Uno che nel grande calcio c&rsquo;&egrave; stato e anche bene. Negli anni d&rsquo;oro in cui le squadre italiane dominavano in Europa, Paolo Stringara macinava chilometri a centrocampo: bandiera del Bologna (ancora oggi adorato dai tifosi) e gregario di lusso nell&rsquo;Inter del Trap vincitrice della Coppa Uefa 1991 nella finale tutta italiana contro la Roma. Senza dimenticare l&rsquo;esperienza a Siena che lo ha consacrato: &ldquo;A Siena sono diventato uomo. Sono arrivato l&igrave; a 18 anni e a 20 mi sono sposato. Ho vinto due campionati e la citt&agrave; &egrave; diventata la mia casa: anche quando giocavo a Bologna tornavo a Siena. &Egrave; stata una tappa fondamentale, non solo per la carriera da calciatore, ma per la mia vita in generale&rdquo;. Una carriera ad alti livelli che ha rischiato seriamente di non iniziare proprio, messa a repentaglio nel settore giovanile nerazzurro, dove Paolo arriv&ograve; nel 1978: &ldquo;Feci un campionato con gli allievi, ma poi l&rsquo;Inter (proprietaria del mio cartellino) non mi ritenne all&rsquo;altezza e mi risped&igrave; a casa, tenendomici per un anno intero. A quel punto pretesi che mi trovassero una squadra in Toscana: li provocai dicendo che altrimenti avrei smesso di giocare. Mi proposero la Cerretese o il Siena in C2, ovviamente optai per la seconda. Quando poi a 27 anni l&rsquo;Inter mi ricompr&ograve; dal Bologna pagandomi quasi 2 miliardi, alla prima intervista mi tolsi subito il sassolino dalla scarpa. Mi sembrava anche giusto, in fondo quell&rsquo;esclusione mi aveva dato la forza per dimostrare a tutti che si stavano sbagliando. Mi sono preso una grandissima rivincita&rdquo;. Da quella nidiata di allievi nerazzurri sono arrivati in Serie A, oltre a Stringara, Giuseppe Bergomi e Marco Pecoraro, mentre Roberto Fontanini e Mauro Marmaglio si sono fermati in Serie B: &ldquo;Lo &lsquo;Zio&rsquo; Bergomi ha bruciato le tappe vincendo il Mondiale da titolare appena due anni dopo. Si vedeva che era gi&agrave; fatto, gi&agrave; adulto. Noi eravamo ancora ragazzini, lui aveva gi&agrave; i baffi, per quello lo chiamavamo lo Zio. Fin da piccolo si capiva che fosse di un&rsquo;altra categoria&rdquo;. A Siena inizia l&rsquo;avventura tra i professionisti: &ldquo;Sono molto grato a Costanzo Balleri: avrei dovuto giocare con la Juniores, mi port&ograve; subito in prima squadra e mi fece esordire. Con Guido Mammi, invece, ho vinto il mio primo campionato. Ma l&rsquo;allenatore al quale devo davvero tantissimo &egrave; Ferruccio Mazzola: mi &egrave; stato molto vicino ed &egrave; risultato fondamentale per il mio trasferimento al Bologna. Era il socio in affari di Nello Governato (allora dirigente sportivo del Bologna, ndi.). Fu lui a caldeggiare prepotentemente il mio acquisto a Nello. Sono orgoglioso che, col senn&ograve; di poi, abbia avuto ragione&rdquo;. La stagione 1985-86, chiusa con un quarto posto nel girone B della C1, &egrave; l&rsquo;ultima passata in Toscana: Stringara approda a Bologna. La mediana che si forma in quell&rsquo;estate farebbe invidia a tante squadre della Serie A odierna: Marocchi-Pecci-Stringara. Invece all&rsquo;epoca giocavano in Serie B. A dire il vero l&rsquo;esperienza rossobl&ugrave; non inizia benissimo: &ldquo;Eraldo Pecci arriv&ograve; a Bologna dal Napoli un paio di mesi dopo di me. Durante la prima partita che giocammo insieme, dopo aver sbagliato un paio di palloni sentii una voce: &lsquo;Oh, guarda che noi siamo quelli con la maglia rossobl&ugrave;&rsquo;. Era Pecci da dietro. Questa cosa mi ha segnato, la ricordo come fosse ieri, forse fu la chiave giusta per farmi rendere di pi&ugrave;: con la sua ironia riusc&igrave; a spronarmi&rdquo;. Negli anni passati a Bologna il centrocampista toscano si toglie tante soddisfazioni vivendo la sua completa evoluzione tattica: &ldquo;Inizialmente giocavo da mezzala, mi piaceva inserirmi: io e Marocchi ci muovevamo ai lati di Pecci. Ero un giocatore un po&rsquo; &lsquo;anarchico&rsquo;, poi col passare del tempo, acquisendo tante nozioni, con le responsabilit&agrave; che aumentano, cambiai anche il mio modo di giocare&rdquo;. Tutto questo anche grazie alla vicinanza di un centrocampista straordinario d&rsquo;altri tempi, Eraldo Pecci: &ldquo;Mi ha aiutato tantissimo: giocare con lui &egrave; stato straordinario&rdquo;. La seconda stagione &egrave; quella della svolta: grazie a un attacco super &ndash; migliore del torneo per distacco con 62 reti segnate &ndash; il Bologna vince il campionato e torna in Serie A. Protagonista il capocannoniere Lorenzo Marronaro (21 gol), con il quale Paolo Stringara si sente quotidianamente ancora oggi. Il timoniere del Bologna &egrave; invece Luigi Maifredi: &ldquo;Il suo modo di giocare a zona m&rsquo;incuriosiva tantissimo, per me era una situazione totalmente nuova. Fu molto affascinante, un po&rsquo; come tornare a scuola&rdquo;. &Egrave; lo stesso Maifredi con l&rsquo;addio di Pecci a spostarlo davanti alla difesa nel 1989: &ldquo;Presi l&rsquo;eredit&agrave; di Eraldo, con Ivano Bonetti e Massimo Bonini che agivano da mezze ali&rdquo;. Da Pecci eredita anche la fascia di capitano: &ldquo;Gi&agrave; indossare la maglia del Bologna &egrave; di per s&eacute; una cosa unica, essere stato addirittura il capitano di una squadra cos&igrave; gloriosa &egrave; una sensazione che mi godo ancora oggi. Aver avuto la possibilit&agrave; di capitanare un gruppo composto da gente come Cabrini, <a href="https://www.guerinsportivo.it/news/il-cuoio/l-intervista/2021/11/25-4964011/bruno_giordano_racconta_il_suo_maradona_dentro_e_fuori_il_campo">Giordano</a> e Bonini continua a rendermi orgoglioso&rdquo;. Con Stringara a Bologna giocava anche Fabio Poli, seconda punta sfortunata di quegli anni, ricordato soprattutto per aver segnato il gol che salv&ograve; la Lazio dalla C negli spareggi di Napoli del 1987: "Premettendo che ho giocato con tantissimi campioni inarrivabili (Matthaus, Bergomi, Brehme ecc&hellip;), se ti dovessi dire il giocatore pi&ugrave; forte con cui abbia avuto a che fare ti direi Fabio Poli del Bologna. Maifredi ci puntava tantissimo, era uno spettacolo vederlo giocare. Purtroppo &egrave; stato sfortunatissimo, si &egrave; rotto il crociato e da l&igrave; non &egrave; pi&ugrave; tornato quello di prima, martoriato dagli infortuni e dalle operazioni subite, contando anche l&rsquo;ernia del disco pi&ugrave; di 10 in carriera. Dentro a quel gruppo di fenomeni ci metto anche Fabio Poli, per me era eccezionale&rdquo;. Ci stupisce anche quando ci parla della sua &ldquo;bestia nera&rdquo;: &ldquo;Un certo Gabriele Baldassarri della Civitanovese: per 90 minuti non l&rsquo;ho mai preso, mi ha fatto impazzire. Mi ha messo in difficolt&agrave; come nessuno, una sensazione che non ho provato nemmeno quando mi sono trovato ad affrontare campionissimi come Maradona o Zico. Se penso a Baldassarri mi gira ancora la testa&rdquo;. Come detto, nell&rsquo;estate del Mundial approda alla corte di Giovanni Trapattoni: &ldquo;La mia Inter era una squadra molto muscolare, poi ovviamente non mancava la qualit&agrave;: avevamo 8 nazionali tra i titolari. Un Pallone d&rsquo;Oro come Matthaus insieme ai connazionali Klinsmann e Brehme: tre tedeschi campioni del mondo. Oltre ai 5 italiani (Ferri, Zenga, Bergomi, Serena e Berti). Con Paganin, Pizzi, Fontolan e Battistini ci giocavamo gli altri posti. Nonostante la rottura del menisco proprio contro il Bologna a inizio campionato e il seguente strappo muscolare &ndash; infortuni che mi tennero lontano dai campi per due mesi &ndash;, giocai comunque 22 partite di campionato e qualche match di Coppa Uefa&rdquo;. Una stagione pi&ugrave; che positiva che vede l&rsquo;Inter tornare a trionfare in Europa a distanza di 36 anni: &ldquo;Vinsi a Milano quella Coppa Uefa per la quale mi ero qualificato nella stagione precedente a Bologna. Un grandissimo rammarico resta la finale di ritorno. Stavamo perdendo 1-0 all&rsquo;Olimpico con la Roma, il Trap mi fece scaldare dall&rsquo;inizio alla fine del secondo tempo senza per&ograve; farmi mai entrare. Mi sarebbe piaciuto tantissimo poter giocare anche solo 5 minuti di quella storica gara&rdquo;. Un allenatore unico come Giovanni Trapattoni seppe farsi perdonare pochi giorni dopo, con un trucco del mestiere, un divertente aneddoto rivelato dall&rsquo;ex centrocampista toscano: &ldquo;Era l&rsquo;ultimo allenamento stagionale. Finita la doccia mi rivestii, misi la mano in tasca e sentii qualcosa. Era un bigliettino con su scritto &lsquo;Ti ringrazio per tutto quello che hai fatto per me, mi dispiace per l&rsquo;infortunio che ti ha un pochino limitato, ma soprattutto sono molto dispiaciuto per la finale, quando ti ho fatto scaldare senza farti entrare. Grazie mille (Giovanni Trapattoni)&rsquo;. Questa cosa ovviamente non l&rsquo;ha fatta solo con me, avr&agrave; messo un bigliettino personalizzato anche nella tasca degli altri. Ma da una persona che ha vinto tutto non ti aspetti un gesto cos&igrave; umile: andare a chiedere al magazziniere dove si spoglia un calciatore piuttosto che un altro&hellip; Per me questa &egrave; una cosa da gigante&rdquo;. Dopo l&rsquo;Inter, l&rsquo;Avellino, un breve ritorno a Bologna e l&rsquo;esperienza ad Aosta (dove nel 1995-96 ritrova il suo vecchio maestro Ferruccio Mazzola), appende gli scarpini al chiodo nel 1996 con la stagione all&rsquo;Iperzola, quando da giocatore-allenatore porta per la prima volta la squadra tra i professionisti. Lunghissima sar&agrave; anche la carriera in panchina di Paolo Stringara. Inizia a Livorno &ndash; dove conquista la promozione in C1 e il seguente record di 9 vittorie di fila iniziali in campionato &ndash; e prosegue in piazze importanti come Pistoia, Perugia, Lucca, Taranto e Foggia. Proprio con i Satanelli una delle partite pi&ugrave; pazze della sua intera carriera: &ldquo;Andammo a Benevento per giocare una gara sentitissima. A pochi minuti dalla fine del primo tempo ci trovammo in 9 e senza mister (l&rsquo;arbitro aveva cacciato anche me). Dopo aver resistito in 9 contro 11 per pi&ugrave; di un&rsquo;ora, vincemmo 0-1 con gol vittoria segnato all&rsquo;85esimo da Agodirin. Ricordo che a fine primo tempo gli addetti non mi volevano far rientrare negli spogliatoi, neanche per recuperare il portafogli. Seguire il secondo tempo dalla tribuna sarebbe stato complicato, allora andai nel nostro settore: mi misi sotto insieme ai miei collaboratori. C&rsquo;erano 800 tifosi foggiani, ed erano pure un po&rsquo; incazzati, pronti ormai inevitabilmente a perdere. Dopo il fischio finale mi portarono in trionfo, fu una cosa eccezionale: veramente da brividi. Questa partita a Foggia &egrave; leggendaria: non so quante squadre nella storia del calcio siano state capaci di un&rsquo;impresa simile&rdquo;. Attualmente collabora con il suo vecchio compagno Jurgen Klinsmann: &ldquo;Ho lavorato con lui con la nazionale americana e all&rsquo;Herta Berlino. Stiamo aspettando qualcosa dall&rsquo;estero, magari una nazionale, vediamo&rdquo;. Nel frattempo si tiene in forma e continua a giocare a calcio con costanza, coinvolto anche nelle iniziative tra vecchie glorie: &ldquo;Un paio di volte mi ha chiamato il Bologna Legend per giocare amichevoli con altri ex calciatori. Abbiamo giocato al Dall&rsquo;Ara contro il Real Madrid Legend in occasione dei 110 anni del club. Nel Real c&rsquo;erano Seedorf e Roberto Carlos, ex giocatori importanti&hellip; abbiamo perso 4-2, per&ograve; mi sono tolto lo sfizio di segnare su rigore. Spesso andiamo a giocare in giro per i paesini con i veterani, organizza Franco Colomba. Anche con l&rsquo;Inter sono andato a fare una partita, a Tolentino, perch&eacute; Suning aveva donato delle tribune per il &lsquo;Centro sportivo Gattari&rsquo;. C&rsquo;erano vecchie glorie niente male: Zanetti, Materazzi, Toldo; e anche due miei ex compagni di squadra come Alessandro Bianchi e Beppe Baresi. Sto bene fisicamente, non voglio smettere: ancora oggi giocare a pallone mi piace tantissimo&rdquo;.

        Uno che nel grande calcio c&rsquo;&egrave; stato e anche bene. Negli anni d&rsquo;oro in cui le squadre italiane dominavano in Europa, Paolo Stringara macinava chilometri a centrocampo: bandiera del Bologna (ancora oggi adorato dai tifosi) e gregario di lusso nell&rsquo;Inter del Trap vincitrice della Coppa Uefa 1991 nella finale tutta italiana contro la Roma. Senza dimenticare l&rsquo;esperienza a Siena che lo ha consacrato: &ldquo;A Siena sono diventato uomo. Sono arrivato l&igrave; a 18 anni e a 20 mi sono sposato. Ho vinto due campionati e la citt&agrave; &egrave; diventata la mia casa: anche quando giocavo a Bologna tornavo a Siena. &Egrave; stata una tappa fondamentale, non solo per la carriera da calciatore, ma per la mia vita in generale&rdquo;. Una carriera ad alti livelli che ha rischiato seriamente di non iniziare proprio, messa a repentaglio nel settore giovanile nerazzurro, dove Paolo arriv&ograve; nel 1978: &ldquo;Feci un campionato con gli allievi, ma poi l&rsquo;Inter (proprietaria del mio cartellino) non mi ritenne all&rsquo;altezza e mi risped&igrave; a casa, tenendomici per un anno intero. A quel punto pretesi che mi trovassero una squadra in Toscana: li provocai dicendo che altrimenti avrei smesso di giocare. Mi proposero la Cerretese o il Siena in C2, ovviamente optai per la seconda. Quando poi a 27 anni l&rsquo;Inter mi ricompr&ograve; dal Bologna pagandomi quasi 2 miliardi, alla prima intervista mi tolsi subito il sassolino dalla scarpa. Mi sembrava anche giusto, in fondo quell&rsquo;esclusione mi aveva dato la forza per dimostrare a tutti che si stavano sbagliando. Mi sono preso una grandissima rivincita&rdquo;.  Da quella nidiata di allievi nerazzurri sono arrivati in Serie A, oltre a Stringara, Giuseppe Bergomi e Marco Pecoraro, mentre Roberto Fontanini e Mauro Marmaglio si sono fermati in Serie B: &ldquo;Lo &lsquo;Zio&rsquo; Bergomi ha bruciato le tappe vincendo il Mondiale da titolare appena due anni dopo. Si vedeva che era gi&agrave; fatto, gi&agrave; adulto. Noi eravamo ancora ragazzini, lui aveva gi&agrave; i baffi, per quello lo chiamavamo lo Zio. Fin da piccolo si capiva che fosse di un&rsquo;altra categoria&rdquo;. A Siena inizia l&rsquo;avventura tra i professionisti: &ldquo;Sono molto grato a Costanzo Balleri: avrei dovuto giocare con la Juniores, mi port&ograve; subito in prima squadra e mi fece esordire. Con Guido Mammi, invece, ho vinto il mio primo campionato. Ma l&rsquo;allenatore al quale devo davvero tantissimo &egrave; Ferruccio Mazzola: mi &egrave; stato molto vicino ed &egrave; risultato fondamentale per il mio trasferimento al Bologna. Era il socio in affari di Nello Governato (allora dirigente sportivo del Bologna, ndi.). Fu lui a caldeggiare prepotentemente il mio acquisto a Nello. Sono orgoglioso che, col senn&ograve; di poi, abbia avuto ragione&rdquo;.  La stagione 1985-86, chiusa con un quarto posto nel girone B della C1, &egrave; l&rsquo;ultima passata in Toscana: Stringara approda a Bologna. La mediana che si forma in quell&rsquo;estate farebbe invidia a tante squadre della Serie A odierna: Marocchi-Pecci-Stringara. Invece all&rsquo;epoca giocavano in Serie B. A dire il vero l&rsquo;esperienza rossobl&ugrave; non inizia benissimo: &ldquo;Eraldo Pecci arriv&ograve; a Bologna dal Napoli un paio di mesi dopo di me. Durante la prima partita che giocammo insieme, dopo aver sbagliato un paio di palloni sentii una voce: &lsquo;Oh, guarda che noi siamo quelli con la maglia rossobl&ugrave;&rsquo;. Era Pecci da dietro. Questa cosa mi ha segnato, la ricordo come fosse ieri, forse fu la chiave giusta per farmi rendere di pi&ugrave;: con la sua ironia riusc&igrave; a spronarmi&rdquo;. Negli anni passati a Bologna il centrocampista toscano si toglie tante soddisfazioni vivendo la sua completa evoluzione tattica: &ldquo;Inizialmente giocavo da mezzala, mi piaceva inserirmi: io e Marocchi ci muovevamo ai lati di Pecci. Ero un giocatore un po&rsquo; &lsquo;anarchico&rsquo;, poi col passare del tempo, acquisendo tante nozioni, con le responsabilit&agrave; che aumentano, cambiai anche il mio modo di giocare&rdquo;. Tutto questo anche grazie alla vicinanza di un centrocampista straordinario d&rsquo;altri tempi, Eraldo Pecci: &ldquo;Mi ha aiutato tantissimo: giocare con lui &egrave; stato straordinario&rdquo;.  La seconda stagione &egrave; quella della svolta: grazie a un attacco super &ndash; migliore del torneo per distacco con 62 reti segnate &ndash; il Bologna vince il campionato e torna in Serie A. Protagonista il capocannoniere Lorenzo Marronaro (21 gol), con il quale Paolo Stringara si sente quotidianamente ancora oggi. Il timoniere del Bologna &egrave; invece Luigi Maifredi: &ldquo;Il suo modo di giocare a zona m&rsquo;incuriosiva tantissimo, per me era una situazione totalmente nuova. Fu molto affascinante, un po&rsquo; come tornare a scuola&rdquo;. &Egrave; lo stesso Maifredi con l&rsquo;addio di Pecci a spostarlo davanti alla difesa nel 1989: &ldquo;Presi l&rsquo;eredit&agrave; di Eraldo, con Ivano Bonetti e Massimo Bonini che agivano da mezze ali&rdquo;. Da Pecci eredita anche la fascia di capitano: &ldquo;Gi&agrave; indossare la maglia del Bologna &egrave; di per s&eacute; una cosa unica, essere stato addirittura il capitano di una squadra cos&igrave; gloriosa &egrave; una sensazione che mi godo ancora oggi. Aver avuto la possibilit&agrave; di capitanare un gruppo composto da gente come Cabrini, Giordano e Bonini continua a rendermi orgoglioso&rdquo;.  Con Stringara a Bologna giocava anche Fabio Poli, seconda punta sfortunata di quegli anni, ricordato soprattutto per aver segnato il gol che salv&ograve; la Lazio dalla C negli spareggi di Napoli del 1987: "Premettendo che ho giocato con tantissimi campioni inarrivabili (Matthaus, Bergomi, Brehme ecc&hellip;), se ti dovessi dire il giocatore pi&ugrave; forte con cui abbia avuto a che fare ti direi Fabio Poli del Bologna. Maifredi ci puntava tantissimo, era uno spettacolo vederlo giocare. Purtroppo &egrave; stato sfortunatissimo, si &egrave; rotto il crociato e da l&igrave; non &egrave; pi&ugrave; tornato quello di prima, martoriato dagli infortuni e dalle operazioni subite, contando anche l&rsquo;ernia del disco pi&ugrave; di 10 in carriera. Dentro a quel gruppo di fenomeni ci metto anche Fabio Poli, per me era eccezionale&rdquo;. Ci stupisce anche quando ci parla della sua &ldquo;bestia nera&rdquo;: &ldquo;Un certo Gabriele Baldassarri della Civitanovese: per 90 minuti non l&rsquo;ho mai preso, mi ha fatto impazzire. Mi ha messo in difficolt&agrave; come nessuno, una sensazione che non ho provato nemmeno quando mi sono trovato ad affrontare campionissimi come Maradona o Zico. Se penso a Baldassarri mi gira ancora la testa&rdquo;.  Come detto, nell&rsquo;estate del Mundial approda alla corte di Giovanni Trapattoni: &ldquo;La mia Inter era una squadra molto muscolare, poi ovviamente non mancava la qualit&agrave;: avevamo 8 nazionali tra i titolari. Un Pallone d&rsquo;Oro come Matthaus insieme ai connazionali Klinsmann e Brehme: tre tedeschi campioni del mondo. Oltre ai 5 italiani (Ferri, Zenga, Bergomi, Serena e Berti). Con Paganin, Pizzi, Fontolan e Battistini ci giocavamo gli altri posti. Nonostante la rottura del menisco proprio contro il Bologna a inizio campionato e il seguente strappo muscolare &ndash; infortuni che mi tennero lontano dai campi per due mesi &ndash;, giocai comunque 22 partite di campionato e qualche match di Coppa Uefa&rdquo;. Una stagione pi&ugrave; che positiva che vede l&rsquo;Inter tornare a trionfare in Europa a distanza di 36 anni: &ldquo;Vinsi a Milano quella Coppa Uefa per la quale mi ero qualificato nella stagione precedente a Bologna. Un grandissimo rammarico resta la finale di ritorno. Stavamo perdendo 1-0 all&rsquo;Olimpico con la Roma, il Trap mi fece scaldare dall&rsquo;inizio alla fine del secondo tempo senza per&ograve; farmi mai entrare. Mi sarebbe piaciuto tantissimo poter giocare anche solo 5 minuti di quella storica gara&rdquo;. Un allenatore unico come Giovanni Trapattoni seppe farsi perdonare pochi giorni dopo, con un trucco del mestiere, un divertente aneddoto rivelato dall&rsquo;ex centrocampista toscano: &ldquo;Era l&rsquo;ultimo allenamento stagionale. Finita la doccia mi rivestii, misi la mano in tasca e sentii qualcosa. Era un bigliettino con su scritto &lsquo;Ti ringrazio per tutto quello che hai fatto per me, mi dispiace per l&rsquo;infortunio che ti ha un pochino limitato, ma soprattutto sono molto dispiaciuto per la finale, quando ti ho fatto scaldare senza farti entrare. Grazie mille (Giovanni Trapattoni)&rsquo;. Questa cosa ovviamente non l&rsquo;ha fatta solo con me, avr&agrave; messo un bigliettino personalizzato anche nella tasca degli altri. Ma da una persona che ha vinto tutto non ti aspetti un gesto cos&igrave; umile: andare a chiedere al magazziniere dove si spoglia un calciatore piuttosto che un altro&hellip; Per me questa &egrave; una cosa da gigante&rdquo;.  Dopo l&rsquo;Inter, l&rsquo;Avellino, un breve ritorno a Bologna e l&rsquo;esperienza ad Aosta (dove nel 1995-96 ritrova il suo vecchio maestro Ferruccio Mazzola), appende gli scarpini al chiodo nel 1996 con la stagione all&rsquo;Iperzola, quando da giocatore-allenatore porta per la prima volta la squadra tra i professionisti. Lunghissima sar&agrave; anche la carriera in panchina di Paolo Stringara. Inizia a Livorno &ndash; dove conquista la promozione in C1 e il seguente record di 9 vittorie di fila iniziali in campionato &ndash; e prosegue in piazze importanti come Pistoia, Perugia, Lucca, Taranto e Foggia. Proprio con i Satanelli una delle partite pi&ugrave; pazze della sua intera carriera: &ldquo;Andammo a Benevento per giocare una gara sentitissima. A pochi minuti dalla fine del primo tempo ci trovammo in 9 e senza mister (l&rsquo;arbitro aveva cacciato anche me). Dopo aver resistito in 9 contro 11 per pi&ugrave; di un&rsquo;ora, vincemmo 0-1 con gol vittoria segnato all&rsquo;85esimo da Agodirin. Ricordo che a fine primo tempo gli addetti non mi volevano far rientrare negli spogliatoi, neanche per recuperare il portafogli. Seguire il secondo tempo dalla tribuna sarebbe stato complicato, allora andai nel nostro settore: mi misi sotto insieme ai miei collaboratori. C&rsquo;erano 800 tifosi foggiani, ed erano pure un po&rsquo; incazzati, pronti ormai inevitabilmente a perdere. Dopo il fischio finale mi portarono in trionfo, fu una cosa eccezionale: veramente da brividi. Questa partita a Foggia &egrave; leggendaria: non so quante squadre nella storia del calcio siano state capaci di un&rsquo;impresa simile&rdquo;.  Attualmente collabora con il suo vecchio compagno Jurgen Klinsmann: &ldquo;Ho lavorato con lui con la nazionale americana e all&rsquo;Herta Berlino. Stiamo aspettando qualcosa dall&rsquo;estero, magari una nazionale, vediamo&rdquo;. Nel frattempo si tiene in forma e continua a giocare a calcio con costanza, coinvolto anche nelle iniziative tra vecchie glorie: &ldquo;Un paio di volte mi ha chiamato il Bologna Legend per giocare amichevoli con altri ex calciatori. Abbiamo giocato al Dall&rsquo;Ara contro il Real Madrid Legend in occasione dei 110 anni del club. Nel Real c&rsquo;erano Seedorf e Roberto Carlos, ex giocatori importanti&hellip; abbiamo perso 4-2, per&ograve; mi sono tolto lo sfizio di segnare su rigore. Spesso andiamo a giocare in giro per i paesini con i veterani, organizza Franco Colomba. Anche con l&rsquo;Inter sono andato a fare una partita, a Tolentino, perch&eacute; Suning aveva donato delle tribune per il &lsquo;Centro sportivo Gattari&rsquo;. C&rsquo;erano vecchie glorie niente male: Zanetti, Materazzi, Toldo; e anche due miei ex compagni di squadra come Alessandro Bianchi e Beppe Baresi. Sto bene fisicamente, non voglio smettere: ancora oggi giocare a pallone mi piace tantissimo&rdquo;.        

Nato il 22 settembre del 1962, in occasione dei suoi 60 anni l'ex centrocampista toscano ha aperto l'album dei ricordi: "Che emozione la fascia da capitano. Inizialmente i nerazzurri mi scartarono"

Paolo Stringara: "Bologna il mio orgoglio. All'Inter mi presi la rivincita"

Quando si poteva tentare la scalata dai dilettanti alla Serie A, Gianluca "Gil" De Ponti &egrave; stato uno dei rappresentanti pi&ugrave; validi. Bomber a tutte le latitudini e in tutte le categorie, non si &egrave; mai fatto mancare nulla, dentro e fuori dal campo. Simbolo tipico di un certo prototipo di giocatore che ormai non esiste quasi pi&ugrave;. <h2>Fiorentino</h2> Lo chiamavano "Il Bettega dei poveri", Gianluca, uno che in realt&agrave; come idolo aveva Gigi Riva e che si divertiva come un matto a scimmiottare un altro Gigi, Meroni. Come vezzo, infatti, aveva quello di girare per il centro di Cesena con un'anatra al guinzaglio, vestito ovviamente con un cappotto di pelliccia. Altri tempi, gli anni Settanta nella provincia italiana del pallone, dove un tipo estroso come Gil poteva sguazzare alla grande. Capelli lunghi, baffoni, fiorentino di nascita (quartiere Lippi, zona Rifredi) e di tifo, un decollo non esattamente da predestinato sui campi della Toscana profonda, tra Impruneta e Terranuovese. Fino alla Sangiovannese, 14 gol in Serie C, e l'interesse del Cesena in Serie A, con l'approdo nel 1975 nella massima categoria. Perch&eacute; fermarsi l&igrave;, per&ograve;? De Ponti in Romagna vive due stagioni stupende in una squadra che &egrave; la rivelazione del campionato con un sesto posto impensabile e una qualificazione storica per la Coppa Uefa. Mai il Cesena arriver&agrave; cos&igrave; in alto, con una formazione recitata a memoria ancora oggi dai suoi tifosi e in cui Gil &egrave; una delle punte di riserva dietro Urban e Bertarelli.&nbsp;In panchina c'&egrave; Pippo Marchioro, che da lui esige sempre il massimo, non sempre ottenendolo: "In campo ero soprattutto un combattente, con limiti tecnici evidenti, ma con uno stile di gioco imprevedibile - ricorda De Ponti-. Sono nato dal niente, non ho avuto scuole. Marchioro mi metteva al muro per migliorarmi e ci sono riuscito". <h2>"Figlio delle stelle"</h2> Se la merita la Serie A, Gil, anche quando il Cesena dopo la sbornia del sesto posto retrocede, l'anno successivo, pur con l'attaccante fiorentino titolare e autore di 7 gol. Fa pochi chilometri, si sposta al Bologna dove si sposa e dove gli nasce il primo figlio. Una sola stagione, ma sufficiente per mettere radici con casa e negozio di biancheria intima comprato in societ&agrave; con un parente. Da l&igrave; vola ad Avellino, dove viene adottato istantaneamente. Col matrimonio fine delle scorribande notturne, che gli avevano portato in carniere storie con attrici del calibro di Gloria Guida e Serena Grandi. Rimane tutto sommato un viveur, un "figlio delle stelle" come viene soprannominato seguendo il titolo della celebre canzone dell'epoca di Alan Sorrenti.&nbsp;In Irpinia lega con Piga e Romano, non si nega un pacchetto di sigarette al giorno e qualche stravizio non proprio da atleta, tipo spaghettate fuori orario. L'ambiente bollente dell'Avellino lo esalta, d&agrave; sempre l'anima ogni volta che scende in campo, la squadra &egrave; bene amalgamata tra giovani e vecchi. Quando gli chiedono perch&eacute; si segni cos&igrave; poco in Serie A risponde: "I difensori sono fortissimi e non ti mollano mai, meno male che qualche portiere &egrave; un po' piccione". Due stagioni al massimo, prima della cessione in B alla Sampdoria, dove segna 10 gol senza riuscire a portare i blucerchiati in Serie A ma regalando perle come una rete di tacco al Varese. Poi Ascoli, ritorno a Bologna coi rossobl&ugrave; in C e chiusura esotica con i maltesi del Zurrieq, dove c&rsquo;era l&rsquo;ex compagno sotto le Due Torri Adelmo Paris. La sua carriera da allenatore non avr&agrave; molto successo. Anzi, dovr&agrave; interromperla per via di un tumore, inizialmente diagnosticato come benigno e invece maligno. Per&ograve; Gil &egrave; ancora tra noi, a tifare viola e a riconoscersi poco nel calcio attuale. "Troppi falli tattici", dice. &nbsp;

        Quando si poteva tentare la scalata dai dilettanti alla Serie A, Gianluca "Gil" De Ponti &egrave; stato uno dei rappresentanti pi&ugrave; validi. Bomber a tutte le latitudini e in tutte le categorie, non si &egrave; mai fatto mancare nulla, dentro e fuori dal campo. Simbolo tipico di un certo prototipo di giocatore che ormai non esiste quasi pi&ugrave;.  Fiorentino Lo chiamavano "Il Bettega dei poveri", Gianluca, uno che in realt&agrave; come idolo aveva Gigi Riva e che si divertiva come un matto a scimmiottare un altro Gigi, Meroni. Come vezzo, infatti, aveva quello di girare per il centro di Cesena con un'anatra al guinzaglio, vestito ovviamente con un cappotto di pelliccia. Altri tempi, gli anni Settanta nella provincia italiana del pallone, dove un tipo estroso come Gil poteva sguazzare alla grande. Capelli lunghi, baffoni, fiorentino di nascita (quartiere Lippi, zona Rifredi) e di tifo, un decollo non esattamente da predestinato sui campi della Toscana profonda, tra Impruneta e Terranuovese. Fino alla Sangiovannese, 14 gol in Serie C, e l'interesse del Cesena in Serie A, con l'approdo nel 1975 nella massima categoria. Perch&eacute; fermarsi l&igrave;, per&ograve;? De Ponti in Romagna vive due stagioni stupende in una squadra che &egrave; la rivelazione del campionato con un sesto posto impensabile e una qualificazione storica per la Coppa Uefa. Mai il Cesena arriver&agrave; cos&igrave; in alto, con una formazione recitata a memoria ancora oggi dai suoi tifosi e in cui Gil &egrave; una delle punte di riserva dietro Urban e Bertarelli.&nbsp;In panchina c'&egrave; Pippo Marchioro, che da lui esige sempre il massimo, non sempre ottenendolo: "In campo ero soprattutto un combattente, con limiti tecnici evidenti, ma con uno stile di gioco imprevedibile - ricorda De Ponti-. Sono nato dal niente, non ho avuto scuole. Marchioro mi metteva al muro per migliorarmi e ci sono riuscito".  "Figlio delle stelle" Se la merita la Serie A, Gil, anche quando il Cesena dopo la sbornia del sesto posto retrocede, l'anno successivo, pur con l'attaccante fiorentino titolare e autore di 7 gol. Fa pochi chilometri, si sposta al Bologna dove si sposa e dove gli nasce il primo figlio. Una sola stagione, ma sufficiente per mettere radici con casa e negozio di biancheria intima comprato in societ&agrave; con un parente. Da l&igrave; vola ad Avellino, dove viene adottato istantaneamente.  Col matrimonio fine delle scorribande notturne, che gli avevano portato in carniere storie con attrici del calibro di Gloria Guida e Serena Grandi. Rimane tutto sommato un viveur, un "figlio delle stelle" come viene soprannominato seguendo il titolo della celebre canzone dell'epoca di Alan Sorrenti.&nbsp;In Irpinia lega con Piga e Romano, non si nega un pacchetto di sigarette al giorno e qualche stravizio non proprio da atleta, tipo spaghettate fuori orario. L'ambiente bollente dell'Avellino lo esalta, d&agrave; sempre l'anima ogni volta che scende in campo, la squadra &egrave; bene amalgamata tra giovani e vecchi. Quando gli chiedono perch&eacute; si segni cos&igrave; poco in Serie A risponde: "I difensori sono fortissimi e non ti mollano mai, meno male che qualche portiere &egrave; un po' piccione".  Due stagioni al massimo, prima della cessione in B alla Sampdoria, dove segna 10 gol senza riuscire a portare i blucerchiati in Serie A ma regalando perle come una rete di tacco al Varese. Poi Ascoli, ritorno a Bologna coi rossobl&ugrave; in C e chiusura esotica con i maltesi del Zurrieq, dove c&rsquo;era l&rsquo;ex compagno sotto le Due Torri Adelmo Paris. La sua carriera da allenatore non avr&agrave; molto successo. Anzi, dovr&agrave; interromperla per via di un tumore, inizialmente diagnosticato come benigno e invece maligno. Per&ograve; Gil &egrave; ancora tra noi, a tifare viola e a riconoscersi poco nel calcio attuale. "Troppi falli tattici", dice.  &nbsp;       

L'attaccante fiorentino balz&ograve; dalla C alla A e divenne un simbolo del Cesena dei miracoli negli anni Settanta. A Bologna e soprattutto ad Avellino le sue stagioni migliori, a suon di gol e all'insegna della leggerezza

"Gil" De Ponti, l'allegria di venire dal nulla

Tramite il canale Instagram de &ldquo;Il cuoio&rdquo;, Gianluca Pagliuca ci ha concesso in diretta un&rsquo;intervista esclusiva (<a href="https://www.instagram.com/tv/CcxccLiDFEs/?utm_source=ig_web_copy_link">puoi guardarla integralmente cliccando qui</a>). Una chiacchierata che, partendo dal recupero della gara Bologna&ndash;Inter, ha toccato due tappe fondamentali della sua carriera. &ldquo;Il gatto di Casalecchio&rdquo; ha vestito 234 volte la casacca dell&rsquo;Inter e 270 quella del Bologna. In entrambe le esperienze ha indossato la fascia di capitano. Prima dell&rsquo;inizio della chiacchierata Gianluca ha voluto recapitare un augurio di pronta guarigione a Stefano Tacconi e a Sinisa Mihajlovic. L&rsquo;Inter con una vittoria sul Bologna potrebbe tornare in testa alla classifica. Credi che sia la favorita nello sprint finale? &ldquo;&Egrave; un campionato avvincente e si decider&agrave; tutto nelle battute finali, &egrave; ovvio che se l&rsquo;Inter vincer&agrave; nel recupero, avr&agrave; il destino nelle sue mani&rdquo;. Un Bologna che, invece, proprio da quando Sinisa &egrave; nuovamente alle prese con la sua malattia, sembra rigenerato. In generale ti aspettavi di pi&ugrave; dal loro campionato? &ldquo;Penso che il Bologna possa avere un finale di campionato in crescendo, questo lo potrebbe portare a terminare nella parte sinistra della classifica&rdquo;. Riuscir&agrave; il Bologna, nel giro di qualche anno, a riconquistare un posto in Europa, da dove manca da troppo tempo? &ldquo;Bologna &egrave; una piazza importante, con una societ&agrave; seria alle spalle, con qualche innesto di valore nei prossimi anni potr&agrave; lottare sempre dietro ai top club&rdquo;. Veniamo un po&rsquo;a te adesso. &Egrave; vero che sei approdato a Bologna grazie ad una segnalazione del grande Pietro Battara? &ldquo;Battara &egrave; stata la prima persona che ha creduto nelle mie capacit&agrave;. Dopo Bologna, &egrave; stato fondamentale anche alla Sampdoria&rdquo;. Dopo i favolosi anni nella squadra blucerchiata, nel 1994 arrivi all&rsquo;Inter&hellip; Il tuo primo pensiero quando mettesti piedi e mani ad Appiano? &ldquo;Da Genova non me ne andai volentieri, ma con la societ&agrave; del presidente Moratti &egrave; stato come trovare una seconda famiglia&rdquo;. All&rsquo;Inter hai vinto solo una Coppa Uefa, quanti rimpianti hai per non aver raccolto pi&ugrave; trofei in una squadra di grandissimi giocatori? &ldquo;I primi due anni non avevamo una squadra attrezzata per competere ai massimi livelli. Quando &egrave; arrivato Ronaldo &ldquo;il Fenomeno&rdquo; ci sono state circostanze che tutti conosciamo, che non ci hanno permesso di conquistare il Tricolore&rdquo;. Tornando a quella Coppa. Hai alzato quel trofeo da capitano. &Egrave; stata l&rsquo;emozione pi&ugrave; grande che hai provato da calciatore? &ldquo;L&rsquo;emozione pi&ugrave; grande &egrave; stata sicuramente lo scudetto con la Sampdoria, ma alzare un trofeo da capitano, &egrave; comunque qualcosa che ti rimane per sempre&rdquo;. Con l&rsquo;entrata in scena di mister Lippi, arriva Angelo Peruzzi e tu sei costretto a fare le valigie. Sei ancora al &ldquo;top&rdquo; in quel momento, ma decidi di tornare a casa, a Bologna. Scelta tua? &ldquo;C&rsquo;erano molte squadre che mi volevano, soprattutto all&rsquo;estero (Real Madrid, Deportivo de La Coru&ntilde;a, Aston Villa&hellip;), ma ho voluto fortemente tornare dove tutto era cominciato&rdquo;. Primo anno di Bologna e subito 559 minuti di imbattibilit&agrave;. Hai voluto dimostrare che Pagliuca non era per niente bollito? &ldquo;Essere profeta in patria non &egrave; mai facile e quindi dovevo impegnarmi ancora di pi&ugrave; rispetto agli anni precedenti e i risultati mi hanno dato ragione&rdquo;. Nella stagione 2003-04 hai raggiunto le 500 partite in A. Per quanto riguarda i numeri uno, in quel momento, dietro solo a Zoff e Albertosi, che sensazione hai provato? &ldquo;Una delle emozioni pi&ugrave; forti della mia carriera, peccato essermi poi fermato a 592 (+4 spareggi di Serie A ndr.)e non aver toccato le 600&hellip;.&rdquo;. In quella stagione, il tuo rendimento &egrave; salito nuovamente di livello, merito dell&rsquo;arrivo di Carletto Mazzone? &ldquo;Carlo insieme a Vujadin Boskov e Gigi Simoni, &egrave; stato un maestro di vita, oltre che un allenatore. Li ringrazier&ograve; sempre per i loro insegnamenti e anche per i &ldquo;cazziatoni&rdquo; (scoppia in una grande risata ndr.)&rdquo;. Il 2004-05 fu un anno maledetto. Prima parte di stagione da zona Uefa, poi un improvviso calo, che vi port&ograve; a disputare lo spareggio per non retrocedere contro il Parma, ahim&egrave; perso. Tra l&rsquo;altro tu ricevesti il Guerin d&rsquo;oro (secondo nella carriera dopo quello della stagione 1996-97), che ricordi hai di quell&rsquo;amarissima stagione? &ldquo;Ancora oggi non mi so dare una spiegazione. Abbiamo chiuso il campionato a 42 punti, mica pochi, eppure nel girone di ritorno, tutte le squadre che erano dietro di noi si sono messe a correre, ed &egrave; finita come non avrebbe dovuto&rdquo;. Dopo un anno di B, il primo e unico della tua carriera, lasciasti Bologna. Anche qui decisione tua, oppure della societ&agrave;? &ldquo;Io avrei chiuso la carriera a Bologna e infatti prima di accettare l&rsquo;Ascoli ci ho pensato molto, ma la societ&agrave; aveva deciso di prendere Francesco Antonioli, evento che, non ti nego, &nbsp;&egrave; stato duro da digerire&rdquo;. Gianluca sei stato, come sempre, gentilissimo, ma prima di lasciarti, non posso non chiederti una previsione sulla gara di mercoled&igrave;? &ldquo;Non faccio previsioni, per&ograve; ti dico che vorrei che l&rsquo;Inter vincesse lo scudetto e il Bologna chiudesse nella parte sinistra della classifica. Cos&igrave; non faccio torto a nessuno&rdquo;. &nbsp; &nbsp; &nbsp; &nbsp; &nbsp;

        Tramite il canale Instagram de &ldquo;Il cuoio&rdquo;, Gianluca Pagliuca ci ha concesso in diretta un&rsquo;intervista esclusiva (puoi guardarla integralmente cliccando qui). Una chiacchierata che, partendo dal recupero della gara Bologna&ndash;Inter, ha toccato due tappe fondamentali della sua carriera. &ldquo;Il gatto di Casalecchio&rdquo; ha vestito 234 volte la casacca dell&rsquo;Inter e 270 quella del Bologna. In entrambe le esperienze ha indossato la fascia di capitano. Prima dell&rsquo;inizio della chiacchierata Gianluca ha voluto recapitare un augurio di pronta guarigione a Stefano Tacconi e a Sinisa Mihajlovic. L&rsquo;Inter con una vittoria sul Bologna potrebbe tornare in testa alla classifica. Credi che sia la favorita nello sprint finale? &ldquo;&Egrave; un campionato avvincente e si decider&agrave; tutto nelle battute finali, &egrave; ovvio che se l&rsquo;Inter vincer&agrave; nel recupero, avr&agrave; il destino nelle sue mani&rdquo;. Un Bologna che, invece, proprio da quando Sinisa &egrave; nuovamente alle prese con la sua malattia, sembra rigenerato. In generale ti aspettavi di pi&ugrave; dal loro campionato? &ldquo;Penso che il Bologna possa avere un finale di campionato in crescendo, questo lo potrebbe portare a terminare nella parte sinistra della classifica&rdquo;. Riuscir&agrave; il Bologna, nel giro di qualche anno, a riconquistare un posto in Europa, da dove manca da troppo tempo? &ldquo;Bologna &egrave; una piazza importante, con una societ&agrave; seria alle spalle, con qualche innesto di valore nei prossimi anni potr&agrave; lottare sempre dietro ai top club&rdquo;. Veniamo un po&rsquo;a te adesso. &Egrave; vero che sei approdato a Bologna grazie ad una segnalazione del grande Pietro Battara? &ldquo;Battara &egrave; stata la prima persona che ha creduto nelle mie capacit&agrave;. Dopo Bologna, &egrave; stato fondamentale anche alla Sampdoria&rdquo;. Dopo i favolosi anni nella squadra blucerchiata, nel 1994 arrivi all&rsquo;Inter&hellip; Il tuo primo pensiero quando mettesti piedi e mani ad Appiano? &ldquo;Da Genova non me ne andai volentieri, ma con la societ&agrave; del presidente Moratti &egrave; stato come trovare una seconda famiglia&rdquo;. All&rsquo;Inter hai vinto solo una Coppa Uefa, quanti rimpianti hai per non aver raccolto pi&ugrave; trofei in una squadra di grandissimi giocatori? &ldquo;I primi due anni non avevamo una squadra attrezzata per competere ai massimi livelli. Quando &egrave; arrivato Ronaldo &ldquo;il Fenomeno&rdquo; ci sono state circostanze che tutti conosciamo, che non ci hanno permesso di conquistare il Tricolore&rdquo;. Tornando a quella Coppa. Hai alzato quel trofeo da capitano. &Egrave; stata l&rsquo;emozione pi&ugrave; grande che hai provato da calciatore? &ldquo;L&rsquo;emozione pi&ugrave; grande &egrave; stata sicuramente lo scudetto con la Sampdoria, ma alzare un trofeo da capitano, &egrave; comunque qualcosa che ti rimane per sempre&rdquo;.  Con l&rsquo;entrata in scena di mister Lippi, arriva Angelo Peruzzi e tu sei costretto a fare le valigie. Sei ancora al &ldquo;top&rdquo; in quel momento, ma decidi di tornare a casa, a Bologna. Scelta tua? &ldquo;C&rsquo;erano molte squadre che mi volevano, soprattutto all&rsquo;estero (Real Madrid, Deportivo de La Coru&ntilde;a, Aston Villa&hellip;), ma ho voluto fortemente tornare dove tutto era cominciato&rdquo;. Primo anno di Bologna e subito 559 minuti di imbattibilit&agrave;. Hai voluto dimostrare che Pagliuca non era per niente bollito? &ldquo;Essere profeta in patria non &egrave; mai facile e quindi dovevo impegnarmi ancora di pi&ugrave; rispetto agli anni precedenti e i risultati mi hanno dato ragione&rdquo;. Nella stagione 2003-04 hai raggiunto le 500 partite in A. Per quanto riguarda i numeri uno, in quel momento, dietro solo a Zoff e Albertosi, che sensazione hai provato? &ldquo;Una delle emozioni pi&ugrave; forti della mia carriera, peccato essermi poi fermato a 592 (+4 spareggi di Serie A ndr.)e non aver toccato le 600&hellip;.&rdquo;. In quella stagione, il tuo rendimento &egrave; salito nuovamente di livello, merito dell&rsquo;arrivo di Carletto Mazzone? &ldquo;Carlo insieme a Vujadin Boskov e Gigi Simoni, &egrave; stato un maestro di vita, oltre che un allenatore. Li ringrazier&ograve; sempre per i loro insegnamenti e anche per i &ldquo;cazziatoni&rdquo; (scoppia in una grande risata ndr.)&rdquo;. Il 2004-05 fu un anno maledetto. Prima parte di stagione da zona Uefa, poi un improvviso calo, che vi port&ograve; a disputare lo spareggio per non retrocedere contro il Parma, ahim&egrave; perso. Tra l&rsquo;altro tu ricevesti il Guerin d&rsquo;oro (secondo nella carriera dopo quello della stagione 1996-97), che ricordi hai di quell&rsquo;amarissima stagione? &ldquo;Ancora oggi non mi so dare una spiegazione. Abbiamo chiuso il campionato a 42 punti, mica pochi, eppure nel girone di ritorno, tutte le squadre che erano dietro di noi si sono messe a correre, ed &egrave; finita come non avrebbe dovuto&rdquo;.  Dopo un anno di B, il primo e unico della tua carriera, lasciasti Bologna. Anche qui decisione tua, oppure della societ&agrave;? &ldquo;Io avrei chiuso la carriera a Bologna e infatti prima di accettare l&rsquo;Ascoli ci ho pensato molto, ma la societ&agrave; aveva deciso di prendere Francesco Antonioli, evento che, non ti nego, &nbsp;&egrave; stato duro da digerire&rdquo;. Gianluca sei stato, come sempre, gentilissimo, ma prima di lasciarti, non posso non chiederti una previsione sulla gara di mercoled&igrave;? &ldquo;Non faccio previsioni, per&ograve; ti dico che vorrei che l&rsquo;Inter vincesse lo scudetto e il Bologna chiudesse nella parte sinistra della classifica. Cos&igrave; non faccio torto a nessuno&rdquo;. &nbsp; &nbsp; &nbsp; &nbsp; &nbsp;       

L'ex numero 1 della Nazionale ci ha concesso una lunga intervista in diretta sul nostro profilo Instagram: "Da Genova non me ne andai volentieri, ma in nerazzurro &egrave; stato come trovare una seconda famiglia"

Bologna-Inter: i ricordi del doppio ex Gianluca Pagliuca

Il 2 novembre del 2003 allo Stadio Dall&rsquo;Ara si affrontano il Bologna di Mazzone e la Sampdoria di Novellino. Le due formazioni arrivano alla sfida in una situazione di classifica simile, non idilliaca per entrambe, e sono alla ricerca di qualche punto per risollevarsi. I padroni di casa, gi&agrave; orfani di Mazzone in panchina perch&eacute; squalificato, devono fare i conti anche con la defezione del capitano e bomber Beppe Signori, fermo per infortunio. Dall&rsquo;altro lato invece mister Novellino pu&ograve; contare sulla rosa al completo con Flachi che vince il ballottaggio con Marazzina. <o:p></o:p> <h2>La punizione di Doni che decide il match<o:p></o:p></h2> Sono i doriani a fare la partita, i liguri giocano meglio sfruttando il dinamismo sulle fasce di Diana, Doni e Bettarini e le geometrie di Volpi in mezzo al campo. Il Bologna, privo anche di Locatelli, conferma di non essere in un gran momento di forma e concede ad Antonioli un primo tempo di assoluto riposo. La squadra bolognese sembra ancora non aver digerito i dettami di Mazzone e fatica non poco in mezzo al campo. Al 33&rsquo; arriva il vantaggio degli ospiti, proprio dai piedi di uno dei migliori in campo, Cristiano Doni, in questo frangente aiutato anche dalla fortuna: il centrocampista calcia una punizione dai 25 metri che, deviata dalla barriera, inganna Pagliuca e si insacca in rete. <o:p></o:p> <h2>Bologna frastornato, Samp corsara<o:p></o:p></h2> I rossobl&ugrave;, incapaci di rimettersi in carreggiata, subiscono le sortite offensive dei genovesi, riuscendo per&ograve; in pi&ugrave; di un&rsquo;occasione a evitare il raddoppio. Il Dall'Ara non gradisce e fischia un Bologna privo di idee, a cui il forfait di Signori ha dato forse il colpo di grazia. Al 25&rsquo; della ripresa Pagliuca devia in angolo una conclusione del neo-entrato Zenoni;in campo sembra esserci solo la Samp, che meriterebbe forse qualcosa in pi&ugrave;. A un quarto d&rsquo;ora dal termine invece i liguri rischiano addirittura di incassare il pari: una bella azione Tare-Rossini-Dalla Bona porta l&rsquo;ex milanista a concludere su Antonioli che in uscita disperata salva il risultato. Alla fine basta il gol di Doni, che risolleva le sorti dei suoi e affonda un Bologna in crisi di idee e risultati. <o:p></o:p>Ad oggi quel Bologna-Sampdoria 0-1 del 2 novembre 2003 resta l&rsquo;ultimo successo doriano al Dall&rsquo;Ara in campionato. <o:p></o:p> <h2>Bologna-Sampdoria 0-1 del 2 novembre 2003: il tabellino <o:p></o:p></h2> BOLOGNA(4-2-3-1):&nbsp;Pagliuca; Zaccardo (13' pt Guly), Natali, Juarez, Moretti; Nervo (16' st Troise), Dalla Bona, Colucci; Pecchia (1' st Tare); Rossini, Bellucci. A disp.: Manninger, Amoroso, Gamberini, Loviso. <o:p></o:p>All.: Scarafoni (Mazzone squalificato).<o:p></o:p> SAMPDORIA(4-4-2):&nbsp;Antonioli; Sacchetti, Falcone, Carrozzieri, Bettarini; Diana (19' st C.Zenoni), Volpi, Donati (45' st Palombo), Doni; Flachi (12' st Marazzina) Bazzani. A disp.: Turci, Yanagisawa, M.Conte, Antonini. All.: Novellino.<o:p></o:p> ARBITRO:&nbsp;Farina (Novi Ligure). MARCATORE:&nbsp;Doni al 33' pt.<o:p></o:p> <o:p>&nbsp;</o:p>

        Il 2 novembre del 2003 allo Stadio Dall&rsquo;Ara si affrontano il Bologna di Mazzone e la Sampdoria di Novellino. Le due formazioni arrivano alla sfida in una situazione di classifica simile, non idilliaca per entrambe, e sono alla ricerca di qualche punto per risollevarsi. I padroni di casa, gi&agrave; orfani di Mazzone in panchina perch&eacute; squalificato, devono fare i conti anche con la defezione del capitano e bomber Beppe Signori, fermo per infortunio. Dall&rsquo;altro lato invece mister Novellino pu&ograve; contare sulla rosa al completo con Flachi che vince il ballottaggio con Marazzina.  La punizione di Doni che decide il match Sono i doriani a fare la partita, i liguri giocano meglio sfruttando il dinamismo sulle fasce di Diana, Doni e Bettarini e le geometrie di Volpi in mezzo al campo. Il Bologna, privo anche di Locatelli, conferma di non essere in un gran momento di forma e concede ad Antonioli un primo tempo di assoluto riposo. La squadra bolognese sembra ancora non aver digerito i dettami di Mazzone e fatica non poco in mezzo al campo. Al 33&rsquo; arriva il vantaggio degli ospiti, proprio dai piedi di uno dei migliori in campo, Cristiano Doni, in questo frangente aiutato anche dalla fortuna: il centrocampista calcia una punizione dai 25 metri che, deviata dalla barriera, inganna Pagliuca e si insacca in rete.  Bologna frastornato, Samp corsara I rossobl&ugrave;, incapaci di rimettersi in carreggiata, subiscono le sortite offensive dei genovesi, riuscendo per&ograve; in pi&ugrave; di un&rsquo;occasione a evitare il raddoppio. Il Dall'Ara non gradisce e fischia un Bologna privo di idee, a cui il forfait di Signori ha dato forse il colpo di grazia. Al 25&rsquo; della ripresa Pagliuca devia in angolo una conclusione del neo-entrato Zenoni;in campo sembra esserci solo la Samp, che meriterebbe forse qualcosa in pi&ugrave;. A un quarto d&rsquo;ora dal termine invece i liguri rischiano addirittura di incassare il pari: una bella azione Tare-Rossini-Dalla Bona porta l&rsquo;ex milanista a concludere su Antonioli che in uscita disperata salva il risultato. Alla fine basta il gol di Doni, che risolleva le sorti dei suoi e affonda un Bologna in crisi di idee e risultati. Ad oggi quel Bologna-Sampdoria 0-1 del 2 novembre 2003 resta l&rsquo;ultimo successo doriano al Dall&rsquo;Ara in campionato.  Bologna-Sampdoria 0-1 del 2 novembre 2003: il tabellino  BOLOGNA(4-2-3-1):&nbsp;Pagliuca; Zaccardo (13' pt Guly), Natali, Juarez, Moretti; Nervo (16' st Troise), Dalla Bona, Colucci; Pecchia (1' st Tare); Rossini, Bellucci. A disp.: Manninger, Amoroso, Gamberini, Loviso. All.: Scarafoni (Mazzone squalificato). SAMPDORIA(4-4-2):&nbsp;Antonioli; Sacchetti, Falcone, Carrozzieri, Bettarini; Diana (19' st C.Zenoni), Volpi, Donati (45' st Palombo), Doni; Flachi (12' st Marazzina) Bazzani. A disp.: Turci, Yanagisawa, M.Conte, Antonini. All.: Novellino. ARBITRO:&nbsp;Farina (Novi Ligure). MARCATORE:&nbsp;Doni al 33' pt. &nbsp;       

Era il 2 novembre 2003, quando la squadra di Novellino sconfisse quella di Mazzone grazie a una punizione di Doni deviata dalla barriera

Bologna-Sampdoria 0-1 2003-04, l’ultima vittoria doriana al Dall’Ara

Il 25 aprile 1999 35mila anime gremiscono l&rsquo;Arechi di Salerno per assistere alla gara contro il Bologna. Le squadre si affrontano cos&igrave; per la quarta volta in Serie A, con un bilancio in totale equilibrio: una vittoria granata, una rossobl&ugrave; e un pareggio, maturato nell&rsquo;andata giocata al Dall&rsquo;Ara (1-1). I padroni di casa sono in serie positiva, non perdono da tre partite e nell&rsquo;ultima gara giocata tra le mura amiche hanno battuto 2-0 l&rsquo;Inter di Ronaldo. Ma mancano ormai 5 turni alla fine del campionato, e i punti da recuperare al Bari quintultimo sono ben 5, con lo scontro diretto disputato nella giornata precedente e terminato in parit&agrave;. Gli ospiti, invece, provengono da un rotondo successo per 3-0 arrivato contro la Fiorentina di Batistuta. Una vittoria che ha permesso alla squadra allenata da Carlo Mazzone di raggiungere quota 43 punti in classifica, a meno 2 dal piazzamento Uefa. <h2>La Salernitana cala il poker&nbsp;</h2> Nel pomeriggio primaverile dell&rsquo;Arechi la Salernitana gioca con la classica divisa granata, mentre il Bologna si presenta con la maglia gialla da trasferta. Non bisogna aspettare molto per vivere le prime emozioni: al quinto, dopo un&rsquo;azione iniziata da Gattuso, uno spettacolare doppio scambio nello stretto tra Giampaolo e Tedesco porta quest&rsquo;ultimo in area di rigore. Binotto stende il numero 10 granata e l&rsquo;arbitro Cesari indica il dischetto. Inizia qui il pomeriggio show di Marco Di Vaio: il giovane capitano &ndash; che indossa la fascia al posto dell&rsquo;infortunato Roberto Breda &ndash; trafigge Antonioli e porta in vantaggio la Salernitana. Passano solo 12 minuti quando il numero 11 intercetta un passaggio all&rsquo;indietro di Maini, s&rsquo;invola verso l&rsquo;area avversaria, mette letteralmente a sedere Mangone e punisce Antonioli con un preciso diagonale. Sulle ali dell&rsquo;entusiasmo la squadra di Oddo continua a giocare una grande partita, l&rsquo;Arechi &egrave; un catino bollente che esplode definitivamente al 68esimo, grazie alla bomba sganciata dal fenomenale numero 11: se il gol della doppietta era stato bello, quello della tripletta &egrave; un capolavoro di potenza e precisione. Il fendente scagliato dai 25 metri da Marco Di Vaio va a togliere la ragnatela dal sette della porta difesa da Antonioli. Il giovane attaccante romano ancora non pu&ograve; sapere che ha appena steso la squadra della quale qualche anno dopo diventer&agrave; capitano. In pieno recupero la Salernitana firma addirittura il poker sugli sviluppi di un&rsquo;azione partita con un calcio d&rsquo;angolo. A segnare &egrave; il difensore Aleksandar Kristic, entrato in campo al 92&rsquo;, proprio mentre Giacomo Tedesco sistemava il pallone sulla bandierina. Per Kristic, al debutto in campionato, &egrave; l&rsquo;unico gol in carriera in Serie A, torneo dove giocher&agrave; solo altri tre minuti nell&rsquo;ultima giornata contro il Piacenza. &nbsp;

        Il 25 aprile 1999 35mila anime gremiscono l&rsquo;Arechi di Salerno per assistere alla gara contro il Bologna. Le squadre si affrontano cos&igrave; per la quarta volta in Serie A, con un bilancio in totale equilibrio: una vittoria granata, una rossobl&ugrave; e un pareggio, maturato nell&rsquo;andata giocata al Dall&rsquo;Ara (1-1). I padroni di casa sono in serie positiva, non perdono da tre partite e nell&rsquo;ultima gara giocata tra le mura amiche hanno battuto 2-0 l&rsquo;Inter di Ronaldo. Ma mancano ormai 5 turni alla fine del campionato, e i punti da recuperare al Bari quintultimo sono ben 5, con lo scontro diretto disputato nella giornata precedente e terminato in parit&agrave;. Gli ospiti, invece, provengono da un rotondo successo per 3-0 arrivato contro la Fiorentina di Batistuta. Una vittoria che ha permesso alla squadra allenata da Carlo Mazzone di raggiungere quota 43 punti in classifica, a meno 2 dal piazzamento Uefa. La Salernitana cala il poker&nbsp; Nel pomeriggio primaverile dell&rsquo;Arechi la Salernitana gioca con la classica divisa granata, mentre il Bologna si presenta con la maglia gialla da trasferta. Non bisogna aspettare molto per vivere le prime emozioni: al quinto, dopo un&rsquo;azione iniziata da Gattuso, uno spettacolare doppio scambio nello stretto tra Giampaolo e Tedesco porta quest&rsquo;ultimo in area di rigore. Binotto stende il numero 10 granata e l&rsquo;arbitro Cesari indica il dischetto. Inizia qui il pomeriggio show di Marco Di Vaio: il giovane capitano &ndash; che indossa la fascia al posto dell&rsquo;infortunato Roberto Breda &ndash; trafigge Antonioli e porta in vantaggio la Salernitana. Passano solo 12 minuti quando il numero 11 intercetta un passaggio all&rsquo;indietro di Maini, s&rsquo;invola verso l&rsquo;area avversaria, mette letteralmente a sedere Mangone e punisce Antonioli con un preciso diagonale. Sulle ali dell&rsquo;entusiasmo la squadra di Oddo continua a giocare una grande partita, l&rsquo;Arechi &egrave; un catino bollente che esplode definitivamente al 68esimo, grazie alla bomba sganciata dal fenomenale numero 11: se il gol della doppietta era stato bello, quello della tripletta &egrave; un capolavoro di potenza e precisione. Il fendente scagliato dai 25 metri da Marco Di Vaio va a togliere la ragnatela dal sette della porta difesa da Antonioli. Il giovane attaccante romano ancora non pu&ograve; sapere che ha appena steso la squadra della quale qualche anno dopo diventer&agrave; capitano. In pieno recupero la Salernitana firma addirittura il poker sugli sviluppi di un&rsquo;azione partita con un calcio d&rsquo;angolo. A segnare &egrave; il difensore Aleksandar Kristic, entrato in campo al 92&rsquo;, proprio mentre Giacomo Tedesco sistemava il pallone sulla bandierina. Per Kristic, al debutto in campionato, &egrave; l&rsquo;unico gol in carriera in Serie A, torneo dove giocher&agrave; solo altri tre minuti nell&rsquo;ultima giornata contro il Piacenza. &nbsp;       

Nel precedente giocato il 25 aprile 1999, l&rsquo;attaccante romano castig&ograve; la sua futura squadra con una prestazione memorabile

Salernitana-Bologna, Di Vaio show all'Arechi: che tripletta!

Il 21 gennaio del 1947 a Gorlago nasce Giuseppe Savoldi, per tutti Beppe. In comune con moltissimi calciatori dello scorso secolo ma anche di questo, ha l&rsquo;estrema umilt&agrave; delle origini. La famiglia Savoldi, come molte altre, vive un dopoguerra difficile tra le macerie di un Paese dilaniato dal conflitto mondiale. Il pap&agrave; &egrave; ferroviere mentre mamma Gloria lavora in una fabbrica di bottoni. Ma c&rsquo;&egrave; un particolare che li differenzia dagli altri: oltre all&rsquo;impegno nel lavoro e alla fatica per sbarcare il lunario, i Savoldi sono una famiglia di sportivi, guidati proprio dalla signora Gloria, appassionata giocatrice di pallavolo. Beppe sin da bambino dimostra una predisposizione naturale sia per la pallacanestro che per il calcio, coltivando entrambi con ottimi risultati. E uno dei punti di riferimento dell&rsquo;A.L.P.E. Bergamo anche se ben presto si trova davanti ad un bivio. Accantoner&agrave; cos&igrave; la passione per la palla a spicchi, dedicandosi completamente al calcio quando a casa Savoldi viene a bussare l&rsquo;Atalanta.&nbsp; <h2>La giovent&ugrave; e l&rsquo;exploit a Bologna</h2> Con la Dea cresce nelle giovanili prima di esordire in prima squadra appena diciottenne. Beppe Savoldi &egrave; un centravanti puro, dotato di un mancino eccezionale, un&rsquo;ottima coordinazione che gli permette di concludere facilmente in rete anche in acrobazia e soprattutto, di un&rsquo;elevazione e un colpo di testa fuori dal comune, retaggio dei suoi anni passati sul parquet con la palla arancione. Sin dagli inizi della carriera risulta chiaro a tutti che il ragazzo ha un rapporto davvero intimo con il gol, nelle prime tre stagioni con l&rsquo;Atalanta, nonostante venga usato spesso come ala, racimola ben 17 reti. Nel 1968, appena 21enne, viene prelevato dal Bologna, squadra con cui raggiunger&agrave; la maturit&agrave; calcistica oltre che la fama. Qui Savoldi diventa il centravanti per eccellenza, segna con una grandissima continuit&agrave; e da tutte le posizioni, oltre ad essere infallibile dal dischetto: il bomber di Gorlago &egrave; stato probabilmente uno dei primissimi calciatori ad avere la freddezza di guardare il portiere fino all&rsquo;ultimo istante e calciare. Nel corso degli anni contribuir&agrave; alla vittoria di due Coppe Italia (risultando capocannoniere in entrambe le edizioni) e di una Coppa di Lega Italo-Inglese.&nbsp; <h2>Il trasferimento di &ldquo;Mister due miliardi&rdquo; al Napoli di Ferlaino e gli ultimi anni</h2> Nel 1975 Beppe &egrave; deciso pi&ugrave; che mai a fare il definitivo salto di qualit&agrave;, sono ormai diverse estati che viene accostato ad un grande club e sente che il momento di ringraziare Bologna e fare le valigie sia ormai giunto. A Napoli, Corrado Ferlaino lo vuole a tutti i costi.<a href="https://www.guerinsportivo.it/news/il-cuoio/2021/07/20-4514991/calciomercato_il_trasferimento_a_napoli_di_savoldi_mister_2_miliardi_"> Il trasferimento verr&agrave; a costare al patron partenopeo ben un miliardo e 440 milioni, Clerici e la compropriet&agrave; di Rampanti, per un totale che sfora i due miliardi</a>. La cifra folle rappresenta un record, e in Italia diventa un vero e proprio caso di costume, con tanto di interrogazione parlamentare. Savoldi ripagher&agrave; la fiducia di Ferlaino nel corso dei 4 anni passati a Napoli, segnando ben 77 gol e portando a casa due trofei che aveva gi&agrave; alzato a Bologna: una Coppa Italia e una Coppa di Lega Italo-Inglese. Nel 1979, ormai 32enne, decide di tornare a Bologna, dove a fine stagione viene coinvolto nello scandalo del Totonero e squalificato. Dopo l&rsquo;amnistia della Federcalcio successiva alla vittoria della Coppa del Mondo 1982 torna definitivamente a casa, all&rsquo;Atalanta, dove disputa un&rsquo;ultima stagione in serie cadetta prima di ritirarsi definitivamente.&nbsp;

        Il 21 gennaio del 1947 a Gorlago nasce Giuseppe Savoldi, per tutti Beppe. In comune con moltissimi calciatori dello scorso secolo ma anche di questo, ha l&rsquo;estrema umilt&agrave; delle origini. La famiglia Savoldi, come molte altre, vive un dopoguerra difficile tra le macerie di un Paese dilaniato dal conflitto mondiale. Il pap&agrave; &egrave; ferroviere mentre mamma Gloria lavora in una fabbrica di bottoni. Ma c&rsquo;&egrave; un particolare che li differenzia dagli altri: oltre all&rsquo;impegno nel lavoro e alla fatica per sbarcare il lunario, i Savoldi sono una famiglia di sportivi, guidati proprio dalla signora Gloria, appassionata giocatrice di pallavolo. Beppe sin da bambino dimostra una predisposizione naturale sia per la pallacanestro che per il calcio, coltivando entrambi con ottimi risultati. E uno dei punti di riferimento dell&rsquo;A.L.P.E. Bergamo anche se ben presto si trova davanti ad un bivio. Accantoner&agrave; cos&igrave; la passione per la palla a spicchi, dedicandosi completamente al calcio quando a casa Savoldi viene a bussare l&rsquo;Atalanta.&nbsp; La giovent&ugrave; e l&rsquo;exploit a Bologna Con la Dea cresce nelle giovanili prima di esordire in prima squadra appena diciottenne. Beppe Savoldi &egrave; un centravanti puro, dotato di un mancino eccezionale, un&rsquo;ottima coordinazione che gli permette di concludere facilmente in rete anche in acrobazia e soprattutto, di un&rsquo;elevazione e un colpo di testa fuori dal comune, retaggio dei suoi anni passati sul parquet con la palla arancione. Sin dagli inizi della carriera risulta chiaro a tutti che il ragazzo ha un rapporto davvero intimo con il gol, nelle prime tre stagioni con l&rsquo;Atalanta, nonostante venga usato spesso come ala, racimola ben 17 reti. Nel 1968, appena 21enne, viene prelevato dal Bologna, squadra con cui raggiunger&agrave; la maturit&agrave; calcistica oltre che la fama. Qui Savoldi diventa il centravanti per eccellenza, segna con una grandissima continuit&agrave; e da tutte le posizioni, oltre ad essere infallibile dal dischetto: il bomber di Gorlago &egrave; stato probabilmente uno dei primissimi calciatori ad avere la freddezza di guardare il portiere fino all&rsquo;ultimo istante e calciare. Nel corso degli anni contribuir&agrave; alla vittoria di due Coppe Italia (risultando capocannoniere in entrambe le edizioni) e di una Coppa di Lega Italo-Inglese.&nbsp; Il trasferimento di &ldquo;Mister due miliardi&rdquo; al Napoli di Ferlaino e gli ultimi anni Nel 1975 Beppe &egrave; deciso pi&ugrave; che mai a fare il definitivo salto di qualit&agrave;, sono ormai diverse estati che viene accostato ad un grande club e sente che il momento di ringraziare Bologna e fare le valigie sia ormai giunto. A Napoli, Corrado Ferlaino lo vuole a tutti i costi. Il trasferimento verr&agrave; a costare al patron partenopeo ben un miliardo e 440 milioni, Clerici e la compropriet&agrave; di Rampanti, per un totale che sfora i due miliardi. La cifra folle rappresenta un record, e in Italia diventa un vero e proprio caso di costume, con tanto di interrogazione parlamentare. Savoldi ripagher&agrave; la fiducia di Ferlaino nel corso dei 4 anni passati a Napoli, segnando ben 77 gol e portando a casa due trofei che aveva gi&agrave; alzato a Bologna: una Coppa Italia e una Coppa di Lega Italo-Inglese. Nel 1979, ormai 32enne, decide di tornare a Bologna, dove a fine stagione viene coinvolto nello scandalo del Totonero e squalificato. Dopo l&rsquo;amnistia della Federcalcio successiva alla vittoria della Coppa del Mondo 1982 torna definitivamente a casa, all&rsquo;Atalanta, dove disputa un&rsquo;ultima stagione in serie cadetta prima di ritirarsi definitivamente.&nbsp;       

Cresciuto nelle giovanili della Dea, con i rossobl&ugrave; prima e i partenopei dopo divenne uno degli attaccanti pi&ugrave; forti degli anni &lsquo;70. Ferlaino fece follie per portarlo in azzurro

Beppe Savoldi, un grande bomber per Atalanta, Bologna e Napoli

Durante lo scorso secolo, ma soprattutto nella prima met&agrave;, le storie dei calciatori si intersecano con la Storia dalla S maiuscola, portandoli spesso a viverne le pagine pi&ugrave; tragiche. I pionieri del calcio nostrano hanno vissuto in periodi difficili, e alcuni hanno patito sulla propria pelle gli eventi drammatici di cui sono stati testimoni. Uno di questi &egrave; senza dubbio Mario Pagotto, storico terzino del Bologna che durante i &rsquo;30 e i &rsquo;40 dominava in Serie A. <h2>Il &ldquo;furl&agrave;n&rdquo; rossobl&ugrave;</h2> Nato a Fontanafredda, vicino a Udine il 14 dicembre del 1911, &egrave; cresciuto come tutti i suoi coetanei&nbsp; e conterranei con il mito di Primo Carnera, prima di dedicarsi al calcio in oratorio, poi a Pordenone. Giocatore estremamente roccioso ma corretto, era un terzino molto dotato tecnicamente.&nbsp; Per intenderci, con il modulo del metodo in voga in quegli anni in Italia, il terzino equivale al difensore centrale odierno. A 25 anni, molto tardi anche per gli standard di allora, approda al Bologna di Arpad Weisz, diventandone ben presto la colonna portante difensiva insieme a Secondo Ricci. Dal 1936 al 1943 i due diventano una delle coppie pi&ugrave; celebri del nostro campionato, vincendo 3 scudetti e un Trofeo Internazionale dell&rsquo;Esposizione Universale di Parigi nel 1937, ai danni degli inglesi del Chelsea.&nbsp; <h2>La guerra, la prigionia e il ritorno a Bologna</h2> Nel 1943 si arruola nella Brigata Alpini, del campo di battaglia non vede molto, visto che l&rsquo;8 settembre arriva l&rsquo;armistizio e il povero Mario detto Rino viene arrestato dai nazisti e tradotto prigioniero nel campo di lavoro di Byalistok, in Polonia. Qui perde 30 kili in sei mesi, tra lavori forzati, freddo e fame rischia di morire ogni giorno, ma la sua costituzione pi&ugrave; che robusta e soprattutto la sua incredibile forza mentale lo fanno resistere. Con l&rsquo;avanzata dei russi, Pagotto e gli amici che condividono con lui la prigionia, molti di cui italiani, vengono mandati a Odessa e poi a Cernauti. Qui Pagotto incontra altri calciatori connazionali ed insieme a loro tira su una squadra che si riunisce per giocare su una spianata polverosa, con un pallone di stracci e porte segnate con le tute dei prigionieri. In molti li sfidano, ma gli italiani battono sempre tutti. Alla fine del conflitto riesce a tornare in patria e a vedere per la prima volta suo figlio, nato mentre lui era prigioniero. Torna anche a giocare a Bologna, anche se due lunghi anni di prigionia hanno fiaccato l&rsquo;intrepido terzino che era stato nel decennio precedente. Dopo il ritiro non parler&agrave; quasi mai della sua esperienza, rimanendo coerente con il suo temperamento forte ma taciturno. A noi piace pensare che i suoi tremendi ricordi di prigionia siano addolciti da quelli del campo polveroso di Cernauti, dove insieme ai suoi sodali sognava la libert&agrave; rincorrendo un pallone.&nbsp;

        Durante lo scorso secolo, ma soprattutto nella prima met&agrave;, le storie dei calciatori si intersecano con la Storia dalla S maiuscola, portandoli spesso a viverne le pagine pi&ugrave; tragiche. I pionieri del calcio nostrano hanno vissuto in periodi difficili, e alcuni hanno patito sulla propria pelle gli eventi drammatici di cui sono stati testimoni. Uno di questi &egrave; senza dubbio Mario Pagotto, storico terzino del Bologna che durante i &rsquo;30 e i &rsquo;40 dominava in Serie A. Il &ldquo;furl&agrave;n&rdquo; rossobl&ugrave; Nato a Fontanafredda, vicino a Udine il 14 dicembre del 1911, &egrave; cresciuto come tutti i suoi coetanei&nbsp; e conterranei con il mito di Primo Carnera, prima di dedicarsi al calcio in oratorio, poi a Pordenone. Giocatore estremamente roccioso ma corretto, era un terzino molto dotato tecnicamente.&nbsp; Per intenderci, con il modulo del metodo in voga in quegli anni in Italia, il terzino equivale al difensore centrale odierno. A 25 anni, molto tardi anche per gli standard di allora, approda al Bologna di Arpad Weisz, diventandone ben presto la colonna portante difensiva insieme a Secondo Ricci. Dal 1936 al 1943 i due diventano una delle coppie pi&ugrave; celebri del nostro campionato, vincendo 3 scudetti e un Trofeo Internazionale dell&rsquo;Esposizione Universale di Parigi nel 1937, ai danni degli inglesi del Chelsea.&nbsp; La guerra, la prigionia e il ritorno a Bologna Nel 1943 si arruola nella Brigata Alpini, del campo di battaglia non vede molto, visto che l&rsquo;8 settembre arriva l&rsquo;armistizio e il povero Mario detto Rino viene arrestato dai nazisti e tradotto prigioniero nel campo di lavoro di Byalistok, in Polonia. Qui perde 30 kili in sei mesi, tra lavori forzati, freddo e fame rischia di morire ogni giorno, ma la sua costituzione pi&ugrave; che robusta e soprattutto la sua incredibile forza mentale lo fanno resistere. Con l&rsquo;avanzata dei russi, Pagotto e gli amici che condividono con lui la prigionia, molti di cui italiani, vengono mandati a Odessa e poi a Cernauti. Qui Pagotto incontra altri calciatori connazionali ed insieme a loro tira su una squadra che si riunisce per giocare su una spianata polverosa, con un pallone di stracci e porte segnate con le tute dei prigionieri. In molti li sfidano, ma gli italiani battono sempre tutti. Alla fine del conflitto riesce a tornare in patria e a vedere per la prima volta suo figlio, nato mentre lui era prigioniero. Torna anche a giocare a Bologna, anche se due lunghi anni di prigionia hanno fiaccato l&rsquo;intrepido terzino che era stato nel decennio precedente. Dopo il ritiro non parler&agrave; quasi mai della sua esperienza, rimanendo coerente con il suo temperamento forte ma taciturno. A noi piace pensare che i suoi tremendi ricordi di prigionia siano addolciti da quelli del campo polveroso di Cernauti, dove insieme ai suoi sodali sognava la libert&agrave; rincorrendo un pallone.&nbsp;         

Celebre met&agrave; della coppia difensiva felsinea con Secondo Ricci, visse da prigioniero di guerra dal 1943 al 1945

Mario Pagotto, il terzino del Bologna che giocava a calcio nel lager

La squadra di Mourinho esce sconfitta dallo stadio Dall&#39;Ara: ora &egrave; a sei punti dal&nbsp;quarto posto

Bologna-Roma: decisivo un gol di Svanberg. Il film del campionato

Il 30 maggio del 1965 il campionato di Bologna e Cagliari ha ben poco da dire. Gli emiliani sono lontani dalla vetta della classifica raggiunta la stagione precedente, invece i sardi, al loro debutto nella massima serie, si godono la prima partita giocata nel capoluogo emiliano.&nbsp; <h2>I campioni e la rivelazione</h2> I padroni di casa, che giocano con lo scudetto cucito sul petto vinto nella fantastica stagione precedente, dopo l'entusiasmante spareggio contro l&rsquo;Inter di Herrera, sembrano l&rsquo;opaco ricordo di quel gruppo che, trascinato da Nielsen e dai suoi 21 gol, sbaragli&ograve; tutti. A due giornate dal termine si trovano a 34 punti, lontanissimo da una vetta a cui in questa stagione non hanno mai ambito. I sardi sono qualche punto indietro, ma con uno spirito completamente opposto: arrivati nella massima serie proprio nel 1964-65, sono la vera rivelazione del campionato, la salvezza &egrave; ampiamente raggiunta anche grazie al giovanissimo&nbsp;Gigi Riva.&nbsp; <h2>Nen&eacute; e Rizzo show</h2> A dire il vero nessuna delle due squadre ha molto da chiedere a questa partita e il primo tempo rispecchia in pieno la mentalit&agrave; rinunciataria di entrambe le formazioni. Pochissime emozioni, partita ai limiti del soporifero e squadre che tornano negli spogliatoi sullo 0-0. Nell&rsquo;intervallo Silvestri, il tecnico dei sardi, striglia i suoi e li invita ad affrontare i restanti 45&rsquo; minuti con un piglio pi&ugrave; aggressivo. Gli ospiti non se lo fanno ripetere due volte e la ripresa &egrave; tutta un&rsquo;altra partita: nel giro di neanche 30 minuti il Cagliari ne fa tre, due con Nen&eacute; e uno con Rizzo (per il Bologna il gol del momentanneo 1-1 viene firmato da Haller). Quest&rsquo;ultimo si &egrave; dimostrato una vera spina nel fianco della difesa bolognese. La marcatura a zona degli emiliani gli ha permesso di fare il bello e il cattivo tempo, impostando la manovra dei sardi senza particolari difficolt&agrave;. A seguire la partita in tribuna c'&egrave; anche&nbsp;il commissario tecnico della Nazionale Edmondo Fabbri&nbsp;che sicuramente ha preso nota del giovane centrocampista ospite.&nbsp;

        Il 30 maggio del 1965 il campionato di Bologna e Cagliari ha ben poco da dire. Gli emiliani sono lontani dalla vetta della classifica raggiunta la stagione precedente, invece i sardi, al loro debutto nella massima serie, si godono la prima partita giocata nel capoluogo emiliano.&nbsp; I campioni e la rivelazione I padroni di casa, che giocano con lo scudetto cucito sul petto vinto nella fantastica stagione precedente, dopo l'entusiasmante spareggio contro l&rsquo;Inter di Herrera, sembrano l&rsquo;opaco ricordo di quel gruppo che, trascinato da Nielsen e dai suoi 21 gol, sbaragli&ograve; tutti. A due giornate dal termine si trovano a 34 punti, lontanissimo da una vetta a cui in questa stagione non hanno mai ambito. I sardi sono qualche punto indietro, ma con uno spirito completamente opposto: arrivati nella massima serie proprio nel 1964-65, sono la vera rivelazione del campionato, la salvezza &egrave; ampiamente raggiunta anche grazie al giovanissimo&nbsp;Gigi Riva.&nbsp; Nen&eacute; e Rizzo show A dire il vero nessuna delle due squadre ha molto da chiedere a questa partita e il primo tempo rispecchia in pieno la mentalit&agrave; rinunciataria di entrambe le formazioni. Pochissime emozioni, partita ai limiti del soporifero e squadre che tornano negli spogliatoi sullo 0-0. Nell&rsquo;intervallo Silvestri, il tecnico dei sardi, striglia i suoi e li invita ad affrontare i restanti 45&rsquo; minuti con un piglio pi&ugrave; aggressivo. Gli ospiti non se lo fanno ripetere due volte e la ripresa &egrave; tutta un&rsquo;altra partita: nel giro di neanche 30 minuti il Cagliari ne fa tre, due con Nen&eacute; e uno con Rizzo (per il Bologna il gol del momentanneo 1-1 viene firmato da Haller). Quest&rsquo;ultimo si &egrave; dimostrato una vera spina nel fianco della difesa bolognese. La marcatura a zona degli emiliani gli ha permesso di fare il bello e il cattivo tempo, impostando la manovra dei sardi senza particolari difficolt&agrave;. A seguire la partita in tribuna c'&egrave; anche&nbsp;il commissario tecnico della Nazionale Edmondo Fabbri&nbsp;che sicuramente ha preso nota del giovane centrocampista ospite.&nbsp;       

Il 30 maggio del 1965 Nen&eacute; (doppietta) e Rizzo piegarono i campioni d&rsquo;Italia. Fin&igrave; 3-1 per i sardi con tutti i gol realizzati nella ripresa

Bologna-Cagliari, il primo precedente in Emilia

La quarta di campionato di basket di Serie A va in archivio lasciando solo la coppia formata da Milano e Bologna (sponda Virtus) al comando a punteggio pieno, con Brindisi e Sassari a due lunghezze e le altre 12 squadre equamente divise tra i 4 e i 2 punti conquistati. Sul fondo della classifica si muove Brescia, che grazie anche alla guardia Mitrou-Long (che di nome fa Nazareth), MVP di giornata, sfiora i 100 punti contro la neopromossa Napoli. A due punti rimane anche Pesaro, che perde tra le mura amiche contro l&rsquo;altra neopromossa Tortona, guidata in attacco da Wright. Supera i 100 punti Brindisi, in casa contro la Fortitudo Bologna che appare un po&rsquo; leggera in difesa, mentre Sassari vince di 7 punti sul campo di Treviso, che pare molto meno brillante di quella vista a inizio anno e che forse paga un po&rsquo; le fatiche per la qualificazione alla Champions League, giocata a cavallo della Supercoppa italiana, e la prima fase, sempre della Champions che la vedr&agrave; il 19 impegnata ad Atene contro l&rsquo;AEK. Importante la vittoria di Trento, capace di avere la meglio sul difficile campo di Reggio Emilia, al termine di una partita fisica, che porta la Dolomiti fuori dalle acque basse del fondo della classifica. Senza problemi Milano su una Venezia ancora in costruzione e molto lontana non solo dalla testa della classifica, ma anche da un amalgama di squadra che le consenta di ben figurare in campionato (e in coppa). Nessun problema neanche per la Virtus di Bologna che rifila 15 punti a Trieste e fa finalmente esordire Mannion nel nostro campionato. <h2>Una corsa a due</h2> Proprio della coppia di testa Milano-Bologna aveva parlato in settimana Sergio Scariolo, allenatore della Virtus, affermando che la questione scudetto per il campionato italiano &egrave; una corsa a due tra la squadra che allena lui e quella allenata dal suo collega Ettore Messina. La dichiarazione deve aver irritato Gandini che si &egrave; affrettato a rettificare le parole del coach bresciano, affermando che si, il campionato di basket di serie A &egrave; una corsa a due, ma solo per adesso e che presto ci saranno tante sorprese. &Egrave; chiaro, Gandini rappresenta gli interessi di 16 squadre di serie A e non solo delle pi&ugrave; forti e le sue dichiarazioni devono essere orientate in tal senso, ma Scariolo ha solo detto quello che tutti si aspettavano di sentire e cio&egrave; che ci sono due squadre, una costruita con l&rsquo;obiettivo minimo di arrivare in finale si Eurolega e l&rsquo;altra con l&rsquo;obiettivo di giocarci il prossimo anno, che sono inscritte anche al campionato di basket di serie A e che quindi non hanno nulla a che fare con il resto delle pretendenti allo scudetto. Del resto, 4 dei 5 giocatori italiani sbarcati in NBA negli ultimi anni sono tornati (o arrivati, come nel caso di Mannion) per giocare a Milano (Datome e Melli, che la NBA la hanno vissuta da comprimari, ma che hanno tanta Eurolega sulle spalle) e a Bologna (Belinelli che la NBA l&rsquo;ha vissuta da protagonista e Mannion che per ora l&rsquo;ha solo assaggiata e che se avr&agrave; voglia, far&agrave; in tempo a giocarla per davvero). Il campionato di basket italiano ha regole che sono ereditate dagli anni Novanta, quando di squadre ricche, che si contendevano giocatori provenienti dalla NBA (per cui la serie A italiana era la prima scelta, dopo la carriera americana) da unire a giocatori italiani di alto livello, cresciuti e selezionati nei settori giovanili di tutta Italia, ce ne erano molte. Ora che i settori giovanili sono spariti, la stabilit&agrave; economica dei club sembra essere solo un ricordo (o al pi&ugrave; una speranza), e che i budget per non finire gambe all&rsquo;aria sono ridotti all&rsquo;osso, chiunque pu&ograve; misurare la differenza di una squadra fatta per competere nell&rsquo;Europa che conta e una che invece deve finire l&rsquo;anno sperando di avere il bilancio in pareggio. <h2>No green pass no basket</h2> Nuovo capitolo nella vicenda Kyrie Irving-green pass: la dirigenza dei Brooklyn Nets ha deciso di mettere fuori rosa il giocatore, che a seguito della sua scelta non avrebbe potuto giocare le partite casalinghe della squadra newyorkese e neanche partecipare ad alcune trasferte. Una scelta a seguito della quale, a giugno, potrebbe arrivare anche il taglio, ma che al momento permette a Irving di ricevere comunque il suo stipendio (che in NBA si paga ogni quindici giorni) decurtato di un ottantaduesimo per ogni partita saltata. Che sia una scelta definitiva o un modo per far pressione sull&rsquo;atleta a cambiare idea, non &egrave; al momento dato sapere. Certo &egrave; che Irving sembra molto sicuro sulla sua disposizione, dicendosi disposto a rimetterci anche l&rsquo;intera carriera.

La quarta di campionato di basket di Serie A va in archivio lasciando solo la coppia formata da Milano e Bologna (sponda Virtus) al comando a punteggio pieno, con Brindisi e Sassari a due lunghezze e le altre 12 squadre equamente divise tra i 4 e i 2 punti conquistati. Sul fondo della classifica si muove Brescia, che grazie anche alla guardia Mitrou-Long (che di nome fa Nazareth), MVP di giornata, sfiora i 100 punti contro la neopromossa Napoli. A due punti rimane anche Pesaro, che perde tra le mura amiche contro l&rsquo;altra neopromossa Tortona, guidata in attacco da Wright.  Supera i 100 punti Brindisi, in casa contro la Fortitudo Bologna che appare un po&rsquo; leggera in difesa, mentre Sassari vince di 7 punti sul campo di Treviso, che pare molto meno brillante di quella vista a inizio anno e che forse paga un po&rsquo; le fatiche per la qualificazione alla Champions League, giocata a cavallo della Supercoppa italiana, e la prima fase, sempre della Champions che la vedr&agrave; il 19 impegnata ad Atene contro l&rsquo;AEK. Importante la vittoria di Trento, capace di avere la meglio sul difficile campo di Reggio Emilia, al termine di una partita fisica, che porta la Dolomiti fuori dalle acque basse del fondo della classifica. Senza problemi Milano su una Venezia ancora in costruzione e molto lontana non solo dalla testa della classifica, ma anche da un amalgama di squadra che le consenta di ben figurare in campionato (e in coppa). Nessun problema neanche per la Virtus di Bologna che rifila 15 punti a Trieste e fa finalmente esordire Mannion nel nostro campionato.  Una corsa a due  Proprio della coppia di testa Milano-Bologna aveva parlato in settimana Sergio Scariolo, allenatore della Virtus, affermando che la questione scudetto per il campionato italiano &egrave; una corsa a due tra la squadra che allena lui e quella allenata dal suo collega Ettore Messina. La dichiarazione deve aver irritato Gandini che si &egrave; affrettato a rettificare le parole del coach bresciano, affermando che si, il campionato di basket di serie A &egrave; una corsa a due, ma solo per adesso e che presto ci saranno tante sorprese. &Egrave; chiaro, Gandini rappresenta gli interessi di 16 squadre di serie A e non solo delle pi&ugrave; forti e le sue dichiarazioni devono essere orientate in tal senso, ma Scariolo ha solo detto quello che tutti si aspettavano di sentire e cio&egrave; che ci sono due squadre, una costruita con l&rsquo;obiettivo minimo di arrivare in finale si Eurolega e l&rsquo;altra con l&rsquo;obiettivo di giocarci il prossimo anno, che sono inscritte anche al campionato di basket di serie A e che quindi non hanno nulla a che fare con il resto delle pretendenti allo scudetto. Del resto, 4 dei 5 giocatori italiani sbarcati in NBA negli ultimi anni sono tornati (o arrivati, come nel caso di Mannion) per giocare a Milano (Datome e Melli, che la NBA la hanno vissuta da comprimari, ma che hanno tanta Eurolega sulle spalle) e a Bologna (Belinelli che la NBA l&rsquo;ha vissuta da protagonista e Mannion che per ora l&rsquo;ha solo assaggiata e che se avr&agrave; voglia, far&agrave; in tempo a giocarla per davvero).  Il campionato di basket italiano ha regole che sono ereditate dagli anni Novanta, quando di squadre ricche, che si contendevano giocatori provenienti dalla NBA (per cui la serie A italiana era la prima scelta, dopo la carriera americana) da unire a giocatori italiani di alto livello, cresciuti e selezionati nei settori giovanili di tutta Italia, ce ne erano molte. Ora che i settori giovanili sono spariti, la stabilit&agrave; economica dei club sembra essere solo un ricordo (o al pi&ugrave; una speranza), e che i budget per non finire gambe all&rsquo;aria sono ridotti all&rsquo;osso, chiunque pu&ograve; misurare la differenza di una squadra fatta per competere nell&rsquo;Europa che conta e una che invece deve finire l&rsquo;anno sperando di avere il bilancio in pareggio.  No green pass no basket  Nuovo capitolo nella vicenda Kyrie Irving-green pass: la dirigenza dei Brooklyn Nets ha deciso di mettere fuori rosa il giocatore, che a seguito della sua scelta non avrebbe potuto giocare le partite casalinghe della squadra newyorkese e neanche partecipare ad alcune trasferte. Una scelta a seguito della quale, a giugno, potrebbe arrivare anche il taglio, ma che al momento permette a Irving di ricevere comunque il suo stipendio (che in NBA si paga ogni quindici giorni) decurtato di un ottantaduesimo per ogni partita saltata. Che sia una scelta definitiva o un modo per far pressione sull&rsquo;atleta a cambiare idea, non &egrave; al momento dato sapere. Certo &egrave; che Irving sembra molto sicuro sulla sua disposizione, dicendosi disposto a rimetterci anche l&rsquo;intera carriera. 

Guerin Basket dopo la quarta giornata del campionato di Serie A 2021-22: Mitrou-Long MVP, le fatiche di Treviso, l&#39;onest&agrave; di Scariolo, l&#39;eredit&agrave; degli anni Novanta e la scelta di Irving.

Basket Serie A - Una poltrona solo per due

La seconda giornata di campionato di basket di Serie A, in attesa di Pesaro-Trieste che si giocher&agrave; mercoled&igrave; 6 ottobre, va in archivio con Milano, ma soprattutto Bologna, che mostrano i muscoli, &nbsp;e fanno capire, caso mai ce ne fosse stato il bisogno, di essere state costruite per altri obiettivi, al di fuori del campionato nostrano. Cos&igrave; se Milano, che ha esordito con una vittoria sul CSKA in Eurolega, per voce di Datome afferma di essere un cantiere aperto, con tanto di cartello per i lavori in corso, la Virtus Bologna ha immediatamente inserito nel roster Isaia&nbsp;Cordinier&nbsp;a sostituire lo sfortunato Abass, e JaKarr Sampsonche esordir&agrave; contro Venezia, per portare il gioco pi&ugrave; vicino a canestro, come piace a coach Scariolo. Tolte queste due squadre rimangono a punteggio pieno Treviso, che nel derby ha battuto Venezia al termine di una partita molto fisica, e Reggio Emilia, che contro Napoli ha dimostrato una gran capacit&agrave; realizzativa (e qualche sofferenza di troppo nella fase difensiva). Primi punti per Brindisi con un super Gaspardo, capace di segnare 29 punti in 28 minuti, con 4 su 4 da 2 punti e 7 su 8 da 3, a dimostrare che l&rsquo;interesse di questa estate di Milano per l&rsquo;ala di Bressanone non era assolutamente mal riposto. Primi due punti, in assoluto in Serie A, per Derthona, che vince sul campo di Brescia, con i padroni di casa che, per mano di Della Valle, falliscono il tiro del pareggio sul filo della sirena e restano a zero punti in classifica. Se la settimana scorsa Repesa ha motivato le sue dimissioni con una tachicardia che l&rsquo;avrebbe colpito al termine della partita persa con Reggio Emilia, c&rsquo;&egrave; da credere che anche per coach Antimo Martino, suo sostituto, i problemi di cuore quest&rsquo;anno non mancheranno. La partita persa contro Cremona ha evidenziato i limiti del roster (di cui si era lamentato anche Repesa) a cui secondo il nuovo coach manca un play (Katic?) e che vede Gudmundsson doppione di Fantinelli (infortunato). Inoltre, &egrave; da valutare se il rapporto tra Martino e la dirigenza Fortitudo&nbsp;sapr&agrave; superare momenti di crisi, o se riaffioreranno le antiche ruggini formatesi dopo il suo allontanamento nell&rsquo;anno del Covid. Da valutare poi il rapporto con una tifoseria comunque schierata contro il presidente Christian Pavani e dalla parte di Repesa, che non ha dimenticato le esultanze di Martino alla guida di Reggio Emilia, dopo una delle (pochissime) vittorie proprio contro La Fortitudo. Inoltre, la Fortitudo ha ancora sotto contratto, e quindi a libro paga, coach Sacchetti, esonerato lo scorso anno dopo un inizio di campionato disastroso e che potrebbe tornare a sedersi sulla panchina bolognese in caso di cattivi risultati di Martino.Insomma, non un ambiente sereno, che va valutato anche dal punto di vista della solidit&agrave; economica. Il presidente della FIP Petrucci in settimana ha, tra le altre cose, commentato la richiesta del CTS di tenere al 50% la capienza dei palazzi dello sport dove si svolgano manifestazioni sportive, dicendosi sorpreso che il governo non intervenga al riguardo per alzare la capienza al 100% per un pubblico munito di green pass. Al di l&agrave; del fatto che il CTS &egrave; uno strumento del Governo e che colpirebbe molto sapere che il Governo non tiene conto del parere dei suoi esperti, il compito di Petrucci sarebbe quello di assicurarsi che le societ&agrave; sportive siano in grado di reggere la mancanza di pubblico nei palasport, e di dare comunque visibilit&agrave; alla miriade di piccoli sponsor che stanno lasciando il basket, per la mancanza di audience nei palazzetti, invece di polemizzare con le scelte dei virologi e di rivelare alla stampa di non essere pi&ugrave; amico della Vezzali. Perch&eacute; non &egrave; di amicizie con il sottosegretario con delega allo sport che c&rsquo;&egrave; bisogno ma di pianificazione, progetti comuni e salvaguardia di un prodotto, il basket italiano di vertice, che prprio ora che ha ritrovato la nazionale &egrave; a rischio scomparsa, come il panda.

        La seconda giornata di campionato di basket di Serie A, in attesa di Pesaro-Trieste che si giocher&agrave; mercoled&igrave; 6 ottobre, va in archivio con Milano, ma soprattutto Bologna, che mostrano i muscoli, &nbsp;e fanno capire, caso mai ce ne fosse stato il bisogno, di essere state costruite per altri obiettivi, al di fuori del campionato nostrano. Cos&igrave; se Milano, che ha esordito con una vittoria sul CSKA in Eurolega, per voce di Datome afferma di essere un cantiere aperto, con tanto di cartello per i lavori in corso, la Virtus Bologna ha immediatamente inserito nel roster Isaia&nbsp;Cordinier&nbsp;a sostituire lo sfortunato Abass, e JaKarr Sampsonche esordir&agrave; contro Venezia, per portare il gioco pi&ugrave; vicino a canestro, come piace a coach Scariolo.  Tolte queste due squadre rimangono a punteggio pieno Treviso, che nel derby ha battuto Venezia al termine di una partita molto fisica, e Reggio Emilia, che contro Napoli ha dimostrato una gran capacit&agrave; realizzativa (e qualche sofferenza di troppo nella fase difensiva). Primi punti per Brindisi con un super Gaspardo, capace di segnare 29 punti in 28 minuti, con 4 su 4 da 2 punti e 7 su 8 da 3, a dimostrare che l&rsquo;interesse di questa estate di Milano per l&rsquo;ala di Bressanone non era assolutamente mal riposto. Primi due punti, in assoluto in Serie A, per Derthona, che vince sul campo di Brescia, con i padroni di casa che, per mano di Della Valle, falliscono il tiro del pareggio sul filo della sirena e restano a zero punti in classifica.  Se la settimana scorsa Repesa ha motivato le sue dimissioni con una tachicardia che l&rsquo;avrebbe colpito al termine della partita persa con Reggio Emilia, c&rsquo;&egrave; da credere che anche per coach Antimo Martino, suo sostituto, i problemi di cuore quest&rsquo;anno non mancheranno. La partita persa contro Cremona ha evidenziato i limiti del roster (di cui si era lamentato anche Repesa) a cui secondo il nuovo coach manca un play (Katic?) e che vede Gudmundsson doppione di Fantinelli (infortunato). Inoltre, &egrave; da valutare se il rapporto tra Martino e la dirigenza Fortitudo&nbsp;sapr&agrave; superare momenti di crisi, o se riaffioreranno le antiche ruggini formatesi dopo il suo allontanamento nell&rsquo;anno del Covid. Da valutare poi il rapporto con una tifoseria comunque schierata contro il presidente Christian Pavani e dalla parte di Repesa, che non ha dimenticato le esultanze di Martino alla guida di Reggio Emilia, dopo una delle (pochissime) vittorie proprio contro La Fortitudo. Inoltre, la Fortitudo ha ancora sotto contratto, e quindi a libro paga, coach Sacchetti, esonerato lo scorso anno dopo un inizio di campionato disastroso e che potrebbe tornare a sedersi sulla panchina bolognese in caso di cattivi risultati di Martino.Insomma, non un ambiente sereno, che va valutato anche dal punto di vista della solidit&agrave; economica.  Il presidente della FIP Petrucci in settimana ha, tra le altre cose, commentato la richiesta del CTS di tenere al 50% la capienza dei palazzi dello sport dove si svolgano manifestazioni sportive, dicendosi sorpreso che il governo non intervenga al riguardo per alzare la capienza al 100% per un pubblico munito di green pass. Al di l&agrave; del fatto che il CTS &egrave; uno strumento del Governo e che colpirebbe molto sapere che il Governo non tiene conto del parere dei suoi esperti, il compito di Petrucci sarebbe quello di assicurarsi che le societ&agrave; sportive siano in grado di reggere la mancanza di pubblico nei palasport, e di dare comunque visibilit&agrave; alla miriade di piccoli sponsor che stanno lasciando il basket, per la mancanza di audience nei palazzetti, invece di polemizzare con le scelte dei virologi e di rivelare alla stampa di non essere pi&ugrave; amico della Vezzali. Perch&eacute; non &egrave; di amicizie con il sottosegretario con delega allo sport che c&rsquo;&egrave; bisogno ma di pianificazione, progetti comuni e salvaguardia di un prodotto, il basket italiano di vertice, che prprio ora che ha ritrovato la nazionale &egrave; a rischio scomparsa, come il panda.       

Il punto di Guerin Basket dopo la seconda giornata di Serie A: i cantieri di Olimpia e Virtus, Gaspardo super, il ritorno di Martino e la capienza di Petrucci.&nbsp;

Gli allenatori della Fortitudo

Nell&rsquo;estate del &rsquo;97, il presidente del Bologna Giuseppe Gazzoni Frascara ebbe una pensata geniale che divent&ograve; realt&agrave;: perch&eacute; non andare a prendere Roberto Baggio? Tre anni prima, il Divin Codino aveva guidato la Nazionale di Sacchi fino alla finale del Mondiale americano persa ai rigori contro il Brasile, con l&rsquo;errore di Baggio che mise fine al sogno. Ma il numero 10 era nel pieno della carriera, altro che giocatore finito: fino a poche settimane prima dell&rsquo;interesse&nbsp;rossobl&ugrave; giocava nel Milan, ma sentiva che era il momento di cambiare ancora. Aveva il cappellino in testa, nel giorno della conferenza stampa, e c&rsquo;&egrave; una frase che i tifosi rossobl&ugrave; ricordano come fosse ieri anche se sono passati oltre 20 anni: &laquo;Ho scelto Bologna&raquo;. La citt&agrave; impazz&igrave;: record di abbonamenti, si vendeva soltanto la maglia numero 10. Quando and&ograve; in scena la conferenza stampa di presentazione di Baggio, il Bologna era gi&agrave; in ritiro a Sestola, sull&rsquo;Appennino emiliano. &Egrave; un comune di poco pi&ugrave; di duemila anime, in provincia di Modena: in quei giorni raddoppiarono. Per la prima amichevole del Bologna di Baggio (s&igrave;, perch&eacute; fu di Baggio pi&ugrave; che di Renzo Ulivieri, che quella squadra guidava), la piccola tribuna del campo di Sestola si riemp&igrave; ore prima dell&rsquo;inizio della partita. Aveva ancora il codino, Baggio, ma lo avrebbe tagliato a breve, tenendosi addosso soltanto il soprannome, Divin Codino: perch&eacute; quello resta. I tifosi che c&rsquo;erano raccontano come il suono del pallone fosse diverso, a seconda se il pallone lo toccasse Baggio o gli altri giocatori.&nbsp; <h2>I dettagli e la presentazione&nbsp;</h2> Il mercato di fine anni '90 aveva regole diverse rispetto a quello attuale: a luglio chiudeva, ad agosto riapriva. Cos&igrave; Baggio fu tesserato in prestito fino all&rsquo;11 agosto e poi ufficializzato a titolo definitivo. La scelta di ripartire da Bologna non fu casuale. A 30 anni, dopo la parentesi delle due stagioni milaniste con relativa trasformazione in comprimario, si ciment&ograve; nella risalita pi&ugrave; difficile della sua carriera: tornare ad essere il migliore rifinitore, per meritarsi la convocazione ai Mondiali di Francia. Niente Derby County, per evitare problemi d&rsquo;ambientamento a moglie e figli, e perch&eacute; all&rsquo;estero sarebbe stato pi&ugrave; difficile farsi notare da Cesare Maldini, anche se il club inglese in cui giocava il suo amico Eranio fino all&rsquo;ultimo non si arrese, forte di un&rsquo;offerta d&rsquo; ingaggio che sfior&ograve; i 5 miliardi l&rsquo;anno. E niente rivincita al Milan, perch&eacute; &egrave; vero che pochi giorni prima al Forum di Assago diecimila tifosi lo avevano implorato di restare, ma i primi due giorni di ritiro a Milanello gli erano bastati per sentirsi un corpo estraneo nella squadra progettata senza di lui da Capello. Non restava che Bologna, citt&agrave; propizia alle resurrezioni dei campioni scartati dagli altri. Nella conferenza stampa di presentazione, inusualmente ospitata nella sede del Milan, il suo nuovo presidente Gazzoni lo fece di nuovo l&rsquo;eroe nazionale che fu a Usa &lsquo;94. &laquo;Baggio non &egrave; un giocatore qualsiasi, rappresenta l&rsquo;italianit&agrave;, la fantasia, il bel calcio. D&agrave; lustro alla citt&agrave; e a una societ&agrave; che in teoria non poteva permetterselo, perch&eacute; appartiene ai cosiddetti club di seconda fascia. Ma il tempo del calcio padronale &egrave; finito: Baggio servir&agrave; anche per estendere la notoriet&agrave; del marchio Bologna. Sar&agrave; utile commercialmente, per sfruttare lo stadio, per avere pi&ugrave; soldi dalla pay-per-view. Dopo 35 anni da Bulgarelli torna un grande campione&raquo;.&nbsp;

        Nell&rsquo;estate del &rsquo;97, il presidente del Bologna Giuseppe Gazzoni Frascara ebbe una pensata geniale che divent&ograve; realt&agrave;: perch&eacute; non andare a prendere Roberto Baggio? Tre anni prima, il Divin Codino aveva guidato la Nazionale di Sacchi fino alla finale del Mondiale americano persa ai rigori contro il Brasile, con l&rsquo;errore di Baggio che mise fine al sogno. Ma il numero 10 era nel pieno della carriera, altro che giocatore finito: fino a poche settimane prima dell&rsquo;interesse&nbsp;rossobl&ugrave; giocava nel Milan, ma sentiva che era il momento di cambiare ancora. Aveva il cappellino in testa, nel giorno della conferenza stampa, e c&rsquo;&egrave; una frase che i tifosi rossobl&ugrave; ricordano come fosse ieri anche se sono passati oltre 20 anni: &laquo;Ho scelto Bologna&raquo;. La citt&agrave; impazz&igrave;: record di abbonamenti, si vendeva soltanto la maglia numero 10. Quando and&ograve; in scena la conferenza stampa di presentazione di Baggio, il Bologna era gi&agrave; in ritiro a Sestola, sull&rsquo;Appennino emiliano. &Egrave; un comune di poco pi&ugrave; di duemila anime, in provincia di Modena: in quei giorni raddoppiarono. Per la prima amichevole del Bologna di Baggio (s&igrave;, perch&eacute; fu di Baggio pi&ugrave; che di Renzo Ulivieri, che quella squadra guidava), la piccola tribuna del campo di Sestola si riemp&igrave; ore prima dell&rsquo;inizio della partita. Aveva ancora il codino, Baggio, ma lo avrebbe tagliato a breve, tenendosi addosso soltanto il soprannome, Divin Codino: perch&eacute; quello resta. I tifosi che c&rsquo;erano raccontano come il suono del pallone fosse diverso, a seconda se il pallone lo toccasse Baggio o gli altri giocatori.&nbsp; I dettagli e la presentazione&nbsp;  Il mercato di fine anni '90 aveva regole diverse rispetto a quello attuale: a luglio chiudeva, ad agosto riapriva. Cos&igrave; Baggio fu tesserato in prestito fino all&rsquo;11 agosto e poi ufficializzato a titolo definitivo. La scelta di ripartire da Bologna non fu casuale. A 30 anni, dopo la parentesi delle due stagioni milaniste con relativa trasformazione in comprimario, si ciment&ograve; nella risalita pi&ugrave; difficile della sua carriera: tornare ad essere il migliore rifinitore, per meritarsi la convocazione ai Mondiali di Francia. Niente Derby County, per evitare problemi d&rsquo;ambientamento a moglie e figli, e perch&eacute; all&rsquo;estero sarebbe stato pi&ugrave; difficile farsi notare da Cesare Maldini, anche se il club inglese in cui giocava il suo amico Eranio fino all&rsquo;ultimo non si arrese, forte di un&rsquo;offerta d&rsquo; ingaggio che sfior&ograve; i 5 miliardi l&rsquo;anno. E niente rivincita al Milan, perch&eacute; &egrave; vero che pochi giorni prima al Forum di Assago diecimila tifosi lo avevano implorato di restare, ma i primi due giorni di ritiro a Milanello gli erano bastati per sentirsi un corpo estraneo nella squadra progettata senza di lui da Capello. Non restava che Bologna, citt&agrave; propizia alle resurrezioni dei campioni scartati dagli altri. Nella conferenza stampa di presentazione, inusualmente ospitata nella sede del Milan, il suo nuovo presidente Gazzoni lo fece di nuovo l&rsquo;eroe nazionale che fu a Usa &lsquo;94. &laquo;Baggio non &egrave; un giocatore qualsiasi, rappresenta l&rsquo;italianit&agrave;, la fantasia, il bel calcio. D&agrave; lustro alla citt&agrave; e a una societ&agrave; che in teoria non poteva permetterselo, perch&eacute; appartiene ai cosiddetti club di seconda fascia. Ma il tempo del calcio padronale &egrave; finito: Baggio servir&agrave; anche per estendere la notoriet&agrave; del marchio Bologna. Sar&agrave; utile commercialmente, per sfruttare lo stadio, per avere pi&ugrave; soldi dalla pay-per-view. Dopo 35 anni da Bulgarelli torna un grande campione&raquo;.&nbsp;       

Nell&rsquo;estate del 1997 il presidente Gazzoni piazz&ograve; il colpo a sorpresa: l'approdo del Divin Codino mobilit&ograve; parte della tifoseria rossobl&ugrave; verso l'Appennino emiliano&nbsp;

Calciomercato: l'arrivo di Baggio a Bologna e l'invasione di Sestola

Un attaccante formidabile che &egrave; riuscito a ritagliarsi un posto gi&agrave; nella Serie A d&rsquo;oro degli anni &rsquo;90 per poi diventare protagonista assoluto in quella del nuovo millennio. Marco Di Vaio occupa il 31esimo posto nella graduatoria all-time dei bomber del nostro campionato: 142 reti al pari di Benito Lorenzi e Christian Vieri. Nato a Roma il 15 luglio 1976, Di Vaio sboccia nelle giovanili della Lazio, in quella nidiata che porta alla ribalta anche Alessandro Nesta con cui vince il campionato Primavera 1994-95. Debutta come professionista gi&agrave; nel 1993 grazie a Dino Zoff, ma &egrave; con il Boemo, Zdenek Zeman, che l&rsquo;attaccante romano gioca le sue prime partite in massima serie. Centravanti rapidissimo e molto valido tecnicamente, &egrave; congeniale a ogni tipo di schema tattico: perfetto per l&rsquo;attacco a due punte, dove pu&ograve; fare senza troppe differenze sia la prima che la seconda e, ovviamente, anche per il tridente. <h2>La consacrazione alla Salernitana</h2> &nbsp; Durante la sua carriera Di Vaio gira tutto lo Stivale: inizia con i prestiti di Bari e Verona in B e si consacra a Salerno nella stagione 1997-98. Pur essendo giovanissimo segna la bellezza di 21 centri che gli valgono il titolo di capocannoniere, grazie ai quali trascina la Salernitana al ritorno in Serie A a distanza di 50 anni dall&rsquo;ultima e unica apparizione. Un predestinato che si affaccia al suo primo campionato da protagonista in massima serie con gi&agrave; alle spalle sei stagioni tra i grandi. Nel 1998-99 non bastano i suoi 12 gol con i granata per mantenere la categoria, Di Vaio saluta e si trasferisce al Parma di Alberto Malesani. <h2>Parma e Juventus</h2> &nbsp; Qui si conferma ad altissimi livelli: una Supercoppa Italiana, una Coppa Italia e 57 gol in 126 gare gli valgono la chiamata della Juventus. A Torino, nonostante la presenza dei pi&ugrave; affermati compagni di reparto (Trezeguet, Zalayeta e Salas), &egrave; spesso lui a fare coppia con capitan Del Piero. Vince lo scudett0 e sfiora la Champions, segna 7 volte in campionato e 4 in Europa, aumentando il suo personale bottino nell&rsquo;annata successiva, quando raggiunge la doppia cifra in Serie A (11 reti). <h2>Le esperienze all&rsquo;estero e il ritorno in Italia</h2> &nbsp; Nel 2004 mette gli occhi su di lui il Valencia, squadra spagnola protagonista ai livelli top del calcio europeo. Di Vaio si trasferisce in cambio di 11 milioni. Se il primo anno &egrave; positivo &ndash; 11 reti in campionato e un sigillo fondamentale per la conquista della Supercoppa Europea contro il Porto &ndash; non si ripete nella stagione successiva, forse anche per via dell&rsquo;avvicendamento in panchina che vede subentrare Quique Sanchez Flores a Claudio Ranieri. Nel gennaio 2006 passa al Monaco dove resta per 365 giorni, salutando nella finestra invernale successiva quando decide di rilanciarsi in Italia per guidare il Genoa alla promozione in Serie A. I grandi palcoscenici sembrano terminati per l&rsquo;attaccante romano che con il Grifone non riesce a ripetersi. <h2>La seconda giovinezza a Bologna</h2> &nbsp; A credere ancora in lui &egrave; il Bologna che lo preleva in prestito. &Egrave; in Emilia che Marco Di Vaio vive la sua seconda giovinezza: saranno quattro stagioni straordinarie. Nel 2008-09 i tre avvicendamenti in panchina (Arrigoni, Mihajlovic e Papadopulo) non frenano &ldquo;l&rsquo;istinto killer&rdquo; del bomber che mette a referto 24 reti guidando il Bologna a una salvezza complicata. Meglio di lui solo un mostro sacro come Zlatan Ibrahimovic vincitore della classifica marcatori con 25 reti. In questa stagione entra nel prestigioso club dei centenari e diventa l&rsquo;idolo assoluto del Dall&rsquo;Ara. Il riscatto del cartellino da parte dei rossobl&ugrave; &egrave; solo una conseguente formalit&agrave;, una fiducia che lo porta anche a vestire la fascia da capitano. Nelle successive tre stagioni conta 105 presenze condite da un&rsquo;altra valanga di reti (41), da altrettante salvezze, da riconoscimenti personali e dall&rsquo;amore incondizionato del popolo bolognese. Chiude la sua esperienza da calciatore con un triennio in Canada, mentre nel 2015 torna a Bologna, la sua seconda casa, dove ancora oggi ricopre il ruolo di responsabile scouting.

Un attaccante formidabile che &egrave; riuscito a ritagliarsi un posto gi&agrave; nella Serie A d&rsquo;oro degli anni &rsquo;90 per poi diventare protagonista assoluto in quella del nuovo millennio. Marco Di Vaio occupa il 31esimo posto nella graduatoria all-time dei bomber del nostro campionato: 142 reti al pari di Benito Lorenzi e Christian Vieri. Nato a Roma il 15 luglio 1976, Di Vaio sboccia nelle giovanili della Lazio, in quella nidiata che porta alla ribalta anche Alessandro Nesta con cui vince il campionato Primavera 1994-95. Debutta come professionista gi&agrave; nel 1993 grazie a Dino Zoff, ma &egrave; con il Boemo, Zdenek Zeman, che l&rsquo;attaccante romano gioca le sue prime partite in massima serie. Centravanti rapidissimo e molto valido tecnicamente, &egrave; congeniale a ogni tipo di schema tattico: perfetto per l&rsquo;attacco a due punte, dove pu&ograve; fare senza troppe differenze sia la prima che la seconda e, ovviamente, anche per il tridente.  La consacrazione alla Salernitana  &nbsp;  Durante la sua carriera Di Vaio gira tutto lo Stivale: inizia con i prestiti di Bari e Verona in B e si consacra a Salerno nella stagione 1997-98. Pur essendo giovanissimo segna la bellezza di 21 centri che gli valgono il titolo di capocannoniere, grazie ai quali trascina la Salernitana al ritorno in Serie A a distanza di 50 anni dall&rsquo;ultima e unica apparizione. Un predestinato che si affaccia al suo primo campionato da protagonista in massima serie con gi&agrave; alle spalle sei stagioni tra i grandi. Nel 1998-99 non bastano i suoi 12 gol con i granata per mantenere la categoria, Di Vaio saluta e si trasferisce al Parma di Alberto Malesani.    Parma e Juventus  &nbsp;  Qui si conferma ad altissimi livelli: una Supercoppa Italiana, una Coppa Italia e 57 gol in 126 gare gli valgono la chiamata della Juventus. A Torino, nonostante la presenza dei pi&ugrave; affermati compagni di reparto (Trezeguet, Zalayeta e Salas), &egrave; spesso lui a fare coppia con capitan Del Piero. Vince lo scudett0 e sfiora la Champions, segna 7 volte in campionato e 4 in Europa, aumentando il suo personale bottino nell&rsquo;annata successiva, quando raggiunge la doppia cifra in Serie A (11 reti).    Le esperienze all&rsquo;estero e il ritorno in Italia  &nbsp;  Nel 2004 mette gli occhi su di lui il Valencia, squadra spagnola protagonista ai livelli top del calcio europeo. Di Vaio si trasferisce in cambio di 11 milioni. Se il primo anno &egrave; positivo &ndash; 11 reti in campionato e un sigillo fondamentale per la conquista della Supercoppa Europea contro il Porto &ndash; non si ripete nella stagione successiva, forse anche per via dell&rsquo;avvicendamento in panchina che vede subentrare Quique Sanchez Flores a Claudio Ranieri. Nel gennaio 2006 passa al Monaco dove resta per 365 giorni, salutando nella finestra invernale successiva quando decide di rilanciarsi in Italia per guidare il Genoa alla promozione in Serie A. I grandi palcoscenici sembrano terminati per l&rsquo;attaccante romano che con il Grifone non riesce a ripetersi.    La seconda giovinezza a Bologna  &nbsp;  A credere ancora in lui &egrave; il Bologna che lo preleva in prestito. &Egrave; in Emilia che Marco Di Vaio vive la sua seconda giovinezza: saranno quattro stagioni straordinarie. Nel 2008-09 i tre avvicendamenti in panchina (Arrigoni, Mihajlovic e Papadopulo) non frenano &ldquo;l&rsquo;istinto killer&rdquo; del bomber che mette a referto 24 reti guidando il Bologna a una salvezza complicata. Meglio di lui solo un mostro sacro come Zlatan Ibrahimovic vincitore della classifica marcatori con 25 reti. In questa stagione entra nel prestigioso club dei centenari e diventa l&rsquo;idolo assoluto del Dall&rsquo;Ara. Il riscatto del cartellino da parte dei rossobl&ugrave; &egrave; solo una conseguente formalit&agrave;, una fiducia che lo porta anche a vestire la fascia da capitano. Nelle successive tre stagioni conta 105 presenze condite da un&rsquo;altra valanga di reti (41), da altrettante salvezze, da riconoscimenti personali e dall&rsquo;amore incondizionato del popolo bolognese. Chiude la sua esperienza da calciatore con un triennio in Canada, mentre nel 2015 torna a Bologna, la sua seconda casa, dove ancora oggi ricopre il ruolo di responsabile scouting.   

Dalla Lazio fino al Canada, tante maglie e tantissimi gol per un centravanti moderno che ha trovato a Bologna la sua seconda casa

Marco Di Vaio: i 45 anni di un attaccante giramondo

Un manto erboso da fare invidia ai giardini inglesi del Buckingamshire, l&rsquo;imponente Torre di Maratona al centro tra la Curva Andrea Costa (intitolata a Giacomo Bulgarelli) e quella San Luca (ribattezzata Arpad Weisz). Sono queste le istantanee pi&ugrave; abbaglianti dello stadio Littoriale, dal 1983 Renato Dall&rsquo;Ara, storico presidente del Bologna che perse la vita a tre giorni dallo spareggio contro l&rsquo;Inter che regaler&agrave; al club rossobl&ugrave; lo scudetto 1964, il settimo e fin qui ultimo tricolore della sua storia. <h2>Il progetto e l&rsquo;inaugurazione</h2> Il progetto, promosso da Leandro Arpinati, vice-segretario generale del Partito Nazionale Fascista e in seguito podest&agrave; di Bologna, che per edificare lo stadio organizz&ograve; una colletta tra le aziende cittadine, fu realizzato dall&rsquo;ingegnere Umberto Costanzini&nbsp;e dall&rsquo;architetto&nbsp;Giulio Ulisse Arata. La prima pietra fu posata il 12 giugno 1925, mentre l&rsquo;inaugurazione si tenne il 31 ottobre dell&rsquo;anno seguente, con il Duce che prima entr&ograve; a cavallo e poi tenne il suo discorso. Un pomeriggio che Mussolini non dimenticher&agrave; facilmente, dato che sub&igrave; un attentato perpetrato dall'anarchico quindicenne&nbsp;Anteo Zamboni, che gli spar&ograve; mancandolo. Anche il grande poeta Giuseppe Ungaretti compose un&rsquo;ode in occasione dell&rsquo;evento: &ldquo;Or dunque che &egrave;? Mutata tu sei civilt&agrave;? Questa palestra novella &egrave; la sede pi&ugrave; bella di te, Verit&agrave;?&rdquo;. <h2>Il battesimo sportivo</h2> Terminati gli ultimi lavori, il &ldquo;battesimo sportivo&rdquo; avvenne il 29 maggio 1927 quando l&rsquo;Italia sconfisse la Spagna grazie al gol di Baloncieri a ridosso della mezz&rsquo;ora e all&rsquo;autorete di Prats a inizio ripresa. Debutto fortunato anche per il Bologna che, abbandonato il vecchio e caro Sterlino, pochi giorni dopo, il 5 giugno, si aggiudic&ograve; la sfida contro il Genoa grazie al gol di Giuseppe Martelli. Posto in punto cruciale della citt&agrave;, ai piedi della Basilica di S. Luca, vicino al cimitero della Certosa, il Littoriale con i suoi tipici muri realizzati con mattoncini rossi rappresentava il &ldquo;primo anfiteatro della rivoluzione fascista&rdquo;&nbsp;e&nbsp;&ldquo;monumento della nuova epoca&rdquo;. La sua capienza originaria permetteva di ospitare 50.100 spettatori, tanto da essere scelto per la fase finale del Mondiale del 34&rsquo;, primo alloro iridato per gli azzurri. Al termine della guerra e fino all&rsquo;attuale denominazione, Stadio Renato Dall&rsquo;Ara (1983), assunse il nome di Stadio Comunale. L&rsquo;attuale capacit&agrave; &egrave; stata ridotta a 39mila posti.&nbsp; <h2>La Torre di Maratona</h2> Simbolo imperituro e gemma preziosa della straordinaria architettura dell&rsquo;impianto bolognese &egrave; la Torre di Maratona. Completata il 29 ottobre 1929, &egrave; situata di fronte la tribuna coperta. Alta 42 metri e larga altrettanto, fu progettata da Giulio Ulisse Arata ed innalzata nel luogo in cui avvenne l&rsquo;esecuzione di Ugo Bassi. Si articola su sei livelli con due terrazze panoramiche intermedie che si aprono ai primi due livelli, mentre al terzo venne realizzata la sala comandi dell&rsquo;illuminazione dell&rsquo;intero impianto sportivo.&nbsp;Sul pennone della torre fu collocata una statua rappresentante la Vittoria alata con fascio littorio e un'imponente bandiera della&nbsp;Regia Marina, mentre entro un'abside era collocato il grandioso bronzo ritraente Mussolini a cavallo, eseguito da Giuseppe Graziosi. La scultura venne distrutta all'indomani della fine del secondo conflitto mondiale e il bronzo riutilizzato da Luciano Minguzzi per creare le statue della Partigiana e del Partigiano, ora a Porta Lame.

        Un manto erboso da fare invidia ai giardini inglesi del Buckingamshire, l&rsquo;imponente Torre di Maratona al centro tra la Curva Andrea Costa (intitolata a Giacomo Bulgarelli) e quella San Luca (ribattezzata Arpad Weisz). Sono queste le istantanee pi&ugrave; abbaglianti dello stadio Littoriale, dal 1983 Renato Dall&rsquo;Ara, storico presidente del Bologna che perse la vita a tre giorni dallo spareggio contro l&rsquo;Inter che regaler&agrave; al club rossobl&ugrave; lo scudetto 1964, il settimo e fin qui ultimo tricolore della sua storia. Il progetto e l&rsquo;inaugurazione  Il progetto, promosso da Leandro Arpinati, vice-segretario generale del Partito Nazionale Fascista e in seguito podest&agrave; di Bologna, che per edificare lo stadio organizz&ograve; una colletta tra le aziende cittadine, fu realizzato dall&rsquo;ingegnere Umberto Costanzini&nbsp;e dall&rsquo;architetto&nbsp;Giulio Ulisse Arata. La prima pietra fu posata il 12 giugno 1925, mentre l&rsquo;inaugurazione si tenne il 31 ottobre dell&rsquo;anno seguente, con il Duce che prima entr&ograve; a cavallo e poi tenne il suo discorso. Un pomeriggio che Mussolini non dimenticher&agrave; facilmente, dato che sub&igrave; un attentato perpetrato dall'anarchico quindicenne&nbsp;Anteo Zamboni, che gli spar&ograve; mancandolo. Anche il grande poeta Giuseppe Ungaretti compose un&rsquo;ode in occasione dell&rsquo;evento: &ldquo;Or dunque che &egrave;? Mutata tu sei civilt&agrave;? Questa palestra novella &egrave; la sede pi&ugrave; bella di te, Verit&agrave;?&rdquo;. Il battesimo sportivo  Terminati gli ultimi lavori, il &ldquo;battesimo sportivo&rdquo; avvenne il 29 maggio 1927 quando l&rsquo;Italia sconfisse la Spagna grazie al gol di Baloncieri a ridosso della mezz&rsquo;ora e all&rsquo;autorete di Prats a inizio ripresa. Debutto fortunato anche per il Bologna che, abbandonato il vecchio e caro Sterlino, pochi giorni dopo, il 5 giugno, si aggiudic&ograve; la sfida contro il Genoa grazie al gol di Giuseppe Martelli. Posto in punto cruciale della citt&agrave;, ai piedi della Basilica di S. Luca, vicino al cimitero della Certosa, il Littoriale con i suoi tipici muri realizzati con mattoncini rossi rappresentava il &ldquo;primo anfiteatro della rivoluzione fascista&rdquo;&nbsp;e&nbsp;&ldquo;monumento della nuova epoca&rdquo;. La sua capienza originaria permetteva di ospitare 50.100 spettatori, tanto da essere scelto per la fase finale del Mondiale del 34&rsquo;, primo alloro iridato per gli azzurri. Al termine della guerra e fino all&rsquo;attuale denominazione, Stadio Renato Dall&rsquo;Ara (1983), assunse il nome di Stadio Comunale. L&rsquo;attuale capacit&agrave; &egrave; stata ridotta a 39mila posti.&nbsp; La Torre di Maratona  Simbolo imperituro e gemma preziosa della straordinaria architettura dell&rsquo;impianto bolognese &egrave; la Torre di Maratona. Completata il 29 ottobre 1929, &egrave; situata di fronte la tribuna coperta. Alta 42 metri e larga altrettanto, fu progettata da Giulio Ulisse Arata ed innalzata nel luogo in cui avvenne l&rsquo;esecuzione di Ugo Bassi. Si articola su sei livelli con due terrazze panoramiche intermedie che si aprono ai primi due livelli, mentre al terzo venne realizzata la sala comandi dell&rsquo;illuminazione dell&rsquo;intero impianto sportivo.&nbsp;Sul pennone della torre fu collocata una statua rappresentante la Vittoria alata con fascio littorio e un'imponente bandiera della&nbsp;Regia Marina, mentre entro un'abside era collocato il grandioso bronzo ritraente Mussolini a cavallo, eseguito da Giuseppe Graziosi. La scultura venne distrutta all'indomani della fine del secondo conflitto mondiale e il bronzo riutilizzato da Luciano Minguzzi per creare le statue della Partigiana e del Partigiano, ora a Porta Lame.       

Con la Torre di Maratona e le mura in mattoncini rossi, rappresenta un vero gioiello. 94 anni fa il primo incontro, nel 1983 l&rsquo;intitolazione al presidente

Dal Littoriale al Dall’Ara: lo stadio di Bologna e la sua storia

Roma, 10 giugno 1934, Stadio del Partito Nazionale Fascista: &egrave; da questa data che &egrave; bello cominciare a raccontare la figura di Angelo Schiavio, miglior marcatore di tutti i tempi nella storia del Bologna, gloriosa figura non solo dei rossobl&ugrave;, unica squadra di cui vest&igrave; i colori nella nostra massima divisione, ma anche della nazionale italiana, di cui faceva parte ai Mondiali del 1934. Edizione importante non solo perch&eacute; era la prima alla quale partecipavano gli Azzurri, ma anche perch&eacute;, essendo l&rsquo;Italia il paese organizzatore, portava con s&eacute; l&rsquo;interesse politico del governo di Mussolini ad arrivare alla vittoria per fini propagandistici.&nbsp; <h2>Ai Mondiali del '34</h2> In uno stadio pieno di spettatori che sono arrivati a spendere sessanta lire per varcare gli ingressi, arroventato da un clima gi&agrave; oltremodo estivo, Italia e Cecoslovacchia scendono in campo per contendersi la coppa. Lo stato maggiore del nostro governo &egrave; allineato in tribuna, dove il Duce siede proprio accanto al presidente della FIFA. Partita alla quale la nostra nazionale non arriva favorita, incrinata da un gol di Puc che a poco pi&ugrave; di un quarto d&rsquo;ora dalla fine allontana l&rsquo;Italia dal suo obiettivo, rimesso a fuoco solo dal pareggio di Orsi arrivato all&rsquo;81&rsquo;. Servono i tempi supplementari per decretare la vincitrice; serve il carattere indomito di Angelino Schiavio a mettere alle spalle del monumento Planicka il gol che ci consente di agguantare la nostra prima coppa del mondo, nonostante la fatica che lo fa stramazzare esausto al suolo, che si confonde con la gioia e l&rsquo;emozione condivisa con compagni e tifosi, ormai fusi e confusi dalla felicit&agrave; che si irradia sul campo al pari del caldo obnubilante. &Egrave; l&rsquo;ultimo gol del Mondiale, l&rsquo;ultimo di Schiavio con la maglia azzurra, indossata anch&rsquo;essa per l&rsquo;ultima volta in quell&rsquo;occasione. Angelo ha 29 anni e raggiunge il momento apicale di una carriera cominciata poco pi&ugrave; di dieci anni prima in Promozione nelle file della Fortitudo Bologna. Gli rimangono ancora quattro stagioni da giocare, di cui le ultime due, a guardare presente e reti del suo personale tabellino, vissute da comparsa.&nbsp; <h2>Eroe al Bologna</h2> &nbsp;Ma fa ancora in tempo a vincere da protagonista il primo scudetto che interrompe la cinquina di affermazioni della Juventus degli anni Trenta. Sono 9 le sue marcature in quell&rsquo;annata 1935-36, &egrave; ancora lui il centravanti di quel Bologna &ldquo;che tremare il mondo fa&rdquo;. Ma torniamo indietro, alla prima esperienza con la Fortitudo. Basta il tempo di una stagione per farsi notare dal Bologna Football Club, col quale esordisce nella prima gara ufficiale il 28 gennaio 1923. &Egrave; un vero e proprio debutto in societ&agrave;: avversaria la Juventus, schiantata 4-1 pur senza segnare. Angelo non ha ancora compiuto diciott&rsquo;anni, un&rsquo;et&agrave; alla quale ha rischiato di non arrivare: a sei mesi, infatti, la sua vita era in pericolo per un enfisema polmonare, curato dal professor Bartolo Nigrisoli con un intervento alla schiena effettuato senza anestesia che gli provocher&agrave; un dolore al quale sar&agrave; riconoscente per il resto della sua lunga vita.&nbsp; <h2>In campo&nbsp;</h2> &Egrave; l&rsquo;ultimo di otto fratelli, l&rsquo;unico nato a Bologna da una famiglia di commercianti lombardi poi trasferitisi nel capoluogo emiliano, l&rsquo;unico a dedicarsi con passione all&rsquo;inseguimento del pallone. E quindi va bene il calcio, ma solo dopo l&rsquo;attivit&agrave; di famiglia: nei primi anni giovanili Angelo, con la squadra, si allena esclusivamente un giorno a settimana, il gioved&igrave;. Gli altri deve farlo da solo: alla mattina, prima di andare a lavorare, corre. La sera, finito con l&rsquo;attivit&agrave; di famiglia, termina la giornata in palestra. Forse &egrave; anche per questo che, pur non essendo un colosso, trover&agrave; nella reattivit&agrave; fisica un punto di forza del suo modo di giocare che, nella narrazione tramandata dai suoi contemporanei, lo fa apparire addirittura un antesignano di Cristiano Ronaldo. Chi lo vide scendere in campo, infatti, lo raccontava di palleggio sicuro, dotato di un incedere di corsa leggermente oscillante che, in velocit&agrave;, lo rendeva difficilmente contenibile dai difensori opponenti. Oltretutto aveva uno scatto pronto in grado di costruire movimenti potenti e veloci che lo portavano a tiri simili a fucilate, spesso a coronamento di azioni impostate su dribbling ben riusciti. Insomma, un attaccante a tutto tondo che non aveva paura a fronteggiare anche le battaglie pi&ugrave; rudi nelle arene di campi ancora imperfetti.&nbsp; <h2>La rivalit&agrave; con Monti&nbsp;</h2> &Egrave; passata alla storia la sua feroce rivalit&agrave; con Luisito Monti, soprannominato in Argentina &ldquo;El doble ancho&rdquo; (&ldquo;Armadio a due ante&rdquo;) per la sua ruvida forza fisica, fatta di scontri senza esclusione di colpi, che cominci&ograve; il giorno di ferragosto del 1929, quando il Bologna era in tourn&eacute;e in Sudamerica e Monti sottopose alle sue cure il frizzante Angelo. Ancor pi&ugrave; rusticano il duello che vide i due protagonisti nel corso di Juventus-Bologna del 1&deg; maggio 1932, quando El doble ancho rifil&ograve; una zampata sul ginocchio a uno Schiavio gi&agrave; a terra. Episodi che portarono i due a coltivare una reciproca acredine che solo la saggezza e la capacit&agrave; di mediazione di Vittorio Pozzo riusc&igrave; in qualche modo a ricomporre al fine di avere a disposizione entrambi in quel Mondiale del 1934. <h2>Amore in rossobl&ugrave;</h2> Angelo era fatto cos&igrave;, era generoso per natura: per il Bologna gioc&ograve; quasi sempre senza percepire alcun ingaggio (al netto delle ultime stagioni, quando ottenne qualche premio e gli venne data una Lancia); fuori dal campo era impossibile riuscire a pagargli il conto al ristorante. Del resto ebbe modo di dichiararlo lui stesso: pur di giocare nel Bologna avrebbe pagato di tasca sua. Un&rsquo;affermazione che anni dopo spinse un altro monumento della storia rossobl&ugrave; ad omaggiarlo: &ldquo;A uno cos&igrave; non gli portavo neanche le scarpe&rdquo;, ebbe a dire di lui Giacomo Bulgarelli. Forse il riconoscimento pi&ugrave; alto alla figura di Angelo Schiavio dopo la vittoria della coppa del mondo del 1934.

        Roma, 10 giugno 1934, Stadio del Partito Nazionale Fascista: &egrave; da questa data che &egrave; bello cominciare a raccontare la figura di Angelo Schiavio, miglior marcatore di tutti i tempi nella storia del Bologna, gloriosa figura non solo dei rossobl&ugrave;, unica squadra di cui vest&igrave; i colori nella nostra massima divisione, ma anche della nazionale italiana, di cui faceva parte ai Mondiali del 1934. Edizione importante non solo perch&eacute; era la prima alla quale partecipavano gli Azzurri, ma anche perch&eacute;, essendo l&rsquo;Italia il paese organizzatore, portava con s&eacute; l&rsquo;interesse politico del governo di Mussolini ad arrivare alla vittoria per fini propagandistici.&nbsp; Ai Mondiali del '34 In uno stadio pieno di spettatori che sono arrivati a spendere sessanta lire per varcare gli ingressi, arroventato da un clima gi&agrave; oltremodo estivo, Italia e Cecoslovacchia scendono in campo per contendersi la coppa. Lo stato maggiore del nostro governo &egrave; allineato in tribuna, dove il Duce siede proprio accanto al presidente della FIFA. Partita alla quale la nostra nazionale non arriva favorita, incrinata da un gol di Puc che a poco pi&ugrave; di un quarto d&rsquo;ora dalla fine allontana l&rsquo;Italia dal suo obiettivo, rimesso a fuoco solo dal pareggio di Orsi arrivato all&rsquo;81&rsquo;. Servono i tempi supplementari per decretare la vincitrice; serve il carattere indomito di Angelino Schiavio a mettere alle spalle del monumento Planicka il gol che ci consente di agguantare la nostra prima coppa del mondo, nonostante la fatica che lo fa stramazzare esausto al suolo, che si confonde con la gioia e l&rsquo;emozione condivisa con compagni e tifosi, ormai fusi e confusi dalla felicit&agrave; che si irradia sul campo al pari del caldo obnubilante. &Egrave; l&rsquo;ultimo gol del Mondiale, l&rsquo;ultimo di Schiavio con la maglia azzurra, indossata anch&rsquo;essa per l&rsquo;ultima volta in quell&rsquo;occasione. Angelo ha 29 anni e raggiunge il momento apicale di una carriera cominciata poco pi&ugrave; di dieci anni prima in Promozione nelle file della Fortitudo Bologna. Gli rimangono ancora quattro stagioni da giocare, di cui le ultime due, a guardare presente e reti del suo personale tabellino, vissute da comparsa.&nbsp; Eroe al Bologna &nbsp;Ma fa ancora in tempo a vincere da protagonista il primo scudetto che interrompe la cinquina di affermazioni della Juventus degli anni Trenta. Sono 9 le sue marcature in quell&rsquo;annata 1935-36, &egrave; ancora lui il centravanti di quel Bologna &ldquo;che tremare il mondo fa&rdquo;. Ma torniamo indietro, alla prima esperienza con la Fortitudo. Basta il tempo di una stagione per farsi notare dal Bologna Football Club, col quale esordisce nella prima gara ufficiale il 28 gennaio 1923. &Egrave; un vero e proprio debutto in societ&agrave;: avversaria la Juventus, schiantata 4-1 pur senza segnare. Angelo non ha ancora compiuto diciott&rsquo;anni, un&rsquo;et&agrave; alla quale ha rischiato di non arrivare: a sei mesi, infatti, la sua vita era in pericolo per un enfisema polmonare, curato dal professor Bartolo Nigrisoli con un intervento alla schiena effettuato senza anestesia che gli provocher&agrave; un dolore al quale sar&agrave; riconoscente per il resto della sua lunga vita.&nbsp; In campo&nbsp; &Egrave; l&rsquo;ultimo di otto fratelli, l&rsquo;unico nato a Bologna da una famiglia di commercianti lombardi poi trasferitisi nel capoluogo emiliano, l&rsquo;unico a dedicarsi con passione all&rsquo;inseguimento del pallone. E quindi va bene il calcio, ma solo dopo l&rsquo;attivit&agrave; di famiglia: nei primi anni giovanili Angelo, con la squadra, si allena esclusivamente un giorno a settimana, il gioved&igrave;. Gli altri deve farlo da solo: alla mattina, prima di andare a lavorare, corre. La sera, finito con l&rsquo;attivit&agrave; di famiglia, termina la giornata in palestra. Forse &egrave; anche per questo che, pur non essendo un colosso, trover&agrave; nella reattivit&agrave; fisica un punto di forza del suo modo di giocare che, nella narrazione tramandata dai suoi contemporanei, lo fa apparire addirittura un antesignano di Cristiano Ronaldo. Chi lo vide scendere in campo, infatti, lo raccontava di palleggio sicuro, dotato di un incedere di corsa leggermente oscillante che, in velocit&agrave;, lo rendeva difficilmente contenibile dai difensori opponenti. Oltretutto aveva uno scatto pronto in grado di costruire movimenti potenti e veloci che lo portavano a tiri simili a fucilate, spesso a coronamento di azioni impostate su dribbling ben riusciti. Insomma, un attaccante a tutto tondo che non aveva paura a fronteggiare anche le battaglie pi&ugrave; rudi nelle arene di campi ancora imperfetti.&nbsp; La rivalit&agrave; con Monti&nbsp; &Egrave; passata alla storia la sua feroce rivalit&agrave; con Luisito Monti, soprannominato in Argentina &ldquo;El doble ancho&rdquo; (&ldquo;Armadio a due ante&rdquo;) per la sua ruvida forza fisica, fatta di scontri senza esclusione di colpi, che cominci&ograve; il giorno di ferragosto del 1929, quando il Bologna era in tourn&eacute;e in Sudamerica e Monti sottopose alle sue cure il frizzante Angelo. Ancor pi&ugrave; rusticano il duello che vide i due protagonisti nel corso di Juventus-Bologna del 1&deg; maggio 1932, quando El doble ancho rifil&ograve; una zampata sul ginocchio a uno Schiavio gi&agrave; a terra. Episodi che portarono i due a coltivare una reciproca acredine che solo la saggezza e la capacit&agrave; di mediazione di Vittorio Pozzo riusc&igrave; in qualche modo a ricomporre al fine di avere a disposizione entrambi in quel Mondiale del 1934. Amore in rossobl&ugrave; Angelo era fatto cos&igrave;, era generoso per natura: per il Bologna gioc&ograve; quasi sempre senza percepire alcun ingaggio (al netto delle ultime stagioni, quando ottenne qualche premio e gli venne data una Lancia); fuori dal campo era impossibile riuscire a pagargli il conto al ristorante. Del resto ebbe modo di dichiararlo lui stesso: pur di giocare nel Bologna avrebbe pagato di tasca sua. Un&rsquo;affermazione che anni dopo spinse un altro monumento della storia rossobl&ugrave; ad omaggiarlo: &ldquo;A uno cos&igrave; non gli portavo neanche le scarpe&rdquo;, ebbe a dire di lui Giacomo Bulgarelli. Forse il riconoscimento pi&ugrave; alto alla figura di Angelo Schiavio dopo la vittoria della coppa del mondo del 1934.       

Miglior marcatore di tutti i tempi nella storia rossobl&ugrave;, con cui vinse quattro scudetti, centravanti della formazione che "tremare il mondo fa", il suo gol alla Cecoslovacchia permise agli Azzurri di Vittorio Pozzo di laurearsi campioni del mondo nel 1934

Angelo Schiavio: dal Bologna al tetto Mondiale

La Serie A 2019-2020 &egrave; stata fermata in maniera definitiva dalla FIP, a un mese dalla disputa delle ultime partite, ed &egrave; quindi come se non fosse mai esistita. Lo stop &egrave; stato una soluzione annunciata, visto che molte squadre non hanno quasi pi&ugrave; giocatori e che la pallacanestro senza gli incassi al botteghino non pu&ograve; esistere, mentre sull&rsquo;annullamento si pu&ograve; e si deve discutere: le partite di tre quarti di stagione sono state giocate per finta? I giocatori non sono stati pagati? Il pubblico non ha assistito? Difficile capire la chiusura preconcetta nei confronti della proposta della Virtus Bologna, che certo faceva i suoi interessi ma che comunque non chiedeva lo scudetto a tavolino. Se la Liga ACB si &egrave; presa ancora una settimana di tempo per valutare l&rsquo;idea di un superplayoff in localit&agrave; unica (Tenerife?), davvero non si capisce tutta questa fretta italiana. A meno che questa ufficialit&agrave;, come sostengono gli addetti ai lavori (e livori) non sia servita a molti per giustificare il mancato pagamento di almeno tre mensilit&agrave;. Ma adesso &egrave; gi&agrave; ora di pensare al futuro, sempre che un futuro ci sia visto che lo sport a porte chiuse potrebbe essere uno scenario credibile fino alla fine del 2020. Ufficializzato che lo scudetto non &egrave; stato assegnato e che le retrocessioni sono state abolite, la prossima Serie A ripartir&agrave; come minimo dai 17 club attuali. Che stando a certe situazioni finanziarie e a propositi di autoretrocessione (Pesaro, ad esempio) che stanno circolando, potrebbero scendere a 14. L&rsquo;idea della Lega presieduta da Gandini sarebbe quella di arrivare a 16 coinvolgendo un paio di club di A2 con bacino di utenza significativo: facile pensare subito a Torino, anche se questo significherebbe la fine del rapporto con Sassari. Ma bisogna essere sufficientemente onesti per ammettere che ad oggi sono discorsi basati sul nulla, non sapendo in quale modo si ripartir&agrave;. Eurobasket 2021 diventa Eurobasket 2022 e questo rinvio, nel delirio dei calendari riscritti dal coronavirus, era fra i pi&ugrave; scontati. Il preolimpico di Belgrado, quello con la giovane Italia di Sacchetti impegnata in una missione difficilissima, sar&agrave; dal 22 al 27 giugno 2021. Poi per chi si qualificher&agrave; ci saranno i Giochi Olimpici di Tokyo (dal 23 luglio all&rsquo;8 agosto) e quindi nel 2022 l&rsquo;Europeo, con il girone di Milano (Forum di Assago) previsto per settembre. Parlando solo di sport, per l&#39;Italia in fase di ricostruzione &egrave; una buona notizia. &nbsp; La pallacanestro di fa rubare i giovani pi&ugrave; alti e coordinati dalla pallavolo, ma che problema c&rsquo;&egrave; quando possiamo trovare un bisnonno italiano praticamente a chiunque? L&rsquo;ultimo della lista &egrave; Ethan Happ, buon lungo che per poche partite si &egrave; visto a Cremona in prestito dall&rsquo;Olympiacos. Chiaramente Happ, che il bisnonno italiano pare avercelo veramente, sta portando avanti questo discorso del passaporto per avere pi&ugrave; mercato in Europa, ma considerando statura (2.08), ruolo e stima di Sacchetti, che lo ha voluto e allenato a Cremona, potrebbe entrare nel giro azzurro gi&agrave; nell&rsquo;estate 2021. Stiamo parlando del posto su 12 riservato ai naturalizzati, quello che nello scorso Mondiale era di Brooks e che in futuro potrebbe essere di DiVincenzo. Di certo fra italiani di scuola totalmente americana alla Nico Mannion, italiani con qualche anno in America come Davide Moretti, naturalizzati per matrimonio alla Brooks o per discendenza come sarebbe Happ, la linea della FIP &egrave; tristemente chiara, con la Nazionale destinata a nascondere sotto il tappeto il livello medio dei giocatori italiani. A proposito, Nico Mannion si &egrave; dichiarato per il prossimo draft NBA e quindi la sua carriera universitaria ad Arizona si ferma all&rsquo;ormai classico &lsquo;one and done&rsquo;. &Egrave; convinto di non andare oltre la ventesima chiamata ed in ogni caso pu&ograve; usufruire dei buoni consigli del padre Pace, che quasi lo ha programmato per questa carriera. Il basket di college, soprattutto quello di oggi, non va mitizzato n&eacute; a livello sportivo n&eacute; a livello accademico: se Mannion si sente pronto ha fatto bene a buttarsi nella mischia, oltretutto in un&rsquo;annata senza super-iper-fenomeni.

La Serie A 2019-2020 &egrave; stata fermata in maniera definitiva dalla FIP, a un mese dalla disputa delle ultime partite, ed &egrave; quindi come se non fosse mai esistita. Lo stop &egrave; stato una soluzione annunciata, visto che molte squadre non hanno quasi pi&ugrave; giocatori e che la pallacanestro senza gli incassi al botteghino non pu&ograve; esistere, mentre sull&rsquo;annullamento si pu&ograve; e si deve discutere: le partite di tre quarti di stagione sono state giocate per finta? I giocatori non sono stati pagati? Il pubblico non ha assistito? Difficile capire la chiusura preconcetta nei confronti della proposta della Virtus Bologna, che certo faceva i suoi interessi ma che comunque non chiedeva lo scudetto a tavolino. Se la Liga ACB si &egrave; presa ancora una settimana di tempo per valutare l&rsquo;idea di un superplayoff in localit&agrave; unica (Tenerife?), davvero non si capisce tutta questa fretta italiana. A meno che questa ufficialit&agrave;, come sostengono gli addetti ai lavori (e livori) non sia servita a molti per giustificare il mancato pagamento di almeno tre mensilit&agrave;.  Ma adesso &egrave; gi&agrave; ora di pensare al futuro, sempre che un futuro ci sia visto che lo sport a porte chiuse potrebbe essere uno scenario credibile fino alla fine del 2020. Ufficializzato che lo scudetto non &egrave; stato assegnato e che le retrocessioni sono state abolite, la prossima Serie A ripartir&agrave; come minimo dai 17 club attuali. Che stando a certe situazioni finanziarie e a propositi di autoretrocessione (Pesaro, ad esempio) che stanno circolando, potrebbero scendere a 14. L&rsquo;idea della Lega presieduta da Gandini sarebbe quella di arrivare a 16 coinvolgendo un paio di club di A2 con bacino di utenza significativo: facile pensare subito a Torino, anche se questo significherebbe la fine del rapporto con Sassari. Ma bisogna essere sufficientemente onesti per ammettere che ad oggi sono discorsi basati sul nulla, non sapendo in quale modo si ripartir&agrave;.  Eurobasket 2021 diventa Eurobasket 2022 e questo rinvio, nel delirio dei calendari riscritti dal coronavirus, era fra i pi&ugrave; scontati. Il preolimpico di Belgrado, quello con la giovane Italia di Sacchetti impegnata in una missione difficilissima, sar&agrave; dal 22 al 27 giugno 2021. Poi per chi si qualificher&agrave; ci saranno i Giochi Olimpici di Tokyo (dal 23 luglio all&rsquo;8 agosto) e quindi nel 2022 l&rsquo;Europeo, con il girone di Milano (Forum di Assago) previsto per settembre. Parlando solo di sport, per l&#39;Italia in fase di ricostruzione &egrave; una buona notizia. &nbsp;  La pallacanestro di fa rubare i giovani pi&ugrave; alti e coordinati dalla pallavolo, ma che problema c&rsquo;&egrave; quando possiamo trovare un bisnonno italiano praticamente a chiunque? L&rsquo;ultimo della lista &egrave; Ethan Happ, buon lungo che per poche partite si &egrave; visto a Cremona in prestito dall&rsquo;Olympiacos. Chiaramente Happ, che il bisnonno italiano pare avercelo veramente, sta portando avanti questo discorso del passaporto per avere pi&ugrave; mercato in Europa, ma considerando statura (2.08), ruolo e stima di Sacchetti, che lo ha voluto e allenato a Cremona, potrebbe entrare nel giro azzurro gi&agrave; nell&rsquo;estate 2021. Stiamo parlando del posto su 12 riservato ai naturalizzati, quello che nello scorso Mondiale era di Brooks e che in futuro potrebbe essere di DiVincenzo. Di certo fra italiani di scuola totalmente americana alla Nico Mannion, italiani con qualche anno in America come Davide Moretti, naturalizzati per matrimonio alla Brooks o per discendenza come sarebbe Happ, la linea della FIP &egrave; tristemente chiara, con la Nazionale destinata a nascondere sotto il tappeto il livello medio dei giocatori italiani.  A proposito, Nico Mannion si &egrave; dichiarato per il prossimo draft NBA e quindi la sua carriera universitaria ad Arizona si ferma all&rsquo;ormai classico &lsquo;one and done&rsquo;. &Egrave; convinto di non andare oltre la ventesima chiamata ed in ogni caso pu&ograve; usufruire dei buoni consigli del padre Pace, che quasi lo ha programmato per questa carriera. Il basket di college, soprattutto quello di oggi, non va mitizzato n&eacute; a livello sportivo n&eacute; a livello accademico: se Mannion si sente pronto ha fatto bene a buttarsi nella mischia, oltretutto in un&rsquo;annata senza super-iper-fenomeni. 

La Serie A annullata, la promozione di Torino, Eurobasket 2022, il bisnonno di Happ e la scelta di Mannion...

La fretta contro la Virtus

198 centimetri per 93 chilogrammi di pura anarchia cestistica, estro e sregolatezza uniti ad un talento cristallino innato. Un vincente assoluto, capace di dominare in qualsiasi competizione senza mai accantonare del tutto un low profile che &egrave; per&ograve; solo il primo minuto di un innesco della pi&ugrave; esplosiva e scintillante bomba a orologeria. Un basket fatto di strappi e isolamenti, fulmini disegnati in cielo spalleggiati dal sole di mezzogiorno, insensati attimi di follia che centrano l'obiettivo e che attentano quasi sempre alle squadre avversarie, oltre che alle coronarie dei propri tifosi. Manu &egrave; un assoluto predestinato. Il pap&agrave; Jorge &egrave; allenatore di una squadra locale di Bahia Blanca. I suoi due fratelli maggiori, Sebastian e Leandro, giocano in serie A Argentina, e l'ultimo arrivato in famiglia, come spesso accade, rimane affascinato dalla palla a spicchi. A 10 anni inizia la sua carriera giovanile nella Bahiense del Norte, una trafila di quasi 9 anni che lo porta poi a sbarcare nel mondo professionistico all'inizio della stagione 1995-96 con l'Andino Basket. Esperienza di un anno prima di tornare pi&ugrave; vicino al tepore di casa. Viene messo sotto contratto dall'Estudiantes de Bahia Blanca. Emanuel, per&ograve;, capisce presto che il Sudamerica gli sta stretto. Vuole andare a giocare in Europa. I campionati che attirano di pi&ugrave; la sua attenzione e nei quali vorrebbe andare a fare esperienza sono quello spagnolo, e, ancor di pi&ugrave;, quello italiano, dove da qualche tempo gioca Hugo Sconochini, suo amico e primo sponsor per lo sbarco di Ginobili nello Stivale. Dapprima viene contattato da squadre spagnole, poi arriva la Viola Reggio Calabria ed &egrave; amore a prima vista. Qui Manu dimostra fin da subito le sue doti di Uomo Provvidenza, caratteristica e pregio che risulteranno una costante nella sua carriera. Al primo anno in Europa &egrave; subito promozione dalla A2 alla massima competizione tricolore, il secondo ed ultimo nella compagine calabrese, un trampolino di lancio verso l'Olimpo dei pi&ugrave; forti. Nell'estate, l'argentino viene scelto al numero 58 nel Draft NBA, e il sogno inizia ad assumere forma e concretezza. La Viola, dopo un'annata fantastica, che ricorda i fasti del 1993, termina la stagione come quinta forza del campionato dopo i playoff e arriva ad un passo da una storica semifinale nella postseason. Il nativo di Bahia Blanca &egrave; straripante e attira l'attenzione di una Virtus Bologna alla ricerca di un astro nascente da affiancare a Sasha Danilovic. Il serbo, per&ograve;, prende una decisione che sorprende tutti: a soli 30 anni annuncia il ritiro dal basket giocato. Ginobili invece viene messo sotto contratto dalle V nere per 3 anni, con un&rsquo;opzione per la fuga verso la National Basketball Association al termine dei primi 24 mesi. Il figlio di Jorge conferma la sua predisposizione a stupire sul parquet a suon di trionfi: nel primo anno in Emilia &egrave; un "crack" assoluto e la Virtus vince tutto. Al PalaDozza, nemmeno i pi&ugrave; nostalgici sentono la mancanza di Danilovic. La squadra e l'atmosfera sono magiche. Ettore Messina, che ha voluto fortemente Manu e lo ritrover&agrave; in futuro anche in America, &egrave; un direttore d'orchestra perfetto. Il ragazzo della provincia di Buenos Aires invece, un compositore eccelso che trasforma la sua classe e la sua lucida follia in armi letali per i suoi avversari. Ginobili &egrave; furbo, pieno di personalit&agrave; nonostante la sua giovane et&agrave; e la sua poca esperienza su campi difficili. Sboccia nei momenti duri della partita prendendo in mano la squadra e la trascina al successo, spesso con scelte che mozzano il fiato ai suoi tifosi, per poi tramutare la paura in urla festanti di vittoria. La Virtus Bologna, nel primo anno del ragazzotto ancora nemmeno 24enne, completa il Grande Slam vincendo Scudetto, Coppa Italia ed Eurolega. Il dado &egrave; tratto. Poco importa se il secondo anno si vince &ldquo;solo&rdquo; la Coppa Italia, Emanuel David Ginobili &egrave; pronto per il grande salto e sfrutta l'opzione per volare verso la NBA, direzione San Antonio. L'estate prima dello sbarco negli Stati Uniti &egrave; per&ograve; scottante per il talento di Bahia Blanca: la sua Argentina si ferma solo in finale ai Mondiali contro una Jugoslavia troppo forte. La Selecci&ograve;n, trascinata dal suo numero 5, perde e il sogno iridato si infrange sotto i colpi di Peja Stojakovic, Divac e Bodiroga. Manu viene fermato da un infortunio e manca all'appello proprio nell'ultima partita, non avendo cos&igrave; la possibilit&agrave; di scrivere la storia. Il primo anno in NBA al cospetto di Gregg Popovich sottolinea ancor di pi&ugrave; la caratteristica da talismano di Ginobili, cos&igrave; i suoi Spurs vincono l'anello battendo nelle finali i New Jersey Nets. Il sudamericano &egrave; un sesto uomo versatile e nonostante un rapporto inizialmente difficile con l'allenatore, inizia ad entrare negli schemi della squadra. "Mister Pop" &egrave; un generale di ferro che fiuta la classe cristallina e che quindi accetta il compromesso di avere in squadra un fenomeno che decide momenti fondamentali delle partite, seppur non rispettando sempre alla lettera quello che vorrebbe il suo coach. Nel suo secondo anno inizia a giocare molte pi&ugrave; partite nel quintetto base, e nell'estate seguente la sua Argentina vince l'Oro Olimpico nella finale di Atene contro l'Italia. Quello che &egrave; diventato "El contusion" in NBA, dopo aver mandato i suoi al settimo cielo durante la manifestazione, mostra tutte le sue qualit&agrave; nell'ultimo e decisivo capitolo, giocando una finale da vero condottiero. Ginobili, cos&igrave;, entra definitivamente nella storia ed &egrave; il primo giocatore di sempre nel basket a vincere un titolo Olimpico, la NBA, un titolo europeo e una coppa Nazionale. Nella stagione seguente &egrave; di nuovo titolo NBA. Stavolta da protagonista assoluto con gli altri due componenti dei big Three, Tim Duncan e Tony Parker. Gioca tutte le partite di Regular Season, viene chiamato all'All Star Game e si dimostra un tassello fondamentale nell'organigramma degli Spurs realizzando 20 punti di media nelle Finals contro i soliti Pistons. I texani vincono anche le Finals del 2007, in maniera facile e netta contro i Cleveland Cavaliers di un giovanissimo LeBron James. Nel 2007-08 arriva invece la prima onorificenza nella NBA, vincendo il premio per il miglior sesto uomo dell'anno. Nelle annate successive, i guerrieri di San Antonio sembrano quasi assopirsi per ricaricare le batterie ed essere pronti allo sprint finale delle proprie carriere. Si inanellano risultati altalenanti, fino a che nelle Finals 2013,cadono solo contro lo strapotere fisico e mentale dei Miami Heat di coach Spoelstra. Ginobili viene criticato nelle ultime due gare della serie, perde tanti palloni, sembra quasi stia per spegnersi la luce. L'anno seguente per&ograve;, il destino offre ai ragazzi di Popovich la pi&ugrave; dolce delle vendette. Nel remake delle finali dell'anno precedente, gli Spurs battono per 4-1 gli Heat. Manu gioca una serie completamente folle. Trascina i suoi, a quasi 37 anni, a quello che sar&agrave; l'ultimo trofeo della Dinastia dei "Big Three". Dopo gli ultimi anni di passerella, il 27 agosto 2018 arriva la triste notizia: a 41 anni Emanuel David Ginobili si ritira, ponendo fine, di fatto, al fantastico ciclo dei San Antonio Spurs di Gregg Popovich. Il numero 20 &egrave; stato ritirato dalla squadra texana il 29 marzo scorso per mettere definitivamente in ghiaccio le gesta del cestista argentino pi&ugrave; vincente di sempre.

        198 centimetri per 93 chilogrammi di pura anarchia cestistica, estro e sregolatezza uniti ad un talento cristallino innato. Un vincente assoluto, capace di dominare in qualsiasi competizione senza mai accantonare del tutto un low profile che &egrave; per&ograve; solo il primo minuto di un innesco della pi&ugrave; esplosiva e scintillante bomba a orologeria. Un basket fatto di strappi e isolamenti, fulmini disegnati in cielo spalleggiati dal sole di mezzogiorno, insensati attimi di follia che centrano l'obiettivo e che attentano quasi sempre alle squadre avversarie, oltre che alle coronarie dei propri tifosi. Manu &egrave; un assoluto predestinato. Il pap&agrave; Jorge &egrave; allenatore di una squadra locale di Bahia Blanca. I suoi due fratelli maggiori, Sebastian e Leandro, giocano in serie A Argentina, e l'ultimo arrivato in famiglia, come spesso accade, rimane affascinato dalla palla a spicchi. A 10 anni inizia la sua carriera giovanile nella Bahiense del Norte, una trafila di quasi 9 anni che lo porta poi a sbarcare nel mondo professionistico all'inizio della stagione 1995-96 con l'Andino Basket. Esperienza di un anno prima di tornare pi&ugrave; vicino al tepore di casa. Viene messo sotto contratto dall'Estudiantes de Bahia Blanca. Emanuel, per&ograve;, capisce presto che il Sudamerica gli sta stretto. Vuole andare a giocare in Europa. I campionati che attirano di pi&ugrave; la sua attenzione e nei quali vorrebbe andare a fare esperienza sono quello spagnolo, e, ancor di pi&ugrave;, quello italiano, dove da qualche tempo gioca Hugo Sconochini, suo amico e primo sponsor per lo sbarco di Ginobili nello Stivale. Dapprima viene contattato da squadre spagnole, poi arriva la Viola Reggio Calabria ed &egrave; amore a prima vista. Qui Manu dimostra fin da subito le sue doti di Uomo Provvidenza, caratteristica e pregio che risulteranno una costante nella sua carriera. Al primo anno in Europa &egrave; subito promozione dalla A2 alla massima competizione tricolore, il secondo ed ultimo nella compagine calabrese, un trampolino di lancio verso l'Olimpo dei pi&ugrave; forti. Nell'estate, l'argentino viene scelto al numero 58 nel Draft NBA, e il sogno inizia ad assumere forma e concretezza. La Viola, dopo un'annata fantastica, che ricorda i fasti del 1993, termina la stagione come quinta forza del campionato dopo i playoff e arriva ad un passo da una storica semifinale nella postseason. Il nativo di Bahia Blanca &egrave; straripante e attira l'attenzione di una Virtus Bologna alla ricerca di un astro nascente da affiancare a Sasha Danilovic. Il serbo, per&ograve;, prende una decisione che sorprende tutti: a soli 30 anni annuncia il ritiro dal basket giocato. Ginobili invece viene messo sotto contratto dalle V nere per 3 anni, con un&rsquo;opzione per la fuga verso la National Basketball Association al termine dei primi 24 mesi. Il figlio di Jorge conferma la sua predisposizione a stupire sul parquet a suon di trionfi: nel primo anno in Emilia &egrave; un "crack" assoluto e la Virtus vince tutto. Al PalaDozza, nemmeno i pi&ugrave; nostalgici sentono la mancanza di Danilovic. La squadra e l'atmosfera sono magiche. Ettore Messina, che ha voluto fortemente Manu e lo ritrover&agrave; in futuro anche in America, &egrave; un direttore d'orchestra perfetto. Il ragazzo della provincia di Buenos Aires invece, un compositore eccelso che trasforma la sua classe e la sua lucida follia in armi letali per i suoi avversari. Ginobili &egrave; furbo, pieno di personalit&agrave; nonostante la sua giovane et&agrave; e la sua poca esperienza su campi difficili. Sboccia nei momenti duri della partita prendendo in mano la squadra e la trascina al successo, spesso con scelte che mozzano il fiato ai suoi tifosi, per poi tramutare la paura in urla festanti di vittoria. La Virtus Bologna, nel primo anno del ragazzotto ancora nemmeno 24enne, completa il Grande Slam vincendo Scudetto, Coppa Italia ed Eurolega. Il dado &egrave; tratto. Poco importa se il secondo anno si vince &ldquo;solo&rdquo; la Coppa Italia, Emanuel David Ginobili &egrave; pronto per il grande salto e sfrutta l'opzione per volare verso la NBA, direzione San Antonio.  L'estate prima dello sbarco negli Stati Uniti &egrave; per&ograve; scottante per il talento di Bahia Blanca: la sua Argentina si ferma solo in finale ai Mondiali contro una Jugoslavia troppo forte. La Selecci&ograve;n, trascinata dal suo numero 5, perde e il sogno iridato si infrange sotto i colpi di Peja Stojakovic, Divac e Bodiroga. Manu viene fermato da un infortunio e manca all'appello proprio nell'ultima partita, non avendo cos&igrave; la possibilit&agrave; di scrivere la storia. Il primo anno in NBA al cospetto di Gregg Popovich sottolinea ancor di pi&ugrave; la caratteristica da talismano di Ginobili, cos&igrave; i suoi Spurs vincono l'anello battendo nelle finali i New Jersey Nets. Il sudamericano &egrave; un sesto uomo versatile e nonostante un rapporto inizialmente difficile con l'allenatore, inizia ad entrare negli schemi della squadra. "Mister Pop" &egrave; un generale di ferro che fiuta la classe cristallina e che quindi accetta il compromesso di avere in squadra un fenomeno che decide momenti fondamentali delle partite, seppur non rispettando sempre alla lettera quello che vorrebbe il suo coach. Nel suo secondo anno inizia a giocare molte pi&ugrave; partite nel quintetto base, e nell'estate seguente la sua Argentina vince l'Oro Olimpico nella finale di Atene contro l'Italia. Quello che &egrave; diventato "El contusion" in NBA, dopo aver mandato i suoi al settimo cielo durante la manifestazione, mostra tutte le sue qualit&agrave; nell'ultimo e decisivo capitolo, giocando una finale da vero condottiero. Ginobili, cos&igrave;, entra definitivamente nella storia ed &egrave; il primo giocatore di sempre nel basket a vincere un titolo Olimpico, la NBA, un titolo europeo e una coppa Nazionale. Nella stagione seguente &egrave; di nuovo titolo NBA. Stavolta da protagonista assoluto con gli altri due componenti dei big Three, Tim Duncan e Tony Parker. Gioca tutte le partite di Regular Season, viene chiamato all'All Star Game e si dimostra un tassello fondamentale nell'organigramma degli Spurs realizzando 20 punti di media nelle Finals contro i soliti Pistons. I texani vincono anche le Finals del 2007, in maniera facile e netta contro i Cleveland Cavaliers di un giovanissimo LeBron James. Nel 2007-08 arriva invece la prima onorificenza nella NBA, vincendo il premio per il miglior sesto uomo dell'anno. Nelle annate successive, i guerrieri di San Antonio sembrano quasi assopirsi per ricaricare le batterie ed essere pronti allo sprint finale delle proprie carriere. Si inanellano risultati altalenanti, fino a che nelle Finals 2013,cadono solo contro lo strapotere fisico e mentale dei Miami Heat di coach Spoelstra. Ginobili viene criticato nelle ultime due gare della serie, perde tanti palloni, sembra quasi stia per spegnersi la luce. L'anno seguente per&ograve;, il destino offre ai ragazzi di Popovich la pi&ugrave; dolce delle vendette. Nel remake delle finali dell'anno precedente, gli Spurs battono per 4-1 gli Heat. Manu gioca una serie completamente folle. Trascina i suoi, a quasi 37 anni, a quello che sar&agrave; l'ultimo trofeo della Dinastia dei "Big Three". Dopo gli ultimi anni di passerella, il 27 agosto 2018 arriva la triste notizia: a 41 anni Emanuel David Ginobili si ritira, ponendo fine, di fatto, al fantastico ciclo dei San Antonio Spurs di Gregg Popovich. Il numero 20 &egrave; stato ritirato dalla squadra texana il 29 marzo scorso per mettere definitivamente in ghiaccio le gesta del cestista argentino pi&ugrave; vincente di sempre.        

Con la mano sinistra ha conquistato il mondo. Quattro titoli NBA con San Antonio, un oro olimpico, l&rsquo;Eurolega con la Virtus Bologna: la storia del cestista argentino pi&ugrave; vincente di sempre &nbsp;

Manu Ginobili, “El Diablo mancino”

Attaccare la sua figurina poteva far pensare ai ragazzi degli anni settanta di aver sbagliato collezione, nel breve attimo in cui l&rsquo;odore della colla fresca accompagnava il passaggio dal pacchetto alla pagina dell&rsquo;album Panini. Davvero quello era il centravanti del Bologna 1977-78? E non, piuttosto, l&rsquo;indiscusso re della disco music che contendeva a suon di hit la vetta delle classifiche di tutto il mondo&nbsp;a Rod Stewart e ai Bee Gees? Gi&agrave;, perch&eacute; Gianluca De Ponti, fiorentino classe 1952, ad Alan Sorrenti ci assomigliava davvero. E spesso le sue notti brave a ballare in discoteca se le faceva, anche se lui stesso ha sempre voluto precisare che questo poteva accadere solo la domenica sera o, al massimo, il giorno dopo. Era pur sempre un professionista: magari irrequieto ma pur sempre un calciatore che al suo mestiere ci teneva, pi&ugrave; attaccato al ruolo di centravanti che al soprannome di figlio delle stelle. Lui, che aveva cominciato nell&rsquo;Impruneta con la Fiorentina nel cuore (pi&ugrave; di una volta a quei tempi si fece espellere per poter scappare allo stadio a vedere la Viola), nel calcio che conta ci arriv&ograve; che non era pi&ugrave; ragazzino. In Serie A, infatti, esord&igrave; ventitreenne con la maglia del Cesena: due campionati coi romagnoli prima dell&rsquo;approdo a Bologna e un esordio col botto con la maglia rossobl&ugrave; a San Siro, davanti a quell&rsquo;Inter che non era pi&ugrave; Grande ma stava ponendo le basi della squadra che due anni pi&ugrave; tardi sarebbe tornata a vincere lo scudetto. Un&rsquo;Inter nella quale giocavano Bordon, Facchetti, Oriali, Anastasi e Altobelli affond&ograve; con un tap-in di De Ponti, sfuggito come il vento alla marcatura per andare ad appoggiare in rete un cross dalla destra di Stefano Chiodi, pi&ugrave; fortunato di Gil sul campo, meno fuori. &Egrave; l&rsquo;auspicio che qualcosa sta accadendo nella vita di Gianluca, perch&eacute; sotto le due torri il figlio delle stelle si innamora e mette su famiglia. Il look rimane quello di sempre, le apparizioni in discoteca vanno a scemare, aizzando la curiosit&agrave; morbosa dei giornalisti che, a ogni intervista, gli chiedono se continua a ballare o se &egrave; riuscito a mettere la testa a posto. A Gianluca nasce un figlio quasi subito e, da padre e da calciatore, gli diventa naturale pensare a quel momento, nascosto in qualche piega del futuro, nel quale si vede condurre per mano il proprio bambino sulle scale di una tribuna che sta per svelare la meraviglia abbagliante di un campo di calcio. Magari al Comunale di Firenze, a tifare la Fiorentina come ai tempi dell&rsquo;Impruneta, in un ideale passaggio di consegne alla generazione successiva del patrimonio di emozioni che ogni padre desidera tramandare.&nbsp; ANDATA E RITORNO. Dopo un solo anno Gil deve abbandonare Bologna. Un po&rsquo; di delusione dopo il conseguimento della salvezza e una quota reti stagionale che arriva a sette. De Ponti non &egrave; un top scorer: lui stesso, appena qualche anno fa, si defin&igrave; con troppa severit&agrave; &ldquo;un giocatore mediocre&rdquo;. Per&ograve; in campo d&agrave; sempre l&rsquo;anima: corre, spazia, detta il passaggio, duella coi difensori. Due anni ad Avellino, uno alla Samp a uno ad Ascoli prima del ritorno in rossobl&ugrave;. Anche se il Bologna &egrave; appena retrocesso in B e, complice una situazione societaria disastrosa, retrocede anche l&rsquo;anno successivo. Ma De Ponti rimane perch&eacute; la citt&agrave; gli &egrave; entrata nel cuore. Ed entra definitivamente anche nel cuore di suo figlio, che nel tempo coltiva la passione per il Bologna forse pi&ugrave; di quanto il padre avesse a suo tempo cullato la Fiorentina. &Egrave; lo sliding door di una vita: un padre e un figlio, uniti anche dal calcio, vivranno per sempre il derby dell&rsquo;Appennino tra le mura di casa. Un derby senza astio: cento chilometri di rivalit&agrave; annullati dal frutto dell&rsquo;amore che streg&ograve; il figlio delle stelle negli ormai lontani anni Settanta.

        Attaccare la sua figurina poteva far pensare ai ragazzi degli anni settanta di aver sbagliato collezione, nel breve attimo in cui l&rsquo;odore della colla fresca accompagnava il passaggio dal pacchetto alla pagina dell&rsquo;album Panini. Davvero quello era il centravanti del Bologna 1977-78? E non, piuttosto, l&rsquo;indiscusso re della disco music che contendeva a suon di hit la vetta delle classifiche di tutto il mondo&nbsp;a Rod Stewart e ai Bee Gees? Gi&agrave;, perch&eacute; Gianluca De Ponti, fiorentino classe 1952, ad Alan Sorrenti ci assomigliava davvero. E spesso le sue notti brave a ballare in discoteca se le faceva, anche se lui stesso ha sempre voluto precisare che questo poteva accadere solo la domenica sera o, al massimo, il giorno dopo. Era pur sempre un professionista: magari irrequieto ma pur sempre un calciatore che al suo mestiere ci teneva, pi&ugrave; attaccato al ruolo di centravanti che al soprannome di figlio delle stelle. Lui, che aveva cominciato nell&rsquo;Impruneta con la Fiorentina nel cuore (pi&ugrave; di una volta a quei tempi si fece espellere per poter scappare allo stadio a vedere la Viola), nel calcio che conta ci arriv&ograve; che non era pi&ugrave; ragazzino. In Serie A, infatti, esord&igrave; ventitreenne con la maglia del Cesena: due campionati coi romagnoli prima dell&rsquo;approdo a Bologna e un esordio col botto con la maglia rossobl&ugrave; a San Siro, davanti a quell&rsquo;Inter che non era pi&ugrave; Grande ma stava ponendo le basi della squadra che due anni pi&ugrave; tardi sarebbe tornata a vincere lo scudetto. Un&rsquo;Inter nella quale giocavano Bordon, Facchetti, Oriali, Anastasi e Altobelli affond&ograve; con un tap-in di De Ponti, sfuggito come il vento alla marcatura per andare ad appoggiare in rete un cross dalla destra di Stefano Chiodi, pi&ugrave; fortunato di Gil sul campo, meno fuori. &Egrave; l&rsquo;auspicio che qualcosa sta accadendo nella vita di Gianluca, perch&eacute; sotto le due torri il figlio delle stelle si innamora e mette su famiglia. Il look rimane quello di sempre, le apparizioni in discoteca vanno a scemare, aizzando la curiosit&agrave; morbosa dei giornalisti che, a ogni intervista, gli chiedono se continua a ballare o se &egrave; riuscito a mettere la testa a posto. A Gianluca nasce un figlio quasi subito e, da padre e da calciatore, gli diventa naturale pensare a quel momento, nascosto in qualche piega del futuro, nel quale si vede condurre per mano il proprio bambino sulle scale di una tribuna che sta per svelare la meraviglia abbagliante di un campo di calcio. Magari al Comunale di Firenze, a tifare la Fiorentina come ai tempi dell&rsquo;Impruneta, in un ideale passaggio di consegne alla generazione successiva del patrimonio di emozioni che ogni padre desidera tramandare.&nbsp; ANDATA E RITORNO. Dopo un solo anno Gil deve abbandonare Bologna. Un po&rsquo; di delusione dopo il conseguimento della salvezza e una quota reti stagionale che arriva a sette. De Ponti non &egrave; un top scorer: lui stesso, appena qualche anno fa, si defin&igrave; con troppa severit&agrave; &ldquo;un giocatore mediocre&rdquo;. Per&ograve; in campo d&agrave; sempre l&rsquo;anima: corre, spazia, detta il passaggio, duella coi difensori. Due anni ad Avellino, uno alla Samp a uno ad Ascoli prima del ritorno in rossobl&ugrave;. Anche se il Bologna &egrave; appena retrocesso in B e, complice una situazione societaria disastrosa, retrocede anche l&rsquo;anno successivo. Ma De Ponti rimane perch&eacute; la citt&agrave; gli &egrave; entrata nel cuore. Ed entra definitivamente anche nel cuore di suo figlio, che nel tempo coltiva la passione per il Bologna forse pi&ugrave; di quanto il padre avesse a suo tempo cullato la Fiorentina. &Egrave; lo sliding door di una vita: un padre e un figlio, uniti anche dal calcio, vivranno per sempre il derby dell&rsquo;Appennino tra le mura di casa. Un derby senza astio: cento chilometri di rivalit&agrave; annullati dal frutto dell&rsquo;amore che streg&ograve; il figlio delle stelle negli ormai lontani anni Settanta.       

&ldquo;Gil&rdquo; De Ponti, fiorentino doc, gioc&ograve; al Dall&rsquo;Ara per tre stagioni. Con il figlio, tifoso rossobl&ugrave;, la rivalit&agrave; si scioglie in un abbraccio

Bologna-Fiorentina, la partita del “figlio delle stelle”

Inter-Bologna &egrave; la partita di Beppe Bergomi. Nell&rsquo;annata 1981-82, quella antecedente il Mundial di Spagna, lo Zio realizzava ai rossobl&ugrave; il primo centro nella massima serie: era l&rsquo;ultima stagione alla Pinetina di Eugenio Bersellini e la Beneamata si classific&ograve; al quinto posto, festeggiando per&ograve; la terza coccarda tricolore della Coppa Italia. Il primo campionato da titolare port&ograve; il diciottenne nerazzurro al vittorioso Mundial, dove marc&ograve; nella finalissima il futuro compagno di squadra Karl-Heinz Rummenigge. E sempre contro il Bologna, Bergomi chiuse la sua lunga esperienza nerazzurra, dopo aver vinto un campionato (lo scudetto dei record del 1989), una Coppa Italia (quella del 1982, appunto), una Supercoppa italiana e tre Coppe Uefa (un record: 1991, 1994 e 1998). Il congedo dello Zio arriv&ograve; nel 1998-99, dopo venti anni di militanza: era l&rsquo;annata successiva al Mondiale d&rsquo;Oltralpe. Fu una stagione amara, quella dei nerazzurri, rimasti fuori dall&rsquo;Europa e con quattro allenatori diversi. Bergomi ha disputato l&rsquo;ultima gara il 23 maggio &rsquo;99, con il Bologna ospite a San Siro. L&rsquo;avversario al quale ha realizzato la prima rete in A, nella stagione della prima retrocessione della storia rossobl&ugrave;. E forse era destino che i felsinei tornassero nella massima serie nella stagione 1988-89, quando l&rsquo;Inter conquist&ograve; il tricolore dei record. Antonio Capotosto

Inter-Bologna &egrave; la partita di Beppe Bergomi. Nell&rsquo;annata 1981-82, quella antecedente il Mundial di Spagna, lo Zio realizzava ai rossobl&ugrave; il primo centro nella massima serie: era l&rsquo;ultima stagione alla Pinetina di Eugenio Bersellini e la Beneamata si classific&ograve; al quinto posto, festeggiando per&ograve; la terza coccarda tricolore della Coppa Italia. Il primo campionato da titolare port&ograve; il diciottenne nerazzurro al vittorioso Mundial, dove marc&ograve; nella finalissima il futuro compagno di squadra Karl-Heinz Rummenigge. E sempre contro il Bologna, Bergomi chiuse la sua lunga esperienza nerazzurra, dopo aver vinto un campionato (lo scudetto dei record del 1989), una Coppa Italia (quella del 1982, appunto), una Supercoppa italiana e tre Coppe Uefa (un record: 1991, 1994 e 1998). Il congedo dello Zio arriv&ograve; nel 1998-99, dopo venti anni di militanza: era l&rsquo;annata successiva al Mondiale d&rsquo;Oltralpe. Fu una stagione amara, quella dei nerazzurri, rimasti fuori dall&rsquo;Europa e con quattro allenatori diversi. Bergomi ha disputato l&rsquo;ultima gara il 23 maggio &rsquo;99, con il Bologna ospite a San Siro. L&rsquo;avversario al quale ha realizzato la prima rete in A, nella stagione della prima retrocessione della storia rossobl&ugrave;. E forse era destino che i felsinei tornassero nella massima serie nella stagione 1988-89, quando l&rsquo;Inter conquist&ograve; il tricolore dei record.  Antonio Capotosto

Inter-Bologna, la partita dello zio Bergomi

Un simbolo per Bologna ed il Bologna, centrocampista di grande qualit&agrave;, forse penalizzato in azzurro dalla folta concorrenza che popol&ograve; il panorama italiano negli anni Sessanta. Storia di Giacomo Bulgarelli, bandiera rossoblu. Nasce a Portonovo Medicina il 24 ottobre 1940, e cresce tra i ragazzi del vivaio felsineo. Centrocampista centrale, definito allora mezzala o interno, Bulgarelli debutta in Serie A il 19 aprile 1959 contro il Vicenza, a 18 anni e mezzo. Dotato di classe non comune, il giovane bolognese attira l&rsquo;anno successivo le attenzioni della Nazionale olimpica, tanto da prendere parte ai Giochi di Roma &rsquo;60. Nel Bologna diventa titolare fisso a partire dal campionato 1961-62 e, a fine stagione, arriva la prima soddisfazione importante: viene inserito tra i convocati per la Coppa Rimet in Cile. Ed il primo gettone azzurro giunge nella terza ed inutile gara con la Svizzera. Bulgarelli si mette ad ogni modo in bella mostra e segna una doppietta. Il suo rapporto con la Nazionale si sarebbe rivelato agrodolce. Con la casacca del suo Bologna risulta tra i grandi protagonisti del settimo ed ultimo scudetto vinto nel 1964, dove nello spareggio contro l&rsquo;Inter sfodera una prestazione super. In quegli anni il club emiliano &egrave; tra i pochi club in grado di impensierire la Grande Inter di Herrera, ed il nostro si afferma definitivamente tra i migliori giocatori italiani. Il suo status si consolida anche in azzurro nel quadriennio tra il Mondiale cileno e quello inglese. Nell&rsquo;ultima amichevole prima della partenza, Bulgarelli realizza una doppietta nel 5-0 al Messico. E si arriva cos&igrave; ad un&rsquo;altra beffa storica per l&rsquo;Italia, quella contro la Corea del Nord a Middlesbrough. Per Bulgarelli una doppia sofferenza: schierato ugualmente nonostante un problema al ginocchio da Fabbri, deve lasciare il campo nel primo tempo per la riacutizzazione dell&rsquo;infortunio e lascia la squadra in 10. L&rsquo;Italia va sotto, perde e torna a casa tra le polemiche. Da allora in poi, la mezzala disputa solo altre 2 gare in azzurro chiudendo con 29 presenze e 7 reti. Partecipa da convocato al vittorioso Europeo &rsquo;68, ma senza giocare. Valcareggi impone De Sisti in mezzo al campo, per lui non ci sar&agrave; pi&ugrave; spazio. Continua a difendere la maglia del Bologna con onore, senza pi&ugrave; sfiorare i fasti del decennio precedente, arretrando negli ultimi anni di carriera al centro della difesa. Lascia il campionato italiano al termine del torneo 1974-75, totalizzando 490 partite ufficiali e 56 gol. Il primatista di presenze in maglia rossoblu &egrave; proprio lui. Accetta di disputare 2 gare nella NASL statunitense con gli Hartford Bicentennials, che potrebbero inficiare la sua pertinenza a questa rubrica&hellip;ma come non dedicare una pagina ad una bandiera della sua grandezza? Lasciato l&rsquo;agonismo lavora come direttore sportivo per Modena, Pistoiese, il suo Bologna, Catania e Palermo. Diventa un apprezzato commentatore televisivo inizialmente per TeleMontecarlo negli anni &rsquo;90. Passa poi a Mediaset e alla RAI, dove affianca Pizzul come seconda voce delle gare azzurre al Mondiale 2002. Comunque gi&agrave; celebre tra le vecchie generazioni, si fa conoscere anche tra i pi&ugrave; giovani grazie alle telecronache del videogioco FIFA tra il 1998 ed il 2002 insieme a Massimo Caputi. Un tumore lo porta via il 12 febbraio 2009, all&rsquo;et&agrave; di 68 anni. Bologna dichiara il lutto cittadino, mai accaduto prima per una personalit&agrave; sportiva. Per iniziativa dell&rsquo;amico e collega Luigi Colombo, viene istituito il &ldquo;Premio Bulgarelli Number 8&rdquo;, patrocinato anche dall&rsquo;AIC e dalla FiFPro, assegnato alla mezzala pi&ugrave; completa dell&rsquo;anno a livello internazionale. Il Bologna ha creato una borsa di studio a lui intitolata per premiare un calciatore delle giovanili distintosi per &ldquo;sportivit&agrave;, correttezza e lealt&agrave;&rdquo;. Come lo salutava il capotifoso Gino Villani all&rsquo;ingresso sul terreno del Dall&rsquo;Ara, &ldquo;Onorevole Giacomino, salute!&rdquo;. Fabio Ornano Gi&agrave; pubblicati: <a href="http://blog.guerinsportivo.it/calcio/2015/07/31/bandiere-al-vento-tony-adams" target="_blank">Tony Adams</a>, <a href="http://blog.guerinsportivo.it/calcio/2015/08/08/bandiere-al-vento-aurelio-scagnellato" target="_blank">Aurelio Scagnellato</a>, <a href="http://blog.guerinsportivo.it/blog/guerin-sportivo/2015/08/15/bandiere-al-vento-ricardo-bochini" target="_blank">Ricardo Bochini</a>, <a href="http://blog.guerinsportivo.it/calcio/2015/08/22/bandiere-al-vento-giovanni-de-pra" target="_blank">Giovanni De Pr&agrave;</a>, <a href="http://blog.guerinsportivo.it/calcio/2015/08/29/bandiere-al-vento-sandro-mazzola" target="_blank">Sandro Mazzola</a>, <a href="http://blog.guerinsportivo.it/calcio/2015/09/05/bandiere-al-vento-julen-guerrero" target="_blank">Julen Guerrero</a>, <a href="http://blog.guerinsportivo.it/calcio/2015/09/12/bandiere-al-vento-franco-baresi" target="_blank">Franco Baresi</a>, <a href="http://blog.guerinsportivo.it/calcio/2015/09/19/bandiere-al-vento-santiago-bernabeu" target="_blank">Santiago Bernab&eacute;u</a>, <a href="http://blog.guerinsportivo.it/calcio/2015/09/26/bandiere-al-vento-angelo-schiavio" target="_blank">Angelo Schiavio</a>, <a href="http://blog.guerinsportivo.it/calcio/2015/10/03/bandiere-al-vento-lev-jascin" target="_blank">Lev Jascin</a>, <a href="http://blog.guerinsportivo.it/calcio/2015/10/10/bandiere-al-vento-giampiero-boniperti" target="_blank">Giampiero Boniperti</a>, <a href="http://blog.guerinsportivo.it/calcio/2015/10/17/bandiere-al-vento-gary-neville-ryan-giggs-e-paul-scholes" target="_blank">Gary Neville, Ryan Giggs e Paul Scholes</a>, <a href="http://blog.guerinsportivo.it/calcio/2015/10/24/bandiere-al-vento-nilton-santos" target="_blank">Nilton Santos</a>, <a href="http://blog.guerinsportivo.it/calcio/2015/10/31/bandiere-al-vento-i-campioni-della-gloriosa-pro-vercelli" target="_blank">i campioni della Pro Vercelli</a>. &nbsp;

Un simbolo per Bologna ed il Bologna, centrocampista di grande qualit&agrave;, forse penalizzato in azzurro dalla folta concorrenza che popol&ograve; il panorama italiano negli anni Sessanta. Storia di Giacomo Bulgarelli, bandiera rossoblu. Nasce a Portonovo Medicina il 24 ottobre 1940, e cresce tra i ragazzi del vivaio felsineo. Centrocampista centrale, definito allora mezzala o interno, Bulgarelli debutta in Serie A il 19 aprile 1959 contro il Vicenza, a 18 anni e mezzo. Dotato di classe non comune, il giovane bolognese attira l&rsquo;anno successivo le attenzioni della Nazionale olimpica, tanto da prendere parte ai Giochi di Roma &rsquo;60. Nel Bologna diventa titolare fisso a partire dal campionato 1961-62 e, a fine stagione, arriva la prima soddisfazione importante: viene inserito tra i convocati per la Coppa Rimet in Cile. Ed il primo gettone azzurro giunge nella terza ed inutile gara con la Svizzera. Bulgarelli si mette ad ogni modo in bella mostra e segna una doppietta. Il suo rapporto con la Nazionale si sarebbe rivelato agrodolce. Con la casacca del suo Bologna risulta tra i grandi protagonisti del settimo ed ultimo scudetto vinto nel 1964, dove nello spareggio contro l&rsquo;Inter sfodera una prestazione super. In quegli anni il club emiliano &egrave; tra i pochi club in grado di impensierire la Grande Inter di Herrera, ed il nostro si afferma definitivamente tra i migliori giocatori italiani. Il suo status si consolida anche in azzurro nel quadriennio tra il Mondiale cileno e quello inglese. Nell&rsquo;ultima amichevole prima della partenza, Bulgarelli realizza una doppietta nel 5-0 al Messico. E si arriva cos&igrave; ad un&rsquo;altra beffa storica per l&rsquo;Italia, quella contro la Corea del Nord a Middlesbrough. Per Bulgarelli una doppia sofferenza: schierato ugualmente nonostante un problema al ginocchio da Fabbri, deve lasciare il campo nel primo tempo per la riacutizzazione dell&rsquo;infortunio e lascia la squadra in 10. L&rsquo;Italia va sotto, perde e torna a casa tra le polemiche. Da allora in poi, la mezzala disputa solo altre 2 gare in azzurro chiudendo con 29 presenze e 7 reti. Partecipa da convocato al vittorioso Europeo &rsquo;68, ma senza giocare. Valcareggi impone De Sisti in mezzo al campo, per lui non ci sar&agrave; pi&ugrave; spazio. Continua a difendere la maglia del Bologna con onore, senza pi&ugrave; sfiorare i fasti del decennio precedente, arretrando negli ultimi anni di carriera al centro della difesa. Lascia il campionato italiano al termine del torneo 1974-75, totalizzando 490 partite ufficiali e 56 gol. Il primatista di presenze in maglia rossoblu &egrave; proprio lui. Accetta di disputare 2 gare nella NASL statunitense con gli Hartford Bicentennials, che potrebbero inficiare la sua pertinenza a questa rubrica&hellip;ma come non dedicare una pagina ad una bandiera della sua grandezza? Lasciato l&rsquo;agonismo lavora come direttore sportivo per Modena, Pistoiese, il suo Bologna, Catania e Palermo. Diventa un apprezzato commentatore televisivo inizialmente per TeleMontecarlo negli anni &rsquo;90. Passa poi a Mediaset e alla RAI, dove affianca Pizzul come seconda voce delle gare azzurre al Mondiale 2002. Comunque gi&agrave; celebre tra le vecchie generazioni, si fa conoscere anche tra i pi&ugrave; giovani grazie alle telecronache del videogioco FIFA tra il 1998 ed il 2002 insieme a Massimo Caputi. Un tumore lo porta via il 12 febbraio 2009, all&rsquo;et&agrave; di 68 anni. Bologna dichiara il lutto cittadino, mai accaduto prima per una personalit&agrave; sportiva. Per iniziativa dell&rsquo;amico e collega Luigi Colombo, viene istituito il &ldquo;Premio Bulgarelli Number 8&rdquo;, patrocinato anche dall&rsquo;AIC e dalla FiFPro, assegnato alla mezzala pi&ugrave; completa dell&rsquo;anno a livello internazionale. Il Bologna ha creato una borsa di studio a lui intitolata per premiare un calciatore delle giovanili distintosi per &ldquo;sportivit&agrave;, correttezza e lealt&agrave;&rdquo;. Come lo salutava il capotifoso Gino Villani all&rsquo;ingresso sul terreno del Dall&rsquo;Ara, &ldquo;Onorevole Giacomino, salute!&rdquo;.  Fabio Ornano  Gi&agrave; pubblicati: Tony Adams, Aurelio Scagnellato, Ricardo Bochini, Giovanni De Pr&agrave;, Sandro Mazzola, Julen Guerrero, Franco Baresi, Santiago Bernab&eacute;u, Angelo Schiavio, Lev Jascin, Giampiero Boniperti, Gary Neville, Ryan Giggs e Paul Scholes, Nilton Santos, i campioni della Pro Vercelli.  &nbsp;

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