. Anche in maglia biancoceleste si toglie la soddisfazione di segnare un magnifico gol in rovesciata, contro il Besiktas in una sfida di Champions. Ma la situazione economica laziale &egrave; drammatica: urge un ridimensionamento tecnico ed economico. Il nuovo patron Lotito impone una drastica riduzione dei costi: Muzzi resta e contribuisce a raggiungere la salvezza, festeggiata a Palermo, l&rsquo;ultima giornata, con un suo gol. Il cuore gli consiglia di rimanere nella Capitale, ma la testa gli impone altre scelte. Prima il Torino, poi il Padova, alla costante ricerca delle prodezze e dei numeri che gli hanno permesso di lasciare un ricordo indelebile nel Cagliari e nell&rsquo;Udinese: le due squadre nelle quali si &egrave; visto il vero &ldquo;Bomber Muzzi&rdquo;.  &nbsp;  &nbsp;  &nbsp;  &nbsp; 

Nato il 21 settembre 1971, &egrave; cresciuto nel settore giovanile della Roma ma sognava la Lazio dove approd&ograve; nel 2003. A Cagliari e Udine i migliori anni della sua carriera

Roberto Muzzi, il bomber col vizio della rovesciata

Impossibile, per il Cagliari Calcio, trovare figure pi&ugrave; rappresentative di Gigi Riva. L&rsquo;indimenticabile bomber rossobl&ugrave;, che seppe portare la citt&agrave; e la Sardegna in Italia, come afferm&ograve; Gianni Brera dopo che il Cagliari vinse lo scudetto nel 1970, di quella squadra era l&rsquo;alfiere indomito, l&rsquo;uomo di sfondamento, la garanzia di successo. Personaggio peculiare, forgiato senza grazia da un&rsquo;adolescenza insolitamente difficile, Rombo di Tuono - soprannome, anch&rsquo;esso, ideato dalla penna di Brera - era arrivato sull&rsquo;isola non ancora ventenne, quasi spaventato e con un&rsquo;irrefrenabile voglia di andare in un luogo diverso che non fosse quello segnato da una natura selvaggia il cui fascino non era di immediata percezione. Seppe resistere, andare avanti, trovare spazi e tempi per mettere radici che poi lo legarono a un territorio dal quale niente riusc&igrave; pi&ugrave; a staccarlo. Nemmeno le sirene del calciomercato, che con le sue voci pi&ugrave; o meno veritiere ogni estate proiettava sulle prime pagine dei giornali la stagione successiva di Riva lontana dall&rsquo;abbraccio maliardo di una terra avara solo in apparenza.&nbsp; <h2>Il giocatore pi&ugrave; desiderato</h2> A contendersi le sue conclusioni devastanti, le sue sbracciate a contatto coi difensori, la sua voglia di riscatto erano le grandi squadre del Nord: la Juventus, l&rsquo;Inter, il Milan. Facendo leva sulle loro capacit&agrave; economiche, a turno si facevano avanti per provare a strappare l&rsquo;attaccante di Leggiuno da quello che era diventato il suo habitat naturale, facendo affidamento sul potere quasi irresistibile che sa esercitare il denaro. Ogni anno una scommessa sulle capacit&agrave; persuasive di milioni di lire che avrebbero foraggiato le casse della societ&agrave; e soddisfatto le pretese pi&ugrave; capricciose di qualsiasi campione. Non di Riva che, avendo conosciuto da ragazzo l&rsquo;aridit&agrave; di una vita spogliata dei sentimenti, sapeva dare ai soldi il valore che meritano. Non che dubbi, nel corso di tredici anni di militanza rossobl&ugrave;, non ci siano stati. Ma alla fine Rombo di Tuono non lasci&ograve; mai il Cagliari anche perch&eacute;, quando sembrava che quel momento fosse arrivato, fu la piazza a sollevarsi per reclamare la sua permanenza nell&rsquo;isola.&nbsp; <h2>Simbolo di fedelt&agrave; al Cagliari</h2> Avvenne nell&rsquo;estate del 1973, quando la Juventus, per metterlo sotto contratto, si rese disponibile a fare una vera follia, arrivando a offrire 400 milioni di lire oltre al trasferimento di quattro giocatori di primo livello: Bettega, Gentile, Cuccureddu e Musiello. In altre parole, un&rsquo;offerta complessiva da 2 miliardi e 300 milioni di lire. Una somma pazzesca, che probabilmente avrebbe avuto l&rsquo;effetto sperato dalla Juventus ove non fossero insorte circostanze, che consigliarono i vertici bianconeri a soprassedere, legate ai tumulti di piazza che si sollevarono quando il passaggio di Riva alla corte degli Agnelli sembr&ograve; arrivare a concretizzarsi. Minacce di bombe e di attentati nonch&eacute; l&rsquo;eventualit&agrave; del rapimento del presidente cagliaritano Arrica dissuasero la Juventus dall&rsquo;andare avanti in quella trattativa diventata ormai insostenibile. Senza considerare, poi, la posizione dello stesso Riva che, deluso dalle modalit&agrave; con cui la societ&agrave; aveva portato avanti la negoziazione - senza interpellarlo direttamente - si era sentito trattato come un oggetto e non come un uomo sul quale pesava la rappresentativit&agrave; di un&rsquo;intera regione. Lo spargersi della notizia del suo mancato trasferimento scaten&ograve; caroselli di giubilo per tutta la citt&agrave; mentre vessilli rossobl&ugrave; andarono ad ornare le finestre delle sedi dei club dei tifosi organizzati. Riva non se n&rsquo;era andato nemmeno in quell&rsquo;estate del 1973 e, a quel punto, era evidente ai pi&ugrave; che, ormai alla soglia dei trent&rsquo;anni, avrebbe terminato la carriera nel Cagliari, diventando per sempre un simbolo di fedelt&agrave; da ostentare orgogliosamente verso il continente. &nbsp;

        Impossibile, per il Cagliari Calcio, trovare figure pi&ugrave; rappresentative di Gigi Riva. L&rsquo;indimenticabile bomber rossobl&ugrave;, che seppe portare la citt&agrave; e la Sardegna in Italia, come afferm&ograve; Gianni Brera dopo che il Cagliari vinse lo scudetto nel 1970, di quella squadra era l&rsquo;alfiere indomito, l&rsquo;uomo di sfondamento, la garanzia di successo. Personaggio peculiare, forgiato senza grazia da un&rsquo;adolescenza insolitamente difficile, Rombo di Tuono - soprannome, anch&rsquo;esso, ideato dalla penna di Brera - era arrivato sull&rsquo;isola non ancora ventenne, quasi spaventato e con un&rsquo;irrefrenabile voglia di andare in un luogo diverso che non fosse quello segnato da una natura selvaggia il cui fascino non era di immediata percezione. Seppe resistere, andare avanti, trovare spazi e tempi per mettere radici che poi lo legarono a un territorio dal quale niente riusc&igrave; pi&ugrave; a staccarlo. Nemmeno le sirene del calciomercato, che con le sue voci pi&ugrave; o meno veritiere ogni estate proiettava sulle prime pagine dei giornali la stagione successiva di Riva lontana dall&rsquo;abbraccio maliardo di una terra avara solo in apparenza.&nbsp; Il giocatore pi&ugrave; desiderato  A contendersi le sue conclusioni devastanti, le sue sbracciate a contatto coi difensori, la sua voglia di riscatto erano le grandi squadre del Nord: la Juventus, l&rsquo;Inter, il Milan. Facendo leva sulle loro capacit&agrave; economiche, a turno si facevano avanti per provare a strappare l&rsquo;attaccante di Leggiuno da quello che era diventato il suo habitat naturale, facendo affidamento sul potere quasi irresistibile che sa esercitare il denaro. Ogni anno una scommessa sulle capacit&agrave; persuasive di milioni di lire che avrebbero foraggiato le casse della societ&agrave; e soddisfatto le pretese pi&ugrave; capricciose di qualsiasi campione. Non di Riva che, avendo conosciuto da ragazzo l&rsquo;aridit&agrave; di una vita spogliata dei sentimenti, sapeva dare ai soldi il valore che meritano. Non che dubbi, nel corso di tredici anni di militanza rossobl&ugrave;, non ci siano stati. Ma alla fine Rombo di Tuono non lasci&ograve; mai il Cagliari anche perch&eacute;, quando sembrava che quel momento fosse arrivato, fu la piazza a sollevarsi per reclamare la sua permanenza nell&rsquo;isola.&nbsp; Simbolo di fedelt&agrave; al Cagliari  Avvenne nell&rsquo;estate del 1973, quando la Juventus, per metterlo sotto contratto, si rese disponibile a fare una vera follia, arrivando a offrire 400 milioni di lire oltre al trasferimento di quattro giocatori di primo livello: Bettega, Gentile, Cuccureddu e Musiello. In altre parole, un&rsquo;offerta complessiva da 2 miliardi e 300 milioni di lire. Una somma pazzesca, che probabilmente avrebbe avuto l&rsquo;effetto sperato dalla Juventus ove non fossero insorte circostanze, che consigliarono i vertici bianconeri a soprassedere, legate ai tumulti di piazza che si sollevarono quando il passaggio di Riva alla corte degli Agnelli sembr&ograve; arrivare a concretizzarsi. Minacce di bombe e di attentati nonch&eacute; l&rsquo;eventualit&agrave; del rapimento del presidente cagliaritano Arrica dissuasero la Juventus dall&rsquo;andare avanti in quella trattativa diventata ormai insostenibile. Senza considerare, poi, la posizione dello stesso Riva che, deluso dalle modalit&agrave; con cui la societ&agrave; aveva portato avanti la negoziazione - senza interpellarlo direttamente - si era sentito trattato come un oggetto e non come un uomo sul quale pesava la rappresentativit&agrave; di un&rsquo;intera regione. Lo spargersi della notizia del suo mancato trasferimento scaten&ograve; caroselli di giubilo per tutta la citt&agrave; mentre vessilli rossobl&ugrave; andarono ad ornare le finestre delle sedi dei club dei tifosi organizzati. Riva non se n&rsquo;era andato nemmeno in quell&rsquo;estate del 1973 e, a quel punto, era evidente ai pi&ugrave; che, ormai alla soglia dei trent&rsquo;anni, avrebbe terminato la carriera nel Cagliari, diventando per sempre un simbolo di fedelt&agrave; da ostentare orgogliosamente verso il continente. &nbsp;        

Nel 1973 bianconeri pronti a strappare Rombo di Tuono ai rossobl&ugrave;, ma i tifosi spinsero la societ&agrave; a rinunciare alle avances della Vecchia Signora

Calciomercato: il gran rifiuto di Riva alla Juve

Uomini, simboli, bandiere e anche campioni. Centouno anni di storie, un grande romanzo e molte delle pagine pi&ugrave; belle ed emozionanti sono state scritte proprio da chi con la Sardegna ha un legame indissolubile. <h2>Amore eterno alla maglia rossobl&ugrave;</h2> &Egrave; facile partire da chi il calcio lo ha nel DNA. Gianfranco Zola, numero 10 per eccellenza, che partito da Oliena, e dopo aver conquistato l'Inghilterra a suon di magie, &egrave; tornato a casa. Un ritorno per chiudere in bellezza una carriera fantastica. Due anni con la fascia al braccio, una promozione in Serie A e un popolo innamorato di ogni suo gesto.&nbsp;Da un Gianfranco a un altro, da un capitano a un altro. All'inizio degli anni '90 tutti erano innamorati di quel Cagliari arrembante guidato da un sardo doc (da molti considerato tra i pi&ugrave; forti di tutti i tempi) come Matteoli. Aspetto tipicamente sardo &ndash; ricci folti e bruni &ndash;, velocit&agrave; di pensiero e di esecuzione. Il suo &egrave; un sogno tipicamente sardo: giocare nel Cagliari. Lo corona con Ranieri in panchina e nel 1993-94 guida la &ldquo;sua&rdquo; squadra fino alla semifinale di Coppa Uefa. In campo in quella doppia sfida contro l'Inter non era l'unico sardo, c'erano anche Pusceddu e Sanna.&nbsp; <h2>Bomber di Sardegna&nbsp;</h2> L'isola vanta una buona tradizione di bomber. Il primo gol della storia del Cagliari non poteva essere realizzato da chi in quella citt&agrave; ci &egrave; nato. Alberto Figari &ldquo;Cocchino&rdquo; segn&ograve; una tripletta alla Torres l&rsquo;8 settembre del 1920. L'ultimo grande bomber Made in Sardegna &egrave; Marco Sau (49 reti). Nei 101 anni di gol sardi trova spazio anche Daniele Ragatzu autore del gol &ldquo;pi&ugrave; giovane&rdquo; in maglia rossobl&ugrave;. Poi come dimenticare l'incredibile coppia Piras-Virdis nata e cresciuta in casa? Uno di Selargius e l&rsquo;altro di Sindia, hanno raccolto la pesante eredit&agrave; di Riva. Un tandem assortito perfettamente che ha continuato a far battere i cuori rossobl&ugrave;.&nbsp; <h2>Nella storia&nbsp; del Cagliari</h2> A proposito di Rombo di Tuono e della sua eterna maglia numero 11, prima di lui fu indossata da un vero sardo doc, Tonino Congiu. &ldquo;Su Sirboni&rdquo;, ala piccola e incontenibile, gioc&ograve; 70&nbsp; partite in rossobl&ugrave;, di cui una in Serie A. Terminata la carriera da calciatore rimase nello staff del club, prima come allenatore della Primavera e poi come secondo di un altro monumento sardo, Mario Tiddia. Un viaggio lungo 10 anni per il difensore di Sarroch che con il Cagliari ha giocato tra la C e la A. &ldquo;Cincinnato&rdquo; &ndash; soprannome che indicava la sua capacit&agrave; di sdoppiarsi sia nel ruolo di giocatore che di allenatore &ndash; &egrave; anche nella ristretta cerchia dei sardi protagonisti in rossobl&ugrave; prima in campo e poi in panchina.

        Uomini, simboli, bandiere e anche campioni. Centouno anni di storie, un grande romanzo e molte delle pagine pi&ugrave; belle ed emozionanti sono state scritte proprio da chi con la Sardegna ha un legame indissolubile. Amore eterno alla maglia rossobl&ugrave;  &Egrave; facile partire da chi il calcio lo ha nel DNA. Gianfranco Zola, numero 10 per eccellenza, che partito da Oliena, e dopo aver conquistato l'Inghilterra a suon di magie, &egrave; tornato a casa. Un ritorno per chiudere in bellezza una carriera fantastica. Due anni con la fascia al braccio, una promozione in Serie A e un popolo innamorato di ogni suo gesto.&nbsp;Da un Gianfranco a un altro, da un capitano a un altro. All'inizio degli anni '90 tutti erano innamorati di quel Cagliari arrembante guidato da un sardo doc (da molti considerato tra i pi&ugrave; forti di tutti i tempi) come Matteoli. Aspetto tipicamente sardo &ndash; ricci folti e bruni &ndash;, velocit&agrave; di pensiero e di esecuzione. Il suo &egrave; un sogno tipicamente sardo: giocare nel Cagliari. Lo corona con Ranieri in panchina e nel 1993-94 guida la &ldquo;sua&rdquo; squadra fino alla semifinale di Coppa Uefa. In campo in quella doppia sfida contro l'Inter non era l'unico sardo, c'erano anche Pusceddu e Sanna.&nbsp; Bomber di Sardegna&nbsp;  L'isola vanta una buona tradizione di bomber. Il primo gol della storia del Cagliari non poteva essere realizzato da chi in quella citt&agrave; ci &egrave; nato. Alberto Figari &ldquo;Cocchino&rdquo; segn&ograve; una tripletta alla Torres l&rsquo;8 settembre del 1920. L'ultimo grande bomber Made in Sardegna &egrave; Marco Sau (49 reti). Nei 101 anni di gol sardi trova spazio anche Daniele Ragatzu autore del gol &ldquo;pi&ugrave; giovane&rdquo; in maglia rossobl&ugrave;. Poi come dimenticare l'incredibile coppia Piras-Virdis nata e cresciuta in casa? Uno di Selargius e l&rsquo;altro di Sindia, hanno raccolto la pesante eredit&agrave; di Riva. Un tandem assortito perfettamente che ha continuato a far battere i cuori rossobl&ugrave;.&nbsp; Nella storia&nbsp; del Cagliari  A proposito di Rombo di Tuono e della sua eterna maglia numero 11, prima di lui fu indossata da un vero sardo doc, Tonino Congiu. &ldquo;Su Sirboni&rdquo;, ala piccola e incontenibile, gioc&ograve; 70&nbsp; partite in rossobl&ugrave;, di cui una in Serie A. Terminata la carriera da calciatore rimase nello staff del club, prima come allenatore della Primavera e poi come secondo di un altro monumento sardo, Mario Tiddia. Un viaggio lungo 10 anni per il difensore di Sarroch che con il Cagliari ha giocato tra la C e la A. &ldquo;Cincinnato&rdquo; &ndash; soprannome che indicava la sua capacit&agrave; di sdoppiarsi sia nel ruolo di giocatore che di allenatore &ndash; &egrave; anche nella ristretta cerchia dei sardi protagonisti in rossobl&ugrave; prima in campo e poi in panchina.        

La societ&agrave; rossobl&ugrave;, fondata il 30 maggio 1920, vanta una lunga tradizione di calciatori nati e cresciuti in Sardegna

I sardi che hanno fatto grande il Cagliari in 101 anni di storia

Una delle ultime ali vere del calcio italiano. Francesco Moriero, anzi Checco come lo chiamava Carlo Mazzone, &egrave; stato negli anni &rsquo;90 protagonista col Cagliari di Francescoli e la Roma di Totti prima di approdare all&rsquo;Inter dove ha raccolto i successi pi&ugrave; importanti. In Sardegna fu portato proprio da Mazzone, che gi&agrave;&nbsp; lo aveva allenato a Lecce, pagato la bellezza di 5 miliardi. Due anni intensi, cinquantaquattro presenze e la qualificazione storica in Coppa Uefa prima del passaggio alla Roma, sempre col Sor Magara come allenatore. Nella Capitale rester&agrave; per tre stagioni diventando beniamino nella Curva soprattutto dopo il derby del 3-0 nel 1994 mentre sar&agrave; purtroppo inutile la sua doppietta contro lo Slavia Praga nella rimonta vanificata dal gol di Vavra. Oggi vive nel suo Salento e aspetta la chiamata da allenatore dopo l&rsquo;esperienza in Albania e la campagna di solidariet&agrave; con l&rsquo;amico Miccoli. &nbsp; Domanda d&rsquo;obbligo: che idea si &egrave; fatto del caos Superlega? &laquo;Il sogno di tutti i bambini che amano il calcio &egrave; quello che un giorno possano diventare calciatori professionisti e indossare la maglia della Nazionale, o magari giocare in Champions. Io mi sono innamorato del calcio e dei tifosi, ho giocato in piccole squadre sfidando le grandi e molte volte le ho battute anche in partite europee. Non si pu&ograve; togliere tutto questo&raquo;.&nbsp; &nbsp; Partiamo da Cagliari. Due anni intensi e un traguardo storico. Qual &egrave; la prima immagine che le viene in mente di quel periodo? &laquo;La vittoria a Torino per 1-2 nel 1994 contro la Juventus nei quarti di Coppa Uefa &egrave; la partita che mi rivedo pi&ugrave; volentieri. Arrivai a giocare al Cagliari molto giovane anche se venivo da anni importanti a Lecce. Il primo anno fu una sorpresa anche se la squadra era molto forte. Ci siamo qualificati in Coppa Uefa e ho segnato il gol decisivo al Pescara con lo scavetto per fare un regalo a Mazzone che stava andando alla Roma. L&rsquo;anno dopo arrivammo in semifinale contro l&rsquo;Inter e credo meritassimo di giungere in finale per come abbiamo giocato le due partite. Un percorso che mi ha inorgoglito&raquo;. &nbsp; In quella rosa oltre a lei c&rsquo;erano Allegri, Francescoli, Cappioli, Oliveira. Oggi dove arriverebbe quella squadra? &laquo;Non eravamo molto diversi dall&rsquo;Atalanta degli ultimi due anni. Ce la giocavamo con tutte le grandi, eravamo una realt&agrave; vera e propria. Probabilmente saremmo in Champions&raquo;.&nbsp; &nbsp; La sua carriera &egrave; contraddistinta da due grandi allenatori: Carlo Mazzone e Gigi Simoni. Ce li racconta con due aggettivi? &laquo;Due persone completamente diverse, ma unite dalla passione per questo sport. Mazzone grintoso e sempre attento a tutto anche fuori dal campo, un maniaco nel senso positivo, che a me ha dato veramente tanto. Mi ha fatto esordire a Lecce, mi ha portato a Cagliari e Roma. Un secondo padre. Simoni era una persona umile e gentile che ti lasciava tranquillo durante la settimana e che faceva sentire tutti egualmente importanti, che ci chiamassimo Moriero o Ronaldo o Zanetti. Meritava di vincere tutto e anche dopo i torti arbitrali ha mantenuto la sua signorilit&agrave;&nbsp;. Posso dire di essere stato fortunato ad aver avuto come allenatori due persone cos&igrave;&raquo;.&nbsp; &nbsp; Proprio Mazzone la vuole alla Roma. Dopo tre anni in giallorosso sta per arrivare Zeman che la stima molto e non le rinnovano il contratto. Perch&eacute;?&nbsp; &laquo;Con Zeman ci siamo amati a distanza. Dopo sei anni di Lecce mi voleva al Foggia, che aveva trovato un accordo di massima col mio club, ma ho deciso di seguire Mazzone a Cagliari. Poi, dopo due anni in Sardegna mi voleva alla Lazio, ma non potevo dire no di nuovo a Mazzone che era andato alla Roma. Sembrava una maledizione. Poi Zeman arriva alla Roma e penso che ci siamo ma non trovo l&rsquo;accordo con Sensi e resto svincolato. Ci siamo ritrovati a Napoli anni dopo ma ormai ero a fine carriera&raquo;. 27 novembre 1994, Lazio-Roma 0-3 con lei protagonista. &Eacute; vero che Carlo Mazzone aveva appeso nello spogliatoio gli articoli di giornale in cui davano gi&agrave;&nbsp; per sconfitta la Roma? &laquo;Certo che &egrave; vero. Quel derby non lo posso mai dimenticare, venivamo da una settimana molto intensa e tutti i quotidiani ci davano per sconfitti. Allora Mazzone decise che tutti i giorni avrebbe messo in risalto negli spogliatoio gli articoli dove venivano esaltati i calciatori della Lazio. Leggeva a voce alta le pagelle e i confronti che ci davano sconfitti in tutti gli scontri individuali. Siamo andati in campo col coltello tra i denti e non c&rsquo;&egrave; stata partita&raquo;. &nbsp; &Egrave; stato pure tra i protagonisti assoluti di una mancata rimonta sullo Slavia Praga. Che vi siete detti negli spogliatoi? &laquo;Se ci ripenso ancora ci sto male. Quella partita con lo Slavia fu incredibile: giocammo una gara magica, forse l&rsquo;emblema del romanismo e dell&rsquo;attaccamento alla maglia. Ricordo la coreografia della Sud, la mia doppietta, il gol di Giannini. Era la serata perfetta, potevamo vincere 12-0 e andare in semifinale. Poi &egrave; arrivato il gol casuale di Vavra. Siamo rimasti in silenzio ma sapevamo di aver dato tutto&raquo;. &nbsp; Ha fatto pi&ugrave; male quella notte, il rigore non dato a Ronaldo in Juve-Inter o la sconfitta con la Francia? &laquo;Hanno fatto male tutte e tre ma a Torino ci hanno scippato la possibilit&agrave;&nbsp; di giocarci lo scudetto, ancora aspetto la fine della partita&raquo;.&nbsp; &nbsp; &Egrave; stato testimone oculare del primo gol in A di Totti e del primo in Italia di Ronaldo il Fenomeno. Aveva la sensazione che si stava scrivendo la storia del calcio in quel momento?&nbsp; &laquo;Sapevo gi&agrave; che Totti sarebbe diventato uno dei pi&ugrave; forti in Italia, ma ha superato le mie aspettative ed &egrave; diventato uno dei pi&ugrave; forti in assoluto in Europa e nel mondo. Quando giocavamo insieme era un ragazzino ma si vedeva che aveva classe. Ronaldo era un qualcosa di straordinario. In allenamento spaventava, un giocatore unico e irripetibile. Quel periodo &egrave; stato forse la massima espressione del calcio italiano, i campioni erano campioni veri&raquo;.&nbsp; &nbsp; Anche quando giocava con Conte a Lecce aveva capito che sarebbe diventato un allenatore cos&igrave; forte?&nbsp; &laquo;Anche prima di giocare insieme. Conosco Antonio da quando avevamo 8 anni, facevamo comitiva con Petrachi e Garzya. Non si distraeva mai, nemmeno da ragazzino. Gi&agrave; allora mi dava indicazioni tattiche su come muovermi in campo&raquo;. Ha giocato in tante citt&agrave; importanti e in tutte la ricordano con affetto. &laquo;Mi hanno adottato tutti come un bambino. Quando sono andato via da Lecce piangevo, quando sono andato via da Cagliari pure. A Roma ho lasciato un pezzo di cuore e ci torno spesso. Sono i trofei pi&ugrave; belli&raquo;. Bellissima l&rsquo;iniziativa benefica con Miccoli. Ora Moriero cosa far&agrave; da grande? &laquo;Con Fabrizio nel periodo pi&ugrave; difficile per il Covid siamo voluti scendere in campo mettendo all&rsquo;asta le nostre maglie per poter comprare beni di prima necessit&agrave; per tutte quelle famiglie in difficolt&agrave; e diciamo che siamo arrivati a consegnare la spesa per 1800 famiglie. Quindi due bei gol. Io ormai sono 11 anni che ho intrapreso la carriera da allenatore di calcio tra alti e bassi. Aspetto la grande occasione, spero arrivi presto&raquo;

Una delle ultime ali vere del calcio italiano. Francesco Moriero, anzi Checco come lo chiamava Carlo Mazzone, &egrave; stato negli anni &rsquo;90 protagonista col Cagliari di Francescoli e la Roma di Totti prima di approdare all&rsquo;Inter dove ha raccolto i successi pi&ugrave; importanti. In Sardegna fu portato proprio da Mazzone, che gi&agrave;&nbsp; lo aveva allenato a Lecce, pagato la bellezza di 5 miliardi. Due anni intensi, cinquantaquattro presenze e la qualificazione storica in Coppa Uefa prima del passaggio alla Roma, sempre col Sor Magara come allenatore. Nella Capitale rester&agrave; per tre stagioni diventando beniamino nella Curva soprattutto dopo il derby del 3-0 nel 1994 mentre sar&agrave; purtroppo inutile la sua doppietta contro lo Slavia Praga nella rimonta vanificata dal gol di Vavra. Oggi vive nel suo Salento e aspetta la chiamata da allenatore dopo l&rsquo;esperienza in Albania e la campagna di solidariet&agrave; con l&rsquo;amico Miccoli.  &nbsp;  Domanda d&rsquo;obbligo: che idea si &egrave; fatto del caos Superlega?  &laquo;Il sogno di tutti i bambini che amano il calcio &egrave; quello che un giorno possano diventare calciatori professionisti e indossare la maglia della Nazionale, o magari giocare in Champions. Io mi sono innamorato del calcio e dei tifosi, ho giocato in piccole squadre sfidando le grandi e molte volte le ho battute anche in partite europee. Non si pu&ograve; togliere tutto questo&raquo;.&nbsp;  &nbsp;  Partiamo da Cagliari. Due anni intensi e un traguardo storico. Qual &egrave; la prima immagine che le viene in mente di quel periodo?  &laquo;La vittoria a Torino per 1-2 nel 1994 contro la Juventus nei quarti di Coppa Uefa &egrave; la partita che mi rivedo pi&ugrave; volentieri. Arrivai a giocare al Cagliari molto giovane anche se venivo da anni importanti a Lecce. Il primo anno fu una sorpresa anche se la squadra era molto forte. Ci siamo qualificati in Coppa Uefa e ho segnato il gol decisivo al Pescara con lo scavetto per fare un regalo a Mazzone che stava andando alla Roma. L&rsquo;anno dopo arrivammo in semifinale contro l&rsquo;Inter e credo meritassimo di giungere in finale per come abbiamo giocato le due partite. Un percorso che mi ha inorgoglito&raquo;.  &nbsp;  In quella rosa oltre a lei c&rsquo;erano Allegri, Francescoli, Cappioli, Oliveira. Oggi dove arriverebbe quella squadra?  &laquo;Non eravamo molto diversi dall&rsquo;Atalanta degli ultimi due anni. Ce la giocavamo con tutte le grandi, eravamo una realt&agrave; vera e propria. Probabilmente saremmo in Champions&raquo;.&nbsp;  &nbsp;  La sua carriera &egrave; contraddistinta da due grandi allenatori: Carlo Mazzone e Gigi Simoni. Ce li racconta con due aggettivi?  &laquo;Due persone completamente diverse, ma unite dalla passione per questo sport. Mazzone grintoso e sempre attento a tutto anche fuori dal campo, un maniaco nel senso positivo, che a me ha dato veramente tanto. Mi ha fatto esordire a Lecce, mi ha portato a Cagliari e Roma. Un secondo padre. Simoni era una persona umile e gentile che ti lasciava tranquillo durante la settimana e che faceva sentire tutti egualmente importanti, che ci chiamassimo Moriero o Ronaldo o Zanetti. Meritava di vincere tutto e anche dopo i torti arbitrali ha mantenuto la sua signorilit&agrave;&nbsp;. Posso dire di essere stato fortunato ad aver avuto come allenatori due persone cos&igrave;&raquo;.&nbsp;  &nbsp;  Proprio Mazzone la vuole alla Roma. Dopo tre anni in giallorosso sta per arrivare Zeman che la stima molto e non le rinnovano il contratto. Perch&eacute;?&nbsp;  &laquo;Con Zeman ci siamo amati a distanza. Dopo sei anni di Lecce mi voleva al Foggia, che aveva trovato un accordo di massima col mio club, ma ho deciso di seguire Mazzone a Cagliari. Poi, dopo due anni in Sardegna mi voleva alla Lazio, ma non potevo dire no di nuovo a Mazzone che era andato alla Roma. Sembrava una maledizione. Poi Zeman arriva alla Roma e penso che ci siamo ma non trovo l&rsquo;accordo con Sensi e resto svincolato. Ci siamo ritrovati a Napoli anni dopo ma ormai ero a fine carriera&raquo;.   27 novembre 1994, Lazio-Roma 0-3 con lei protagonista. &Eacute; vero che Carlo Mazzone aveva appeso nello spogliatoio gli articoli di giornale in cui davano gi&agrave;&nbsp; per sconfitta la Roma?  &laquo;Certo che &egrave; vero. Quel derby non lo posso mai dimenticare, venivamo da una settimana molto intensa e tutti i quotidiani ci davano per sconfitti. Allora Mazzone decise che tutti i giorni avrebbe messo in risalto negli spogliatoio gli articoli dove venivano esaltati i calciatori della Lazio. Leggeva a voce alta le pagelle e i confronti che ci davano sconfitti in tutti gli scontri individuali. Siamo andati in campo col coltello tra i denti e non c&rsquo;&egrave; stata partita&raquo;.  &nbsp;  &Egrave; stato pure tra i protagonisti assoluti di una mancata rimonta sullo Slavia Praga. Che vi siete detti negli spogliatoi?  &laquo;Se ci ripenso ancora ci sto male. Quella partita con lo Slavia fu incredibile: giocammo una gara magica, forse l&rsquo;emblema del romanismo e dell&rsquo;attaccamento alla maglia. Ricordo la coreografia della Sud, la mia doppietta, il gol di Giannini. Era la serata perfetta, potevamo vincere 12-0 e andare in semifinale. Poi &egrave; arrivato il gol casuale di Vavra. Siamo rimasti in silenzio ma sapevamo di aver dato tutto&raquo;.  &nbsp;  Ha fatto pi&ugrave; male quella notte, il rigore non dato a Ronaldo in Juve-Inter o la sconfitta con la Francia?  &laquo;Hanno fatto male tutte e tre ma a Torino ci hanno scippato la possibilit&agrave;&nbsp; di giocarci lo scudetto, ancora aspetto la fine della partita&raquo;.&nbsp;  &nbsp;  &Egrave; stato testimone oculare del primo gol in A di Totti e del primo in Italia di Ronaldo il Fenomeno. Aveva la sensazione che si stava scrivendo la storia del calcio in quel momento?&nbsp;  &laquo;Sapevo gi&agrave; che Totti sarebbe diventato uno dei pi&ugrave; forti in Italia, ma ha superato le mie aspettative ed &egrave; diventato uno dei pi&ugrave; forti in assoluto in Europa e nel mondo. Quando giocavamo insieme era un ragazzino ma si vedeva che aveva classe. Ronaldo era un qualcosa di straordinario. In allenamento spaventava, un giocatore unico e irripetibile. Quel periodo &egrave; stato forse la massima espressione del calcio italiano, i campioni erano campioni veri&raquo;.&nbsp;  &nbsp;  Anche quando giocava con Conte a Lecce aveva capito che sarebbe diventato un allenatore cos&igrave; forte?&nbsp;  &laquo;Anche prima di giocare insieme. Conosco Antonio da quando avevamo 8 anni, facevamo comitiva con Petrachi e Garzya. Non si distraeva mai, nemmeno da ragazzino. Gi&agrave; allora mi dava indicazioni tattiche su come muovermi in campo&raquo;.  Ha giocato in tante citt&agrave; importanti e in tutte la ricordano con affetto. &laquo;Mi hanno adottato tutti come un bambino. Quando sono andato via da Lecce piangevo, quando sono andato via da Cagliari pure. A Roma ho lasciato un pezzo di cuore e ci torno spesso. Sono i trofei pi&ugrave; belli&raquo;.  Bellissima l&rsquo;iniziativa benefica con Miccoli. Ora Moriero cosa far&agrave; da grande? &laquo;Con Fabrizio nel periodo pi&ugrave; difficile per il Covid siamo voluti scendere in campo mettendo all&rsquo;asta le nostre maglie per poter comprare beni di prima necessit&agrave; per tutte quelle famiglie in difficolt&agrave; e diciamo che siamo arrivati a consegnare la spesa per 1800 famiglie. Quindi due bei gol. Io ormai sono 11 anni che ho intrapreso la carriera da allenatore di calcio tra alti e bassi. Aspetto la grande occasione, spero arrivi presto&raquo; 

Classica ala da numero 7, tra rossobl&ugrave; e giallorossi visse momenti importanti. Li ha ricordati da doppio ex in vista della gara di domani&nbsp;

Francesco Moriero: &laquo;Da Cagliari a Roma un calcio di emozioni&raquo;

Un giorno speciale per una squadra speciale, perch&eacute; il Cagliari sulla cartina geografica del calcio italiano ha senza dubbio un posto di rilievo: a differenza di tutte le altre squadre, infatti, rappresenta non solo una citt&agrave;, ma un&rsquo;intera regione.&nbsp;E allora oggi tutta la Sardegna alza i calici al cielo per celebrare i 100 anni di un club entrato prepotentemente nella storia del calcio italiano. Fondato il 30 maggio 1920, approda per la prima volta in Serie A nel campionato 1964-65. Quella che segue &egrave; semplicemente una favola diventata realt&agrave;. Quel gruppo fantastico che nel 1970 vince uno storico scudetto, &egrave; la squadra di tutti, &egrave; la conferma che nel calcio esistono imprese indelebili, destinate a entrare nella leggenda. Un gruppo composto da uomini d&rsquo;altri tempi, messo in campo dal &ldquo;Filosofo&rdquo; Scopigno e guidato da Gigi Riva, leader tecnico e carismatico che capisce alla perfezione cosa significhino quei colori per i tifosi sardi e per chiunque ami lo sport, attratto sintomaticamente da una romantica realt&agrave; in grado di scrivere una pagina inedita del nostro calcio.&nbsp;Rimane quello il punto pi&ugrave; alto della storia rossobl&ugrave;, ma resta anche un apripista per tutto quello che &egrave; venuto in seguito. Altri 50 anni ricchi di storia, di calciatori e campioni, ma soprattutto di uomini che hanno contribuito a raccontare al mondo cosa significa giocare per il Cagliari. Dai figli della Sardegna come Piras, Virdis, Matteoli o Zola, ai figli adottati da questa fantastica terra, come lo storico capitano Daniele Conti o l&rsquo;attuale leader tecnico Radja Nainggolan. Senza dimenticare gli uruguagi Francescoli, Pepe Herrera, O&rsquo;Neill, Diego Lopez (e tanti altri) calciatori capaci di caratterizzare l&rsquo;epoca moderna dando tanto e ricevendo amore incondizionato. O i grandi bomber come Luis Oliveira e David Suazo, fino ad arrivare alle ultime stagioni in cui il presidente Giulini&nbsp;&egrave; riuscito a plasmare&nbsp;una creatura sempre pi&ugrave; ambiziosa. Il Cagliari resta e rester&agrave;, chiss&agrave; per quanto ancora, l&rsquo;unica squadra sarda ad aver raggiunto i vertici del nostro calcio.

        Un giorno speciale per una squadra speciale, perch&eacute; il Cagliari sulla cartina geografica del calcio italiano ha senza dubbio un posto di rilievo: a differenza di tutte le altre squadre, infatti, rappresenta non solo una citt&agrave;, ma un&rsquo;intera regione.&nbsp;E allora oggi tutta la Sardegna alza i calici al cielo per celebrare i 100 anni di un club entrato prepotentemente nella storia del calcio italiano. Fondato il 30 maggio 1920, approda per la prima volta in Serie A nel campionato 1964-65. Quella che segue &egrave; semplicemente una favola diventata realt&agrave;. Quel gruppo fantastico che nel 1970 vince uno storico scudetto, &egrave; la squadra di tutti, &egrave; la conferma che nel calcio esistono imprese indelebili, destinate a entrare nella leggenda. Un gruppo composto da uomini d&rsquo;altri tempi, messo in campo dal &ldquo;Filosofo&rdquo; Scopigno e guidato da Gigi Riva, leader tecnico e carismatico che capisce alla perfezione cosa significhino quei colori per i tifosi sardi e per chiunque ami lo sport, attratto sintomaticamente da una romantica realt&agrave; in grado di scrivere una pagina inedita del nostro calcio.&nbsp;Rimane quello il punto pi&ugrave; alto della storia rossobl&ugrave;, ma resta anche un apripista per tutto quello che &egrave; venuto in seguito. Altri 50 anni ricchi di storia, di calciatori e campioni, ma soprattutto di uomini che hanno contribuito a raccontare al mondo cosa significa giocare per il Cagliari. Dai figli della Sardegna come Piras, Virdis, Matteoli o Zola, ai figli adottati da questa fantastica terra, come lo storico capitano Daniele Conti o l&rsquo;attuale leader tecnico Radja Nainggolan. Senza dimenticare gli uruguagi Francescoli, Pepe Herrera, O&rsquo;Neill, Diego Lopez (e tanti altri) calciatori capaci di caratterizzare l&rsquo;epoca moderna dando tanto e ricevendo amore incondizionato. O i grandi bomber come Luis Oliveira e David Suazo, fino ad arrivare alle ultime stagioni in cui il presidente Giulini&nbsp;&egrave; riuscito a plasmare&nbsp;una creatura sempre pi&ugrave; ambiziosa. Il Cagliari resta e rester&agrave;, chiss&agrave; per quanto ancora, l&rsquo;unica squadra sarda ad aver raggiunto i vertici del nostro calcio.       

Il club sardo festeggia oggi il Centenario dalla sua fondazione, 30 maggio 1920. Il punto pi&ugrave; alto del club rossobl&ugrave; &egrave; il tricolore del 1970, con Gigi Riva in campo e Manlio Scopigno in panchina

Cagliari, 100 anni di storia e uno scudetto da sogno VIDEO

Il 12 aprile 1970 sar&agrave; per sempre il giorno dello scudetto del Cagliari. Un evento di portata storica per tutta la Sardegna, ma certo non un miracolo visto che quella squadra avrebbe avuto ben 6 giocatori fra i convocati di Valcareggi per il Mondiale in Messico: Albertosi, Niccolai, Cera, Domenghini, Gori e Riva&hellip; Insomma, Manlio Scopigno aveva fra le mani calciatori quasi tutti di primissimo piano ed &egrave; per questo che lo scudetto del Cagliari &egrave; pi&ugrave; simile a quello della Sampdoria 1990-91 che a quello del Verona 1984-85, con tutto il rispetto per la buona rosa di Bagnoli. Esattamente cinquant&rsquo;anni fa in un Amsicora strapieno, 30.000 spettatori, quel pomeriggio (si giocava alle 15.30) il Cagliari super&ograve; 2-0 il Bari, gol di Riva (colpo di testa, sfruttando un calcio di punizione di Brugnera) e Gori, e a due giornate dalla fine vinse matematicamente, essendo a pi&ugrave; 5 punti su Juventus e Inter, quel titolo a cui pensava da anni e che la stagione precedente aveva quasi buttato via, dopo essere stato in testa alla classifica fino all&#39;inizio di marzo.&nbsp; Il primo momento decisivo di quello scudetto 1969-70 fu la vittoria alla quinta giornata, il 12 ottobre, sul campo della Fiorentina campione in carica: rigore di Riva e mille polemiche dei viola. L&igrave; fra l&rsquo;altro ci fu il soprasso in testa alla classifica, con Fiorentina e Inter dietro di un punto (la vittoria ne valeva due, ricordiamo sempre).&nbsp;Il secondo momento fu la sconfitta sul campo del Palermo, il 14 dicembre, con gol di Troja e lunga squalifica di Scopigno per insulti all&rsquo;arbitro: ma il Cagliari seppe reagire bene e proseguire la sua cavalcata. Il terzo momento decisivo, quello che in tanti ricordano, il 15 marzo 1970 a Torino contro la Juventus. I bianconeri avevano iniziato male il campionato, ma con una grande rimonta si erano portati a meno 2 del Cagliari proprio prima dello scontro diretto. Autogol di Niccolai, pareggio di Riva con una prodezza pazzesca, in quella situazione: aggancio per portarsi il pallone sulla testa e gol. Rigore per la Juventus, battuta di Haller e respinta di Albertosi, ma Lo Bello fece ripetere: Anastasi e 2-1 Juventus. Di rigore anche il 2-2, per un fallo ancora pi&ugrave; dubbio di quello che aveva causato il rigore per i bianconeri: lo segn&ograve; Riva, a 7 minuti dalla fine, in un clima di enorme tensione, con Anzolin che riusc&igrave; solo a sfiorare il pallone. Senza dubbio il rigore, per non dire il gol, pi&ugrave; importante nella storia del Cagliari.&nbsp; Ma tornando al discorso iniziale, bisogna ribadire che quel Cagliari aveva ben poco della squadra di provincia, visto che al di l&agrave; dei dirigenti che ci mettevano la faccia (Arrica il pi&ugrave; famoso) alle spalle aveva colossi della chimica e della raffinazione petrolifera come la Sir di Nino Rovelli e la Saras di Angelo Moratti, entrambi di base a Milano ma che in Sardegna avevano interessi e finanziamenti pubblici enormi. Lo scudetto del Cagliari fu insomma anche frutto di un progetto finanziario e politico, cosa che del resto si pu&ograve; dire di quasi tutti gli scudetti. Semmai un po&#39; casuale fu la panchina di Scopigno, che nel 1966-67 aveva guidato il Cagliari a un sesto posto che in parte aveva deluso (Riva era gi&agrave; Riva, poi c&rsquo;erano Cera, Niccolai, Nen&eacute;. Boninsegna&hellip;) e dopo un torneo estivo negli Stati Uniti era stato esonerato. Non solo: Moratti lo aveva anche bloccato (pagandolo personalmente per stare fermo un anno) per sostituire Helenio Herrera ormai al capolinea del suo ciclo interista. Quando per&ograve; nel 1968 Herrera effettivamente lasci&ograve; l&rsquo;Inter per la Roma il club nerazzurro fu lasciato anche da Moratti, che avendo interessi anche nel Cagliari propose-impose al club sardo l&rsquo;allenatore da lui controllato, che a Cagliari in pochi rimpiangevano. Scopigno prese il posto di Puricelli e leg&ograve; per sempre il suo nome ad una grande impresa, rimasta nella testa anche di chi non l&rsquo;ha vissuta dal vivo.

Il 12 aprile 1970 sar&agrave; per sempre il giorno dello scudetto del Cagliari. Un evento di portata storica per tutta la Sardegna, ma certo non un miracolo visto che quella squadra avrebbe avuto ben 6 giocatori fra i convocati di Valcareggi per il Mondiale in Messico: Albertosi, Niccolai, Cera, Domenghini, Gori e Riva&hellip; Insomma, Manlio Scopigno aveva fra le mani calciatori quasi tutti di primissimo piano ed &egrave; per questo che lo scudetto del Cagliari &egrave; pi&ugrave; simile a quello della Sampdoria 1990-91 che a quello del Verona 1984-85, con tutto il rispetto per la buona rosa di Bagnoli.  Esattamente cinquant&rsquo;anni fa in un Amsicora strapieno, 30.000 spettatori, quel pomeriggio (si giocava alle 15.30) il Cagliari super&ograve; 2-0 il Bari, gol di Riva (colpo di testa, sfruttando un calcio di punizione di Brugnera) e Gori, e a due giornate dalla fine vinse matematicamente, essendo a pi&ugrave; 5 punti su Juventus e Inter, quel titolo a cui pensava da anni e che la stagione precedente aveva quasi buttato via, dopo essere stato in testa alla classifica fino all&#39;inizio di marzo.&nbsp;  Il primo momento decisivo di quello scudetto 1969-70 fu la vittoria alla quinta giornata, il 12 ottobre, sul campo della Fiorentina campione in carica: rigore di Riva e mille polemiche dei viola. L&igrave; fra l&rsquo;altro ci fu il soprasso in testa alla classifica, con Fiorentina e Inter dietro di un punto (la vittoria ne valeva due, ricordiamo sempre).&nbsp;Il secondo momento fu la sconfitta sul campo del Palermo, il 14 dicembre, con gol di Troja e lunga squalifica di Scopigno per insulti all&rsquo;arbitro: ma il Cagliari seppe reagire bene e proseguire la sua cavalcata. Il terzo momento decisivo, quello che in tanti ricordano, il 15 marzo 1970 a Torino contro la Juventus. I bianconeri avevano iniziato male il campionato, ma con una grande rimonta si erano portati a meno 2 del Cagliari proprio prima dello scontro diretto. Autogol di Niccolai, pareggio di Riva con una prodezza pazzesca, in quella situazione: aggancio per portarsi il pallone sulla testa e gol. Rigore per la Juventus, battuta di Haller e respinta di Albertosi, ma Lo Bello fece ripetere: Anastasi e 2-1 Juventus. Di rigore anche il 2-2, per un fallo ancora pi&ugrave; dubbio di quello che aveva causato il rigore per i bianconeri: lo segn&ograve; Riva, a 7 minuti dalla fine, in un clima di enorme tensione, con Anzolin che riusc&igrave; solo a sfiorare il pallone. Senza dubbio il rigore, per non dire il gol, pi&ugrave; importante nella storia del Cagliari.&nbsp;  Ma tornando al discorso iniziale, bisogna ribadire che quel Cagliari aveva ben poco della squadra di provincia, visto che al di l&agrave; dei dirigenti che ci mettevano la faccia (Arrica il pi&ugrave; famoso) alle spalle aveva colossi della chimica e della raffinazione petrolifera come la Sir di Nino Rovelli e la Saras di Angelo Moratti, entrambi di base a Milano ma che in Sardegna avevano interessi e finanziamenti pubblici enormi. Lo scudetto del Cagliari fu insomma anche frutto di un progetto finanziario e politico, cosa che del resto si pu&ograve; dire di quasi tutti gli scudetti.  Semmai un po&#39; casuale fu la panchina di Scopigno, che nel 1966-67 aveva guidato il Cagliari a un sesto posto che in parte aveva deluso (Riva era gi&agrave; Riva, poi c&rsquo;erano Cera, Niccolai, Nen&eacute;. Boninsegna&hellip;) e dopo un torneo estivo negli Stati Uniti era stato esonerato. Non solo: Moratti lo aveva anche bloccato (pagandolo personalmente per stare fermo un anno) per sostituire Helenio Herrera ormai al capolinea del suo ciclo interista. Quando per&ograve; nel 1968 Herrera effettivamente lasci&ograve; l&rsquo;Inter per la Roma il club nerazzurro fu lasciato anche da Moratti, che avendo interessi anche nel Cagliari propose-impose al club sardo l&rsquo;allenatore da lui controllato, che a Cagliari in pochi rimpiangevano. Scopigno prese il posto di Puricelli e leg&ograve; per sempre il suo nome ad una grande impresa, rimasta nella testa anche di chi non l&rsquo;ha vissuta dal vivo. 

Il 12 aprile del 1970 la storica impresa della squadra di Riva, Cera e Domenghini, allenata da Scopigno e costruita nelle stagioni precedenti grazie ai soldi di colossi della chimica...

Lo scudetto senza miracoli del Cagliari

Campionato di Serie A 1981-82, ultima giornata. La Fiorentina e la Juventus sono appaiate in testa alla classifica prima degli ultimi 90 minuti: uno scenario forse irripetibile, per gli intrecci che si verificarono quella domenica e che lasciarono uno strascico polemico. Era il 16 maggio 1982, il giorno in cui i viola mancarono il terzo scudetto della loro storia. Come rievoca l'allenatore della Fiorentina di allora, Giancarlo "Picchio" De Sisti, &egrave; stata una delusione che brucia ancora oggi. Viola ambiziosa.&nbsp;La famiglia Pontello aveva allestito una squadra di tutto rispetto per la stagione 1981-82, consegnata nelle mani di De Sisti con grandi ambizioni. L'obiettivo era quello di riportare il tricolore in Toscana: arrivarono elementi esperti come Cuccureddu (Juventus), Vierchowod&nbsp;(Como, via Roma),&nbsp;Pecci e Graziani (entrambi dal Torino), a puntellare la base che comprendeva i vari Galli, Galbiati, Antognoni e Bertoni. Testa a testa.&nbsp;De Sisti dovette fare a meno per qualche mese del suo capitano Giancarlo Antognoni, gravemente infortunato nel celebre scontro con il portiere genoano Martina, e lo sostitu&igrave; con Miani. Il testa a testa con la Juventus fu molto equilibrato, a cominciare dagli scontri diretti entrambi terminati a reti bianche. Ed eccoci alla giornata numero 30. La classifica recita: Fiorentina e Juventus in vetta, con 44 punti. Un finale clamoroso attendeva le due squadre, entrambe impegnate in trasferta. Ma la Fiorentina aveva il compito pi&ugrave; arduo, impegnata a Cagliari contro una squadra alla ricerca di un punto decisivo per la salvezza. I rivali bianconeri dovevano invece recarsi in casa del Catanzaro gi&agrave; tranquillo. Sui due campi la tensione &egrave; palpabile, ma &egrave; innegabile che l'atmosfera fosse pi&ugrave; pesante al Sant'Elia: Scudetto Vs Salvezza. Domenica decisiva.&nbsp;A Cagliari la Viola &egrave; contratta, non spinge e le viene annullato un gol, allorch&eacute; l'arbitro Mattei punisce un fallo di Bertoni sul portiere Corti e vanifica la rete di Graziani. In Calabria la gara si sblocca ad un quarto d'ora dalla fine, Juventus in vantaggio su rigore con Brady. Solo a quel punto la Fiorentina intensifica la pressione sui sardi, ma &egrave; ormai tardi. Catanzaro-Juventus 0-1, Cagliari-Fiorentina 0-0: i bianconeri conquistano il loro 20&deg; tricolore con un solo punto sui viola di De Sisti, che quella domenica di maggio la rivive con amarezza, evidentemente non lenita dal tempo: <blockquote> <h3>Ogni qualvolta si riparla di quella partita, si riapre una ferita mai rimarginata del tutto. Ovviamente in tutto questo il Cagliari non c'entra nulla, spettatore interessato perch&eacute; in cerca del punto decisivo per salvarsi. </h3> <h3>Non credo che i tifosi della Fiorentina abbiano mai completamente digerito la sensazione di essere stati in qualche modo defraudati.</h3> <h3>In quel campionato abbiamo comunque sciupato delle buone occasioni, mi riferisco in particolare alla vittoria non conquistata nello scontro diretto al ritorno, sul nostro campo. Lo spareggio sarebbe stato il completamento forse pi&ugrave; giusto di quel campionato, anche se non ci sarebbe stato il tempo di disputarlo perch&eacute; incombeva il Mondiale di Spagna. Con amarezza, certo: ma &egrave; stato giusto stringere la mano ai nostri avversari.&nbsp;</h3> <h3>Fa ancora arrabbiare ripensarci, anche grazie ai confronti con gli juventini dell'epoca. Nel tempo ho avuto modo di parlarne con i vari Brio, Tardelli, ecc.: non hanno mai ammesso chiaramente la "particolarit&agrave;" della loro vittoria, ma piuttosto compreso la rabbia viola per certi episodi che accaddero quel giorno. Non dimentichiamoci del rigore non concesso al Catanzaro (fallo di Brio su Borghi, ndr).</h3> <h3>Rammento ancora un vecchio slogan tornato di moda a Firenze dopo quegli episodi: 'Meglio secondi che ladri'. Insomma, una polemica mai sopita ancora oggi. E che, a distanza di cos&igrave; tanto tempo, suscita ancora in me dei ricordi antipatici.</h3> &nbsp;</blockquote> Fabio Ornano @fabio_ornano

Campionato di Serie A 1981-82, ultima giornata. La Fiorentina e la Juventus sono appaiate in testa alla classifica prima degli ultimi 90 minuti: uno scenario forse irripetibile, per gli intrecci che si verificarono quella domenica e che lasciarono uno strascico polemico. Era il 16 maggio 1982, il giorno in cui i viola mancarono il terzo scudetto della loro storia. Come rievoca l'allenatore della Fiorentina di allora, Giancarlo "Picchio" De Sisti, &egrave; stata una delusione che brucia ancora oggi.  Viola ambiziosa.&nbsp;La famiglia Pontello aveva allestito una squadra di tutto rispetto per la stagione 1981-82, consegnata nelle mani di De Sisti con grandi ambizioni. L'obiettivo era quello di riportare il tricolore in Toscana: arrivarono elementi esperti come Cuccureddu (Juventus), Vierchowod&nbsp;(Como, via Roma),&nbsp;Pecci e Graziani (entrambi dal Torino), a puntellare la base che comprendeva i vari Galli, Galbiati, Antognoni e Bertoni.  Testa a testa.&nbsp;De Sisti dovette fare a meno per qualche mese del suo capitano Giancarlo Antognoni, gravemente infortunato nel celebre scontro con il portiere genoano Martina, e lo sostitu&igrave; con Miani. Il testa a testa con la Juventus fu molto equilibrato, a cominciare dagli scontri diretti entrambi terminati a reti bianche. Ed eccoci alla giornata numero 30. La classifica recita: Fiorentina e Juventus in vetta, con 44 punti. Un finale clamoroso attendeva le due squadre, entrambe impegnate in trasferta. Ma la Fiorentina aveva il compito pi&ugrave; arduo, impegnata a Cagliari contro una squadra alla ricerca di un punto decisivo per la salvezza. I rivali bianconeri dovevano invece recarsi in casa del Catanzaro gi&agrave; tranquillo. Sui due campi la tensione &egrave; palpabile, ma &egrave; innegabile che l'atmosfera fosse pi&ugrave; pesante al Sant'Elia: Scudetto Vs Salvezza.  Domenica decisiva.&nbsp;A Cagliari la Viola &egrave; contratta, non spinge e le viene annullato un gol, allorch&eacute; l'arbitro Mattei punisce un fallo di Bertoni sul portiere Corti e vanifica la rete di Graziani. In Calabria la gara si sblocca ad un quarto d'ora dalla fine, Juventus in vantaggio su rigore con Brady. Solo a quel punto la Fiorentina intensifica la pressione sui sardi, ma &egrave; ormai tardi. Catanzaro-Juventus 0-1, Cagliari-Fiorentina 0-0: i bianconeri conquistano il loro 20&deg; tricolore con un solo punto sui viola di De Sisti, che quella domenica di maggio la rivive con amarezza, evidentemente non lenita dal tempo:  Ogni qualvolta si riparla di quella partita, si riapre una ferita mai rimarginata del tutto. Ovviamente in tutto questo il Cagliari non c'entra nulla, spettatore interessato perch&eacute; in cerca del punto decisivo per salvarsi.  Non credo che i tifosi della Fiorentina abbiano mai completamente digerito la sensazione di essere stati in qualche modo defraudati. In quel campionato abbiamo comunque sciupato delle buone occasioni, mi riferisco in particolare alla vittoria non conquistata nello scontro diretto al ritorno, sul nostro campo. Lo spareggio sarebbe stato il completamento forse pi&ugrave; giusto di quel campionato, anche se non ci sarebbe stato il tempo di disputarlo perch&eacute; incombeva il Mondiale di Spagna. Con amarezza, certo: ma &egrave; stato giusto stringere la mano ai nostri avversari.&nbsp; Fa ancora arrabbiare ripensarci, anche grazie ai confronti con gli juventini dell'epoca. Nel tempo ho avuto modo di parlarne con i vari Brio, Tardelli, ecc.: non hanno mai ammesso chiaramente la "particolarit&agrave;" della loro vittoria, ma piuttosto compreso la rabbia viola per certi episodi che accaddero quel giorno. Non dimentichiamoci del rigore non concesso al Catanzaro (fallo di Brio su Borghi, ndr). Rammento ancora un vecchio slogan tornato di moda a Firenze dopo quegli episodi: 'Meglio secondi che ladri'. Insomma, una polemica mai sopita ancora oggi. E che, a distanza di cos&igrave; tanto tempo, suscita ancora in me dei ricordi antipatici. &nbsp; Fabio Ornano @fabio_ornano

Cagliari-Fiorentina, De Sisti rievoca l'amarezza del 1982: "Una ferita ancora aperta"

Alle porte c'&egrave;&nbsp;Inter-Cagliari, una partita che evoca tanti ricordi. Allo spirare dell'ottobre&nbsp;1970 la squadra di Scopigno, con lo scudetto sul petto, pass&ograve;&nbsp;nel giro di pochi giorni dalla massima esaltazione alla desolazione.&nbsp;Protagonista principe di questa storia &egrave; Gigi Riva, eroe rossoblu ed azzurro. 25 ottobre 1970, quarta giornata di Serie A. Il Cagliari campione d'Italia &egrave; reduce da due vittorie e un pareggio. La squadra isolana &egrave; in ottime condizioni di forma e schiera in campo a Milano contro l'Inter la formazione migliore: Albertosi, Martiradonna, Mancin, Cera, Niccolai, Tomasini, Domenghini, Nen&egrave;, Gori, Greatti, Riva. Dall'altra parte Heriberto Herrera deve fare a meno di diversi titolari, tra cui Boninsegna, Bedin e Jair: giocano Vieri, Burgnich, Facchetti, Fabbian, Giubertoni, Cella, Pellizzaro, Mazzola, Reif, Bertini, Corso. Arbitra nientemeno che Concetto Lo Bello di Siracusa. Dopo appena 7 minuti il Cagliari si porta in vantaggio: punizione dal limite, Greatti tocca per il sinistro di Riva che infila di potenza nella porta nerazzurra. La combinazione si ripete alla perfezione al 21&deg;, con il numero 10 che chiude il triangolo con il bomber e lo imbecca al limite dell'area piccola: Fabbian in scivolata e Vieri in uscita non possono nulla sulla seconda zampata di Giggirriva. Una doppietta che si abbatte come un ciclone sull'Inter, con gli ospiti che dominano in lungo e in largo. A 11 minuti dalla fine &egrave; Domenghini che supera il portiere in uscita con un tocco morbido, Riva accompagna la palla in rete senza toccarla. Gigi la raccoglie e la calcia altissima con il suo sinistro, un'esultanza che &egrave; insieme sfogo e consapevolezza per un'affermazione importante. All'Inter non rimane che la consolazione del 3-1 di Mazzola all'88&deg;. Quel giorno davanti ai 70.000 di San Siro il Cagliari gioca forse la sua migliore partita, che ne consolida la fama di grande squadra in testa alla classifica. Di pi&ugrave;: il celebre giornalista Gianni Brera viene talmente abbagliato dalla prestazione superlativa di Riva che conia per lui il soprannome che lo avrebbe reso immortale: Rombo di Tuono. Nessuno immagina che il destino beffardo sia invece pronto dietro l'angolo, ad attendere i sogni del giocatore e del Cagliari. Il sabato successivo a quella grande partita di San Siro, l'Italia infarcita di quattro cagliaritani debutta nelle eliminatorie per l'Europeo 1972. Ecco l'Austria nel celebre campo del Prater: gli azzurri di Valcareggi sono in vantaggio per 2-1 grazie alle reti di De Sisti e Mazzola quando, nella ripresa, Riva riceve la palla. Supera un avversario e punta l'area austriaca, vorrebbe entrare anche lui tra i marcatori. Non la pensa cos&igrave; Norbert Hof, che contrasta il numero 11 da dietro e gli ingabbia la gamba destra. Le urla di Gigi e la disperazione di Domenghini che lo soccorre lasciano poche speranze: &egrave; il secondo grave infortunio per Riva in Nazionale, si tratta di frattura del perone (con interessamento dei legamenti della caviglia) proprio come tre anni prima con il Portogallo in cui si ruppe il sinistro. Da quel 31 ottobre 1970 Hof diviene &ldquo;Il boia del Prater&rdquo; ed il Cagliari comincia la sua triste discesa, senza il suo cannoniere che l'aveva portato alla gloria. Il sogno della Coppa dei Campioni svanisce sul campo dell'Atl&eacute;tico Madrid pochi giorni dopo: dopo aver superato il Saint-Etienne al primo turno e vinta l'andata sugli spagnoli, il ritorno senza Riva diventa un ostacolo insormontabile. In campionato arriva un mesto settimo posto. L'epopea rossoblu, cos&igrave; breve ed abbagliante, si chiude qui. Fabio Ornano @fabio_ornano

Alle porte c'&egrave;&nbsp;Inter-Cagliari, una partita che evoca tanti ricordi. Allo spirare dell'ottobre&nbsp;1970 la squadra di Scopigno, con lo scudetto sul petto, pass&ograve;&nbsp;nel giro di pochi giorni dalla massima esaltazione alla desolazione.&nbsp;Protagonista principe di questa storia &egrave; Gigi Riva, eroe rossoblu ed azzurro.  25 ottobre 1970, quarta giornata di Serie A. Il Cagliari campione d'Italia &egrave; reduce da due vittorie e un pareggio. La squadra isolana &egrave; in ottime condizioni di forma e schiera in campo a Milano contro l'Inter la formazione migliore: Albertosi, Martiradonna, Mancin, Cera, Niccolai, Tomasini, Domenghini, Nen&egrave;, Gori, Greatti, Riva. Dall'altra parte Heriberto Herrera deve fare a meno di diversi titolari, tra cui Boninsegna, Bedin e Jair: giocano Vieri, Burgnich, Facchetti, Fabbian, Giubertoni, Cella, Pellizzaro, Mazzola, Reif, Bertini, Corso. Arbitra nientemeno che Concetto Lo Bello di Siracusa. Dopo appena 7 minuti il Cagliari si porta in vantaggio: punizione dal limite, Greatti tocca per il sinistro di Riva che infila di potenza nella porta nerazzurra. La combinazione si ripete alla perfezione al 21&deg;, con il numero 10 che chiude il triangolo con il bomber e lo imbecca al limite dell'area piccola: Fabbian in scivolata e Vieri in uscita non possono nulla sulla seconda zampata di Giggirriva. Una doppietta che si abbatte come un ciclone sull'Inter, con gli ospiti che dominano in lungo e in largo. A 11 minuti dalla fine &egrave; Domenghini che supera il portiere in uscita con un tocco morbido, Riva accompagna la palla in rete senza toccarla. Gigi la raccoglie e la calcia altissima con il suo sinistro, un'esultanza che &egrave; insieme sfogo e consapevolezza per un'affermazione importante. All'Inter non rimane che la consolazione del 3-1 di Mazzola all'88&deg;. Quel giorno davanti ai 70.000 di San Siro il Cagliari gioca forse la sua migliore partita, che ne consolida la fama di grande squadra in testa alla classifica.    Di pi&ugrave;: il celebre giornalista Gianni Brera viene talmente abbagliato dalla prestazione superlativa di Riva che conia per lui il soprannome che lo avrebbe reso immortale: Rombo di Tuono. Nessuno immagina che il destino beffardo sia invece pronto dietro l'angolo, ad attendere i sogni del giocatore e del Cagliari.    Il sabato successivo a quella grande partita di San Siro, l'Italia infarcita di quattro cagliaritani debutta nelle eliminatorie per l'Europeo 1972. Ecco l'Austria nel celebre campo del Prater: gli azzurri di Valcareggi sono in vantaggio per 2-1 grazie alle reti di De Sisti e Mazzola quando, nella ripresa, Riva riceve la palla. Supera un avversario e punta l'area austriaca, vorrebbe entrare anche lui tra i marcatori. Non la pensa cos&igrave; Norbert Hof, che contrasta il numero 11 da dietro e gli ingabbia la gamba destra. Le urla di Gigi e la disperazione di Domenghini che lo soccorre lasciano poche speranze: &egrave; il secondo grave infortunio per Riva in Nazionale, si tratta di frattura del perone (con interessamento dei legamenti della caviglia) proprio come tre anni prima con il Portogallo in cui si ruppe il sinistro.    Da quel 31 ottobre 1970 Hof diviene &ldquo;Il boia del Prater&rdquo; ed il Cagliari comincia la sua triste discesa, senza il suo cannoniere che l'aveva portato alla gloria. Il sogno della Coppa dei Campioni svanisce sul campo dell'Atl&eacute;tico Madrid pochi giorni dopo: dopo aver superato il Saint-Etienne al primo turno e vinta l'andata sugli spagnoli, il ritorno senza Riva diventa un ostacolo insormontabile. In campionato arriva un mesto settimo posto. L'epopea rossoblu, cos&igrave; breve ed abbagliante, si chiude qui.  Fabio Ornano @fabio_ornano

Gigi Riva, Brera e il boia del Prater

Ritrovarsi in mezzo ad uno scambio di mercato. Lasciare la grande citt&agrave; per un&rsquo;isola che riuscir&agrave; a conquistarlo, &ldquo;costringendolo&rdquo; a non lasciarla pi&ugrave; anche a carriera finita: questa &egrave; la storia di Mario Brugnera, ottimo centrocampista e campione d&rsquo;Italia con il Cagliari nel 1970. Nato a Venezia il 26 febbraio 1946, comincia nella sua citt&agrave; natale con la maglia del Nettuno, tra i dilettanti. Brugnera gioca attaccante, facendosi valere per buone capacit&agrave; tecniche e familiarit&agrave; con la rete. Nel 1963 il giovane veneziano viene ingaggiato dalla Fiorentina, che gli regala cos&igrave; un incredibile salto da spaventare chiunque. Figurarsi un ragazzo di 17 anni. Nonostante la concorrenza, disputa 5 campionati in maglia viola cogliendo la vittoria in Coppa Italia nel 1966 contro il Catanzaro e, esattamente un mese dopo, quella in Mitropa Cup sui cecoslovacchi del Jednota Tren&#269;in: &egrave; proprio lui a realizzare la rete dell&rsquo;1-0 finale al 77&deg; minuto. Nella stagione seguente Brugnera vive la sua migliore annata dal punto di vista realizzativo con 13 reti segnate. Poi, nell&rsquo;estate 1968, si ritrova suo malgrado ad essere protagonista di un memorabile scambio di mercato tra Fiorentina e Cagliari. La dirigenza viola vuole Francesco Rizzo: nella famosa cena in cui Nello Baglini ed Andrea Arrica definiscono l&rsquo;operazione scrivendo l&rsquo;accordo su un tovagliolo, viene siglato il passaggio di Brugnera ed Albertosi a Cagliari, e di Rizzo in Toscana. Da l&igrave; comincia a prendere forma la squadra che, nella stagione del suo arrivo in Sardegna, giunge seconda proprio dietro alla Fiorentina. Veste l&rsquo;unica maglia azzurra della carriera, quella della Nazionale Under-23, contro la Francia. I presupposti per sognare ci sono tutti, in quel campionato 1969-70. Il giocatore lagunare parte per&ograve; come riserva. Ma, a causa dell&rsquo;infortunio di Tomasini, Scopigno scala Cera a libero ed inserisce Brugnera, ormai meno attaccante e pi&ugrave; centrocampista rispetto al passato. Si materializza uno storico scudetto. Mario vive cos&igrave; da protagonista l&rsquo;apoteosi e poi il declino di quella grande squadra, lasciando Cagliari nel 1974 per andare al Bologna. Una stagione poco soddisfacente, con sole 5 gare giocate. In quel momento sembra che, non ancora trentenne, la carriera di Brugnera abbia intrapreso un precoce tramonto. Ritorna subito in Sardegna e, anche se vive la triste retrocessione del 1976, segue il club anche negli anni della B, diventandone capitano ed arretrando a libero. Allunga in questo modo la sua parabola cagliaritana, con il ritorno in massima serie, fino al 1982. Totalizza 328 presenze con i colori del club isolano, nelle sole gare di campionato, che lo collocano tuttora al secondo posto di sempre dietro a Daniele Conti. Chiude con il calcio giocato dopo un&rsquo;ultima apparizione nel Carbonia in C2. Decide di stabilirsi a Cagliari anche nel dopo agonismo, come tanti altri calciatori arrivati nell&rsquo;isola ed innamoratisi perdutamente. Mario Brugnera lavora per l&rsquo;Atletico Cagliari, societ&agrave; di cui &egrave; responsabile tecnico. Ormai prossimo al traguardo dei 70 anni, su quello stesso terreno dell&rsquo;Amsicora dove il Cagliari vinse il tricolore, allena i ragazzi con seriet&agrave; e grande dedizione. Fabio Ornano

Ritrovarsi in mezzo ad uno scambio di mercato. Lasciare la grande citt&agrave; per un&rsquo;isola che riuscir&agrave; a conquistarlo, &ldquo;costringendolo&rdquo; a non lasciarla pi&ugrave; anche a carriera finita: questa &egrave; la storia di Mario Brugnera, ottimo centrocampista e campione d&rsquo;Italia con il Cagliari nel 1970. Nato a Venezia il 26 febbraio 1946, comincia nella sua citt&agrave; natale con la maglia del Nettuno, tra i dilettanti. Brugnera gioca attaccante, facendosi valere per buone capacit&agrave; tecniche e familiarit&agrave; con la rete. Nel 1963 il giovane veneziano viene ingaggiato dalla Fiorentina, che gli regala cos&igrave; un incredibile salto da spaventare chiunque. Figurarsi un ragazzo di 17 anni. Nonostante la concorrenza, disputa 5 campionati in maglia viola cogliendo la vittoria in Coppa Italia nel 1966 contro il Catanzaro e, esattamente un mese dopo, quella in Mitropa Cup sui cecoslovacchi del Jednota Tren&#269;in: &egrave; proprio lui a realizzare la rete dell&rsquo;1-0 finale al 77&deg; minuto. Nella stagione seguente Brugnera vive la sua migliore annata dal punto di vista realizzativo con 13 reti segnate. Poi, nell&rsquo;estate 1968, si ritrova suo malgrado ad essere protagonista di un memorabile scambio di mercato tra Fiorentina e Cagliari. La dirigenza viola vuole Francesco Rizzo: nella famosa cena in cui Nello Baglini ed Andrea Arrica definiscono l&rsquo;operazione scrivendo l&rsquo;accordo su un tovagliolo, viene siglato il passaggio di Brugnera ed Albertosi a Cagliari, e di Rizzo in Toscana. Da l&igrave; comincia a prendere forma la squadra che, nella stagione del suo arrivo in Sardegna, giunge seconda proprio dietro alla Fiorentina. Veste l&rsquo;unica maglia azzurra della carriera, quella della Nazionale Under-23, contro la Francia. I presupposti per sognare ci sono tutti, in quel campionato 1969-70. Il giocatore lagunare parte per&ograve; come riserva. Ma, a causa dell&rsquo;infortunio di Tomasini, Scopigno scala Cera a libero ed inserisce Brugnera, ormai meno attaccante e pi&ugrave; centrocampista rispetto al passato. Si materializza uno storico scudetto. Mario vive cos&igrave; da protagonista l&rsquo;apoteosi e poi il declino di quella grande squadra, lasciando Cagliari nel 1974 per andare al Bologna. Una stagione poco soddisfacente, con sole 5 gare giocate. In quel momento sembra che, non ancora trentenne, la carriera di Brugnera abbia intrapreso un precoce tramonto. Ritorna subito in Sardegna e, anche se vive la triste retrocessione del 1976, segue il club anche negli anni della B, diventandone capitano ed arretrando a libero. Allunga in questo modo la sua parabola cagliaritana, con il ritorno in massima serie, fino al 1982. Totalizza 328 presenze con i colori del club isolano, nelle sole gare di campionato, che lo collocano tuttora al secondo posto di sempre dietro a Daniele Conti. Chiude con il calcio giocato dopo un&rsquo;ultima apparizione nel Carbonia in C2. Decide di stabilirsi a Cagliari anche nel dopo agonismo, come tanti altri calciatori arrivati nell&rsquo;isola ed innamoratisi perdutamente. Mario Brugnera lavora per l&rsquo;Atletico Cagliari, societ&agrave; di cui &egrave; responsabile tecnico. Ormai prossimo al traguardo dei 70 anni, su quello stesso terreno dell&rsquo;Amsicora dove il Cagliari vinse il tricolore, allena i ragazzi con seriet&agrave; e grande dedizione.  Fabio Ornano

Leggende di provincia / Mario Brugnera

Juve a cinque punti dopo sei giornate. Una partenza scioccante e obiettivamente imprevedibile. Ma a ben guardare le esperienze da allenatore di Allegri nella massima serie, queste sono quasi un classico. Vediamo il dettaglio. 2008-09: CAGLIARI (nono posto finale) Punti alla sesta giornata: 1 La sua prima stagione da allenatore di Serie A &egrave; al Cagliari, nel 2008-09. L&rsquo;avvio &egrave; da incubo: i sardi perdono le prime cinque partite, subendo dieci gol e segnandone solo uno, per altro in quella che &egrave; stata la sconfitta peggiore (1-4 con la Lazio). Alla sesta giornata un sussulto, il pareggio contro il Milan. Dopo quello 0-0, la stagione decolla e la decisione di Cellino - uno che in genere non ci pensa su troppo prima di dare il benservito ai suoi allenatori - di tenere in sella il toscano si rivela felice. Il Cagliari chiude al nono posto, inserendosi tra le rivelazioni del campionato. 2009-10: CAGLIARI* (sedicesimo posto finale) Punti alla sesta giornata: 7 Anche nella stagione seguente, il Cagliari ci mette un po&rsquo; a carburare, partendo con un pareggio e tre sconfitte. Rispetto all&rsquo;anno prima, la squadra &egrave; meno brillante e una crisi di risultati a fine campionato, mette fine all&rsquo;esperienza del conte Max a Cagliari. Arriva comunque la salvezza. *esonerato alla 33a giornata 2010-11: MILAN (primo posto finale) Punti alla sesta giornata: 11 Il dopo-Leonardo al Milan &egrave; rappresentato proprio dal tecnico livornese, che al primo anno in rossonero conquista lo scudetto, che nella tana del Diavolo mancava dal 2003-04. In avvio i lombardi alternano gare brillanti, come il 4-0 al Lecce alla prima giornata, a partite mediocri (sconfitta a Cesena, pari casalingo col Catania). Ad ogni modo, alla dodicesima il Milan si prende la vetta e non la lascia pi&ugrave;. 2011-12: MILAN (secondo posto finale) Punti alla sesta giornata: 8 L&rsquo;anno dopo il titolo, il Milan &egrave; autore di una partenza al rallentatore. Delle prime cinque partite, ne vince solo una, in casa contro il Cesena. Per il resto, un pari in rimonta in casa con la Lazio, un 1-1 interno con l&rsquo;Udinese e due k.o. contro Napoli e Juventus, con quest'ultima destinata a vincere il campionato, lottando proprio contro l'undici di Allegri. Una volta ripresosi dal balbettante avvio, il Diavolo lotter&agrave; al vertice. 2012-13: MILAN (terzo posto finale) Punti alla sesta giornata: 7 Inizia in modo disastroso anche il 2012-13: la Sampdoria neopromossa espugna San Siro alla prima giornata. Il Milan pare rilanciarsi vincendo a Bologna, ma poi cade in casa con l&rsquo;Atalanta e a Udine. Tre sconfitte dopo quattro turni. Il 2-0 al Cagliari illude un&rsquo;altra volta il Milan di aver trovato la retta via, ma successivamente ecco il pari di Parma, la sconfitta nel derby e la caduta a Roma con la Lazio. All&rsquo;ottava, Allegri si ritrova con cinque sconfitte, due vittorie e un pari. Dopo la falsa partenza, la squadra si risolleva ancora, arrivando sul podio a fine anno. 2013-14: MILAN* (ottavo posto finale) Punti alla sesta giornata: 8 La falsa partenza si ripete anche nella scellerata stagione che precede il Mondiale brasiliano. Annata da dimenticare, anche per il tecnico che lascer&agrave; la comitiva a gennaio, quando un k.o. col Sassuolo gli sar&agrave; fatale. Il debutto &egrave; macchiato dal Verona di Luca Toni (2-1), poi arrivano una vittoria sul Cagliari, un pari col Torino, ripreso al 97&rsquo; con un rigore di Balotelli, una sconfitta casalinga col Napoli e un 3-3, pure questo ripreso nei minuti di recupero, a Bologna. E il Diavolo chiuder&agrave; con un deludente ottavo posto. *esonerato alla 19a giornata 2014-15: JUVENTUS (primo posto finale) Punti alla sesta giornata: 18 Nell&rsquo;estate 2014, la Juventus sceglie Allegri per il dopo-Conte. Come era avvenuto al Milan, anche alla guida della Vecchia Signora l&rsquo;Acciughina vince il campionato al primo colpo, arrivando anche a giocarsi la finale di Champions League. A differenza delle altre stagioni, Allegri parte forte e dopo sei turni colleziona addirittura l'en plein dei punti. Buon per lui, visto che i diciotto punti delle prime sei giornate contribuiscono a far dimenticare ai tifosi la scomoda ombra del predecessore, che aveva vinto tre campionati du tre. 1-0 al Chievo, 2-0 all&rsquo;Udinese, 1-0 al Milan, 3-0 al Cesena, 3-0 all&rsquo;Atalanta, 3-2 alla Roma: un ruolino da schiacciasassi, con una difesa che incassa poco e un attacco che funziona a meraviglia. Non a caso, a maggio arriver&agrave; il tricolore, il secondo per Allegri, il quarto consecutivo per Madama. Giovanni Del Bianco @g_delbianco

Juve a cinque punti dopo sei giornate. Una partenza scioccante e obiettivamente imprevedibile. Ma a ben guardare le esperienze da allenatore di Allegri nella massima serie, queste sono quasi un classico. Vediamo il dettaglio.  2008-09: CAGLIARI (nono posto finale) Punti alla sesta giornata: 1 La sua prima stagione da allenatore di Serie A &egrave; al Cagliari, nel 2008-09. L&rsquo;avvio &egrave; da incubo: i sardi perdono le prime cinque partite, subendo dieci gol e segnandone solo uno, per altro in quella che &egrave; stata la sconfitta peggiore (1-4 con la Lazio). Alla sesta giornata un sussulto, il pareggio contro il Milan. Dopo quello 0-0, la stagione decolla e la decisione di Cellino - uno che in genere non ci pensa su troppo prima di dare il benservito ai suoi allenatori - di tenere in sella il toscano si rivela felice. Il Cagliari chiude al nono posto, inserendosi tra le rivelazioni del campionato.  2009-10: CAGLIARI* (sedicesimo posto finale) Punti alla sesta giornata: 7 Anche nella stagione seguente, il Cagliari ci mette un po&rsquo; a carburare, partendo con un pareggio e tre sconfitte. Rispetto all&rsquo;anno prima, la squadra &egrave; meno brillante e una crisi di risultati a fine campionato, mette fine all&rsquo;esperienza del conte Max a Cagliari. Arriva comunque la salvezza.  *esonerato alla 33a giornata  2010-11: MILAN (primo posto finale) Punti alla sesta giornata: 11 Il dopo-Leonardo al Milan &egrave; rappresentato proprio dal tecnico livornese, che al primo anno in rossonero conquista lo scudetto, che nella tana del Diavolo mancava dal 2003-04. In avvio i lombardi alternano gare brillanti, come il 4-0 al Lecce alla prima giornata, a partite mediocri (sconfitta a Cesena, pari casalingo col Catania). Ad ogni modo, alla dodicesima il Milan si prende la vetta e non la lascia pi&ugrave;.  2011-12: MILAN (secondo posto finale) Punti alla sesta giornata: 8 L&rsquo;anno dopo il titolo, il Milan &egrave; autore di una partenza al rallentatore. Delle prime cinque partite, ne vince solo una, in casa contro il Cesena. Per il resto, un pari in rimonta in casa con la Lazio, un 1-1 interno con l&rsquo;Udinese e due k.o. contro Napoli e Juventus, con quest'ultima destinata a vincere il campionato, lottando proprio contro l'undici di Allegri. Una volta ripresosi dal balbettante avvio, il Diavolo lotter&agrave; al vertice.  2012-13: MILAN (terzo posto finale) Punti alla sesta giornata: 7 Inizia in modo disastroso anche il 2012-13: la Sampdoria neopromossa espugna San Siro alla prima giornata. Il Milan pare rilanciarsi vincendo a Bologna, ma poi cade in casa con l&rsquo;Atalanta e a Udine. Tre sconfitte dopo quattro turni. Il 2-0 al Cagliari illude un&rsquo;altra volta il Milan di aver trovato la retta via, ma successivamente ecco il pari di Parma, la sconfitta nel derby e la caduta a Roma con la Lazio. All&rsquo;ottava, Allegri si ritrova con cinque sconfitte, due vittorie e un pari. Dopo la falsa partenza, la squadra si risolleva ancora, arrivando sul podio a fine anno.  2013-14: MILAN* (ottavo posto finale) Punti alla sesta giornata: 8 La falsa partenza si ripete anche nella scellerata stagione che precede il Mondiale brasiliano. Annata da dimenticare, anche per il tecnico che lascer&agrave; la comitiva a gennaio, quando un k.o. col Sassuolo gli sar&agrave; fatale. Il debutto &egrave; macchiato dal Verona di Luca Toni (2-1), poi arrivano una vittoria sul Cagliari, un pari col Torino, ripreso al 97&rsquo; con un rigore di Balotelli, una sconfitta casalinga col Napoli e un 3-3, pure questo ripreso nei minuti di recupero, a Bologna. E il Diavolo chiuder&agrave; con un deludente ottavo posto.  *esonerato alla 19a giornata  2014-15: JUVENTUS (primo posto finale) Punti alla sesta giornata: 18 Nell&rsquo;estate 2014, la Juventus sceglie Allegri per il dopo-Conte. Come era avvenuto al Milan, anche alla guida della Vecchia Signora l&rsquo;Acciughina vince il campionato al primo colpo, arrivando anche a giocarsi la finale di Champions League. A differenza delle altre stagioni, Allegri parte forte e dopo sei turni colleziona addirittura l'en plein dei punti. Buon per lui, visto che i diciotto punti delle prime sei giornate contribuiscono a far dimenticare ai tifosi la scomoda ombra del predecessore, che aveva vinto tre campionati du tre. 1-0 al Chievo, 2-0 all&rsquo;Udinese, 1-0 al Milan, 3-0 al Cesena, 3-0 all&rsquo;Atalanta, 3-2 alla Roma: un ruolino da schiacciasassi, con una difesa che incassa poco e un attacco che funziona a meraviglia. Non a caso, a maggio arriver&agrave; il tricolore, il secondo per Allegri, il quarto consecutivo per Madama.  Giovanni Del Bianco @g_delbianco

Allegri e le false partenze: un classico di inizio stagione

<div class="entry-content"> CAGLIARI pt 34 (retrocesso in B) VOTO: 4,5 L&rsquo;ha detto con occhi tristi e voce sommessa anche il giovanissimo neopresidente Giulini ai microfoni delle varie trasmissioni tv: &laquo;Quest&rsquo;anno nulla &egrave; da salvare nella stagione del Cagliari&raquo;. Bocciate entrambe le gestioni Zeman e Zola, si sarebbe potuti ripartire da Festa e dalla valorizzazione di alcuni giovani del vivaio, quest&rsquo;anno piuttosto snobbati. L&rsquo;ipotesi pi&ugrave; plausibile per&ograve; &egrave; che si andr&agrave; a gamba tesa sul mercato per tentare di allestire una squadra in grado di risalire prontamente dalla cadetteria, categoria ai quali i sardi non erano abituati da tempo. TOP E FLOP Se nella prima parte di campionato erano emersi i valori di giocatori come Ekdal, Crisetig o Avelar, con il prosieguo del torneo, anch&rsquo;essi hanno perso smalto, mentre si &egrave; distinto almeno il giovanissimo, non ancora ventenne, Donsah. Con la squadra impantanata nella zona retrocessione, a poco sono servite l&rsquo;esperienza e la determinazione di gente come Sau, Cossu, Pisano o il grande capitano Conti, giunto al canto del cigno in Sardegna tra le lacrime amare. Gianni Gardon </div>

  CAGLIARI pt 34 (retrocesso in B) VOTO: 4,5 L&rsquo;ha detto con occhi tristi e voce sommessa anche il giovanissimo neopresidente Giulini ai microfoni delle varie trasmissioni tv: &laquo;Quest&rsquo;anno nulla &egrave; da salvare nella stagione del Cagliari&raquo;. Bocciate entrambe le gestioni Zeman e Zola, si sarebbe potuti ripartire da Festa e dalla valorizzazione di alcuni giovani del vivaio, quest&rsquo;anno piuttosto snobbati. L&rsquo;ipotesi pi&ugrave; plausibile per&ograve; &egrave; che si andr&agrave; a gamba tesa sul mercato per tentare di allestire una squadra in grado di risalire prontamente dalla cadetteria, categoria ai quali i sardi non erano abituati da tempo. TOP E FLOP Se nella prima parte di campionato erano emersi i valori di giocatori come Ekdal, Crisetig o Avelar, con il prosieguo del torneo, anch&rsquo;essi hanno perso smalto, mentre si &egrave; distinto almeno il giovanissimo, non ancora ventenne, Donsah. Con la squadra impantanata nella zona retrocessione, a poco sono servite l&rsquo;esperienza e la determinazione di gente come Sau, Cossu, Pisano o il grande capitano Conti, giunto al canto del cigno in Sardegna tra le lacrime amare. Gianni Gardon  

Il pagellone della Serie A: Conti saluta il Cagliari in lacrime

Zdenek Zeman &egrave; stato richiamato sulla panchina del Cagliari per mettere la sua faccia su una retrocessione che sembra ormai inevitabile: perch&eacute; al di l&agrave; dei pochi punti di vantaggio (rispettivamente 6 e 4), Chievo e Atalanta hanno un organico superiore e alla fine l'unica speranza della squadra sarda &egrave; che l'ambiente bergamasco si sfasci dopo l'esonero di Colantuono e le possibili ripercussioni psicologiche (e non) del calcioscommesse. Quasi mai il richiamare l'allenatore esonerato a inizio stagione, ormai scarico e con la testa altrove, &egrave; una buona idea. E meno che mai lo &egrave; con Zeman, maestro di calcio ma poco avvezzo a quelle soluzioni di emergenza che un altro tipo di allenatore (il Reja della situazione, per dire) adotta con concretezza per salvare la baracca: mettersi nelle mani degli uomini pi&ugrave; esperti, mollare le partite impossibili per concentrarsi su quelle possibili, compattare l'ambiente contro un nemico esterno. Non &egrave; che Gianfranco Zola e Casiraghi abbiano fatto peggio di Zeman: terzultimo il Cagliari hanno preso e terzultimo lo lasciano, anche se l'ultima vittoria risale al 24 gennaio (2-1 in casa al Sassuolo), in Coppa Italia si &egrave; riusciti nell'impresa di farsi eliminare dal Parma e lo spirito era ormai in caduta libera. Nella gestione Zola una sola vera batosta (il 5 a 0 preso a Palermo all'esordio) e tante sconfitte di misura anche con buone dosi di sfortuna, alla fine la sua vera colpa &egrave; non aver fatto cambiare passo alla squadra dopo il discreto mercato di gennaio: &egrave; stato perso Ibarbo (peraltro ora infortunato), ma &egrave; anche vero che in porta &egrave; arrivata una sicurezza come Brkic, in difesa Gonzalez e soprattutto davanti &egrave; arrivato l'interessantissimo M'Poku. Sabato a Genova sono entrati in campo 5 dei 6 nuovi acquisti (anche Capuano, titolare, e Husbauer, dalla panchina, mentre il figlio d'arte Cop &egrave; stato a guardare), ma l'encefalogramma &egrave; rimasto piatto. Da qui la scelta di Giulini di cambiare, mentre da Miami Massimo Cellino non pu&ograve; non pensare che il suo Cagliari si &egrave; spesso salvato puntando su altri concetti: molti 'uomini di calcio' nello spogliatoio, con tutti i rischi del caso, e meno giovani. Zeman ha altre idee (le condividiamo, a scanso di equivoci) ed &egrave; proprio per questo che &egrave; stato chiamato e richiamato. Per il momento il progetto Giulini &egrave; quello di nascondersi dietro ai totem. Twitter @StefanoOlivari

Zdenek Zeman &egrave; stato richiamato sulla panchina del Cagliari per mettere la sua faccia su una retrocessione che sembra ormai inevitabile: perch&eacute; al di l&agrave; dei pochi punti di vantaggio (rispettivamente 6 e 4), Chievo e Atalanta hanno un organico superiore e alla fine l'unica speranza della squadra sarda &egrave; che l'ambiente bergamasco si sfasci dopo l'esonero di Colantuono e le possibili ripercussioni psicologiche (e non) del calcioscommesse. Quasi mai il richiamare l'allenatore esonerato a inizio stagione, ormai scarico e con la testa altrove, &egrave; una buona idea. E meno che mai lo &egrave; con Zeman, maestro di calcio ma poco avvezzo a quelle soluzioni di emergenza che un altro tipo di allenatore (il Reja della situazione, per dire) adotta con concretezza per salvare la baracca: mettersi nelle mani degli uomini pi&ugrave; esperti, mollare le partite impossibili per concentrarsi su quelle possibili, compattare l'ambiente contro un nemico esterno. Non &egrave; che Gianfranco Zola e Casiraghi abbiano fatto peggio di Zeman: terzultimo il Cagliari hanno preso e terzultimo lo lasciano, anche se l'ultima vittoria risale al 24 gennaio (2-1 in casa al Sassuolo), in Coppa Italia si &egrave; riusciti nell'impresa di farsi eliminare dal Parma e lo spirito era ormai in caduta libera. Nella gestione Zola una sola vera batosta (il 5 a 0 preso a Palermo all'esordio) e tante sconfitte di misura anche con buone dosi di sfortuna, alla fine la sua vera colpa &egrave; non aver fatto cambiare passo alla squadra dopo il discreto mercato di gennaio: &egrave; stato perso Ibarbo (peraltro ora infortunato), ma &egrave; anche vero che in porta &egrave; arrivata una sicurezza come Brkic, in difesa Gonzalez e soprattutto davanti &egrave; arrivato l'interessantissimo M'Poku. Sabato a Genova sono entrati in campo 5 dei 6 nuovi acquisti (anche Capuano, titolare, e Husbauer, dalla panchina, mentre il figlio d'arte Cop &egrave; stato a guardare), ma l'encefalogramma &egrave; rimasto piatto. Da qui la scelta di Giulini di cambiare, mentre da Miami Massimo Cellino non pu&ograve; non pensare che il suo Cagliari si &egrave; spesso salvato puntando su altri concetti: molti 'uomini di calcio' nello spogliatoio, con tutti i rischi del caso, e meno giovani. Zeman ha altre idee (le condividiamo, a scanso di equivoci) ed &egrave; proprio per questo che &egrave; stato chiamato e richiamato. Per il momento il progetto Giulini &egrave; quello di nascondersi dietro ai totem.  Twitter @StefanoOlivari

Zeman e la faccia sulla retrocessione del Cagliari

Chi assume Zdenek Zeman pensando che sia il solito mestierante da lotta per la salvezza (c'&egrave; un albo nutritissimo, mille nomi tutti di grande competenza con uno che per&ograve; vale l'altro) merita di stare in fondo alla classifica come il Cagliari di Giulini: diciottesimo, tre punti dietro l'Atalanta. Ovviamente in estate il fresco proprietario del club sardo non pensava (speriamo) che Zeman fosse l'equivalente di Reja, per citare un allenatore bravissimo, non fosse altro che per i quasi 50 anni di carriera del tecnico boemo, ma un nome cos&igrave; gli serviva per poter parlare di 'progetto' e per rendere credibile la sua stessa calata nel calcio. Finito l'effetto mediatico e non essendoci una rosa da progetto ma soltanto da salvezza da ottenere con i denti, ecco l'esonero (non ancora ufficializzato, mentre stiamo scrivendo). Il decimo nella carriera di Zeman, l'ottavo da quando &egrave; entrato in rotta di collisione con il mondo degli 'uomini di calcio' per la sua scarsa abitudine al compromesso, non proprio inaspettato visto l'ingaggio da 700mila euro che conteneva anche una sorta di 'premio di immagine', cosa che Zeman sapeva benissimo. Insomma, strumentalizzato ma consapevolmente e non gratis. Perch&eacute;, pur da zemaniani, non possiamo evitare di dire che Zeman da anni viene trattato e si lascia trattare come una figurina: da un lato volto pulito del calcio italiano e di sicuro l'unico che ha detto la verit&agrave; sulla Juventus dell'era Giraudo-Moggi-Agricola (quella che non hanno mai detto nemmeno i suoi avversari), quindi automaticamente antipatico al 35% di chi segue il calcio (mai criticare i grandi club, se vuoi fare carriera), dall'altro maestro di sport e di vita convinto che i risultati possano e debbano arrivare solo attraverso il lavoro, diciamo pure un superlavoro (l'ultimo allenamento cagliaritano, con ripetute da mezzofondisti, entrer&agrave; nella leggenda, cos&igrave; come la partita di Coppa Italia contro il Modena), senza scorciatoie. Nessuno di noi, se fosse presidente del Real Madrid o del Chelsea, lo assumerebbe per guidare la prima squadra anche se mai in carriera (nemmeno quando era di moda) Zeman ha potuto guidare una macchina di Formula Uno. Molti di noi gli darebbero le chiavi di tutto il settore giovanile, per non dire dell'intero calcio italiano. Poi la stagione del Cagliari, tuttora priva di vittorie in casa, meriterebbe un ragionamento nel dettaglio, perch&eacute; &egrave; assurdo che Zeman sia stato cacciato dopo aver perso con la Juventus campione d'Italia e non, per dire, dopo lo 0-4 con la Fiorentina. L'assenza di una prima punta di valore, il rendimento altalenante di Ibarbo (cio&egrave; del giocatore con pi&ugrave; potenziale della rosa), l'apparente freddezza dei senatori Cossu e Daniele Conti, difensori presi singolarmente non da serie A: potremmo continuare a lungo, ribadendo l'ovvio, ma &egrave; chiaro che tutto confluiva sulla figura di Zeman. Prima di dire che &egrave; bollito, a 67 anni, o rievocare il Foggia di Casillo, pensiamo a Verratti, Insigne e Immobile. &Egrave; un grande sportivo, ma forse non (pi&ugrave;) un allenatore da serie A. Twitter @StefanoOlivari

Chi assume Zdenek Zeman pensando che sia il solito mestierante da lotta per la salvezza (c'&egrave; un albo nutritissimo, mille nomi tutti di grande competenza con uno che per&ograve; vale l'altro) merita di stare in fondo alla classifica come il Cagliari di Giulini: diciottesimo, tre punti dietro l'Atalanta. Ovviamente in estate il fresco proprietario del club sardo non pensava (speriamo) che Zeman fosse l'equivalente di Reja, per citare un allenatore bravissimo, non fosse altro che per i quasi 50 anni di carriera del tecnico boemo, ma un nome cos&igrave; gli serviva per poter parlare di 'progetto' e per rendere credibile la sua stessa calata nel calcio. Finito l'effetto mediatico e non essendoci una rosa da progetto ma soltanto da salvezza da ottenere con i denti, ecco l'esonero (non ancora ufficializzato, mentre stiamo scrivendo). Il decimo nella carriera di Zeman, l'ottavo da quando &egrave; entrato in rotta di collisione con il mondo degli 'uomini di calcio' per la sua scarsa abitudine al compromesso, non proprio inaspettato visto l'ingaggio da 700mila euro che conteneva anche una sorta di 'premio di immagine', cosa che Zeman sapeva benissimo. Insomma, strumentalizzato ma consapevolmente e non gratis. Perch&eacute;, pur da zemaniani, non possiamo evitare di dire che Zeman da anni viene trattato e si lascia trattare come una figurina: da un lato volto pulito del calcio italiano e di sicuro l'unico che ha detto la verit&agrave; sulla Juventus dell'era Giraudo-Moggi-Agricola (quella che non hanno mai detto nemmeno i suoi avversari), quindi automaticamente antipatico al 35% di chi segue il calcio (mai criticare i grandi club, se vuoi fare carriera), dall'altro maestro di sport e di vita convinto che i risultati possano e debbano arrivare solo attraverso il lavoro, diciamo pure un superlavoro (l'ultimo allenamento cagliaritano, con ripetute da mezzofondisti, entrer&agrave; nella leggenda, cos&igrave; come la partita di Coppa Italia contro il Modena), senza scorciatoie. Nessuno di noi, se fosse presidente del Real Madrid o del Chelsea, lo assumerebbe per guidare la prima squadra anche se mai in carriera (nemmeno quando era di moda) Zeman ha potuto guidare una macchina di Formula Uno. Molti di noi gli darebbero le chiavi di tutto il settore giovanile, per non dire dell'intero calcio italiano. Poi la stagione del Cagliari, tuttora priva di vittorie in casa, meriterebbe un ragionamento nel dettaglio, perch&eacute; &egrave; assurdo che Zeman sia stato cacciato dopo aver perso con la Juventus campione d'Italia e non, per dire, dopo lo 0-4 con la Fiorentina. L'assenza di una prima punta di valore, il rendimento altalenante di Ibarbo (cio&egrave; del giocatore con pi&ugrave; potenziale della rosa), l'apparente freddezza dei senatori Cossu e Daniele Conti, difensori presi singolarmente non da serie A: potremmo continuare a lungo, ribadendo l'ovvio, ma &egrave; chiaro che tutto confluiva sulla figura di Zeman. Prima di dire che &egrave; bollito, a 67 anni, o rievocare il Foggia di Casillo, pensiamo a Verratti, Insigne e Immobile. &Egrave; un grande sportivo, ma forse non (pi&ugrave;) un allenatore da serie A.  Twitter @StefanoOlivari

Zeman e l&rsquo;esonero della figurina

In occasione dei 70 anni di Gigi Riva gli articoli-fotocopia sono una volta tanto pi&ugrave; che giustificati: il pi&ugrave; forte attaccante della storia del calcio italiano &egrave; sempre uguale a s&eacute; stesso, nella buona come nella cattiva sorte. Un uomo e un personaggio trasversale, al quale il calcio ha dato tanto ma non quanto lui ha dato al calcio, con una carriera ad alto livello finita di fatto a 26 anni e ufficialmente a 32. Una cosa per&ograve; non ci piace delle celebrazioni di quello che Gianni Brer&agrave; defin&igrave; Rombo di Tuono, cio&egrave; la sistematica denigrazione del Cagliari in cui lui fu grande, come se lo scarso valore dei compagni ingigantisse la portata della sua scelta di vita: dire no alle offerte delle grandi tradizionali per rimanere nella citt&agrave; e nell'isola che lo avevano adottato. Bisogna prima di tutto ricordare che quando arriva al Cagliari, nell'estate del 1963, per lui la squadra sarda &egrave; un grande salto di qualit&agrave;: a 19 anni &egrave; reduce da un discreto campionato di serie C con la maglia del Legnano, viene descritto come un'ala sinistra dalle buone doti atletiche ma dallo scarso senso del gol (poi diventer&agrave; il capocannoniere della storia della Nazionale, le valutazioni si possono anche sbagliare). La serie B &egrave; un palcoscenico pi&ugrave; importante e lui fa la sua parte nella storica promozione al primo campionato di A della storia rossoblu: pochi gol, otto, ma tanta sostanza. Viene preso in considerazione sia da Fabbri che da Valcareggi, subisce con l'Italia il primo grave infortunio nel 1967 ma &egrave; solo nel 1968, a 24 anni, che diventa Gigi Riva con la vittoria nell'Europeo casalingo. A questo punto la Juventus &egrave; in una fase di transizione, la ricostruiranno Allodi e poi Boniperti ma &egrave; ancora ben lontana dalla squadra che dominer&agrave; gli anni Settanta. Stesso discorso per l'Inter, dove &egrave; finito il ciclo di Moratti ed Herrera per passare alla pi&ugrave; risparmiosa gestione Fraizzoli. Il Milan, che cambia vorticosamente presidenti e dove da poco &egrave; tornato in panchina Rocco, &egrave; totalmente nelle mani di Rivera che con Riva ha una sana rivalit&agrave;. Ma pi&ugrave; di tutto il Cagliari &egrave; in pochi anni diventato una grande squadra, grazie anche ai contributi, pi&ugrave; o meno imposti dalla politica, di alcune grandi aziende che in Sardegna hanno significativi interessi (fra queste, curiosamente, svetta la Saras dei Moratti, senza dimenticare la Sir di Rovelli) e con il ritorno di Manlio Scopigno in panchina &egrave; pronto a conquistare l'Italia. Nel campionato 1968-69 parte fortissimo, &egrave; primo al termine del girone di andata ma poi ha un calo e viene superato dalla Fiorentina. Secondo posto, ma davanti al Milan fresco campione d'Europa sull'Ajax di Cruijff e alle altre grandi tradizionali. Ci sono Albertosi (da poco arrivato dalla Fiorentina), Niccolai, Cera e Boninsegna, oltre a Riva, tutta gente che l'anno seguente (insieme a Gori e Domenghini, che arriveranno in quell'estate 1969 che vede partire Boninsegna, i cui rapporti con Riva sono altalenanti) sar&agrave; al mondiale messicano. Quella 1969-70 &egrave; la stagione dello storico scudetto, ottenuto da una squadra che in un calcio ormai autarchico (le frontiere sono state chiuse nel 1966, rimangono solo gli stranieri che gi&agrave; c'erano prima, come a Cagliari il brasiliano Nen&eacute; che in Italia ci &egrave; arrivato nel 1963 con la Juventus) &egrave; quella con il maggior numero di azzurri nella rosa: in altre parole, la migliore squadra d'Italia al servizio del suo fuoriclasse ormai diventato anche un grande realizzatore. Poi il Mondiale del 1970, dove Riva fece bene ma non benissimo e la tibia e perone dati alla patria con la fattiva collaborazione dell'austriaco Hof.. Il Riva degli anni Settanta, in un Cagliari declinante, &egrave; troppo condizionato dagli infortuni per essere al suo meglio: anche noi che lo abbiamo visto dal vivo purtroppo solo alla fine della sua parabola possiamo dire che con le regole di oggi (su tutte l'espulsione per il fallo sull'ultimo uomo) Gigi Riva avrebbe segnato 50 gol a stagione. Twitter @StefanoOlivari

In occasione dei 70 anni di Gigi Riva gli articoli-fotocopia sono una volta tanto pi&ugrave; che giustificati: il pi&ugrave; forte attaccante della storia del calcio italiano &egrave; sempre uguale a s&eacute; stesso, nella buona come nella cattiva sorte. Un uomo e un personaggio trasversale, al quale il calcio ha dato tanto ma non quanto lui ha dato al calcio, con una carriera ad alto livello finita di fatto a 26 anni e ufficialmente a 32. Una cosa per&ograve; non ci piace delle celebrazioni di quello che Gianni Brer&agrave; defin&igrave; Rombo di Tuono, cio&egrave; la sistematica denigrazione del Cagliari in cui lui fu grande, come se lo scarso valore dei compagni ingigantisse la portata della sua scelta di vita: dire no alle offerte delle grandi tradizionali per rimanere nella citt&agrave; e nell'isola che lo avevano adottato.  Bisogna prima di tutto ricordare che quando arriva al Cagliari, nell'estate del 1963, per lui la squadra sarda &egrave; un grande salto di qualit&agrave;: a 19 anni &egrave; reduce da un discreto campionato di serie C con la maglia del Legnano, viene descritto come un'ala sinistra dalle buone doti atletiche ma dallo scarso senso del gol (poi diventer&agrave; il capocannoniere della storia della Nazionale, le valutazioni si possono anche sbagliare). La serie B &egrave; un palcoscenico pi&ugrave; importante e lui fa la sua parte nella storica promozione al primo campionato di A della storia rossoblu: pochi gol, otto, ma tanta sostanza. Viene preso in considerazione sia da Fabbri che da Valcareggi, subisce con l'Italia il primo grave infortunio nel 1967 ma &egrave; solo nel 1968, a 24 anni, che diventa Gigi Riva con la vittoria nell'Europeo casalingo.  A questo punto la Juventus &egrave; in una fase di transizione, la ricostruiranno Allodi e poi Boniperti ma &egrave; ancora ben lontana dalla squadra che dominer&agrave; gli anni Settanta. Stesso discorso per l'Inter, dove &egrave; finito il ciclo di Moratti ed Herrera per passare alla pi&ugrave; risparmiosa gestione Fraizzoli. Il Milan, che cambia vorticosamente presidenti e dove da poco &egrave; tornato in panchina Rocco, &egrave; totalmente nelle mani di Rivera che con Riva ha una sana rivalit&agrave;. Ma pi&ugrave; di tutto il Cagliari &egrave; in pochi anni diventato una grande squadra, grazie anche ai contributi, pi&ugrave; o meno imposti dalla politica, di alcune grandi aziende che in Sardegna hanno significativi interessi (fra queste, curiosamente, svetta la Saras dei Moratti, senza dimenticare la Sir di Rovelli) e con il ritorno di Manlio Scopigno in panchina &egrave; pronto a conquistare l'Italia.  Nel campionato 1968-69 parte fortissimo, &egrave; primo al termine del girone di andata ma poi ha un calo e viene superato dalla Fiorentina. Secondo posto, ma davanti al Milan fresco campione d'Europa sull'Ajax di Cruijff e alle altre grandi tradizionali. Ci sono Albertosi (da poco arrivato dalla Fiorentina), Niccolai, Cera e Boninsegna, oltre a Riva, tutta gente che l'anno seguente (insieme a Gori e Domenghini, che arriveranno in quell'estate 1969 che vede partire Boninsegna, i cui rapporti con Riva sono altalenanti) sar&agrave; al mondiale messicano. Quella 1969-70 &egrave; la stagione dello storico scudetto, ottenuto da una squadra che in un calcio ormai autarchico (le frontiere sono state chiuse nel 1966, rimangono solo gli stranieri che gi&agrave; c'erano prima, come a Cagliari il brasiliano Nen&eacute; che in Italia ci &egrave; arrivato nel 1963 con la Juventus) &egrave; quella con il maggior numero di azzurri nella rosa: in altre parole, la migliore squadra d'Italia al servizio del suo fuoriclasse ormai diventato anche un grande realizzatore.  Poi il Mondiale del 1970, dove Riva fece bene ma non benissimo e la tibia e perone dati alla patria con la fattiva collaborazione dell'austriaco Hof.. Il Riva degli anni Settanta, in un Cagliari declinante, &egrave; troppo condizionato dagli infortuni per essere al suo meglio: anche noi che lo abbiamo visto dal vivo purtroppo solo alla fine della sua parabola possiamo dire che con le regole di oggi (su tutte l'espulsione per il fallo sull'ultimo uomo) Gigi Riva avrebbe segnato 50 gol a stagione.  Twitter @StefanoOlivari

Il grande Cagliari di Gigi Riva

Il pubblico interista di San Siro ha applaudito Zdenek Zeman. Ma non dopo la partita, come sarebbe stato logico dopo la grande lezione di calcio impartita dal Cagliari alla squadra di casa, ringiovanita rispetto all'anno scorso ma a quanto pare sempre da quinto posto. Lo ha fatto prima, all'annuncio delle formazioni, con un calore ben superiore rispetto a quello riservato a Mazzarri. Siccome questa situazione si ripropone in quasi tutti gli stadi d'Italia, Roma in testa, con poche eccezioni (lo Juventus Stadium, per dirne una: ma non bisogna confondere la freddezza con gli insulti), viene da chiedersi come mai l'appassionato di calcio italiano sia da decenni innamorato di Zeman a prescindere dai suoi risultati (quasi sempre in linea con il valore delle rose, peraltro) e dai ragazzi lanciati (tantissimi, ma &egrave; stata pi&ugrave; una gioia per i Casillo della situazione che per i tifosi). Parliamo di appassionati non a caso, perch&eacute; il tifoso becero non fa testo: dall'alto del suo divano lui guarda soprattutto la 'bacheca' e pazienza se guidando Juventus, Milan e Inter sia di solito pi&ugrave; facile vincere che guidando il Foggia (hanno alzato trofei anche Trapattoni o Leonardo, per dire). Insomma, cos'ha Zeman che ci &egrave; entrato dentro e che soprattutto entra dentro ai suoi giocatori? Non certo la tattica: un milione di allenatori gioca con il 4-3-3. A proposito: la rigidit&agrave; di Zeman, in questo senso, &egrave; un falso mito visto che fra il Foggia o la Roma di fine anni Novanta e le ultime squadre allenate dal tecnico boemo, dal bellissimo Pescara di anni fa alla stessa Roma, c'&egrave; una differenza evidente di copertura del campo (l'ultimo Zeman &egrave; molto pi&ugrave; 'corto' e quindi coperto), anche se i gol fatti raramente mancano all'appello. Di Zeman conquista il suo insegnare calcio, migliorando chiunque (quasi sempre gente di medio-basso livello, rapportata alla categoria) il club gli metta a disposizione: atteggiamento che non &egrave; in contraddizione con il conquistare risultati, ma che comunque porta a valutazioni diverse da quelle del genere 'avete vinto-bravi avete perso-scarsi'. Quanto al personaggio Zeman, tutto &egrave; tranne che costruito: magari l'hanno ingigantito i media, per l'evidente diversit&agrave; rispetto agli 'uomini di calcio', ma lui &egrave; sempre rimasto fedele a se stesso senza compromessi. Di certo non frequenta giornalisti per avere mezzo punto in pi&ugrave; in pagella e nemmeno ha mai guidato club legati ai media pi&ugrave; potenti. Per vincere forse &egrave; necessario essere furbi, ma farsi rispettare &egrave; un altro sport. Twitter @StefanoOlivari [poll id="63"]

Il pubblico interista di San Siro ha applaudito Zdenek Zeman. Ma non dopo la partita, come sarebbe stato logico dopo la grande lezione di calcio impartita dal Cagliari alla squadra di casa, ringiovanita rispetto all'anno scorso ma a quanto pare sempre da quinto posto. Lo ha fatto prima, all'annuncio delle formazioni, con un calore ben superiore rispetto a quello riservato a Mazzarri. Siccome questa situazione si ripropone in quasi tutti gli stadi d'Italia, Roma in testa, con poche eccezioni (lo Juventus Stadium, per dirne una: ma non bisogna confondere la freddezza con gli insulti), viene da chiedersi come mai l'appassionato di calcio italiano sia da decenni innamorato di Zeman a prescindere dai suoi risultati (quasi sempre in linea con il valore delle rose, peraltro) e dai ragazzi lanciati (tantissimi, ma &egrave; stata pi&ugrave; una gioia per i Casillo della situazione che per i tifosi). Parliamo di appassionati non a caso, perch&eacute; il tifoso becero non fa testo: dall'alto del suo divano lui guarda soprattutto la 'bacheca' e pazienza se guidando Juventus, Milan e Inter sia di solito pi&ugrave; facile vincere che guidando il Foggia (hanno alzato trofei anche Trapattoni o Leonardo, per dire). Insomma, cos'ha Zeman che ci &egrave; entrato dentro e che soprattutto entra dentro ai suoi giocatori? Non certo la tattica: un milione di allenatori gioca con il 4-3-3. A proposito: la rigidit&agrave; di Zeman, in questo senso, &egrave; un falso mito visto che fra il Foggia o la Roma di fine anni Novanta e le ultime squadre allenate dal tecnico boemo, dal bellissimo Pescara di anni fa alla stessa Roma, c'&egrave; una differenza evidente di copertura del campo (l'ultimo Zeman &egrave; molto pi&ugrave; 'corto' e quindi coperto), anche se i gol fatti raramente mancano all'appello. Di Zeman conquista il suo insegnare calcio, migliorando chiunque (quasi sempre gente di medio-basso livello, rapportata alla categoria) il club gli metta a disposizione: atteggiamento che non &egrave; in contraddizione con il conquistare risultati, ma che comunque porta a valutazioni diverse da quelle del genere 'avete vinto-bravi avete perso-scarsi'. Quanto al personaggio Zeman, tutto &egrave; tranne che costruito: magari l'hanno ingigantito i media, per l'evidente diversit&agrave; rispetto agli 'uomini di calcio', ma lui &egrave; sempre rimasto fedele a se stesso senza compromessi. Di certo non frequenta giornalisti per avere mezzo punto in pi&ugrave; in pagella e nemmeno ha mai guidato club legati ai media pi&ugrave; potenti. Per vincere forse &egrave; necessario essere furbi, ma farsi rispettare &egrave; un altro sport.  Twitter @StefanoOlivari   [poll id="63"] 

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