        Quando ti danno "Rambo" come soprannome la fotografia &egrave; presto fatta: sei un giocatore di quel tipo l&igrave;, forte fisicamente e che incute timore. Ed effettivamente cos&igrave; era Ronald Koeman, fuoriclasse olandese che oggi 21 marzo compie 60 anni. Koeman prototipo "calcio totale"&nbsp; Se nasci in Olanda, a Zaandam per la precisione, e vuoi diventare un calciatore negli anni Ottanta il primo termine di paragone &egrave; con la generazione precedente, che aveva rivoluzionato il voetbal. Significa partecipare alla rivoluzione "totale", magari aggiornandola un po'. Ronald Koeman in tal senso diventer&agrave; un giocatore davvero unico nel suo genere, un difensore-libero coi piedi del trequartista e che volendo poteva giostrare anche a centrocampo. E con una leadership in campo con pochi paragoni. Comincia seguendo le orme del fratello maggiore Erwin, con cui condivider&agrave; pezzi importanti di carriera. Vanno a giocare assieme per le strade di Zaandam, cittadina vicina ad Amsterdam. I genitori nicchiano e quando i due ragazzini vengono a reclamare qualcosa da bere o da mangiare la gettano loro dalla finestra, perch&eacute; non perdano tempo. Importante per entrambi la parentesi al Groningen, squadra in cui "Ronnie", non ancora "Rambo", debutta quando &egrave; ancora minorenne. Nel campionato 1982-83 i due Koeman sono titolari, uno in difesa (Ronald) e l'altro a centrocampo (Erwin), poi &egrave; il minore che spicca realmente il volo: Ajax e poi Psv Eindhoven, segnando una valanga di gol per essere un difensore o un libero. Il suo trasferimento proprio dai Lancieri al Psv dester&agrave; molto scalpore, un vero "scippo" di mercato, ma in quel periodo &egrave; la squadra della Philips la leader in Olanda. Koeman, il Barca e quel gol alla Sampdoria Il Psv allenato da Guus Hiddink punta forte su Ronald dopo che in passato con Erwin era andata meno bene. Con lui al centro della difesa invece &egrave; trionfo, a partire dalla Coppa Campioni vinta nel 1988 in finale contro il Benfica. Partita orribile, quella di Stoccarda, risolta ai calci di rigore. Il primo a segnare per gli olandesi &egrave; proprio Koeman, solita battuta violenta all'incrocio dei pali a spiazzare il portiere Silvino. Poi terminer&agrave; 6-5 con rigore decisivo sbagliato da Veloso (pap&agrave; di Miguel Veloso del Verona) e parato da Van Breukelen. Prima Coppa Campioni per il Psv, ma che non sar&agrave; il primo titolo internazionale conquistato da Koeman, che pochi mesi dopo la vittoria di Stoccarda, sempre in Germania, porter&agrave; a casa l'Europeo con l'Olanda, di cui &egrave; chiaramente uno dei leader assieme ai vari Gullit, Van Basten e Rijkaard. C'&egrave; anche il fratello Erwin in quel gruppo. Dopo tre anni stratosferici col Psv arriva la chiamata di un olandese speciale che sta allenando una squadra alla caccia della sua prima Coppa Campioni: &egrave; Johan Cruijff, col suo Barcellona gi&agrave; ribattezzato "Dream Team". Il traguardo arriva a discapito di una squadra italiana, la Sampdoria, nel 1992. Finale a Wembley tiratissima e che va ai supplementari; a sei minuti dalla fine fallo al limite dell'area a favore del Barcellona e Koeman con una rasoiata impressionante supera Pagliuca, azzerando le speranze dei blucerchiati. Uno dei gol pi&ugrave; importanti nella storia del Bar&ccedil;a, che conferma la grandezza di "Rambo", un difensore che in carriera ha segnato oltre 200 reti tra club e nazionale, molte delle quali appunto su punizione. Nessun altro difensore ha fatto meglio, compreso l'essere stato il capocannoniere di un'edizione della Champions League, nel 1993-94, con 8 gol, pur perdendo la finale con il Milan. Torner&agrave; in Olanda, Koeman, per chiudere la carriera al Feyenoord, diventando uno dei pochi ad aver indossato le maglie delle tre grandi del calcio oranje. Da allenatore avr&agrave; fortune alterne, collezionando pi&ugrave; esoneri che titoli, l'ultimo dei quali proprio al Barcellona.       

Il formidabile difensore olandese vinse due Coppe dei Campioni con Psv e Barcellona, segnando la rete decisiva nella finale del 1992 contro la Sampdoria

Koeman, "Rambo" ma non solo

        Jos&eacute; Mari Bakero: basco. "Perch&eacute; i baschi sono gente tosta, che lavora: ne ho sempre avuto uno in squadra", diceva Johan Cruijff, che per sviluppare il suo calcio totale da allenatore andava a pescare, ove possibile, da quella regione cos&igrave; ricca di tradizione sportiva. E Bakero fu uno dei volti pi&ugrave; riconoscibili del Barcellona campione di tutto a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, quello del "Dream Team", pieno appunto di baschi, da Zubizarreta a Begiristain fino ad Alexanko e Julio Salinas. In mezzo, per&ograve;, questo piccoletto vitalissimo, dai capelli lunghi e capace di giocare in pi&ugrave; ruoli. Oggi lo si definirebbe un tuttocampista, inesauribile e dal gran fiuto del gol.  Bakero, dalla pelota al calcio In realt&agrave; Jos&eacute; Mari Bakero &egrave; navarro di Goizueta, quattro case in mezzo alle montagne della Navarra, la regione che fa capo a Pamplona, ma considerata da sempre zona basca e basco-parlante. Del resto &egrave; anche molto pi&ugrave; vicino a San Sebasti&agrave;n, da qui anche la tendenza da parte dei locali a farsi notare dalla Real Sociedad, piuttosto che dall'Osasuna. Nato l'11 febbraio del 1963, Bakero viene al mondo in una famiglia numerosa. Come tutti i baschi comincia praticando qualsiasi sport possibile, a cominciare dalla pelota, una vera religione da quelle parti. All'aperto o al chiuso, c'&egrave; solo lui, un muro, una palla di cuoio duro e un avversario: &egrave; un gioco utilissimo per vari motivi, tra cui la capacit&agrave; di sapersi collocare su un campo, anche Deschamps ne parler&agrave; benissimo. Piccolo problema, negli anni Settanta fare il "pelotari" non &egrave; che renda tantissimo a differenza del calcio. E siccome Jos&eacute; Mari con la palla pi&ugrave; grande &egrave; altrettanto forte ecco la chiamata della Real Sociedad, dove brucia le tappe e vince due volte la Liga nel 1981 e nel 1982.  Una squadra formidabile, quella, in cui Bakero &egrave; sostanzialmente la prima riserva tra centrocampo e attacco, dietro i mammasantissima Zamora, Alonso e Satrustegui. Titolari e riserve tutti baschi, se possibile tutti della provincia di San Sebasti&agrave;n, in risposta all'Athletic Bilbao: per due anni di fila la Real conquista il campionato aprendo un ciclo irripetibile e Bakero ancora minorenne ha gi&agrave; collezionato una trentina di presenze nella Liga. Ci rester&agrave; fino al 1988, diventando nel frattempo un centrocampista completissimo, una sorta di centravanti ombra, capace di segnare addirittura 24 gol in una sola stagione in tutte le competizioni. Abilissimo negli inserimenti, mobile e polivalente, le sirene dei grandissimi club lo chiamano e lui va al Barcellona nell'estate del 1988, quando i catalani "smembrano" la Real Sociedad; perch&eacute; oltre a Bakero arrivano anche l'esterno Begiristain e il difensore Lopez Rekarte.  Bakero e quel gol al Kaiserslautern L'input &egrave; arrivato dal nuovo allenatore dei catalani, un signore che ha avuto una certa importanza nella storia del club anche da giocatore: Johan Cruijff. Vuole una squadra giovane, fresca e vincente e la Real Sociedad &egrave; una vetrina eccellente da cui andare a pescare. Paga 45 milioni di pesetas, che oggi sarebbero 270mila euro, ma che per l'epoca sono una cifra enorme, e si ritrova n&eacute; pi&ugrave; n&eacute; meno che il miglior centrocampista spagnolo. Bakero diventa subito un leader della squadra, che per sette stagioni di fila conquister&agrave; almeno un titolo, cominciando dalla Coppa delle Coppe del 1989. Il culmine per&ograve; &egrave; il bienno 1992-93 quando il Barcellona vince la sua prima Coppa Campioni, completando un ciclo strepitoso.  Un ciclo che per&ograve; avrebbe potuto spegnersi subito, il 6 novembre 1991, in una fredda notte renana, quando a Kaiserslautern il Bar&ccedil;a sta perdendo 3-0 nel secondo turno di Coppa Campioni: all'andata ha vinto 2-0 ma ora &egrave; sotto un treno e sta per essere eliminato. Doppietta di Hotic e tris di Goldbaek, il tempo sta per scadere, Cruijff ha gi&agrave; quella faccia che rivedremo nella finale di Coppa Campioni del 1994 quando contro il Milan prender&agrave; una sberla epocale e senza rimedio. Mentre il Fritz Walter Stadion sta preparandosi a esultare, Koeman calcia una punizione dalla trequarti alla disperata, verso il vertice sinistro dell'area di rigore; Bakero &egrave; l&igrave; e col suo metro e settanta salta in mezzo a due difensori del Kaiserslautern trovando un impatto assolutamente perfetto e imparabile, che vola fino all'incrocio dei pali, dalla parte opposta. Una rete di una pesantezza incalcolabile, che salva il Barcellona futuro campione d'Europa a Wembley contro la Sampdoria. Per il basco &egrave; l'apogeo con la maglia blaugrana, che vestir&agrave; fino al 1997. Con quella della nazionale, invece, relazioni complicate: mai preso realmente in considerazione quando era alla Real Sociedad nel pieno della forma psico-fisica, non viene convocato fino al 1987, e comunque sempre in ballottaggio con gli intoccabili del Real Madrid. Pag&ograve; forse anche la sua particolare collocazione in campo, uno per cui bisognava di fatto costruire una squadra attorno e le Furie Rosse non potevano concederglielo. Spettatore non pagante a Italia '90, gioc&ograve; 4 partite a Usa '94 compreso il quarto di finale contro l'Italia. Ma l&igrave;, perch&eacute; il commissario tecnico, Javier Clemente, basco, aveva convocato su 22 giocatori un terzo proveniente dalla sua stessa regione.&nbsp;        

Il centrocampista basco fu protagonista del ciclo del "Dream Team" blaugrana, culminato con la Coppa Campioni del 1992. E pensare che non doveva fare il calciatore

Bakero, il piccolo-grande leader del Barcellona di Cruijff

        Vejle, la cosiddetta &ldquo;Manchester di Danimarca&rdquo;, dove il commercio anima l&rsquo;economia assieme ai cantieri navali, tanto da giustificare il paragone con la citt&agrave; inglese. Una tradizione calcistica di nicchia ma ben radicata, sin dalla fine del 1800, grazie alle maglie rosse del Vejle BK, la passione per le quali si fa largo in mezzo alla diffusissima pratica degli sport invernali. &Egrave; in questo spicchio di Nord Europa che nel 1952 viene alla luce Allan Simonsen: probabilmente, sin da quel giorno, correndo. Non passano molti anni, infatti, che sui campi spesso ghiacciati della cittadina e delle zone limitrofe cominciano ad apprezzare le sue accelerazioni, inesorabili per chi tenta di marcarlo; il suo talento di ala pura, ma con una spiccata propensione al gol. Il debutto in prima squadra avviene nel 1971, a diciannove anni, con una perfetta coincidenza tra la sua ascesa e una breve, memorabile et&agrave; dell&rsquo;oro per il club, che vince il campionato danese nel 1971 e nel 1972, anno nel quale porta a casa anche la coppa nazionale. Lui, oltre a essere una fonte di gioco inesauribile, contribuisce con 16 reti nell&rsquo;arco di 46 partite in due anni. Allan Simonsen in Bundesliga A Vejle sapevano, sin dall&rsquo;inizio, che uno come Allan Simonsen sarebbe rimasto poco nella cittadina d&rsquo;origine: nel 1973 fa il salto in Bundesliga, con la maglia del Borussia M&ouml;nchengladbach. Il Gladbach di quegli anni &egrave; una signora squadra, che si dimostra vincente in patria e molto competitiva nelle coppe europee; Simonsen rappresenta la spalla ideale, per l&rsquo;azione offensiva, per un bomber come Jupp Heynckes. Il primo anno il danese soffre non poco la fisicit&agrave; del torneo teutonico, perch&eacute; la sua rapidit&agrave; viene contrastata con i metodi tutt&rsquo;altro che ortodossi delle difese degli anni settanta in generale e di quelle tedesche in particolare; dalla stagione &lsquo;74 - &lsquo;75, in uno squadrone dove si ritrova a giocare non solo con Heynckes, ma anche con gente come Bonhof e Berti Vogts, comincia a vincere praticamente tutto: tre campionati tedeschi, due Coppa UEFA, nel &lsquo;75 e nel &lsquo;79. Finalista in Coppa dei Campioni nel &lsquo;77, semifinalista nel &lsquo;78, arrendendosi in entrambi i casi a uno dei Liverpool pi&ugrave; forti di sempre.  Simonsen Pallone d'Oro 1977 Il passaggio storico pi&ugrave; importante della sua carriera, ancora di pi&ugrave; dell&rsquo;approdo a Barcellona con i blaugrana dopo la fine del rapporto con il Borussia, avviene proprio nel 1977, quando grazie alla giuria di &ldquo;France Footbal&rdquo; batte di tre voti Kevin Keegan e di quattro un certo Michel Platini, e viene proclamato vincitore del Pallone d&rsquo;Oro, primo giocatore dell&rsquo;area scandinava a essere insignito del prestigioso riconoscimento. E, come Di Stefano (vincitore nel &rsquo;57), dopo avere messo in bacheca quel trofeo non disputa il Mondiale dell&rsquo;estate successiva, ovvero quello del 1978 in Argentina. Il Barcellona e gli ultimi anni Il Barcellona, dicevamo, dal 1979 al 1982: arriva nell&rsquo;era pre - Maradona, vince due coppe: Coppa del Re e Coppa delle Coppe. Per quanto riguarda quest&rsquo;ultimo trofeo, con il gol segnato in finale contro lo Standard Liegi Simonsen diventa anche il primo giocatore ad aver segnato in tutte e tre le coppe europee in vigore all&rsquo;epoca: aveva, infatti, gi&agrave; segnato sia in finale di Coppa Uefa che di Coppa dei Campioni.Dovendo liberare il posto da extracomunitario per Maradona, alla fine della stagione 1981-82 lascia Barcellona per accasarsi, in Inghilterra, al modesto Charlton Athletic.  Come si spiega una scelta del genere? Diciamo che dopo un girovagare ad alto livello, Simonsen non ha pi&ugrave; nulla da dimostrare, vuole solo divertirsi il pi&ugrave; possibile. E dire che sarebbe ancora potuto andare al Real Madrid, che nel frattempo gli aveva fatto arrivare un&rsquo;allettante offerta, ma non vuole tradire il popolo del Bar&ccedil;a, per il quale era diventato, sin dal suo arrivo, &ldquo;Simonet&rdquo;, con tipico adattamento della pronuncia catalana.In Inghilterra Simonsen rester&agrave; solo tre mesi, a causa di un problema di mancato pagamento degli stipendi da parte del club, quindi se ne torner&agrave; a Vejle, nel club col quale tutto era cominciato. Continuer&agrave; a divertirsi, dribblando e segnando, fino al 1989, quando dir&agrave; basta all&rsquo;et&agrave; di trentasette anni.       

Nato il 15 dicembre del 1952, &egrave; l'unico ad aver segnato in tutte le finali delle tre coppe europee (Uefa, Campioni e Coppa Coppe). Nel suo palmar&egrave;s manca solo la Coppa dei Campioni

Simonsen, da Vejle al Pallone d'Oro vinto col Gladbach fino al Barça

        Si pu&ograve; separare l&rsquo;artista dalla sua opera? Si pu&ograve; giudicare solamente la sua arte rimanendo il pi&ugrave; possibile distaccati dalla sua storia? A questa domanda molti, seppure dopo ampio dibattimento, non riescono a dare risposta. Dovremmo forse rivalutare negativamente la produzione letteraria di Pasolini, alla luce delle turbolente vicende della sua vita privata? Oppure un film di Polanski, una tela di Caravaggio? Se c&rsquo;&egrave; qualcosa di certo &egrave; che il tempo, giudice massimo delle vicende umane, ci dice che alla fine uomo e arte si scindono, lasciando posto quasi solamente a quest&rsquo;ultima, a patto ovviamente che si tratti di arte vera, con la A maiuscola. Siete a conoscenza, per esempio, del fatto che Michelangelo Merisi fosse un vero balordo? Passava le sue notti romane, quando non era in cella a Tor di Nona, tra bettole, vino e risse, che spesso finivano a colpi di coltello. Ha ucciso anche un uomo, in un alterco dovuto ad un fallo durante una partita di pallacorda in Campo Marzio, o forse per questioni legate a una donna. Fatto sta che se pensiamo a Caravaggio abbiamo bene in mente la Vocazione di San Matteo, il Narciso o lo Scudo con testa di Medusa, non le peripezie notturne del controverso pittore. Con le dovute differenze, neanche troppo dovute a dirla tutta, per noi calciofili l&rsquo;artista &egrave; rappresentato dal campione, dal fuoriclasse, e le gesta sul rettangolo verde invece simboleggiano la sua arte. Trovandoci oggi su queste pagine a ripercorrere la storia di uno dei pi&ugrave; grandi artisti del pallone di sempre, nella ricorrenza dei suoi 50 anni, ci imbattiamo dinanzi allo stesso dilemma. Dobbiamo giudicare Luis Figo esclusivamente per le sue magie in campo? O il nostro giudizio sar&agrave; irrimediabilmente condizionato da quanto successo nell&rsquo;estate del 2000, quando il lusitano si rese protagonista del pi&ugrave; grande caso mediatico di calciomercato della storia, passando dal Barcellona al Real Madrid? Per noi la risposta &egrave; abbastanza semplice, Luis Figo &egrave; stata una delle stelle pi&ugrave; brillanti di quella galassia di campioni degli anni &rsquo;90 e 2000, e non ce ne vogliano i supporters blaugrana, in tal guisa lo ricorderemo.  I primi anni, il mancato arrivo in Serie A e il Bar&ccedil;a A dirla tutta, qualche turbolenta storia extracalcistica accompagna il campione lusitano sin dagli albori della sua carriera: nella stagione 1994/95, ancora in forze allo Sporting Lisbona, firma prima un contratto con la Juve, in un secondo tempo decide unilateralmente che non &egrave; pi&ugrave; valido e ne firma un altro con il Parma. La Lega alla fine giudica irregolari entrambi gli accordi, cos&igrave; Figo e la Serie A sono costretti a dirsi addio, almeno per un po&rsquo;. Nonostante la giovane et&agrave; l&rsquo;esterno di Setubal &egrave; uno dei calciatori pi&ugrave; desiderati d&rsquo;Europa: con le Nazionali giovanili ha gi&agrave; vinto sia l&rsquo;Europeo che il Mondiale, scatta, dribbla e tira come un veterano, &egrave; evidente a tutti che si tratti di un campione. Dopo il superato impasse delle questioni di mercato, &egrave; il Barcellona a vincere ogni concorrenza e ad aggiudicarsi le prestazioni del giovane talento. Figo arriva in Catalogna alla corte di Johan Cruijff e ben presto diventa l&rsquo;idolo dei cul&eacute;s. Un giocatore cos&igrave; forse non si &egrave; mai visto: Luis calcia con entrambi i piedi, &egrave; veloce e salta l&rsquo;uomo con una facilit&agrave; imbarazzante. Durante quegli anni tutti i ragazzini d&rsquo;Europa imparano a dire &ldquo;dribbli come Figo&rdquo;, quando vogliono indicare qualcuno particolarmente bravo. Il legame tra il calciatore lusitano e Barcellona per&ograve; va oltre le questioni di campo: Figo diventa l&rsquo;idolo di una tifoseria intera, si immerge totalmente nella cultura catalana, abbraccia a 360 gradi tutto quello che rappresenta il Bar&ccedil;a, che come molti sanno, &egrave; &ldquo;mes que un club&rdquo;. Qui continua a fare gol, a far sognare i tifosi e trova anche l&rsquo;amore: si lega sentimentalmente alla modella svedese Helen Svedin nel 1996, tre anni dopo nasce la loro prima figlia. Il filo rosso che unisce Figo e Barcellona sembra davvero indistruttibile, &egrave; il leader tecnico della squadra, la trascina alla vittoria di due campionati, due Coppe del Re, una Coppa delle Coppe, una Supercoppa spagnola e una europea. Si guadagna nel tempo i gradi di vicecapitano alle spalle di Pep Guardiola, suo grande amico. Nessuno potrebbe mai immaginare quello che sarebbe successo nell&rsquo;estate del 2000.  La gran traicion e gli anni madrileni A Madrid, durante la campagna elettorale per eleggere il nuovo presidente del Real, il rampante e semi-sconosciuto ingegnere civile Florentino Perez deve battere la concorrenza di Lorenzo Sanz, fresco vincitore di due Champions League in tre anni. Per batterlo fa un annuncio sensazionale: promette che in caso di vittoria porter&agrave; Luis Figo tra le fila dei Blancos. Inizialmente non molti gli credono, ma poi iniziano a trapelare diverse notizie di incontri tra lui e Jos&eacute; Veiga, agente del calciatore lusitano. Per quanto sembrasse davvero impossibile agli occhi di qualsiasi appassionato di calcio dell&rsquo;epoca, alla fine succede: Florentino vince le elezioni, versa circa 140 miliardi delle vecchie lire al Barcellona e acquista Luis Figo. Lo shock che questa notizia provoca nel mondo del Bar&ccedil;a e non solo &egrave; epocale: &egrave; pi&ugrave; o meno come se Giulio Cesare nel bel mezzo della campagna di Gallia avesse scelto di schierarsi con Vercingetorige e compagni. A dicembre di quello stesso anno il fenomeno lusitano viene insignito, a buon diritto, del pi&ugrave; prestigioso trofeo individuale mondiale: il Pallone d&rsquo;Oro. Con il suo arrivo a Madrid inizia ufficialmente l&rsquo;era dei Galacticos, con l&rsquo;impronta fortemente voluta da Florentino Perez e la sua voglia di farla diventare una squadra piena zeppa di campioni. Nel 2002 vince la Champions League, che aggiunge al suo palmar&egrave;s stellare. Rimane per 5 stagioni a Madrid, trovandosi cos&igrave; a giocare molto spesso il Clasico, questa volta con la maglia bianca. In tutte queste occasioni i supporters blaugrana non mancheranno mai di ricordargli il loro amore tradito, bersagliandolo di insulti e lanci di oggetti contundenti fino ad arrivare, il 23 novembre del 2002, alla celeberrima testa di maiale lanciatagli al Camp Nou. Figo non chiarir&agrave; mai totalmente come and&ograve; la trattativa in quell&rsquo;estate del 2000, ma risulta abbastanza ovvio che nessuno lo abbia costretto a trasferirsi a Madrid contro la sua volont&agrave;.  Gli ultimi anni Nel 2005, dopo una carriera piena zeppa di successi e di titoli, si trasferisce all&rsquo;Inter, ritrovando quella Serie A a cui era stato cos&igrave; vicino 10 anni prima. Nonostante l&rsquo;et&agrave; avanzata il suo apporto alla causa nerazzurra &egrave; fondamentale: con la Beneamata vince quattro scudetti, una Coppa Italia e tre Supercoppe italiane, prima di dire addio al calcio il 31 maggio del 2009, dopo ben 20 anni da professionista. La sua storia, costellata di grandi traguardi e di giocate fantasmagoriche, lo eleva senza nessun dubbio nell&rsquo;Olimpo dei pi&ugrave; grandi di sempre: idolo della successiva generazione di calciatori, ha contribuito a scrivere la storia del calcio, assurgendo al livello di arte quello che molti, sbagliando, definiscono un semplice gioco. Ed &egrave; per questo, e per nient&rsquo;altro, che per sempre lo ricorderemo.          

Il calciatore lusitano, uno dei pi&ugrave; grandi di sempre &ndash; nato il 4 novembre 1972 &ndash; nel 2000 fu protagonista di un clamoroso cambio maglia, passando ai rivali del Real Madrid

Luis Figo: l’artista del dribbling che incantò e tradì Barcellona

        Con quel fisico longilineo e quelle lunghissime leve resta ancora difficile capacitarsi del come Rivaldo possa aver fatto determinate cose con il pallone tra i piedi. Metteva gi&ugrave; la sfera e riusciva, in un lampo, a dribblare gli avversari per partire in accelerazione o esplodere un sinistro formidabile. Non era veloce Rivaldo, ci arrivava semplicemente prima, anticipava i difensori grazie a una rapidit&agrave; di pensiero impressionante, che spesso gli consentiva di spostare il pallone all&rsquo;ultimo, facendo incappare in continue figuracce i diretti marcatori. La sua finissima tecnica sudamericana gli permetteva di guadagnare velocit&agrave; quando in possesso di palla, risultando davvero inarrestabile. Inoltre, anche questo inspiegabile vista la conformazione fisica, era abilissimo nell&rsquo;acrobazia, gesto tecnico che gli consent&igrave; di segnare reti incredibili.  Rivaldo, le umili origini di un grande campione Rivaldo nasce a Paulista, nel Pernambuco, nella zona nord-est del Brasile. Cresce scalzo tra le favelas nella povert&agrave; pi&ugrave; assoluta e lotta per raggiungere il suo sogno, quello di diventare calciatore. Malnutrito e gracile come la maggior parte dei &ldquo;meninos de rua&rdquo;, si tiene lontano dalla delinquenza grazie al supporto della famiglia, umile ma dai sani principi. Saranno questi, miscelati al suo talento cristallino, a salvarlo da una vita ben diversa. Ma ci vuole anche forza d&rsquo;animo, quella che il giovane Vitor Borba Ferreira si porta dietro tutte le mattine, quando dall&rsquo;entroterra si avvia verso la costa. Borsone in spalla e via verso le spiagge per vendere snack ai turisti e racimolare qualche spicciolo utile a sfamare la famiglia. Questi purtroppo non bastano, tanto che Rivaldo nonostante la giovane et&agrave; soffre di edentulia dentale (la perdita dei denti). A pallone &egrave; pi&ugrave; bravo degli altri ma i suoi problemi fisici lo limitano tantissimo. Entra nelle giovanili del Santa Cruz per poi essere allontanato, scartato da Mario Santana per via delle gambe storte e dell&rsquo;esile corporatura. Torna cos&igrave; a giocare nei campetti delle favelas&hellip; ma il tempo passa e con lo sviluppo il piccolo meninos cresce arrivando a superare il metro e ottanta. &Egrave; qui che si palesa il suo scopritore: Claudio Ponei, amico del padre Romildo. Ponei lo porta al Paulista nel 1989. Tutto sembra in discesa, qualcuno crede finalmente in lui, la vita lo sta ripagando delle fatiche, quando all&rsquo;improvviso la famiglia viene scossa da una tragedia: pap&agrave; Romildo muore investito da un autobus. Il giovane talento perde la sua guida, colui che lo esortava a non mollare mai; pensa addirittura di abbandonare il calcio, ma si dimostra ancora una volta un combattente, riuscendo a tramutare il dolore in forza per andare avanti. Una doppietta contro il Santa Cruz &ndash; il club che anni prima lo aveva scartato &ndash; &nbsp;fa innamorare il presidente a tal punto da portarlo a licenziare Santana &ndash; responsabile della scelta &ndash; &nbsp;e a rilevarne il cartellino dal Paulista. Inizia qui l&rsquo;epopea di uno dei calciatori brasiliani pi&ugrave; forti di sempre. Il club di Recife non pu&ograve; permetterselo, Rivaldo rester&agrave; in Brasile fino al &rsquo;96, vestendo le maglie di Mogi Mirim, Corinthians e Palmeiras, prima di approdare in Europa, quando ormai &egrave; gi&agrave; parte integrante della Sele&ccedil;ao.&nbsp;  Protagonista nella Sele&ccedil;ao e Pallone d&rsquo;Oro con il Barcellona Con i verdeoro aveva debuttato gi&agrave; nel &rsquo;93, andando subito in gol. Vince una Copa America da protagonista nel &lsquo;99 (2 gol in finale all&rsquo;Uruguay) e gioca due Mondiali: insieme a Ronaldo e a un giovane Ronaldinho former&agrave; il devastante tridente delle &ldquo;Tre R&rdquo; (in Corea e Giappone non potevano non vincere). In quella coppa segner&agrave; in tutte le gare fino ai quarti di finale, quelli del suo interno a giro e della famosa punizione di Ronaldinho che stenderanno l&rsquo;Inghilterra. Ma prima ci sono gli anni trascorsi a illuminare la Liga: una stagione al Deportivo La Coruna e un fantastico quinquennio al Barcellona. Voluto da Van Gaal, dopo 21 reti e un terzo posto raggiunto con il Depor, prende il posto di Ronaldo, acquistato dall&rsquo;Inter di Moratti. Rivaldo &egrave; il prototipo del fantasista, pu&ograve; ricoprire tutti i ruoli d&rsquo;attacco e risulta fondamentale per il ciclo vincente dell&rsquo;olandese al Camp Nou. Il tridente formato col connazionale Sonny Anderson e Luis Figo &egrave; devastante. In rosa poi c&rsquo;&egrave; un altro talentuoso brasiliano, Giovanni Silva de Oliveira, insomma calciatori dalla grande fantasia con cui il divertimento &egrave; assicurato. Nel primo biennio arrivano due titoli spagnoli, oltre che una Coppa di Spagna e una Supercoppa Uefa. Rivaldo segna a ripetizione, come un centravanti (57 reti in 99 presenze totali) e nel &rsquo;99, a coronare due anni fantastici, viene premiato con il Pallone d&rsquo;Oro. A margine della premiazione rilascia queste dichiarazioni: &ldquo;Ho costruito la mia carriera su un miracolo. Senza risorse economiche, senza procuratore, e solo con l&rsquo;incoraggiamento della mia famiglia, scoraggiata dai medici e dagli allenatori. Ma ho visto realizzarsi un sogno, sono stato riconosciuto come il miglior calciatore del mondo&rdquo;. Tra rigori, punizioni, colpi di tacco, colpi di testa, conclusioni all&rsquo;angolino, azioni ubriacanti scaturite dal suo inconfondibile andamento dinoccolato, non si pu&ograve; non citare un gesto atletico su tutti: la rovesciata. Il 17 giugno 2001 il brasiliano segna uno dei gol pi&ugrave; belli di sempre: stop di petto al limite dell&rsquo;area e bicicletta stilisticamente perfetta, sulla quale il portiere del Valencia Canizares non pu&ograve; arrivare. La giocata del campione, un gol fantastico e fondamentale, che arriva all&rsquo;87esimo sul risultato di 2-2 e regala ai catalani la qualificazione ai preliminari di Champions League. Prima del fischio d&rsquo;inizio &ndash; ultima giornata della Liga 2000-01 &ndash; il Valencia precedeva il Bar&ccedil;a al quarto posto.  La Champions al Milan, gli ultimi anni e il record con Rivaldinho Dir&agrave; addio alla Catalogna nell&rsquo;estate successiva per trasferirsi al Milan. A Milano ci arriva da fresco campione del mondo, ma rester&agrave; una sola stagione, rescindendo il contratto gi&agrave; nel settembre 2003. I tifosi ricordano ancora la tripletta segnata a San Siro con la maglia del Bar&ccedil;a in una notte Champions (2000-01, due punizioni e gol di testa in tuffo), ma Rivaldo &egrave; ormai nella fase calante. Il brasiliano riesce comunque a togliersi l&rsquo;ultimo sfizio nella notte di Old Trafford che incorona i rossoneri campioni d&rsquo;Europa. Alla Champions League, il grande trofeo che gli mancava, si aggiungono anche una Coppa Italia e una Supercoppa Europea. L&rsquo;addio ai rossoneri pu&ograve; sembrare la fine gloriosa di una carriera fantastica, invece Rivaldo giocher&agrave; fino all&rsquo;et&agrave; di 43 anni, vivendo un&rsquo;importante esperienza all&rsquo;Olympiakos e girando tutto il mondo. Nel 2012 transita addirittura in Angola, dove oltre a giocare contribuisce personalmente alla costruzione di un ospedale e di una scuola. Il calcio gli regala l&rsquo;emozione pi&ugrave; grande proprio agli sgoccioli, quando nel 2014 torna a casa per vestire la maglia del Mogi Mirim. Qui mette in bacheca un particolarissimo record: scende in campo insieme al figlio Rivaldinho e il 14 luglio 2015 riescono a segnare entrambi nella stessa partita.        

Nato in povert&agrave; a Paulista il 19 aprile 1972, ha saputo imporsi come uno dei calciatori brasiliani pi&ugrave; forti di sempre. Negli anni trascorsi al Barcellona era semplicemente inarrestabile

Rivaldo, dalle favelas al Pallone d’Oro

        Se nella proiezione utopica di una societ&agrave; nuova il sole dell&rsquo;avvenire &egrave; o era rosso di colore, nella storia del calcio sorse all&rsquo;alba degli anni Settanta di un bell&rsquo;arancione intenso, ma passando per le bande biancorosse verticali dell&rsquo;Ajax. Una grandezza subitanea priva di una tradizione alle spalle, quella del club olandese e della nazionale che ne era una filiazione diretta; un demiurgo come Rinus Michels, plasmatore di un&rsquo;identit&agrave; e capo carismatico in grado di compiere il miracolo dei miracoli: trasfondere in una nidiata irripetibile di splendidi solisti l&rsquo;attitudine a mettersi al servizio del collettivo; a cominciare dal pi&ugrave; grande di tutti, quel Johan Cruijff che scriveremo sempre secondo l&rsquo;ortografia originaria, mai seguendo i caratteri di un&rsquo;anonima grafia internazionale. Era destino che, dopo aver mietuto tre Coppe dei Campioni, una Supercoppa europea e una Coppa Intercontinentale, quel collettivo che aveva sconquassato il mondo vestito da Olanda &ndash; arrivando due volte a un passo dal conquistarlo, nel 1974 e nel 1978 &ndash; spargesse schegge della sua grandezza nei campionati pi&ugrave; facoltosi dell&rsquo;epoca. In occasione del confronto di Europa League tra Barcellona e Napoli abbiamo deciso di ricordare altri due fuoriclasse che non furono soltanto interpreti straordinari dei rispettivi compiti in campo, ma entrambi incarnarono un&rsquo;evoluzione dei ruoli di competenza. Johan Neeskens, un tuttocampista per il Barcellona Johan Neeskens, detto &ldquo;Johan II&rdquo; per motivi che non c&rsquo;&egrave; bisogno di spiegare, &egrave; forse l&rsquo;autore del giudizio pi&ugrave; riduttivo e semplicistico sulle sue doti; si &egrave; infatti sempre definito come &ldquo;un mediano difensivo che sapeva anche segnare&rdquo;. Se non ne fosse lui medesimo l&rsquo;autore, giudicheremmo la definizione quantomeno irriguardosa: in quel calcio psichedelico che portava sul terreno di gioco il futuro sotto gli occhi dei contemporanei, Neeskens era il miglior interprete del prototipo del calciatore, non solo come centrocampista, universale; dotato di una progressione inesorabile sulla quale era innestata una tecnica sublime, poteva essere utilizzato indifferentemente da terzino, da mediano, da vero e proprio regista o da trequarti- sta, sempre in grado di far brillare la sua conclusione perentoria e precisa. All&rsquo;Ajax dal 1970 al 1974, dopo aver vinto con i Lancieri tutto ci&ograve; che c&rsquo;era da vincere, arriva al Barcellona nel 1974, subito dopo il mondiale tedesco perso in finale contro la Germania Ovest. In blaugrana fino al &lsquo;79, lascia in dote 233 presenze condite da 54 reti, una Coppa delle Coppe, una Coppa del Re Ruud Krol, un regista difensivo "totale" per il Napoli Ruud Krol &egrave; un altro splendido prodotto del vivaio dell&rsquo;Ajax, con la cui maglia debutta nel 1968 e dove sar&agrave; un monumento difensivo fino al 1980. Elegante e morbido nei movimenti, inizia la sua carriera come difensore laterale sinistro, per poi occupare la posizione di centrale. Alla riapertura delle frontiere italiane nel 1980 arriva al Napoli dopo una breve comparsata nel Vancouver. I tifosi partenopei e la stessa stampa pensarono a un glorioso e declinante turista reduce della grande Olanda; trovarono un leader che seppe insegnare a una squadra e a una citt&agrave; ad aspirare alla grandezza che non pensavano di meritare. Qui arriva il primo insegnamento incarnato da Ruud Krol: un grande giocatore smette di essere tale soltanto quando decide di spegnere l&rsquo;interruttore che ha in testa; solamente quando ha esaurito davvero il propellente della sua tempra caratteriale. Mai prima. Ecco perch&eacute; alla fine &egrave; rimasto quattro stagioni, dal 1980 al 1984.?Oltre al carisma e all&rsquo;esempio di una fulgida regia difensiva, Krol porta in dote alla societ&agrave; azzurra l&rsquo;intelligenza calcistica e la duttilit&agrave; tattica che sono un moltiplicatore della sua immensa classe. Lui, che era stato un indimenticabile terzino sinistro ma che, proprio in virt&ugrave; dei dettami di un maestro come Michels, aveva assimilato subito la predisposizione all&rsquo;intercambiabilit&agrave; dei ruoli: a Napoli reciter&agrave; da regista difensivo &ldquo;totale&rdquo;, come il calcio in cui era nato. Neeskens e Krol, il bilancio con l'Arancia Meccanica Il meglio della prima, grande nazionale olandese, la cosiddetta Arancia Meccanica, loro due lo hanno vissuto, incarnato e rappresentato acavallo tra la grandezza assoluta di un calcio evolutivo da ogni punto di vista e la duplice, epocale frustrazione di due finali di Coppa del Mondo perse in quattro anni, entrambe contro la nazionale del paese organizzatore: in Germania Ovest nel 1974, in Argentina nel 1978. Debuttante in nazionale a soli diciannove anni, nel 1970 contro la Germania Est, Johan Neeskens con la maglia arancione ha disputato da protagonista tutti e due quei Campionati del mondo, oltre al Campionato europeo del 1976. Al termine della sua avventura con gli Oranje, conter&agrave; 49 partite ufficiali con 17 reti messe a segno. Ruud Krol ha esordito con l&rsquo;Olanda nel 1969, in amichevole contro l&rsquo;Inghilterra. Nel febbraio del 1983 ha giocato la sua ultima gara in arancione, in una partita di qualificazione all&rsquo;Europeo del 1984 contro la Spagna. Ha disputato, come Neeskens, l&rsquo;Europeo di Jugoslavia del 1976 - valso alla selezione olandese la medaglia di bronzo, dopo la finale di consolazione disputata proprio contro i padroni di casa e le due Coppe del mondo del &lsquo;74 e del &lsquo;78. 83 presenze per lui, condite da 4 reti. &nbsp; &nbsp; &nbsp; &nbsp;       

Protagonisti assoluti con l&rsquo;Ajax&nbsp;e la Nazionale, cambiarono il calcio europeo negli anni Settanta e poi furono di nuovo grandi su due diverse sponde del Mediterraneo

Barcellona-Napoli: Neeskens e Krol, storie a tinte Oranje

        Come diceva Pel&eacute;, &ldquo;Il Brasile mangia, dorme e beve calcio. Vive di calcio&rdquo;. Con il loro modo scanzonato e quasi &ldquo;bailado&rdquo; di giocare, centinaia di calciatori brasiliani spesso fuggono dalla terra natia e illuminano i campionati di tutto il mondo. Negli ultimi 30 anni, il giocatore verdeoro che arriva in Europa &egrave; diventato praticamente un clich&eacute;, con annessa narrazione della favola moderna del ragazzino povero o quasi indigente che grazie al football diventa ricco, famoso, un idolo per i bambini e via dicendo. C&rsquo;&egrave; un calciatore brasiliano che per&ograve; rischia di rimanere nell&rsquo;ombra, oscurato dalla fama dei vari Ronaldo, Rivaldo, Bebeto, Ronaldinho ecc... Un calciatore che non ha molto da invidiare a questi campioni assoluti, ma che per un motivo o per un altro non &egrave; diventato una vera e propria star: Giovanni Silva De Oliveira.  I primi anni e l&rsquo;approdo al Barcellona&nbsp; Dopo le primissime esperienze da professionista con Tuna Luso, Remo, Paysandu e Saocarlense approda al Santos nel 1994 dove si rivela uno dei giovani pi&ugrave; promettenti della sua generazione. Dopo la prima stagione l&rsquo;autorevole rivista brasiliana Placar gli assegna la Bola de Ouro, premio al miglior giocatore del campionato e alla porta dei Santistas bussa il calcio che conta davvero, in questo caso sotto le sembianze del Barcellona. Il giovane talento vola in Catalogna dove rimane per tre anni. Giovanni &egrave; un giocatore bello da vedere, ha un piede educatissimo con cui disegna geometrie, salta gli avversari, li sbeffeggia con il sombrero, fa assist e spesso segna anche di testa. Il Barcellona gli affida infatti &ldquo;la diez&rdquo; nella prima stagione in cui vengono assegnati i numeri fissi e compaiono i nomi dietro la casacca. Con i blaugrana rimane solo tre stagioni, alza una Coppa delle Coppe, una Supercoppa Europea, unaspagnola, due Coppe del Re e due campionati, prima di accasarsi al Pireo tra le filadell&rsquo;Olympiakos.  L&rsquo;Olympiakos e gli ultimi anni di carriera&nbsp; In Grecia si conferma come uno dei calciatori pi&ugrave; forti della sua generazione ma, inevitabilmente, esce leggermente dai radar del grande calcio. Ad Atene tutti si innamorano del suo talento eccezionale, che gli permette in sei stagioni di vincere il campionato per ben 5 volte. Nel 2005 torna a casa, al Santos, ma ci rimane poco perch&eacute; inizia una lunga girandola che lo porta in Arabia Saudita, di nuovo in Grecia e poi allo Sport Recife, prima di tornare definitivamente tra le fila dei Santistas giusto in tempo per salutare tutti e appendere gli scarpini al chiodo.        

Arrivato 24enne in Catalogna, nonostante le sue grandi doti, non diventer&agrave; mai celebre come i suoi connazionali degli anni &lsquo;90

Giovanni Silva de Oliveira, “l’underdog” brasiliano di Barça e Olympiakos

        N&ugrave;menor sar&agrave; un nome familiare per gli appassionati del mondo fantasy e in particolare di J. R. R. Tolkien. &Egrave; infatti un continente di Arda, universo immaginario che compare nelle opere Il Silmarillion e Racconti Incompiuti dello scrittore britannico. Tuttavia &egrave; anche il nome dell&rsquo;azienda di marketing di cui &egrave; titolare Sergi Barjuan Esclusa, ex terzino sinistro di Barcellona e Atletico Madrid, ora allenatore. &nbsp;La carriera di Sergi Nato il 28 dicembre 1971 a L&eacute;s Franqueses del Vall&eacute;s, nella provincia del capoluogo catalano, &egrave; uno dei prodotti pi&ugrave; illustri del vivaio blaugrana. Alto 1,72, veloce, forte fisicamente e abile nei cross, utile sia in fase difensiva che offensiva, si fa notare nel Barcellona B come ala, ma viene presto convertito al ruolo di terzino sinistro. Viene schierato titolare per la prima volta da Johan Cruyff il 24 novembre 1993, in occasione di uno 0-0 sul campo del Galatasaray in Champions League: &ldquo;Vedermi nella formazione titolare &egrave; stata una sorpresa. Ora spero solo di continuare a giocare&rdquo;. Non rimane deluso. Sergi viene eletto &ldquo;rivelazione della stagione&rdquo; in Liga e la sua entrata in pianta stabile nella rosa blaugrana coincide con l&rsquo;inizio della ricostruzione intrapresa da Cruyff dopo la fine del ciclo del &ldquo;Dream Team&rdquo;, con l&rsquo;addio di giocatori come Andoni Zubizarreta e Michael Laudrup. Nello specifico Sergi viene designato come erede di Julio Alberto. Ripaga le aspettative, divenendo una colonna portante del club. Il 19 marzo 1996 mette a segno una marcatura decisiva per salvare dall&rsquo;esonero chi lo aveva lanciato, correndo per 60 metri in contropiede sul campo del Philips Stadion di Eindhoven e segnando di prepotenza il gol del definitivo 3-2 del Barcellona sul PSV, che permette alla sua squadra di accedere alle semifinali di Coppa Uefa. Con il Bar&ccedil;a vanta 382 presenze e 11 gol, ha vinto tre volte la Liga, due la Coppa del Re e la Supercoppa di Spagna a cui si aggiungono una Coppa delle Coppe e una Supercoppa Europea. Nel 2002, non rientrando nei piani dell&rsquo;allenatore Louis van Gaal, non ottiene il rinnovo del contratto ed &egrave; libero di accasarsi all&rsquo;Atletico Madrid, all&rsquo;et&agrave; di 31 anni: &ldquo;(&hellip;) Se non avr&ograve; intoppi potr&ograve; dare tre o pi&ugrave; stagioni all&rsquo;Atletico&rdquo;. Anche stavolta le sue aspettative non rimangono deluse. Si ritira nel 2005, dopo 91 presenze con la maglia dei Colchoneros. Sergi da allenatore Dopo il ritiro ha intrapreso una non proprio esaltante carriera da allenatore. In due stagioni sulla panchina delle giovanili del Barcellona ha allenato Gerard Deulofeu e Rafinha, futuri esordienti in prima squadra. Si &egrave; poi seduto sulla panchina del Recreativo Huelva in Segunda Division, sfiorando la promozione nel 2014, mentre tra l&rsquo;aprile e il maggio del 2015 non &egrave; riuscito a evitare la retrocessione dell&rsquo;Almer&igrave;a in serie cadetta, pur venendo riconfermato per la stagione successiva. La storia si ripete nel 2017 sulla panchina del Maiorca, ma la mancata riconferma lo ha spinto a firmare per due anni con i cinesi dell&rsquo;Hangzhou Greentown. Dal 17 giugno 2021 allena il Barcellona B in terza divisione spagnola, ma dal 28 ottobre al 6 novembre ha preso il timone della prima squadra in attesa di Xavi, venendo preferito a Jordi Cruyff, figlio del suo primo maestro. Dopo due pareggi in Liga contro Alav&eacute;s e Celta Vigo e una vittoria a Kiev in Champions League &egrave; tornato ad allenare i ragazzi della &ldquo;cantera&rdquo;. Un&rsquo;avventura da sogno nella sua squadra del cuore, ma destinata a essere breve ed estemporanea, come un racconto di fantasia.       

Nato il 28 dicembre 1971, dalla &ldquo;cantera&rdquo; arriva in prima squadra grazie al grande Cruyff. Adesso allena i ragazzi della squadra B

Sergi Barjuan, una vita per il Barcellona

Portiere della Spagna per quattro edizioni dei campionati Mondiali, icona del calcio anni &rsquo;80 e &rsquo;90, Andoni Zubizaretta non ha avuto fortuna tra i pali delle Furie Rosse, ma a livello di club ha saputo vincere tutto quello che c&rsquo;era da vincere. La sua carriera termin&ograve; proprio all&rsquo;indomani dell&rsquo;eliminazione dalla rassegna iridata francese, quando il portierone basco incise in negativo sul torneo della Roja. Un suo errore al debutto contro la Nigeria spian&ograve; la strada per la vittoria delle Super Aquile. La Spagna, nonostante una rosa di tutto rispetto, non riusc&igrave; poi a battere il Paraguay, compromettendo cos&igrave; il cammino verso gli ottavi. &ldquo;La mia &egrave; la storia dei sogni di un bambino di Aretxabaleta che tutte le domeniche sera si lasciava prendere dalla fantasia e sognava di essere Iribar&quot;&nbsp;disse Andoni quel 25 giugno 1998, giorno dell&rsquo;annuncio del suo addio al calcio. Iribar, per chi non lo sapesse, &egrave; stato un leggendario portiere dell&rsquo;Athletic Bilbao e della nazionale, con cui si &egrave; laureato campione d&rsquo;Europa nel &rsquo;64. Ecco, Zubizarreta non &egrave; riuscito a emularlo con la casacca delle Furie Rosse, mentre lo ha superato con quella del club basco, vincendo due edizioni consecutive della Liga.  Athletic Bilbao  Ci sono i suoi giovani guanti sugli ultimi storici titoli nazionali vinti dall&rsquo;Athletic (1982-83 e 1983-84). Pensare che il suo idolo lascia il calcio nel 1980, mentre Andoni debutta appena un anno pi&ugrave; tardi non ancora ventenne. Al timone dei biancorossi c&rsquo;&egrave; l&rsquo;uomo pi&ugrave; importante della sua carriera: &quot;C&#39;&egrave; una persona che non ha mai dubitato di me, che con la sua fiducia mi ha fatto passare il nervosismo, qualcuno che ha sempre avuto una frase, una voce, un gesto nei momenti difficili. Grazie Javi. Il calcio ha bisogno di te&quot;. Javi Clemente, l&rsquo;allenatore che lo ha lanciato nel grande calcio, con cui vince i memorabili titoli al Bilbao &ndash; oltre ai due campionati anche una Coppa e una Supercoppa di Spagna &ndash; e che si ritrover&agrave; sulla panchina delle Furie Rosse anni pi&ugrave; tardi.  Barcellona  Un portiere a cui &egrave; difficile fare gol: copre maestosamente lo specchio della porta ed &egrave; sempre posizionato nel modo giusto. 187 centimetri che sembrano molti di pi&ugrave;, anche per via della sua massiccia struttura. Considerato ormai il miglior numero 1 spagnolo, dopo aver fatto il secondo ad Arconada agli Europei del 1984 (portiere che si macchi&ograve; di una grave papera sul gol del vantaggio di Platini in finale), diventa titolare della nazionale nel 1985 e si trasferisce al Barcellona nel 1986. Nella prima stagione sotto la guida di Terry Venables non arrivano titoli, ma Zubizarreta risulta essere il portiere meno battuto del campionato: vince sia il Trofeo Zamora &ndash; premio che Marca assegna ogni anno al miglior estremo difensore della Liga &ndash; che il riconoscimento come calciatore spagnolo dell&rsquo;anno. Le cose, per lui e per il Bar&ccedil;a, cambiano con l&rsquo;arrivo di Johan Cruijff: sotto la guida dell&rsquo;allenatore olandese i catalani si impongono tra le migliori squadre d&rsquo;Europa. Zubizarreta comincia a fare scorta di trofei. Prima la Coppa delle Coppe &ndash; finale vinta 2-0 contro la Sampdoria &ndash; poi quattro Liga consecutive (dal &rsquo;91 al &rsquo;94) con in mezzo una Coppa dei Campioni ancora a spese dei blucerchiati e una conseguente Supercoppa Uefa. Senza dimenticare le due Coppe del Re, una delle quali vinta nell&rsquo;ultimo anno con Venables in panchina. Una vera e propria epopea quella di Zubizarreta nel grande Barcellona, che di fatto si chiude ad Atene la notte del 18 maggio &lsquo;94 sotto i colpi geniali di Savicevic e co. Il pesante e inaspettato 4-0 subito dal Milan di Capello mette fine anche ai successi di Cruijff sulla panchina blaugrana.  La carriera di Zubizarreta termina dopo un quadriennio al Valencia e con quel Mondiale sopra citato, dopo pi&ugrave; di 1.000 partite giocate e con un posto tra i migliori portieri spagnoli di tutti i tempi.  &nbsp;  &nbsp;  &nbsp;  &nbsp; 

Nato nei Paesi Baschi il 23 ottobre di 60 anni fa, ha giocato pi&ugrave; di 1.000 partite da professionista vincendo due storiche Liga con l&#39;Athletic e poi tutto con il Bar&ccedil;a

Zubizarreta, da Bilbao a Barcellona: tutti i trionfi del portiere spagnolo

        Nel calcio dei superatleti e dei colossi, Xavier Hern&aacute;ndez non sembrava poter trovare grande spazio. E invece Xavi, come &egrave; sempre stato chiamato, ha avuto un impatto strabiliante, risultando uno dei migliori centrocampisti della storia. Forse proprio per quelle sue caratteristiche cos&igrave; diverse da tutti gli altri, che gli sono valse titoli a profusione con la Spagna e il Barcellona e nello specifico il premio di miglior giocatore dell&rsquo;Europeo 2008, il primo trofeo conquistato dalla &ldquo;Generazione d&rsquo;oro&rdquo; delle Furie Rosse.&nbsp; Un giocatore unico  Un metro e settanta, forse anche meno, ma quanta sapienza in quei piedi, l&rsquo;incarnazione stessa di quel &ldquo;tiki-taka&rdquo;, di quella ricerca ossessiva del fraseggio con i compagni, che ha segnato un&rsquo;epoca. Lui, assieme al &ldquo;gemello diverso&rdquo; Andr&eacute;s Iniesta, l&rsquo;uomo del gol nella finale del Mondiale, centrocampisti cerebrali e dalla straordinaria tecnica individuale: talmente inscindibili che si scambiavano i numeri di maglia tra Barcellona e Nazionale (Xavi aveva il 6 in blaugrana e l&rsquo;8 con le Furie Rosse, mentre per Iniesta valeva il contrario) e quasi nessuno se ne rendeva conto. Risalire il campo passaggio dopo passaggio, anche centinaia in una sola partita e sempre senza sbagliarne nessuno, praticamente; un &ldquo;torello&rdquo; infinito con il piccolo catalano come perno, a decidere quando e come accendere il motore. Non uno alla Pirlo, ecco, capace con un lancio di pescare un compagno a decine di metri di distanza, ma pi&ugrave; attento ai dettagli e alle cuciture.&nbsp; La consacrazione con Rijkaard e Guardiola  Debuttante con Van Gaal, Xavi &egrave; diventato grande prima con Rijkaard e soprattutto con Guardiola, di cui &egrave; stato l&rsquo;erede in campo sia quando Pep si &egrave; ritirato che dopo, quando si &egrave; seduto in panchina. Fino a quel 2008, in realt&agrave;, pochi successi e pi&ugrave; delusioni che altro per il centrocampista catalano: l&rsquo;infortunio che gli aveva impedito di giocare la finale di Champions vinta contro l&rsquo;Arsenal nel 2006, pi&ugrave; i vari flop con la Nazionale, data sempre tra le favorite in qualsiasi torneo e sempre a tradire le aspettative. Nel 2008, per&ograve;, la Spagna &egrave; troppo pi&ugrave; forte rispetto alla concorrenza, la congiunzione astrale &egrave; quantomai favorevole. Le punte di diamante sono Torres e Villa, ma l&rsquo;architetto di quell&rsquo;impalcatura imbattibile &egrave; Xavi. Suo il merito di sbloccare la semifinale contro la Russia, al termine di un&rsquo;azione di purissimo &ldquo;tiki-taka&rdquo; iniziata proprio da lui: passaggio dopo passaggio, l&rsquo;ultimo &egrave; dell&rsquo;amico Iniesta, cross al centro per il catalano che al volo la butta in rete. Finir&agrave; 3-0 con i timbri anche di G&uuml;iza e Silva. In finale, poi, gli basta un filtrante di dieci metri, in profondit&agrave;, sulla corsa di Fernando Torres che aggira Lahm e beffa Lehmann in uscita. Gol e assist tra semifinale e finale, in maniera semplice: il migliore di quell&rsquo;Europeo vinto dalla Spagna.&nbsp;       

Il profilo dell'ex Barcellona: dalla consacrazione con Rijkaard e Guardiola al successo con le Furie Rosse quando fu votato MVP del torneo

Xavi, il miglior giocatore dell'Europeo 2008 vinto dalla Spagna

        Joan Laporta &egrave; di nuovo presidente del Barcellona, 11 anni dopo la fine della sua prima era, nel 2010, proprio a met&agrave; del quadriennio di Pep Guardiola come allenatore della prima squadra. Era un Barcellona di livello stellare, che l&rsquo;anno prima aveva conquistato il cosiddetto Sextete (campionato, coppa e supercoppa di Spagna, Champions League e Supercoppa europea, Mondiale per club) con i vari Iniesta, Xavi, Piqu&eacute;, Puyol, oltre ovviamente a quel Messi il cui rinnovo del contratto &egrave; tutt&rsquo;altro che certo anche se Laporta ha in chiave elettorale &lsquo;venduto&rsquo; la cosa come gi&agrave; fatta, un po&rsquo; come l&rsquo;ingaggio di Beckham nel 2003 quando fu eletto presidente per la prima volta. Solo che Beckham non solo non arriv&ograve; al Barcellona, ma and&ograve; dal Manchester United al Real Madrid&hellip; Oggi come nel 2003 il Barcellona arriva da anni difficili sul piano sportivo e finanziario, anche se nel 2021 la situazione debitoria &egrave; una vera e propria voragine: 1.173 milioni di euro, la maggior parte da rimborsare entro pochi mesi.&nbsp;18 anni fa il campione da cui ripartire, l&rsquo;uomo simbolo, fu Ronaldinho, con Frank Rijkaard in panchina: dopo una stagione di trasizione si torn&ograve; a vincere la Liga e dopo due la seconda Champions League della storia blaugrana. Sull&rsquo;onda di quel trionfo Laporta stravinse le elezioni del 2006, era cos&igrave; popolare che nessun altro candidato raccolse le firme necessarie per presentarsi. Due anni dopo Laporta fu messo in discussione nel quadro di una delle mille faide dirigenziali della storia del Barcellona, ma ne usc&igrave; brilantemente lanciando l&rsquo;allora giovane Guardiola, che con la seconda squadra aveva appena conquistato la promozione in terza serie: ogni mille presunti predestinati uno che diventa Guardiola lo si trova. Cosa sia diventato quel Barcellona lo ricordano tutti, cos&igrave; come tutti ricordano le circostanze in cui nel 2010 Laporta rinunci&ograve; a ripresentarsi alle elezioni, lasciando il campo livero a Sandro Rosell. Era il infatti il periodo in cui aveva deciso di dedicarsi a tempo pieno alla politica, fondando il partito Democracia Catalana e presentandosi alle elezioni amministrative catalane in una coalizione chiamata Solidaridat Catalana per la Independencia che nel novembre 2010 prese 4 deputati. Per farla breve: la carriera politica dell&rsquo;ambizioso avvocato Laporta non &egrave; mai decollata, facendogli presto capire che la politica l&rsquo;avrebbe potuta fare pi&ugrave; facilmente attraverso il calcio. Ma intanto il posto l'avevano preso altri. Sarebbe di nuovo sceso in campo nel 2015, contro un Bartomeu fresco di Champions (l'ultima vinta dal Barcellona, quella con Messi, Neymar e Suarez in finale sulla Juventus di Allegri), perdendo di poco. E adesso rieccolo. Ma cosa cambier&agrave; al Barcellona con il ritorno di Laporta? Facile pensare ad una squadra pi&ugrave; identitaria, conoscendo le sue idee politiche, anche se trovarsi serviti Xavi e Iniesta &egrave; diverso dall'avere i pur promettenti Riqui Puig e Pedri.&nbsp;       

Il club catalano ha eletto per la terza volta presidente l'avvocato che vinse Champions League sia con Rijkaard sia con Guardiola. Nel 2003 aveva trovato una situazione debitoria pesantissima, anche se non come quella di oggi....

Il nuovo Barcellona di Laporta

        Il Barcellona sta vivendo il suo anno peggiore dai tempi di Frank Rijkaard, che nel 2007-2008 non vinse nemmeno un trofeo e nella Liga marciava ad una media punti paragonabile a quella di oggi. Di sicuro il 2019-2020 si &egrave; chiuso, con Setien in panchina, senza festeggiare una sola coppetta e non &egrave; che con Koeman, che pure a tratti sta mostrando un bion calcio, le cose siano migliorate troppo. Ma per l'immagine il peggio, in attesa di capire il futuro di un Messi in scadenza di contratto, &egrave; stato l'altroieri l'arresto del'ex presidente (lo &egrave; stato fino allo scorso 27 ottobre) Josep Maria Bartomeu. Lui e altri tre dirigenti sono accusati di corruzione ma anche di essere stati dietro al cosiddetto Barcagate. In sostanza Bartomeu avrebbe fatto pagare una societ&agrave; esterna al Barcellona, la I3 Ventures, per diffamare sul web ed in generale sui media suoi rivali all'interno del club come l'ex presidente Joan Laporta e Joan Font, ma soprattutto giocatori come Messi e Piqu&eacute;, per indurli ad andarsene. La notizia arriva in una settimana in cui il Barcellona si gioca la semifinale di Copa del Rey, mercoled&igrave; contro il Siviglia, ed elegger&agrave; il nuovo presidente, domenica. Sul club grava un debito lordo di 1,2 miliardi di euro, 488 milioni netti, e non c'&egrave; bisogno di grandi analisi finanziarie per capire da dove sia nato, al di l&agrave; del'anno Covid che ha tolto i ricavi da stadio a tutti. Dal 2017, cio&egrave; da quando furono incassati 222 milioni dal PSG per Neymar, il Barcellona ha speso cifre incredibili per giocatori soltanto buoni o direttamente per mezzi giocatori: in mezzo a investimenti importanti come De Jong e Griezmann, anche tante operazioni strampalate, fra cui spiccano i 160 milioni, ingaggio escluso, spesi per Coutinho e i 145 milioni per Dembel&eacute;. La gestione del finale di carriera di Messi, che comunque ha 33 anni, &egrave; stata la peggiore possibile. Ma cosa succeder&agrave; adesso? Si cercher&agrave; la rimonta con il Siviglia (all'andata la squadra allenata da Lopetegui ha vinto 2-0), poi saranno problemi del nuovo presidente: uno fra Laporta (presidente dal 2003 al 2010), Font e Toni Freixa, con Laporta netto favorito. Di fatto fuori dalla Champions League, dopo il disastro con il PSG, sconfitti in finale di Supercoppa dall'Athletic Bilbao, quasi impossibile la rimonta su un Atletico Madrid che sta volando, anche con i gol di Suarez (il modo in cui &egrave; stato ceduto, pi&ugrave; che la sostanza, &egrave; un'altra colpa di Bartomeu). E poi ci sar&agrave; da ricostruire un rapporto con Piqu&eacute; e Messi, comunque amatissimi dalla gente, anche se la convenienza del club potrebbe essere quella di lasciarli al loro destino liberandosi, soprattutto nel caso di Messi, di un ingaggio che vale pi&ugrave; dell'intero monte ingaggi di molte squadre che sono negli ottavi di Champions League (tipo l'Atalanta, per non andare lontani). Certo &egrave; che per la prima volta dopo tanti anni il Barcellona non ha veri obbiettivi da per cui lottare. 13 anni fa Guardiola arriv&ograve; in un contesto gi&agrave; di qualit&agrave; altissima, adesso i problemi sono pi&ugrave; profondi.&nbsp;       

Il periodo pi&ugrave; nero dei blaugrana ha sommato disgrazie sportive a situazioni come quella che ha portato all'arresto dell'ex presidente Bartomeu. Il suo successore dovr&agrave; decidere cosa fare con Messi...

L'anno orribile del Barcellona

        Tre grandi campioni capaci con le loro gesta di scrivere pagine di storia della Formula 1. Quando pensiamo ad Ayrton Senna, Alain Prost e a Michael Schumacher non possiamo non pensare a questo. Tre piloti (il brasiliano, il francese e il tedesco) capaci di ottenere 14 titoli mondiali (7 Schumacher, 4 Prost e 3 Senna), 163 vittorie (91 Schumacher, 51 Prost, 41 Senna), 166 Pole position (68 Schumacher, 65 Senna e 33 Prost) nei 667 Gp da loro disputati (307 Schumacher,199 Prost, 161 Senna), Tre campioni che anche se per poco tempo e in una differente fase della propria carriera hanno visto le loro strade incrociarsi e hanno condiviso lo stesso podio in una sola occasione, il 9 Maggio 1993 a Barcellona, ma per i quali il destino aveva gi&agrave; in mente una strada ben precisa. Una stagione, quella 1993, iniziata con due vittorie a testa per Prost (Sudafrica e San Marino) e Senna (Brasile e il Gp d'Europa a Donington), con i due rivali di sempre che si approcciano al campionato con due stati d'animo differente: di rivincita per quanto riguarda Prost, al rientro in Formula 1 in Williams dopo l'anno sabbatico legato alla conclusione anticipata del suo rapporto in Ferrari avvenuto sul finire della stagione 1991; di insofferenza nei confronti di una McLaren divenuta scarsamente competitiva per quanto riguarda Senna, il quale avrebbe volentieri salutato la scuderia di Woking per approdare in Williams se Prost non avesse fatto mettere sul proprio contratto un diritto di veto nel caso il cui il pilota brasiliano avesse optato proprio per il team di Grove. Senna decide cos&igrave; di correre a gettone con la McLaren (che al termine della precedente stagione aveva perso la motorizzazione Honda, con il motorista nipponico che si era accollato le spese per la fornitura annuale dei motori Ford) chiedendo al team di Woking un milione di dollari a gran premio (in attesa di trovare un accordo fino a fine stagione solo a met&agrave; campionato in Francia). Anche in Williams per&ograve; la situazione non &egrave; cos&igrave; rosea. Se la FW15C (degna erede della vittoriosa FW 14B messa a punto dal duo costituito da Adrian Newey e Patrick Head), promette molto bene nei test, in realt&agrave; rischier&agrave; molto seriamente di non prender parte al Mondiale a causa del ritardato invio della domanda d'iscrizione, con Benetton e Minardi contrarie alla sua iscrizione posticipata ( vale la pena ricordare che in caso di ritardata iscrizione al Mondiale, la domanda poteva venir accettata solo nel caso in cui tutte le rimanenti squadre fossero state d'accordo). Questa situazione spinge cos&igrave; il Presidente FISA Max Mosley a portare la questione al Consiglio Mondiale che, in cambio dell'accettazione delle controproposte portate dalla Ferrari (la riduzione delle prove libere, dei set di gomme e del numero di monoposto disponibili per weekend come anche il minor uso delle sospensioni attive), alla fine acconsente all'iscrizione del team di Grove al Mondiale. Dopo le prime quattro gare, la Formula 1 approda in Spagna con la Classifica piloti che vede in testa Senna con 26 punti, seguito da Prost a quota 24. Terzo &egrave; l'inglese Damon Hill (promosso da collaudatore a secondo pilota Williams, dopo il contemporaneo addio del campione del mondo uscente Mansell, passato alle corse americane, e di Patrese, approdato alla Benetton) con 12 punti, seguito dal giovane pilota tedesco della Benetton Schumacher a 10 e dal duo britannico Blundell (Ligier)-Herbert (Lotus) a 6 punti. Una tappa, quella spagnola, che sulla carta dovrebbe privilegiare la Williams, e le qualifiche in effetti vanno proprio in questa direzione con il team di Grove che conquista l'intera prima fila con Alain Prost (1'17&rdquo;809) alla sua quinta pole stagionale consecutiva davanti al compagno di squadra Damon Hill (1'18&rdquo;346). In seconda fila la McLaren-Ford di Senna (1'19&rdquo;722) davanti alla Benetton-Ford di Michael Schumacher (1'20&rdquo;550), che precede di 80 millesimi il neo compagno di squadra Riccardo Patrese, in terza fila assieme al pilota austriaco della Sauber, Karl Wendlinger. La partenza (avvenuta con un semaforo che da rosso diventa giallo lampeggiante e non verde e nonostante questo considerata valida dalla Federazione) vede Prost in difficolt&agrave; con il cambio semiautomatico, e cos&igrave; viene superato da Hill, che prende la testa della gara. Il campione del mondo francese per&ograve; dopo i primi giri che lo vedono accusare un distacco quantificabile in circa un secondo, comincia man mano a recuperare, fino a superare nel corso dell'undicesimo giro il compagno di squadra inglese. Le due Willams sembrano avere un ritmo insostenibile per i principali avversari, e sono avviati verso una sicura doppietta, quando improvvisamente nel corso del 42&deg; giro dopo esser tornato vicino al compagno di squadra Hill &egrave; costretto a ritirarsi a causa di un problema al motore. Senna guadagna cos&igrave; la seconda posizione, ma nel corso del 53&deg; giro un errore commesso dai suoi meccanici in occasione del cambio gomme consente al giovane Schumacher di avvicinarsi pericolosamente alla McLaren del pilota brasiliano. L'inseguimento, per&ograve;, avr&agrave; vita breve: il pilota tedesco a poche tornate dal termine finisce con il toccare con le gomme l'olio appena seminato davanti a lui dalla Lotus guidata da Alex Zanardi, uscendo cos&igrave; fuoripista. Schumacher riesce a tornare in pista e a concludere al terzo posto una gara che vede Prost vincere il Gp di Spagna con 16&rdquo;873 su Ayrton Senna, e con 27&rdquo;125 sul pilota tedesco originario di Kerpen.  Twenty-five years ago ?Alain Prost won the 1993 #SpanishGP for WilliamsHe was joined on the podium by Ayrton Senna and Michael SchumacherIt was the only time the legendary trio shared the rostrum  pic.twitter.com/SsgLDzndY1 &mdash; Formula 1 (@F1) 9 maggio 2018    Il podio vede cos&igrave; sui suoi tre gradini due grandi campioni per l'epoca come Prost e Senna, e un giovane emergente, come Michael Schumacher. Un podio apparentemente come tanti, ma che visto oggi a distanza di 26 anni assume un significato veramente speciale, visto e considerato che, come abbiamo gi&agrave; detto all'inizio, quello di Barcellona &egrave; l'unico podio che li vedr&agrave; raffigurati tutti e tre insieme. Nessuno, infatti, pu&ograve; anche solo lontanamente immaginare cosa il destino ha in serbo per loro, con Prost che al termine della stagione si ritirer&agrave; dalla Formula 1 anche se al Circus rester&agrave; per sempre legato (inizialmente come commentatore televisivo per TF1, poi come proprietario della Prost Grand Prix (ex team Ligier), e poi ancora negli ultimi anni come consulente della Renault), con Senna che, approdato in Williams grazie al prezioso aiuto di Prost (divenuto nel frattempo suo amico) perder&agrave; la vita ad Imola a bordo della FW16 il 1&deg; Maggio 1994, e con Schumacher destinato a conquistare ben 7 titoli mondiali piloti tra il 1994 e il 2004 (due con la Benetton nel 1994 e nel 1995, cinque consecutivi con la Ferrari dal 2000 al 2004). Ma questa &egrave; un'altra storia.       

Il 9 Maggio 1993 per la prima ed unica volta nella storia della Formula 1 salgono sul podio al termine del Gp di Spagna a Barcellona tre campioni che hanno scritto la storia del Circus: Alain Prost, Ayrton Senna e Michael Schumacher.

Prost, Senna, Schumacher: un podio per tre campioni

Il Barcellona ha festeggiato l&rsquo;ottava Liga vinta nelle ultime undici stagioni e la notizia &egrave; stata accolta quasi con indifferenza in un&rsquo;Europa in cui anche i campionati dei paesi trainanti sono quasi monopolizzati: Germania-Bayern Monaco, Francia-PSG, ovviamente Italia-Juventus. Fa eccezione la Premier League: se dovesse vincere il Liverpool saremmo a cinque vincitori diversi nelle ultime sette stagioni, se prevarr&agrave; il Manchester City rimarremmo ad un comunque rispettabile quattro. Ma tornando al Barcellona, bisogna chiedersi in cosa il successo di Messi e compagni sia stato diverso dai precedenti.  Prima di tutto la squadra di Valverde si &egrave; confrontata con il peggior Real Madrid del decennio, che ha iniziato la stagione con la storiaccia di Lopetegui strappato alla nazionale alla vigilia del Mondiale, poi cedendo Cristiano Ronaldo alla Juventus e l&rsquo;ha proseguita sperando che campioni ormai logori, reduci da quattro Champions League vinte in cinque stagioni, trovassero nuove motivazioni in una stagione quasi dichiaratamente di transizione, con Solari bruciato e Zidane richiamato. Certo i numeri dicono che la rivale &egrave; stata l&rsquo;Atletico di Simeone, ma in ogni caso mai il Barcellona &egrave; stato davvero nel mirino di chi inseguiva.  In secondo luogo il Barcellona 2018-19 ha finalmente mostrato giocatori in grado di far parte di una squadra al top anche in futuro. No, non ci riferiamo alla mitica cantera. Che anche quest&rsquo;anno ha proposto pochissimo: un minimo di spazio per Alena, che in mezzo al campo non &egrave; esattamente sembrato Xavi, poi il nulla. L&rsquo;Ajax rimane su un altro pianeta, infatti al Barcellona De Jong coster&agrave; 75 milioni di euro. Fra gli emergenti non canterani menzione d&rsquo;onore per Lenglet, che di fatto ha tolto la maglia titolare al connazionale Umtiti, e per il brasiliano Arthur che ha almeno nei sogni ricordato Iniesta: non due scoperte fatte guardando giocare ragazzini in spiaggia, ma due giocatori gi&agrave; formati, pagati a peso d&rsquo;oro a Siviglia e Gremio.  Il terzo aspetto notevole del Barcellona di questa stagione &egrave; stato che molti relativi &lsquo;vecchi&rsquo; hanno disputato la loro miglior stagione blaugrana: Ter Stegen, Jordi Alba, Piqu&eacute; e Rakitic sono stati secondo noi vicini al loro top, mentre un leggero declino ha toccato Sergi Roberto e Suarez (al di l&agrave; delle ottime statistiche) e uno meno leggero Busquets. Messi ci sembra sempre il miglior Messi, quindi &egrave; ingiudicabile, certo &egrave; che si tratta di un fenomeno anche di continuit&agrave; e che il &lsquo;Non ha mai vinto un Mondiale&rsquo; sia oggi ridicolo, pensando al peso specifico di un Mondiale oggi confrontato con i Mondiali di qualche decina di anni fa.  Certo &egrave; che il Barcellona ha tantissimo talento anche nelle seconde linee, come provato dalla discreta stagione di Dembel&eacute;, da quella appena sufficiente di Coutinho, dalla solidit&agrave; di Vidal e Semedo e soprattutto, in prospettiva, dai lampi di Malcom. Significativi anche i nomi degli scomparsi, da Rafinha a Boateng, da Murillo a Vermaelen, per una squadra che in patria potr&agrave; vincere ancora a lungo e che sembra matura per una nuova Champions dopo l&rsquo;ultima vinta nel 2015. Una squadra che nel corso del decennio ha cambiato pelle, passando gradualmente dal 70% di possesso palla dell&#39;era Guardiola al 61 attuale, senza contare i discorsi sulla catalanit&agrave;, ma sempre con Messi a dare il tocco del fuoriclasse a un contesto gi&agrave; ottimo di suo.&nbsp; 

L&#39;ottava Liga vinta sulle ultime undici impone di fare il punto sulla squadra di Messi e su come &egrave; cambiata rispetto a quando &egrave; entrata nell&#39;immaginario collettivo...

Un Barcellona uguale e diverso

Inter-Barcellona ha fatto segnare il record italiano assoluto d&rsquo;incasso per una partita di calcio con quasi 6 milioni (esattamente 5.919.864) di euro portati dai 73.428 spettatori in un San Siro che al terzo anello blu (quello sopra la curva del Milan, per intendersi), dove erano stati collocati i tifosi catalani, presentava molti vuoti: non per scarsa fiducia in Valverde, ma per i precedenti fra le tifoserie che hanno a molti sconsigliato la trasferta. E infatti sono stati venduti soltanto 800 biglietti sui 5.500 disponibili&hellip; Comunque un incasso impressionante, in un&rsquo;era televisiva che in teoria indurrebbe in una piovosa serata di novembre a starsene a casa, battendo di quasi 800.000 euro il primato stabilito dalla Roma sempre in Champions League nella scorsa stagione, nella semifinale con il Liverpool, e il record della stessa Inter stabilito in campionato nell&rsquo;aprile scorso contro la Juventus. Ma al di l&agrave; dei numeri da Guinness, bisogna farsi una domanda: davvero nel 2018 il calcio dal vivo piace pi&ugrave; che nell&rsquo;era pre-pay tv?  Prendiamo in considerazione lo stesso stadio, la stessa squadra e la stessa competizione, tornando con la memoria al 22 aprile 1981, semifinale di ritorno di Coppa dei Campioni fra l&rsquo;Inter e il Real Madrid allenato da Vujadin Boskov, che al Bernabeu aveva vinto 2-0. Quel tentativo (la squadra di Bersellini vinse 1-0, con gol di Bini) di rimonta attir&ograve; 78.744 paganti, per un incasso di 802.176.000 lire. Cifre che fecero molto discutere, perch&eacute; anche in quel caso si tratt&ograve; di record assoluto di incasso battendo di 110 milioni di lire un Inter-Borussia Dortmund della Coppa UEFA della stagione precedente. Istruzioni per l&rsquo;uso: San Siro aveva all&rsquo;epoca due soli anelli ma la capienza massima nel 1981 era quasi uguale a quella di oggi (80.018), e soprattutto la partita fu trasmessa in diretta televisiva in tutta Italia con l&rsquo;esclusione per&ograve; della zona di Milano. Sulle prime infatti la trasmissione sembrava subordinata al tutto esaurito, ma a tutto esaurito ottenuto l&rsquo;Inter spieg&ograve; che non voleva mancare di rispetto a chi aveva comprato il biglietto e si era sobbarcato una spesa e magari un viaggio per andare allo stadio. Altri tempi, davvero. Oggi la mancata diretta di una partita di quel tipo porterebbe la gente in piazza.&nbsp;  Ma tornando ai due incassi, confrontiamoli nell&rsquo;unico modo corretto possibile, cio&egrave; quello di rapportare le lire di 37 anni fa all&rsquo;effettivo potere di acquisto. Usiamo le tabelle di rivalutazione dell&rsquo;ISTAT, pur con tutte le precauzioni del caso (molti beni oggi ritenuti indispendabili nel 1981 nemmeno esistevano) e vediamo cos&igrave; che 802.176.000 lire dell&rsquo;epoca significano 1.649.000 euro di oggi. Sarebbe sempre un incasso notevolissimo, invidiabile da molte partecipanti all&rsquo;attuale Champions League, ma pur sempre un quarto di quanto realizzato ai giorni nostri in Inter-Barcellona. Conclusione? Il grande calcio piace di pi&ugrave; oggi rispetto a diversi decenni fa, mentre le cifre dicono che ai piani inferiori il pubblico sta neppure troppo lentamente scomparendo.&nbsp; 

Le cifre grezze dell&#39;incasso possono ingannare perch&eacute; vengono confrontate a epoche differenti, ma rapportando tutto al costo della vita nei vari decenni si scopre che oggi il grande calcio interessa molto pi&ugrave; di ieri. Anche allo stadio...

Il vero record di Inter-Barcellona

La partita di Champions League fra Barcellona e Inter ha messo di fronte Rafinha e Icardi, ex compagni non solo all&rsquo;Inter dell&rsquo;anno scorso (che non riscatt&ograve; il figlio di Mazinho, nonostante l&rsquo;ottimo finale di stagione) ma soprattutto nelle giovanili del Barcellona prima che Icardi si rendesse conto di non avere sbocchi in prima squadra, in pieno guardiolismo con tanto di obbligo di falso nueve, e accettasse nel gennaio del 2011 le offerte della Sampdoria.  Ma al di l&agrave; del passato prendiamo Rafinha e Icardi come pretesti per osservare il declino del passaggio dal settore giovanili alla prima squadra, anche per giocatori forti come loro. Nell&rsquo;ultima stagione completa in cui i due ragazzi (all&rsquo;epoca diciassettenni) giocarono insieme, la 2009-10, nel Barcellona Juvenil A portiere era Alex Sanchez (adesso all&rsquo;Ibiza di Borriello), in difesa giocava Carles Planas (ora al Girona), in attacco Jony Rodriguez (attualmente il Malaga lo ha prestato all&rsquo;Alaves) e Cristian Ceballos (ora al St. Truiden), ma le stelle, i predestinati, erano Rafinha e Icardi. Met&agrave; di quella sorta di Primavera sotto et&agrave; adesso fa altri lavori, al di fuori del calcio. Ecco, con buona pace della retorica sulla Mas&igrave;a e dell&rsquo;appartenenza catalana, a parte Rafinha nessuno di quei ragazzi ha avuto una reale chance in prima squadra, n&eacute; con Guardiola n&eacute; con i suoi successori.  Il club blaugrana rimane comunque un&rsquo;eccezione in Champions League, visto che del Barcellona attuale possono essere considerati prodotti di casa Messi, Sergi Roberto, Piqu&eacute;, Busquets, Jordi Alba, appunto Rafinha, in parte Munir, pi&ugrave; le comparse Samper e Alen&agrave;. Nove giocatori sui ventitre presi in considerazione quest&rsquo;anno da Valverde, di cui sette veri. Non siamo ai livelli del recente e glorioso passato, ma nemmeno al quasi zero (in termini reali) della concorrenza, con le norme UEFA che hanno riempito le rose di mezze figure con un vago passato giovanile nel club ma senza alcuna speranza di utilizzo. La regola &egrave; infatti chiara: nella lista A, al netto di sanzioni (tipo quella in cui &egrave; incorsa l&rsquo;Inter), si devono inserire almeno 8 giocatori locali, di cui almeno 4 cresciuti nel vivaio del club e non pi&ugrave; di 4 cresciuti nel vivaio di un club del paese.  Crescere nel vivaio del club non significa per&ograve; esserci entrati da bambini, ma avere vestito quei colori per almeno tre stagioni nel periodo dai 15 ai 21 anni di et&agrave;. &Egrave; evidente che senza costruire qualcosa basta prendere un diciottenne di talento sul mercato (vogliamo dire Arthur?), tenerlo tre anni, e poi considerarlo come un proprio prodotto. Insomma, il Barcellona &egrave; in questo senso meglio di quasi tutte le partecipanti alla Champions League ma i segnali che stanno arrivando da qualche anno sono molto precisi. Una grande squadra, sempre, ma con la catalanit&agrave; che fra qualche anno potrebbe diventare un ricordo. 

Il Barcellona &egrave; una delle poche squadre di Champions League che rispetta davvero lo spirito delle regole UEFA sugli otto giocatori &#39;locali&#39;, ma negli ultimi tempi anche per i blaugrana la tendenza &egrave; quella verso una rosa difficile da distinguere da quella dei concorrenti...

Le occasioni di Rafinha e Icardi

Il 239&ordm; derby di Spagna non delude&nbsp;nonostante il Bar&ccedil;a sia gi&agrave;&nbsp;sicuro del suo 25&ordm; scudetto e il Real abbia gi&agrave; la testa&nbsp;alla finalissima di Champions contro il Liverpool. Al Camp Nou all&#39;uscita dal campo di Iniesta&nbsp;lo stadio non smette di applaudire

Botte e emozioni: che show nel Clasico!

Al minuti 75 della sua nona sfida contro i Blues in Champions League, il numero 10 del Barcellona &egrave; apparso nel tabellino dei marcatori. Ora sono solo 6 su 37&nbsp;le squadre nella competizione europea a cui Messi non ha mai fatto gol:&nbsp;Atletico Madrid, Benfica, Inter, Liverpool, Rubin Kazan e Udinese.

Messi, un gol al Chelsea: non c'era mai riuscito

Le grandi squadre quasi mai hanno il portiere sotto i riflettori mediatici, non fosse altro che perch&eacute; vengono chiamati in causa raramente. Il Barcellona di Guardiola non fa eccezione, ma l&rsquo;addio al calcio di Victor Valdes &egrave; stato comunque notevole come la sua carriera, terminata ufficialmente qualche giorno fa ma con una decisione gi&agrave; presa in estate. Un finale di partita a 36 anni, iniziato di fatto nella sua ultima stagione con i blaugrana, ad accordo con il Monaco gi&agrave; firmato, quando si ruppe il crociato in una partita contro il Celta Vigo. Una scelta con il senno di poi sbagliata, quella di fare il vice De Gea al Manchester United, un triste prestito allo Standard Liegi prima di chiudere la scorsa stagione da titolare al Middlesbrough: l&rsquo;esonero di Karanka e la retrocessione, ma soprattutto il sentirsi al di fuori di un sistema com quello del Barcellona, lo hanno convinto a lasciare senza raccattare gli ultimi soldi in qualche emirato o in Cina. Un addio con stile, cancellandosi da tutti i social network e asserendo di sentirsi meglio senza la pressione della popolarit&agrave;. Gli crediamo sulla parola, anche se sono ben pochi gli ex calciatori che apprezzano il fatto di non essere pi&ugrave; riconosciuti nemmeno dal vicino di casa.  Di sicuro Victor Valdes &egrave; stato il portiere ideale del Barcellona e non solo di &lsquo;quel&rsquo; Barcellona di Guardiola che in quattro anni non riusc&igrave; a vincere soltanto una Liga (Real di Mourinho) e due Champions (eliminato in semifinale dell&rsquo;Inter di Mourinho e dal Chelsea di Di Matteo), dominando tutto il resto e offrendo momenti di calcio inarrivabili, in cui ovviamente avevano una certa importanza le migliori versioni mai viste di Messi, Xavi e Iniesta. Prima di tutto Victor Valdes era un canterano e catalano purissimo, nato appena fuori Barcellona, emerso gradualmente da giovanili e seconde squadre prima di essere scoperto da Van Gaal e Antic, anche se a lanciarlo come titolare fu Frank Rijkaard. In secondo luogo Victor Valdes era uno dei migliori portieri al mondo con i piedi, caratteristica che con Rijkaard contava meno di altre ma che con Guardiola sarebbe diventata decisiva. Bravo anche fra i pali, ovviamente, ma se si deve trovare un volto alla figura mitologica dello sweeper-keeper (il portiere che fa il libero al limite della sua area, in parole povere) Victor Valdes &egrave; uno dei primi che ci viene in mente, anche per la sua temerariet&agrave;. In terzo luogo era un portiere psicologicamente diverso rispetto allo stereotipo del ruolo: poco freddo e molto emotivo, anche nei confronti dei compagni, cosa che lo portava ad errori nelle partite medie ma che lo caricava in quelle che fanno la storia. Due fra le sue pi&ugrave; grandi prestazioni sono infatti quelle nelle finali di Champions League del 2006 contro l&rsquo;Arsenal e del 2009 contro il Manchester United, all&rsquo;Olimpico: consigliabile la visione su You Tube della parate su Henry e Cristiano Ronaldo. Infine, questo lo ha detto Guardiola, era un portiere che sapeva accendersi anche per due sole volte in 90 minuti, senza bisogno di essere bombardato di tiri: insomma, forse non il migliore della storia del calcio ma di sicuro il migliore possibile per una grande squadra.  Quasi zero lo spazio in Nazionale, per la presenza di Iker Casillas con cui comunque il rapporto &egrave; sempre stato buono, Victor Valdes &egrave; stato ed &egrave; fra i pi&ugrave; entusiasti sostenitori della selezione catalana e di sicuro non ha visto di buon occhio l&rsquo;equilibristica freddezza con cui il Barcellona attuale, molto pi&ugrave; multiculturale rispetto al suo, ha trattato la vicenda dell&rsquo;indipendenza. Paradossalmente il portiere pass&ograve; un guaio con Laporta, allora presidente del club, per un&rsquo;intervista in cui si diceva appassionato di corrida (emblema della Spagna centralista), ma non fu certo per quello che la stampa catalana lo ha avuto spesso nel mirino: in una squadra piena di divinit&agrave; intoccabili e con un allenatore guru alla fine di attaccabile c&rsquo;erano soltanto gli errori (pochi) di Victor Valdes. Parole di Xavi: &ldquo;Un grandissimo portiere con un grandissimo carattere, non ho mai visto un calciatore criticato quanto lui&rdquo;. In comune con i suoi pi&ugrave; famosi compagni ha l&#39;essere fuori dal campo un anti-personaggio, quasi che il barcellonismo sia pi&ugrave; importante dei suoi interpreti, cosa che chi ha una personalit&agrave; alla Maradona o alla Ronaldo non accetta. Sar&agrave; molto rivalutato, anche senza il doping della nostalgia. &nbsp; 

Il portiere del Barcellona di Guardiola ha ufficialmente lasciato il calcio, dopo tre anni in cui si &egrave; sostanzialmente trascinato. Non &egrave; stato celebrato come Messi o Iniesta, ma nel grande ciclo &egrave; stato spesso decisivo...

La rivalutazione di Victor Valdes

Difficile non buttare in politica Real Madrid-Barcellona, a due giorni dalle elezioni catalane che hanno confermato la prevalenza del sentimento indipendendista, con diverse declinazioni, da parte dalla popolazione. Ma al Bernabeu c&rsquo;&egrave; stato soprattutto il calcio e il calcio ha detto che gi&agrave; a Natale la Liga &egrave; finita: con questo 3-0 i blaugrana l&rsquo;hanno di fatto gi&agrave; vinta per la venticinquesima volta nella loro storia e, per certi aspetti, contro la propria storia. Quello di Ernesto Valverde &egrave; infatti probabilmente il Barcellona pi&ugrave; verticale dell&rsquo;era moderna, quella dal segno lasciato da Rinus Michels, arrivato nel 1971 dall&rsquo;Ajax, in poi. Un&rsquo;evoluzione iniziata nel dopo Guardiola-Vilanova, con il Tata Martino, ma soprattutto Luis Enrique e scelte societarie come quella di ammassare talento in attacco con Neymar e Suarez aggiunti a Messi, ai saluti di Xavi e al dignitoso fine carriera di Iniesta, il tutto unito a una strisciante de-catalanizzazione della rosa figlia di una minore produzione della mitizzata cantera. Evoluzione compiuta con la partenza di Neymar e l&rsquo;idea di calcio che Valverde aveva gi&agrave; mostrato con chiarezza nella sua carriera precedente, pur con moduli diversi dai due (4-3-3 e 4-4-2) che alterna al Barcellona.  Il senno di poi, da professorini con il risultato in mano, non deve comunque far dimenticare che la squadra di Zidane ha affrontato il Clasico ancora rintronata dalla faticosa conquista del Mondiale per Club, con Cristiano Ronaldo mezzo infortunato per la botta presa contro il Gremio e con tante situazioni tattiche e umane, da Isco a Bale, tutte da definire. Nonostante questo il Real ha dominato la prima parte della sfida, arrendendosi alle ripartenze del Barcellona e a un Messi salito clamorosamente di tono nel corso della partita. Zidane ha provato la magata della Supercoppa, inserendo Kovacic anche se non in marcatura di Messi, e per un po&rsquo; gli ha detto bene perch&eacute; il primo tempo &egrave; stato equilibrato a livello di occasioni ma ha visto prevalere i Blancos come spirito di iniziativa, pur a quasi parit&agrave; di moduli (due strani 4-4-2, con esterni di centrocampo adattati). Poi a ritmo calato il Barcellona verticale &egrave; stato letale, come sintetizzato dall&rsquo;azione del vantaggio Busquets-Rakitic-Sergi Roberto-Suarez, con gol dell&rsquo;uruguayano. Ai campioni d&rsquo;Europa e del mondo (e anche di Spagna...) sono saltati i nervi, ma hanno continuato a costruire occasioni anche dopo il due a zero arrivato su rigore di Messi (l&rsquo;azione era stata comunque clamorosa), al gol numero 25 nel Clasico. Benzema sempre a un centimetro dal gol, CR7 che ha fatto il (poco) possibile ed entrer&agrave; negli highlights soprattutto per un clamoroso &lsquo;liscio&rsquo; di sinistro (sarebbe stato il gol dell&rsquo;uno a zero), Bale che ha quasi riaperto la partita e Keylor Navas forse il migliore dei suoi.  Insomma, per Zidane una partita affrontata in un periodo di grande stanchezza e che certo non pone fine a questo ciclo del Real, mentre per Valverde un&rsquo;affermazione che va al di l&agrave; dei punti di vantaggio sugli eterni rivali (14), ma anche su Atletico Madrid e Valencia. Il tutto senza Dembel&eacute;, cio&egrave; l&rsquo;acquisto dell&rsquo;estate, con giocatori riciclati a caro prezzo (40 milioni di euro) come Paulinho o a costo zero come Vermaelen (la scorsa stagione in prestito alla Roma, ma anche le precedenti, parland chiaro), con un Semedo ancora da inquadrare e un Deulofeu un po&rsquo; scomparso dai radar fra scelte tecniche e l&rsquo;attuale infortunio, per non parlare dell&rsquo;addio di Neymar non ancora metabolizzato, visto che il Barcellona, cos&igrave; come il Real, si &egrave; sempre percepito come punto di arrivo e quando sbatte contro una stella che se ne vuole andare (fu cos&igrave; vent&#39;anni fa con Ronaldo) sente pi&ugrave; dolore anche di una grande italiana. Quando Barcellona o Real Madrid conquistano la Liga l&rsquo;atteggiamento, anche dei loro setssi tifosi, &egrave; del genere &lsquo;S&igrave;, va be&rsquo;&rsquo;, ma Valverde la sua Liga l&rsquo;ha vinta prima di Natale. Pazienza se non ha l&rsquo;atteggiamento e la spocchia del guru. 

Con tre a zero al Bernabeu l&#39;allenatore del Barcellona ha gi&agrave; di fatto conquistato la Liga a Natale, con il Real Madrid a meno 14 punti. Il calcio verticale fa discutere, ma i blaugrana hanno ormai cambiato pelle e non soltanto per la sua mano...

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