        Quattro stagioni e mezza con la maglia della Lazio, iniziate tra mille difficolt&agrave;, proseguite con una crescita esponenziale e concluse con la vittoria di una Coppa Italia e la fascia di capitano. Poi il passaggio all&rsquo;Inter, vivendo una storia simile: problemi fisici e di ambientamento che ne hanno limitato l&rsquo;esplosione, i prestiti, il ritorno alla base e la capacit&agrave; di mettersi in evidenza, recitando un ruolo fondamentale nella vittoria di uno scudetto. Cesar Aparecido Rodrigues (ribattezzato Cesaretto nella Capitale) ha lasciato il segno con le maglie di Lazio e Inter. Arriv&ograve; in Italia l&rsquo;estate del 2001, fortemente voluto da Sergio Cragnotti. &ldquo;Il presidente viveva dal luned&igrave; al venerd&igrave; in Brasile, poi tornava a Roma. Era in contatto con diversi osservatori, anche se poi preferiva spesso acquistare i calciatori argentini. Venni proposto alla Lazio e dopo esser stato visto dal direttore sportivo Nello Governato, fui acquistato&rdquo;. L&rsquo;inizio non fu facile, vero?  &ldquo;I metodi di allenamento europei erano completamente diversi rispetto a quelli a cui ero abituato. E anche il ritmo di gioco. In Brasile si giocava dinamicamente e con la palla tra i piedi. Il livello tattico non era paragonabile a quello italiano. Anche il ruolo a cui ero abituato, il terzino, era concepito in modo diverso&rdquo;. Le cose cambiarono con Mancini in panchina? &ldquo;Ha avanzato il mio raggio di azione, ha creduto in me. Mi ha dato fiducia e io l&rsquo;ho ripagato: ho giocato terzino, esterno di centrocampo e a volte anche attaccante. &Egrave; stato fondamentale per me, sia alla Lazio che all&rsquo;Inter&rdquo;. Il momento pi&ugrave; bello vissuto nella Lazio? &ldquo;I due anni con Roberto Mancini in panchina, che si sono conclusi con la vittoria della Coppa Italia a Torino contro la Juventus e il gol nel derby. Quel giorno affrontammo la Roma con una squadra che era in grandissima difficolt&agrave;. Avevamo cambiato da poco l&rsquo;allenatore, avevamo tantissime assenze. Non so se nella storia dei derby la Lazio si sia mai presentata in quelle condizioni: i problemi societari, la classifica che era pericolante. Vincere quel derby fu fantastico&rdquo;. Quel gol segnato alla Roma &egrave; rimasto nel cuore dei tifosi. &ldquo;Io non mi sono reso subito conto di aver segnato. L&rsquo;ho capito vedendo la curva che impazziva e la rete che si &egrave; gonfiata. Ma l&rsquo;ho capito un secondo dopo. Ancora oggi, quando riguardo quel gol, mi rendo conto della difficolt&agrave; di quel gesto tecnico: calciare la palla in quel modo, tenerla bassa&rdquo;. A gennaio del 2006 il passaggio all&rsquo;Inter. &ldquo;All&rsquo;inizio ho trovato le stesse difficolt&agrave; vissute quando arrivai alla Lazio. Ero reduce da un infortunio fastidioso, lasciai Roma, con un clima piacevole per arrivare a Milano, che era stata colpita dalla nevicata pi&ugrave; intensa degli ultimi anni. Il freddo, la tanta concorrenza: per me non fu facile. Poi per&ograve; mi sono divertito&rdquo;. Appiano Gentile sembrava una piccola Formello? &ldquo;Questo aiut&ograve; il mio inserimento: Mancini, Mihajlovic, Stankovic, Favalli, tutto lo staff sanitario che conoscevo benissimo. L&rsquo;Inter &egrave; sempre stata una squadra che ha legato il suo destino alla Lazio. Molti calciatori che hanno fatto bene a Roma poi sono passati a Milano, senza dimenticare il gemellaggio tra le tifoserie. Inter e Lazio sono le squadre che hanno segnato la mia storia. I biancocelesti mi hanno permesso di arrivare in Italia e hanno creduto in me. Con i nerazzurri ho vinto lo scudetto e ho giocato in un club fortissimo&rdquo;. Il segreto di quella squadra? &ldquo;La mentalit&agrave;. Mancini pretendeva il massimo. In campo e negli allenamenti. Io mi allenavo contro gente come Zanetti, come Mihajlovic, come Ibrahimovic. Quanti ne trovavo pi&ugrave; forti nelle altre squadre? Pochi, ma arrivavo alla partita conscio che, affrontare Cafu o un altro calciatore era esattamente la stessa cosa. L&rsquo;Inter &egrave; cresciuta quando ha iniziato a ragionare cos&igrave;. E la vittoria di Parma, con lo scudetto fu una soddisfazione grandissima&rdquo;.&nbsp;       

Arrivato in Italia sulla sponda biancoceleste del Tevere, &egrave; stato uno dei pupilli di Mancini, che lo ha portato con s&egrave; anche a Milano

Cesar Aparecido Rodrigues: l'esterno brasiliano di Lazio e Inter

        Le panche verdi dell'Olimpico, poesia pura di un calcio a misura d'uomo e non di sponsor, un'immagine trovata sui social riapre il cassetto della memoria e fa viaggiare ad occhi chiusi in un mondo che purtroppo non esiste pi&ugrave; ma che era bellissimo. Un mondo fatto con le bandiere cucite dalle mamme e montate sulle canne da pesca o i manici da scopa, "alimentato" dai panini con la frittata per il pranzo fugace da consumarsi allo stadio dove si andava tre ore prima per conquistare "li mejo posti". Uno stadio imponente, col travertino bianco e quelle panche verdi da dividere con i compagni di fede e dove il capotifoso Luciano in piedi sul Muretto cantava "Mi sono innamorato di Marina" e tutta la Curva gli rispondeva ondeggiando "Marina Marina Marinaaaa...". Con Leonida con i capelli lunghi da santone indiano che benediceva la folla dal parterre mentre il Tassinaro leggeva le formazioni delle squadre in campo dal giornale "Lancio". Pulici Petrelli Martini, Wilson Oddi Nanni, Garlaschelli Re Cecconi, Chinaglia Frustalupi D'Amico.  Con l'arancio-birra-coca-caff&egrave; Borghetti di Gasperino che stava ovunque mentre le visiere dell'Amaro Cora e le pagliette del Rosso antico proteggevano in Tevere dal sole abbagliante. Con la pioggia che scivolava dagli ombrelli e colava nel collo di quelli seduti davanti, gli altoparlanti che diffondevano a tutta callara "Amica mia" di Guido Renzi e le invadenti pubblicit&agrave; che diventavano tormentoni mentre l'uomo Candela girava nella pista.  Bernabei il primo ottico di Roma per il portiere distratto, l'arbitro che vede male, Ottica Bernabei, il primo ottico del Corso, Vuoi un consiglio franco? D'amico? Riso Mercurio di Franco D'Amico, &egrave; Pallini un gran Mistr&agrave; (al caff&egrave; d&agrave; l'allegria), &egrave; Pallini un gran Mistr&agrave; (rende l'acqua spiritosa), &egrave; Pallini un gran Mistr&agrave; (e poi liscio &egrave; una gran cosa), &egrave; Pallini un gran Mistr&agrave; e beato chi lo beve, fortunato chi lo sa!&nbsp; Bevi con noi, brinda con noi, col Cavallino Rosso, la Pirampepe regaler&agrave; in omaggio uno dei macinini che macinano le spezie l&igrave; per l&igrave;, diffidate dalle imitazioni esigete spezie Pirampepe e se la squadra del vostro cuore ha vinto brindate con Stock, se ha perso consolatevi con Stock e se ha pareggiato? Stock 84 di Trieste, che presenta "Tutto il calcio minuto per minuto". Dallo studio centrale Roberto Bortoluzzi, da San Siro per Inter-Milan Enrico Ameri e da Roma per Lazio-Cagliari Sandro Ciotti, mentre i tifosi cantavano felici: "l'avemo imbottijati oh oh/ cor vino de Frascati oh oh oh/ con l'acqua de Bologna/ oh che vergogna!".&nbsp;  Come erano belle quelle panche verdi dell'Olimpico quando si andava alla partita col vestito buono e il calcio si giocava solo la domenica e alla stessa ora perch&egrave; lo spezzatino era solo quello al sugo della Carbonara a Campo de Fiori, 'na squisitezza...&nbsp;&nbsp;       

Gli spot pubblicitari prima del match, i personaggi storici e un clima unico che purtroppo non c'&egrave; pi&ugrave;: tutto quello che fece da cornice allo stupendo trionfo del primo scudetto biancoceleste

Lazio 1974, una vittoria leggendaria tra i ricordi del vecchio Olimpico

        &Egrave; da poco iniziato il nuovo millennio e il campionato di Serie A &egrave; un serbatoio di campioni che tutt&rsquo;oggi ancora rimpiangiamo. A Roma, il 25 marzo 2000, si gioca il derby di ritorno. La cornice di pubblico &egrave; quella delle grandi occasioni con 74.000 tifosi che infiammano l&rsquo;Olimpico. Le squadre arrivano al match con morali diversi: la Roma nel turno precedente ha incassato una pesante sconfitta casalinga contro la Reggina; la Lazio, nonostante la caduta a Verona per mano di Morfeo, proviene dalla vittoria di Londra in Champions League con il Chelsea e vuole riaprire il discorso scudetto. La Juventus capolista ha infatti perso nell&rsquo;anticipo del venerd&igrave; contro il Milan. Shevchenko &ndash; che a fine torneo sar&agrave; capocannoniere con 24 reti &ndash; con una doppietta ha affossato i bianconeri. La Juve resta a +9, ma con una vittoria i biancocelesti rientrerebbero prepotentemente in corsa, visto anche lo scontro diretto in programma nel turno successivo.  Lazio-Roma, quante stelle in campo I due tecnici schierano formazioni con caratteristiche differenti. Eriksson opta per un prudente 4-5-1 affidando la retroguardia ai centrali Negro e Couto, che devono sopperire le pesanti assenze di Nesta e Mihajlovic. Proprio il serbo, dopo la dolorosa sconfitta subita all&rsquo;andata per 4-1, in attesa del derby e a insaputa dei tifosi ha deciso di caricare la squadra a modo suo, esponendo un cartello negli spogliatoi di Formello per tutta la settimana: &ldquo;A volte le aquile scendono al livello delle galline, ma una gallina non potr&agrave; mai volare in alto come un&rsquo;aquila&rdquo;. A centrocampo Conceicao e Nedved agiscono sulle corsie; Almeyda, Simeone e Veron al centro, con &ldquo;La Brujita&rdquo; pi&ugrave; libera di svariare per dare appoggio all&rsquo;unica punta Inzaghi. Risponde Capello con un pi&ugrave; offensivo 3-4-3. Lupatelli &ndash; al debutto in A &ndash; &egrave; il portiere; Zago, Aldair e Mangone i tre centrali; in mediana la fantasia e la corsa di Nakata e Di Francesco con il pendolino Cafu a destra e il francese Candela a sinistra. Davanti Totti-Delvecchio-Montella.  Nedved e Veron ribaltano il vantaggio firmato Montella Inizia il match e i giallorossi passano subito. Delvecchio calcia addosso a Marchegiani: sul seguente corner &egrave; Montella a portare avanti i suoi in spaccata. La Roma continua a spingere chiudendo i biancocelesti nella propria met&agrave; campo. Tra le aquile sembrano riemergere i fantasmi dell&rsquo;andata, ma il calcio &egrave; strano e imprevedibile. Passano i minuti, la gara &egrave; molto spezzettata, in campo i giocatori se le danno di santa ragione. Veron sfiora la traversa di testa e improvvisamente la partita cambia. Al 25&rsquo; Pancaro serve Inzaghi, la sponda dell&rsquo;ex Piacenza &egrave; sporca ma efficace: come una furia arriva Nedved che prima cicca e poi mette dentro. La Roma accusa il colpo e dopo tre minuti concede il bis. L&rsquo;arbitro Messina assegna una punizione dai 25 metri. Come detto non c&rsquo;&egrave; Mihajlovic e sul punto di battuta si presenta Veron. L&rsquo;argentino con l&rsquo;interno destro d&agrave; un violento schiaffo al pallone, il risultato &egrave; una perla assoluta: la sfera termina come un proiettile sotto al sette. Nel finale di tempo ci riprovano i giallorossi, prima con Delvecchio poi con Totti. Proprio nella seconda azione uno scontro tra Marchegiani e il numero 24 giallorosso costringe il portiere al forfait. Al suo posto entra Ballotta.  Aspettando Juve-Lazio, il derby &egrave; biancoceleste A inizio ripresa Capello cambia: fuori Nakata dentro Assuncao. Totti prova a impensierire Ballotta, ma l&rsquo;esperto portiere laziale si fa trovare pronto. Rispondono i biancocelesti con Pancaro che confeziona un prezioso assist per Conceicao, il portoghese arriva sul pallone in precario equilibrio chiamando comunque Lupatelli agli straordinari. La girandola di cambi continua, tra i giallorossi entra anche Tommasi; Eriksson invece sostituisce Inzaghi e il match winner Veron con Boksic &ndash; pi&ugrave; adatto alle ripartenze &ndash; e Sensini &ndash; che garantisce maggiore equilibrio &ndash;. Il tempo stringe, la Roma attacca. Delvecchio si conferma in giornata no quando servito splendidamente dal suo capitano conclude centralmente. Totti ci prova ancora con un tiro a giro che esce di un soffio. Con i giallorossi tutti in avanti Simeone ha sulla testa la chance per chiudere i giochi, ma la sua capocciata termina a lato. Solo sette giorni pi&ugrave; tardi &ndash; su assist di un ispiratissimo Veron &ndash; ammutolir&agrave; il Delle Alpi regalando ai suoi la vittoria chiave per la rimonta scudetto. Messina fischia tre volte dando il via ai festeggiamenti del popolo laziale. Quando mancano solo sette giornate al termine la Juve comanda la classifica con 59 punti; la Lazio insegue a 53&hellip; Lazio-Roma 2-1 del 25 marzo 2000: il tabellino LAZIO (4-5-1): Marchegiani (43&rsquo; pt Ballotta); Gottardi, Negro, Couto, Pancaro; Conceicao, Almeyda, Simeone, Veron (21&rsquo; st Sensini), Nedved; Inzaghi. A DISP.: Lombardo, Mancini, Ravanelli, Salas. ALL.: Eriksson.  ROMA(3-4-3): Lupatelli; Zago, Aldair, Mangone; Cafu (37&rsquo; pt Rinaldi), Di Francesco, Nakata (1&rsquo; st Assuncao), Candela (13&rsquo; st Tommasi); Delvecchio, Totti, Montella. A DISP: Campagnolo, Gurenko, Blasi, Poggi. ALL.: Capello.  ARBITRO: Messina (Bergamo). MARCATORI: 3&rsquo; pt Montella (R), 25&rsquo; pt Nedved (L).        

Il 25 marzo 2000 inizi&ograve; la rimonta scudetto bianceleste: attendendo lo scontro al vertice contro la Juve, battuti 2-1 i giallorossi nella stracittadina grazie alla magia della Brujita&nbsp;

Lazio-Roma: quando la punizione di Veron regalò il derby a Eriksson

        Per farsi un'idea di cosa rappresenti la Lazio per Cristiano Bergodi, basta sentirlo parlare della sua esperienza in maglia biancoceleste. Anni intensi, ricchi di emozioni, che hanno lasciato nel cuore dell'ex difensore, un segno impossibile da cancellare. Bergodi ricorda con straordinaria lucidit&agrave; ogni singolo momento vissuto nella capitale. Quando rievoca partite, gol, scontri e curiosit&agrave;, su sfide giocate pi&ugrave; di trenta anni fa, sembra quasi che siano state disputate ieri. Il suo racconto &egrave; perfetto: non sbaglia una data, un arbitro di una sfida, un minimo particolare. "Perch&egrave; la Lazio per me rappresenta una parte della mia vita. La pi&ugrave; bella, intensa ed emozionante. Ho fatto nove anni a Pescara, tra settore giovanile e prima squadra, ma la Lazio &egrave; altro. &Egrave; la squadra che seguivo da bambino, che mi ha fatto innamorare di questo mondo. Ricordo ancora le partite a bordo campo da raccattapalle. Quando l'estate del 1989 arriv&ograve; la chiamata della Lazio, era un sogno che si avverava".  Cosa ricorda di quel momento? "Non mi dimenticher&ograve; mai la faccia di mio padre. Ero appena tornato a casa da Pescara per le vacanze e lui mi aspettava sulla porta. Aveva appena chiamato il mio procuratore Carpeggiani, per dirmi che il direttore sportivo della Lazio, Regalia, cercava un difensore. Io gli dissi che sarei venuto anche per giocare in porta, se serviva. Inizi&ograve; tutto cos&igrave;". La sua avventura a Roma &egrave; durata sette anni. "Mi sono tolto grandi soddisfazioni. Ho giocato titolare in squadre che sono arrivate seconde e terze, ma al di l&agrave; dei risultati sportivi, la Lazio rappresenta la pagina pi&ugrave; bella della mia vita". Lei ha fatto parte di una difesa che per anni ha regalato numeri importanti. "Fiori, Bergodi, Sergio, Pin, Gregucci, Sold&agrave;. Sembra quasi una poesia, un ritornello di una canzone. Le rose di allora non sono come quelle di oggi: erano pi&ugrave; strette e noi abbiamo giocato per tre o quattro anni insieme. Con Materazzi e Zoff eravamo sempre noi. Ma io non dimentico anche le stagioni con Zeman. Mi sono tolto belle soddisfazioni. Molti erano convinti che non potessi giocare nel suo sistema di gioco, ma sono riuscito a dimostrare il contrario".  Da Zoff a Zeman cosa cambi&ograve; per lei? "Con Zoff giocavo terzino: Gregucci e Sold&agrave; erano al centro, io a destra e Sergio a sinistra, mentre con Zeman facevo il centrale. Il ruolo che ricoprivo a Pescara. Il mister mi alternava a Chamot e Cravero. L'argentino era il pi&ugrave; veloce di tutti, io il marcatore e Cravero quello bravo tecnicamente. Il primo anno di Zeman &egrave; stato indimenticabile". Cosa ricorda di quell'anno? "Che giocai tantissime partite da capitano; arrivammo secondi in campionato e ai quarti di finale di Coppa Uefa. I tifosi invasero Dortmund. Quella gara fu bellissima, perch&egrave; dai tempi della Lazio di Chinaglia, fu la prima, vera partita di un certo rilievo. Peccato che accadde di tutto". Il gol nel finale di Riedle? "Non solo. Quella trasferta inizi&ograve; in modo meraviglioso: l'invasione di tifosi, lo stadio pieno. Giocammo contro un Borussia fortissimo; Riedle, Chapuisat, Sammer che era Pallone d'oro. All'andata vincemmo 1-0 con un'autorete e potevamo segnare tanti gol. Al ritorno l'arbitro, il signor Wagner, ce ne fece di tutti i colori. Non ci diede un rigore nettissimo per fallo su Casiraghi, poi espulse ingiustamente Chamot all'ultima azione e noi prendemmo gol perch&egrave; ci mancava un marcatore in area. Chamot doveva marcare Riedle. Un'ingiustizia".  Capitolo derby? "Il primo l'ho vissuto da raccattapalle. I tifosi della Lazio portarono dentro lo stadio una gallina, con i simboli della Roma. Non ho mai capito come fecero. Dentro di me pensavo a quanto sarebbe stato bello giocarlo in campo. Io mi caricavo a 2000. Per me era la partita dell'anno: quella che non si poteva sbagliare. Quando arrivavi allo stadio e passavi a via dei Gladiatori, vedevi tutti i tifosi: laziali e romanisti. E capivi che non potevi sbagliare. L'adrenalina era al massimo". Erano i derby di Bergodi contro Giannini. "Lui era un grande giocatore, con una carriera in Nazionale. Ci fu un attrito nella gara d'andata della stagione 1994-95. Noi eravamo favoriti, ma loro vinsero 3-0 con gol di Balbo, Cappioli e Fonseca ed esultarono in modo esagerato in casa nostra. Ci presero in giro. Il 23 aprile del 1995 ci fu la gara di ritorno e noi ci vendicammo. Entrai nell'azione del primo gol. Fuser batt&egrave; il corner, Cervone smanacci&ograve; e io feci una rovesciata; Casiraghi ne fece un'altra e segn&ograve;: un gol mai visto. Ricordo che un fotografo mi immortal&ograve; mentre esultavo verso la Curva Nord urlando e togliendomi la maglia. Un'immagine bellissima che conservo ancora".  Non fu l'unico derby a regalarle emozioni "Negli anni Novanta affrontavamo la Roma dei tedeschi campioni del mondo: H&auml;ssler, V&ouml;ller, Berthold. Noi avevamo Riedle, Doll. I derby erano tiratissimi e spesso finivano in parit&agrave;. Ne pareggiammo uno in nove contro dieci. Espulsi Sold&agrave; e Sclosa per noi e Desideri per loro, da Pairetto. Io salvo sulla linea un tiro di Aldair che aveva superato Fiori. Nell'azione dopo Sosa fa gol in scivolata, anticipando Tempestilli, sotto la sud. Mamma mia che bello. Poi ci fu il derby di Gazza, che valse come una vittoria. Quello del fallo di mano di Lanna. Ma ne ricordo anche un altro: quello in cui Signori fece gol sotto la nebbia. Io fui costretto ad abbandonare il campo per un fallaccio del povero Sinisa Mihajlovic. Mi sono rotto il primo metatarso. Portai il gesso per due mesi, ma fu uno spettacolo. Il gol, il rigore parato a Giannini". La sua partita pi&ugrave; bella? "Al Flaminio, Lazio-Napoli contro Maradona, il 30 dicembre del 1989. Io partecipai all'azione del primo gol di Amarildo. Poi nella ripresa segn&ograve; Pin e fece un altro gol il brasiliano. Era il Napoli che vinse lo scudetto a fine anno. Ma ne ricordo altre: il pareggio a Firenze con Zeman nel 1994 quando segnai allo scadere, ad esempio. Entrai quando espulsero Chamot. Poi il 2-2 all'Olimpico con il Milan. Eravamo sotto 2-0, feci gol di testa, in tuffo nel finale (su assist di Stroppa, ndr)". Nella sua carriera c'&egrave; anche il Cluj? "Una bellissima esperienza. Arrivai sulla panchina del club e chiusi al terzo posto in classifica. Prima avevo guidato il National di Bucarest. Ero reduce dalle avventure come vice di Caso alla Lazio e di Gregucci a Lecce. Ci fu questa occasione e la presi al volo. Qui in Romania mi trovo benissimo e sono molto apprezzato. Il Cluj ha avuto una grande crescita: &egrave; passato dalla terza divisione alla serie A ed ora ha vinto gli ultimi cinque scudetti".        

L'ex difensore e capitano biancoceleste ha guidato anche la squadra romena: &ldquo;Indimenticabili i derby. L&igrave; sono molto apprezzato&rdquo;

Cluj-Lazio, Bergodi: "La Coppa Uefa, Zeman e la mia Romania"

        Due stagioni a Bergamo con la maglia dell&rsquo;Atalanta, sei a Roma, vestendo i colori biancocelesti. Ousmane Dabo &egrave; legato a doppio filo ai due club. A Bergamo ha vissuto la prima, vera stagione da protagonista in Serie A, diventando leader del centrocampo nerazzurro; con la Lazio ha vinto tre trofei, ha giocato in Champions League e si &egrave; tolto la soddisfazione di segnare il rigore decisivo in una finale di Coppa Italia, accostando per sempre il suo nome a quello del club biancoceleste. "&Egrave; una bella soddisfazione &ndash; dichiara &ndash; sapere a distanza di tanti anni di essere ricordato con affetto, fa piacere. Lo vedo ogni volta che vengo a Roma e dai messaggi che mi arrivano sui social. I tifosi della Lazio sono sempre stati molto vicini a me". Dabo &egrave; arrivato in Italia giovanissimo, poco pi&ugrave; che ventenne, scoperto dall&rsquo;Inter. I nerazzurri lo fanno esordire, poi lo mandano in giro per fare esperienza: Vicenza, Parma, il Monaco. L&rsquo;estate del 2001, entra in scena l&rsquo;Atalanta. "&Egrave; stata la prima squadra che mi ha permesso di trovare stabilit&agrave;. Prima dell&rsquo;esperienza a Bergamo giravo di club in club: un anno, sei mesi, senza riuscire a giocare con continuit&agrave;. L&rsquo;Atalanta invece mi ha dato fiducia".  Che squadra era la sua Atalanta? "Era una buona squadra, guidata da Vavassori. Un mix di giovani e calciatori di esperienza. C&rsquo;era Luciano Zauri, che poi &egrave; venuto con me alla Lazio e tanti buoni elementi: Doni, Sala, Comandini, Rossini. Un bel gruppo, con giocatori di livello". Cosa ricorda di quell&rsquo;esperienza? "Che ho segnato con regolarit&agrave;: se non ricordo male il secondo anno feci addirittura quattro gol in campionato. Purtroppo per&ograve; ho chiuso la mia esperienza a Bergamo con una grande delusione". Quale? "La retrocessione in Serie B. Perdemmo lo spareggio con la Reggina. Di quell&rsquo;anno ho ricordi contrastanti, perch&eacute; credo sia stata in assoluto la mia migliore stagione in Serie A, ma aver chiuso con la retrocessione &egrave; stato un duro colpo". L&rsquo;estate del 2003 arriva la Lazio. "La buona stagione all&rsquo;Atalanta mi ha permesso di tornare, dopo l&rsquo;esperienza all&rsquo;Inter, in una squadra di livello. Sono arrivato a Roma e c&rsquo;erano campioni come Stam, Mihajlovic, Claudio Lopez, Peruzzi e Mancini come allenatore. Un altro mondo. Ma la cosa che mi colp&igrave; subito fu la compattezza della squadra. Giocatori che ancora oggi sento e che mi fa piacere rivedere: Giannichedda, Corradi, Fiore, Fernando Couto, Liverani. Siamo riusciti a formare un gruppo unito".  In un periodo difficile. "La societ&agrave; era in crisi. C&rsquo;era il piano Baraldi, gli stipendi non arrivavano. Ma la squadra era affiatata e grazie a quel gruppo cos&igrave; forte, siamo riusciti ad andare avanti. Il lavoro di Mancini &egrave; stato fondamentale. Lui era molto esigente in campo, bravissimo tatticamente e con i calciatori seppe legare subito: con molti di loro era stato anche compagno di squadra. Con Sinisa, Negro, Favalli aveva condiviso lo spogliatoio da giocatore e riusc&igrave; a ottenere il massimo da tutti". Nel 2004 vincete la Coppa Italia nella doppia finale con la Juve. "Una grande vittoria, emozionante. Poi per&ograve;, a distanza di poche settimane, cambia tutto. Una nuova societ&agrave;, con l&rsquo;arrivo di Lotito, tanti giocatori che vanno via". Lei era uno dei pochi a far parte del ritiro in Giappone, con Caso allenatore. "Eravamo pochissimi: nove giocatori e tanti Primavera. C&rsquo;era grande incertezza, ma io nella mia testa non ho mai pensato di andare via. Mi sentivo bene a Roma e volevo far parte del nuovo progetto".  La svolta, anche per lei, &egrave; arrivata con Delio Rossi. "Non fu facile. All&rsquo;inizio il presidente voleva mandarmi via, per questioni contrattuali. Non giocai tutto l&rsquo;Intertoto, con la squadra che venne eliminata dal Marsiglia. Ma volevo rimanere a tutti i costi; mi sono messo a lavorare tanto e ho trovato spazio. Alla fine sono diventato titolare, giocando con Liverani. C&rsquo;erano anche Firmani e Mudingayi. Facemmo un&rsquo;ottima stagione". Lascia la Lazio, l&rsquo;estate del 2006 per andare al Manchester City, ma torna dopo un anno e mezzo. "In Inghilterra non and&ograve; bene. Tornai alla Lazio in un periodo in cui la squadra era in difficolt&agrave; e, probabilmente, serviva una figura come la mia per ritrovare un po&rsquo; di equilibrio nello spogliatoio. Ho lavorato tanto per far ritrovare serenit&agrave; nel gruppo". E lascia il segno, segnando il gol decisivo nella finale di Coppa Italia 2008-09 contro la Sampdoria. "Una pressione incredibile. Io non volevo calciarlo quel rigore. Anzi, ti dir&ograve; di pi&ugrave;: alla fine dei supplementari volevo uscire, perch&eacute; avevo i crampi. Il mister per&ograve; si oppose e quasi mi costrinse a calciare (ride, ndr). Altrimenti erano rimasti solo i difensori. Ma camminando verso il dischetto sentivo che avrei fatto gol. Era il mio destino: ero tornato a Roma per regalare ai tifosi un trofeo". In realt&agrave; ne ha vinto un altro. "La Supercoppa italiana. Siamo stati l&rsquo;unica squadra a battere l&rsquo;Inter del Triplete di Mourinho. Loro erano fortissimi, ma eravamo a inizio stagione e non stavano benissimo. Una grande vittoria, seppur inaspettata. Il mio regalo d&rsquo;addio, perch&eacute; l&rsquo;ultima stagione ho avuto tanti problemi fisici. Ma &egrave; stato bello chiudere salutando tutti i tifosi della Lazio che mi hanno sempre voluto bene".        

L'ex centrocampista ricorda le esperienze vissute a Bergamo e nella Capitale: "La Dea mi ha dato fiducia, ma quei trofei in biancoceleste..."

Ousmane Dabo, intervista al doppio ex di Lazio e Atalanta

Settantacinque anni e non sentirli. In occasione del suo compleanno, Sven-G&ouml;ran Eriksson apre l&rsquo;album dei ricordi: una carriera straordinaria fatta di successi, avventure e innovazioni. Dagli esordi al Benfica alla prima tappa italiana alla Roma, con lo scudetto perso in extremis: dalle vittorie europee, alla rivincita con la Lazio fino alle esperienze sulle panchine dell&rsquo;Inghilterra, del Messico, della Costa d&#39;Avorio e delle Filippine. La storia del &ldquo;perdente di successo&rdquo; capace di trasformarsi in uno degli allenatori pi&ugrave; vincenti e apprezzati del panorama internazionale. Uno dei primi a ricorrere al turnover e a creare una nuova generazione di allenatori: da Mancini a Mihajlovic, da Nesta a Lampard, fino a Gerrard e Concei&ccedil;ao. Sono tanti gli allievi che hanno dichiarato di ispirarsi a lui come allenatori.    Mister Eriksson, come ci si sente a 75 anni guardandosi alle spalle?  &ldquo;A parte una piccola influenza che mi ha bloccato in questi giorni (ride ndr) bene. E ancora in forma. Sento di poter dare ancora tanto al calcio e mi sto impegnando nel ruolo di Direttore Sportivo. Ora sono in Svezia nel Karlstad BK. E guardo tante partite&rdquo;.  Anche la Serie A?  &ldquo;Certo, il campionato italiano, la Premier, la Liga. Mi piace tenermi aggiornato. Oggi, rispetto a qualche anno fa, &egrave; molto pi&ugrave; facile vedere il football in televisione&rdquo;.  Nella sua carriera pensa di aver ottenuto il massimo o ci sono dei rimpianti?  &ldquo;Se uno si guarda alle spalle &egrave; normale vedere quello che si poteva fare meglio. E di rimpianti se ne trovano sempre tanti. Ma io non sono fatto cos&igrave;. Non sono uno a cui piace guardarsi alle spalle e piangersi addosso. La vita &egrave; bella e va vissuta giorno dopo giorno. E poi credo di aver ottenuto e vinto tanto&rdquo;.    A Roma, prima di trionfare con la Lazio nel 2000, ha perso due scudetti: con la Roma nel 1986 e con i biancocelesti nel 1999. Rimpianti?  &ldquo;Potevo vincere di pi&ugrave;: lo scudetto alla Roma, quello con la Lazio perso alla penultima giornata e soprattutto la Champions League con i biancocelesti. Eravamo una squadra davvero forte e potevamo portare a casa altri trofei&rdquo;.  In biancoceleste per&ograve; ha vinto uno scudetto incredibile.  &ldquo;Soprattutto per come &egrave; arrivato. &Egrave; stato bello, emozionante. Abbiamo fatto felici tanti tifosi che aspettavano da anni di tornare a vincere il campionato. Se penso a quegli anni &egrave; chiaro che, il rammarico c&rsquo;&egrave;, ma anche la gioia e l&rsquo;enorme soddisfazione di aver vinto uno scudetto in modo unico&rdquo;.  Quando ha accettato la panchina dell&rsquo;Inghilterra, pensava che il suo ciclo a Roma si era chiuso?  &ldquo;Era una grande occasione. Un lavoro importante e volevo provare questa avventura. Se ho fatto bene oppure no ad accettarlo e a lasciare la Lazio, non so dirtelo. Ma valeva la pena tentare&rdquo;.    Mancini, Mihajlovic, Nesta, Concei&ccedil;ao. Ha cresciuto un lungo elenco di allenatori.  &ldquo;Ma io ho fatto poco per loro. Erano gi&agrave; allenatori da giocatori. Si vedeva che avevano la stoffa. &Egrave; stato un piacere lavorare con loro e non &egrave; stata una sorpresa vederli protagonisti in panchina&rdquo;.  Su tutti c&rsquo;&egrave; qualcuno che l&rsquo;ha sorpresa?  &ldquo;Dico il contrario: sarei stato sorpreso se Mancini non avesse fatto la carriera che ha poi realizzato. Era la mia guida in campo e si vedeva che ragionava gi&agrave; da allenatore&rdquo;.    Come ha vissuto la malattia e gli ultimi giorni di Sinisa Mihajlovic?  &ldquo;Malissimo. Un dispiacere enorme, che ho vissuto con grande tristezza. Un uomo giovane, forte, non pu&ograve; finire cos&igrave;. Mi dispiace tanto per la sua famiglia. Lo avevo sentito una settimana prima della sua morte e ogni volta che ci penso sento un peso enorme sul cuore&rdquo;.  Con la nazionale inglese poteva fare meglio?  &ldquo;Fare due Mondiali ed uscire entrambe le volte ai quarti di finale &egrave; dura da digerire, ma soprattutto nel 2006 potevamo fare di pi&ugrave;: eravamo una squadra fortissima e non dovevamo uscire con il Portogallo&rdquo;.  Mister, tra i tecnici di oggi, c&rsquo;&egrave; un Sven-G&ouml;ran Eriksson?  (Ride ndr)&hellip; &ldquo;Non mi faccia dire queste cose: non sono mai stato bravo. Questo dovete dirlo voi&rdquo;.    &nbsp;  &nbsp; 

Il tecnico svedese ripercorre le tappe della sua carriera: &quot;Con la Roma sfiorai il tricolore. La morte di Mihajlovic un dolore enorme, ci eravamo sentiti una settimana prima&quot;

Eriksson: &quot;Scudetto Lazio, che emozione! Mancini allenatore in campo&quot;

        Era la sera del 23 agosto 1991 quando lo Stadio Olimpico si popolava di 30mila spettatori per assistere all&rsquo;ultima amichevole di prestigio prima dell&rsquo;inizio del campionato. Giovanni Stroppa aveva debuttato con la Lazio davanti ai suoi nuovi tifosi quattro giorni prima &ndash; proprio contro il Milan &ndash; quando i biancocelesti avevano perso 2-0, sempre all&rsquo;Olimpico. Arrivato in quell&rsquo;estate per 2,8 miliardi di lire, Giovannino si rese subito protagonista in un prestigioso &ndash; anche se amichevole &ndash; contesto. La sera del 23 agosto, infatti, la Lazio ospit&ograve; il Real Madrid: un&rsquo;amichevole di lusso per presentare Gascoigne, atterrato a Fiumicino il giorno prima e presente sulle tribune dell&rsquo;Olimpico (in fase riabilitativa dopo il grave infortunio al ginocchio). Stroppa &ndash; entrato al 55&rsquo; &ndash; pareggi&ograve; in pieno recupero il vantaggio firmato da Hierro con la specialit&agrave; della casa. Come si fa a dimenticare un gol su punizione al Real Madrid, segnato in uno stadio pieno praticamente da debuttante?: "Ah, &egrave; vero (ride, ndi). Adesso ricordo! Una punizione a due da dentro l&rsquo;area, con la barriera messa male".  &Egrave; iniziata cos&igrave; la chiacchierata con Giovanni Stroppa, che oltre ad essere un doppio ex della sfida, compie oggi 55 anni. Con quel gol entr&ograve; subito nel cuore dei tifosi. A Roma &egrave; rimasto per due stagioni, ma ancora oggi la Capitale fa parte della sua vita: "Sono sposato con una romana, che ho conosciuto nel tempo, dopo aver giocato alla Lazio. Ogni volta che torno a Roma provo sempre grandi emozioni. Da calciatore arrivai giovanissimo, era la prima volta che mi allontanavo realmente da casa. Avevo giocato a Monza, ma facevo avanti e indietro, quindi tutto sommato fin l&igrave; ero stato abbastanza comodo. Roma ha rappresentato per me un cambiamento radicale ed &egrave; stata un&rsquo;esperienza bellissima. Era spettacolare anche solo poter passeggiare. Abitavamo tutti vicino al campo di allenamento di Tor di Quinto - io a Cortina d&rsquo;Ampezzo -, una zona centrale: ogni giorno nelle vicinanze c&rsquo;era qualcosa da guardare. Sembrava che facessi il turista. A Roma sono sempre stato bene, avevo tante frequentazioni anche fuori dallo spogliatoio. Carlone, che nell&rsquo;ambiente Lazio lo conoscevano un po&rsquo; tutti, &egrave; diventato uno dei migliori amici. Purtroppo se ne &egrave; andato un paio d&rsquo;anni fa". Di gol ne ha segnati tanti, anche decisamente pi&ugrave; importanti di quello al Real. Uno su tutti, con la maglia del Milan, nella finale di Coppa Intercontinentale 1990: "L&rsquo;importanza di quel gol me lo ricordano tutti ancora a distanza di tanti anni. Ma diciamo che per noi faceva parte del quotidiano. Senza false modestie, quel genere di partite al Milan le giocavamo spesso: aver segnato chiaramente &egrave; stato importante, ma quella situazione &egrave; stata 'abbastanza normale'. In quegli anni l&igrave; giocammo finali di Intercontinentali, di Coppa dei Campioni/Champions League, di Supercoppe italiane ed europee. Si giocava per il massimo e le partite importanti erano all&rsquo;ordine del giorno".  In quella squadra fenomenale Stroppa era riuscito ad emergere giovanissimo, dopo aver compiuto tutta la trafila: "Da bambino provai sia con l&rsquo;Inter che col Milan. I rossoneri mi presero subito, mentre i nerazzurri tentennarono. Andai al Milan anche per una questione di vicinanza. Sarei gi&agrave; dovuto approdare in rossonero l&rsquo;anno prima, ma i miei genitori non volevano. Anche se abitavamo a Paullo &ndash; a 20 km da Linate, dove si trovava il campo di allenamento &ndash; non volevano che facessi avanti e indietro e quindi dovetti attendere. La situazione si sblocc&ograve; l&rsquo;anno seguente, ma solo perch&eacute; il Milan accett&ograve; di prendermi e riportarmi a casa ogni giorno. In rossonero ho fatto tutta la trafila con Paolo Maldini, dai 9 anni e mezzo fino ad arrivare in prima squadra. Ho trovato uno spogliatoio impressionante per professionalit&agrave;, mentalit&agrave; e qualit&agrave; negli allenamenti. Ripeto: impressionante". Anche lo spogliatoio vissuto in biancoceleste non &egrave; stato poi cos&igrave; male, n&eacute; sotto l&rsquo;aspetto tecnico n&eacute; per quanto riguarda la personalit&agrave; del gruppo: "Ovviamente Gascoigne, ma anche Ruben Sosa non era da meno. Avevamo un grandissimo rapporto. Gascoigne andava sempre fuori dall&rsquo;ordinario. Ogni giorno c&rsquo;era qualcosa di sorprendente. Ti aspettavi qualcosa e lui ne faceva di ogni, in maniera diversa e magari pi&ugrave; sorprendente. Si potrebbe scrivere tranquillamente un libro. Ero molto legato anche a Maurizio Neri. Quella Lazio giocava con due marcatori e il libero, poi c&rsquo;erano gli esterni che coprivano la fascia a tutto campo. Una cosa molto attuale, direi. Spesso giocavo esterno a destra, oppure in uno dei ruoli di centrocampo. Per quanto riguarda l&rsquo;impronta tattica, sia al Milan che alla Lazio le cose gi&agrave; all&rsquo;epoca erano moderne".  Un trequartista che &egrave; riuscito ad adattarsi al meglio in un calcio in cui non era facile collocare i numeri 10 puri. In quegli anni il 4-4-2 andava per la maggiore, in tanti hanno dovuto reinventarsi. Come, ad esempio, Donadoni, che proprio Giovanni si ritrovava spesso a sostituire sulla corsia destra rossonera: "Nonostante molti mi considerassero un trequartista per via delle mie doti tecniche, ho lavorato da esterno sia al Milan che alla Lazio e ho giocato tanto da mezzala a tutto campo. Quindi oltre alle doti tecniche possedevo anche delle qualit&agrave; aerobiche. Sia con Sacchi che con Zoff ho giocato tanto da esterno". Il biennio passato con Zoff alla Lazio precede la sua definitiva esplosione, avvenuta con Zeman a Foggia: "Ho conquistato la Nazionale: segnai 8 gol e colpii una decina di pali. Ma come ho giocato a livello qualitativo a Piacenza non ho giocato da nessuna parte. Poi a Udine ho avuto sfortuna: nel primo anno ebbi un incidente stradale; durante il secondo mi ruppi tibia e perone. Un vero peccato". Il doppio ex della sfida di oggi &ndash; senza il nostro aiuto &ndash; ricorda invece i Lazio-Milan vissuti da protagonista, uno per parte: "Giocavo con la Lazio, all&rsquo;Olimpico perdevamo 2-0 e riuscimmo a pareggiare 2-2 (fu l&rsquo;ultimo risultato utile consecutivo della striscia record del Milan degli Invincibili, ndi). Feci l&rsquo;assist per il pareggio a Bergodi. Poi ricordo un Milan-Lazio in cui regalai l&rsquo;assist vincente a Gullit per il 2-1 finale all&rsquo;ultimo minuto". Nel giorno del suo 55&deg; compleanno, gli chiediamo infine del sogno nel cassetto: "Ci sono degli obiettivi pi&ugrave; che dei sogni. Guardandomi indietro sono molto soddisfatto per quello che ho fatto. Chiaramente in questo momento sto aspettando, ma l&rsquo;attesa fa parte del mestiere di allenatore. Non vedo l&rsquo;ora di rimettermi in gioco, anche se non dipende da noi, ma da chi ti sceglie".       

Parla l'ex centrocampista e doppio ex dell'incontro, che oggi compie 55 anni: "Ho fatto la trafila con Maldini. Con Sacchi e con Zoff giocavamo un calcio moderno"

Lazio-Milan, intervista a Stroppa: dal vivaio rossonero alla Capitale

        &ldquo;La grandezza, per quanto breve, un uomo la porta sempre con s&eacute;&rdquo;, ci dice coach McGinty ne &ldquo;Le riserve&rdquo;, magistralmente interpretato dal grande Gene Hackman. Mai frase fu pi&ugrave; azzeccata per sintetizzare al massimo quel pezzo di storia del calcio che Paolo Franzoni e la Lazio percorsero insieme, durante quel breve, folle e glorioso scampolo di anni &rsquo;70 che vide la Banda Maestrelli salire alla ribalta. Franzoni e quel gol immortale nel derby Franzoni &egrave;, infatti, l&rsquo;uomo dei gol decisivi. In quella Lazio a dire il vero non trova&nbsp; molto spazio, chiuso da Chinaglia, Garlaschelli e D&rsquo;Amico, ma quando &egrave; chiamato in causa lascia il segno. Il 9 dicembre 1973 l&rsquo;Olimpico si accende per la stracittadina. La Roma ha una marcia in pi&ugrave;: i giallorossi vogliono vendicarsi del doppio ko sub&igrave;to nel campionato precedente, e dominano nel primo tempo. Il terzino Negrisolo sulla destra &egrave; imprendibile e Vincenzo D&rsquo;Amico, centro fantasioso di quella Lazio, &egrave; in totale difficolt&agrave;: non riesce mai a prenderlo, e l&rsquo;esterno giallorosso si concede anche il lusso di siglare al 34&rsquo; il gol del vantaggio romanista. Maestrelli si accorge delle difficolt&agrave; di D&rsquo;Amico: gli dice di aspettare l&rsquo;intervallo, cos&igrave; da poter riordinare le idee. Ne ha una: inserire quel giovane attaccante livornese cos&igrave; da aumentare il peso offensivo.  Franzoni entra in campo. Il resto &egrave; storia. Frustalupi apre per Garlaschelli che crossa: l&rsquo;attaccante la mette dentro di testa. &Egrave; incredulo e pieno di gioia, come i tifosi biancocelesti che esplodono subito dopo la sua incornata. &ldquo;Ho fatto gol al derby dopo 50 secondi dal mio esordio in Serie A. Un record. Per tanti anni sono stato l&rsquo;esordiente in Serie A ad aver segnato pi&ugrave; velocemente. Ogni tanto veniva qualche televisione a intervistarmi per ricordarmelo. Poi, dopo tanti anni questo record mi &egrave; stato tolto dal milanista Paloschi, che contro il Siena segn&ograve; dopo 18 secondi. Diciamo che la Roma era la mia preda preferita. Ai giallorossi segnai anche nella finale scudetto Primavera con la maglia del Torino e nel campionato De Martino quando ero alla Lazio. Quel giorno mi marc&ograve; Ranieri, con il quale ho un ottimo rapporto, ma sono comunque riuscito a fare gol. I giallorossi mi hanno sempre portato bene. E quando la Lazio mi cedette all&rsquo;Avellino, Liedholm mi chiam&ograve; per convincermi a tornare a Roma. Ma dall&rsquo;altra parte. Ci furono un paio di telefonate, ma non se ne fece nulla&rdquo;.  Gioia e rammarico per la rete al Bayern Monaco Quello non fu l&rsquo;unico guizzo nella fugace avventura laziale di Franzoni, che viene ricordato dai tifosi biancocelesti anche per la rete segnata nell&rsquo;amichevole di lusso contro il Bayern Monaco, all&rsquo;inizio di quella stagione in cui ai ragazzi di Maestrelli fu preclusa la Coppa dei Campioni, per via della celebre folle nottata di Lazio-Ipswich Town. &ldquo;Questo Bayern era sulla bocca di tutti - ricorda Franzoni -. Erano i campioni di Germania, avevano vinto la Coppa dalle grandi orecchie e gran parte della loro rosa formava l&rsquo;ossatura della nazionale tedesca che in estate aveva vinto i Mondiali. Insomma c&rsquo;era grande curiosit&agrave; nel vedere all&rsquo;opera campioni come Maier, Beckenbauer, M&uuml;ller, Hoeness. Noi entrammo in campo e guardammo tutti questi fenomeni giocare contro di noi. Una grande emozione. Quando entrai allo stadio e lo vidi cos&igrave; pieno fu bellissimo. Una cornice di pubblico eccezionale. In tribuna c&rsquo;era anche Fulvio Bernardini, il commissario tecnico della Nazionale. Io mi accomodai in panchina con mister Maestrelli, Polentes, Badiani e altri compagni, convinto di assistere alla partita semplicemente da spettatore. Ma non fu cos&igrave;&rdquo;. Franzoni entra in campo a venti minuti dalla fine. &Egrave; chiamato a sostituire Giorgio Chinaglia, che ha preso una brutta botta e zoppica vistosamente da diversi minuti. &Egrave; la svolta della partita, a cinque dal termine Paolo entra nella storia: &ldquo;Frustalupi la mise in area di rigore, a mezza altezza. Io mi gettai sul pallone, riuscii a colpirlo con la fronte e indirizzarlo nell&rsquo;angolino basso alla sinistra di Maier. Appena vidi la sfera entrare in rete capii di aver segnato al portiere campione del mondo&rdquo;. L&rsquo;euforia per il gol del definitivo uno pari per&ograve;, non pot&egrave; che essere adombrata dal rammarico di non vedere una Lazio cos&igrave; forte giocare la Coppa Campioni.       

Nato il 15 gennaio &rsquo;48, viene ricordato per la rete del pari nel derby d&rsquo;andata del 1973-74. Da riserva di Chinaglia si ritagli&ograve; un piccolo, grande spazio

Paolo Franzoni: l’uomo dei gol decisivi nella Lazio di Maestrelli

        Massimiliano Allegri &egrave; solito dire che il calcio &egrave; "molto semplice": c'&egrave; chi segna, chi fa assist e infine c'&egrave; chi corre. Ha ragione. La furia atletica non &egrave; per tutti.Cervello finissimo, in grado di far correre il pallone e gli altri al proprio posto, Pasquale Vivolo capit&ograve; nel posto giusto al momento sbagliato. Che carriera avrebbe avuto in Nazionale e nella Juventus questo ragazzo classe 1928, nato nel napoletano ma cremonese d'adozione, con un passato anche nella Lazio, se solo si fosse ritrovato a giocare in Serie A un decennio pi&ugrave; tardi, invece dei confusionari anni '50 del calcio nostrano? &nbsp; Alter ego di Boniperti Allora nella Penisola andavano di moda il WM inglese e i tecnici stranieri: vorticoso gioco sulle fasce, schemi collettivi e corse per tutti, nessuno escluso. Tale foga cinetica, scambiata per modernit&agrave;, si rendeva necessaria per sostenere difese pericolosamente sguarnite. Un'originale idea di calcio italico, dunque, lottava ancora per affermarsi: pi&ugrave; equilibrata di quelle esterofile e incline maggiormente a valorizzare il talento unico dei singoli.Stralciamo da L'Unit&agrave; del 18 ottobre 1954 una pagella dedicata a Pasquale, esemplare del suo stile di gioco. Un numero 9 che pensava da 10: un 9 e mezzo. "Vivolo non ha la taglia della mezzala, non possiede quel minimo di forza fisica, materiale, che un interno deve possedere. Un delizioso giocatore, senza dubbio, ma del quale &egrave; difficile poter stabilire l'impiego migliore". Il trequartista-centravanti di Brusciano si asteneva regolarmente dalla lotta, forte del privilegio della sua classe superiore.Si chiesero come schierare Pasquale, gli allenatori della Juventus, dove il giovane tifoso bianconero era arrivato nel 1949 dalla Cremonese, vincendo subito uno scudetto. Nel 1952 il bis, seppur con l'ingrato ruolo di titolare aggiunto. Tra il 1951 e il 1953 le stagioni migliori di Vivolo. Media-gol del periodo: 0,7. Bomberone John Hansen: 0,8. Sua Maest&agrave; Boniperti: appena 0,4. Stava nascendo forse una nuova stella, al fianco di John? Per non adombrare il sabaudo Giampiero, suo diretto concorrente nel ruolo, Vivolo fu piuttosto messo in lista trasferimenti, nonostante i 31 centri in 67 partite di campionato, e spedito prontamente alla Lazio per la modica cifra di 70 milioni. La rivalit&agrave; con l'amico di Barengo cost&ograve; a Vivolo anche il posto in Nazionale, che sfior&ograve; appena.  Divo laziale Roma per &ldquo;Bibi&rdquo; era inferno e paradiso. Lo conferma un giovane spadaccino della Polisportiva Lazio, la cui testimonianza &egrave; raccolta in &ldquo;Bagliori di gloria&rdquo;, libro dello storico Marco Impiglia dedicato agli schermidori biancocelesti: "Un giorno vidi entrare l&rsquo;ing. Zenobi con Vivolo, il famoso giocatore. Allora noi ragazzi, che avevamo interrotto un attimo per ascoltare il discorsetto di quei signori, ci demmo di gomito: Hai visto, c&rsquo;&egrave; Vivolo! Eravamo meravigliatissimi". L'Urbe tuttavia sapeva essere anche infernale, bruciata dall'ossessiva passione dei romani per il calcio. Pensate: il conte laziale Mario Vaselli - si legge su LazioWiki, l'Enciclopedia on-line biancoceleste - durante un'elettrica sfida a Napoli rifil&ograve; al flemmatico Vivolo un gran ceffone! Desiderava lottasse con maggior vigore. Oltre cento gare con i romani molte delle quali da capitano, e una trentina di reti in cinque stagioni, gli valsero comunque la fama. Nessun trofeo per&ograve;. Quella Lazio era squadra stralunata.Nel 1959, da un anno a Brescia, Vivolo lasci&ograve; il calcio. Poi fu abile imprenditore nell'amata Cremona. Nel 2002 giunse inaspettata la morte, prematura.  La foto autografata di Pasquale Vivolo ci &egrave; stata gentilmente concessa dall'Archivio fotografico Ivano Piermarini. Per le immagini del collage in copertina si ringrazia LazioWiki       

Un calcio meno dogmatico di quello degli anni '50 lo avrebbe esaltato. Il dualismo con Boniperti, poi la Lazio: storia di un campione mancato

Pasquale Vivolo: l'insostenibile leggerezza del 9 e mezzo

        Una Coppa Uefa, una Champions, uno scudetto, una Coppa Italia e una Supercoppa italiana con la maglia della Juventus; gli ultimi tre sono gli stessi titoli conquistati nella Capitale con la Lazio. Fabrizio Ravanelli ha scritto pagine indelebili nella storia dei due club. Ha guidato l&rsquo;attacco della Juventus di Lippi, capace di riportare lo scudetto a Torino dopo nove stagioni di astinenza e ha vinto una Champions League, segnando nella finale contro l&rsquo;Ajax. A Roma si &egrave; ritagliato uno spazio importante nella stagione 1999-2000, anno in cui la Lazio ha trionfato in Italia: proprio a spese della Juventus, dopo un finale di stagione elettrizzante. &ldquo;Juve e Lazio rappresentano le squadre che mi hanno dato pi&ugrave; emozioni, oltre ad essere quelle che mi hanno permesso di vincere di pi&ugrave;. Due esperienze bellissime, che porto nel cuore. &Egrave; chiaro che l&rsquo;esperienza alla Juve &egrave; stata fantastica: da tifoso bianconero riuscire a vincere con quella maglia &egrave; stata un&rsquo;emozione unica. Un sogno che si avvera. Ma nel mio cuore c&rsquo;&egrave; una grande parte biancoceleste. Ho un grande sen so di riconoscenza verso questa societ&agrave;, che mi ha riportato in Italia e mi ha dato tanto. E soprattutto mi &egrave; stata vicina nei momenti in cui stavo vivendo una situazione personale molto difficile&rdquo;.  Il gol segnato al Bologna nel giorno del centenario del club biancoceleste, fu dedicato a suo padre? &ldquo;Sar&ograve; sempre grato ai colori biancocelesti. Quel giorno &egrave; stato memorabile per me e per la Lazio. Un&rsquo;emozione grandissima: dedicai a mio padre quel gol, che ci permise di chiudere la partita e iniziare a festeggiare&rdquo;. Storicamente si dice che vincere uno scudetto alla Juventus &egrave; quasi normale, farlo alla Lazio rappresenta un&rsquo;impresa. &ldquo;Ho sentito questa frase tante volte, ma ti posso dire che io non la condivido. Per me &egrave; stato esattamente il contrario&rdquo;. Pi&ugrave; complicato vincere un titolo con la maglia bianconera?? &ldquo;Quando abbiamo vinto lo scudetto a Torino, la Juve veniva da un&rsquo;astinenza che durava nove anni e ce la siamo giocata con il Milan che era unanimemente considerato come il club pi&ugrave; forte a livello europeo, nel bel mezzo dell&rsquo;epopea Berlusconi. In quella stagione se non erro gioc&ograve; e perse la finale di Champions League con l&rsquo;Ajax. Noi iniziammo a fari spenti: nonostante il DNA e il blasone, non partimmo con i favori del pronostico. Ce l&rsquo;abbiamo fatta. Con la Lazio fu completamente diverso&rdquo;.  La squadra biancoceleste era pi&ugrave; forte della sua Juve? &ldquo;Sicuramente era stata costruita da Cragnotti per vincere in Italia e in Europa. Era una squadra formidabile, con un tecnico come Eriksson che era bravissimo. Sono stati due scudetti indimenticabili per me, ma rispetto a quello che si possa pensare, quello alla Lazio era pi&ugrave; nei pronostici: lo scudetto alla Juventus arriv&ograve; quasi a sorpresa. Vincere a Roma con quella squadra, anche se lo abbiamo fatto solo all&rsquo;ultima giornata e dopo una lunga rincorsa, era quasi pi&ugrave; scontato&rdquo;. Battendo la Juve in volata. &ldquo;Quella Lazio era nettamente superiore a quella Juventus. Ripeto, sono state due stagioni esaltanti: la mia Juve non part&igrave; tra le favorite, ma poi fu capace di fare un percorso straordinario che l&rsquo;ha portata a trionfare anche in Champions League. La mia Lazio era invece costruita per vincere fin da subito. Anzi, se posso trovare un difetto, credo che abbia vinto meno di quello che poteva. Gi&agrave; nella stagione precedente al mio arrivo a Roma, meritava di pi&ugrave;&rdquo;. Lippi ed Eriksson, che differenze ci sono tra questi due tecnici?? &ldquo;Due allenatori vincenti. Diversi tra di loro, ma con una leadership e uno stile che li accomuna. Alla Juve Lippi ha avuto a che fare con giocatori pronti a tutto pur di vincere. Che avevano voglia e fame. Venivamo da un cambiamento di metodologie di lavoro e ci impegnammo tutti tantissimo. Erano gli anni in cui la Juve pass&ograve; dalla gestione Boniperti a quella di Moggi, Bettega e Giraudo e tutti davamo qualcosa in pi&ugrave;. Alla Lazio Eriksson fece un lavoro completamente diverso. &Egrave; stato bravissimo ad occuparsi della gestione di tutti i campioni. E ce n&rsquo;erano tantissimi&rdquo;.  In Italia ha vinto gli stessi trofei con le maglie di Juve e Lazio. L&rsquo;unica differenza sono i successi europei con i bianconeri. &ldquo;A Torino ho vinto una Coppa Uefa e una Champions League. A Roma &egrave; mancata la vittoria europea. Non so dirti bene il perch&eacute;. Come ti dicevo, la squadra era stata costruita per vincere ed era fortissima. L&rsquo;anno prima del mio arrivo port&ograve; a casa la Coppa delle Coppe, ma in Champions non siamo riusciti a ripeterci. Ancora oggi mi capita di pensarci e di chiedermi come sia possibile&rdquo;. Con la Juve fu diverso &ldquo;Indimenticabile. Vincere la Champions League &egrave; il sogno di ogni ragazzo che inizia a fare questo sport. Farlo con la Juve, in Italia e allo stadio Olimpico &egrave; stato meraviglioso. Ci siamo tolti una grande soddisfazione. Di quella notte ho ricordi indelebili: il mio gol, da posizione quasi impossibile e il momento in cui Jugovic ha segnato l&rsquo;ultimo e decisivo calcio di rigore. La Champions &egrave; il massimo per ogni calciatore e per ogni societ&agrave;&rdquo;.         

"Quella di Cragnotti era una squadra costruita per dominare in Italia e in Europa. Quando arrivai in bianconero, lo scudetto mancava da 9 anni e ci confrontammo con il Milan di Berlusconi, una delle migliori formazioni del continente"

Juve-Lazio, Ravanelli: "È stato più facile vincere a Roma che a Torino"

        Don Juan lasci&ograve; Roma senza salutare nessuno. Neanche il suo presidente, che lo aveva riportato in Italia con l&rsquo;illusione di salvare una squadra alla deriva, spaccata all&rsquo;interno, logorata dai personalismi e dai problemi societari. Tradito dai suoi giocatori - dal suo mondo - e condannato dal suo connazionale Maradona, Juan Carlos Lorenzo spar&igrave; nella notte romana dopo una sconfitta per 4-0 subita a Napoli. Era l&rsquo;ultima domenica di febbraio: non lo rividero pi&ugrave;. L&rsquo;ultima avventura nella Lazio &egrave; carica di sceneggiature e povera di punti. Richiamato a Roma da Giorgio Chinaglia - accolto come salvatore della patria - si scontr&ograve; con una realt&agrave; troppo distante dal suo immaginario. Gli aneddoti dell&rsquo;ultima esperienza laziale hanno gi&agrave; dato ampio spazio alla letteratura sportiva; era ossessionato dal numero otto che considerava come un amuleto, era terrorizzato dalla presenza di osservatori delle squadre avversarie; pi&ugrave; di una volta - pur di non svelare i suoi piani alle fantomatiche spie - annull&ograve; gli allenamenti. Era questa, una fobia che lo portava a sospettare di chiunque; a Fregene - in un ritiro pre-partita - costrinse il suo secondo Giancarlo Oddi ad allontanare un personaggio che circolava in maniera sospetta nella hall dell&rsquo;albergo: era il proprietario (!) che minacci&ograve; di cacciare all&rsquo;istante l&rsquo;intera squadra. Imponeva all&rsquo;autista del pullman sociale di passare con il semaforo rosso per propiziare i successi casalinghi, mettendo a rischio la vita dei giocatori. Quando perdeva, pretendeva che venisse bruciata l&rsquo;intera muta di maglie. Imponeva riti, diete e una disciplina militare. In quell&rsquo;inverno del 1985, ottenne dieci punti in 18 partite: l&rsquo;addio fu scontato. Si gioc&ograve; in Argentina gli ultimi spicci di una gloria antica, gi&agrave; incassata nelle esperienze vincenti. A cento anni dalla sua nascita (Buenos Aires, 20 ottobre 1922) va riconsegnato alla storia un ritratto pi&ugrave; autentico di un grande interprete del calcio.  Prescelto in zona Cesarini Fu un giocatore di buon livello, muove i primi passi nel Chacarita, poi il leggendario Renato Cesarini - ex calciatore della Juve e della Nazionale - lo sceglie per la terza squadra del River Plate. Quella con i Millonarios &egrave; un&rsquo;esperienza fugace: al Monumental si esibisce la &ldquo;Maquina&rdquo; con Mu&ntilde;oz, Moreno, Pedernera, Labruna, Loustau; in Sudamerica - ancora oggi - considerato il quintetto d&rsquo;attacco pi&ugrave; forte di tutti i tempi. Il fallimento nel provino non lo frena, torna al Chacarita, poi viene tesserato dal Boca Juniors; Lorenzo &egrave; una mezz&rsquo;ala duttile, all&rsquo;occorrenza pu&ograve; adattarsi in ogni zona del fronte offensivo. Gioca un&rsquo;altra stagione in Argentina nel Quilmes, poi si trasferisce in Italia.  Lorenzo in Europa Quattro stagioni con la maglia della Sampdoria, tanti infortuni e diciannove gol. Lorenzo approda in blucerchiato a 25 anni, quando ha gi&agrave; speso gli anni migliori della propria carriera. Dimostra le proprie qualit&agrave; con alterne fortune, ma dopo quattro stagioni a Genova, accetta la proposta del Nancy. In Francia il tecnico Jacques Favre lo spinge a iscriversi a un corso per allenatori organizzato dalla English League: in cattedra c&rsquo;&egrave; Walter Winterbottom, l&rsquo;allenatore dell&rsquo;Inghilterra. Nella sua testa - pur continuando a giocare - c&rsquo;&egrave; solo la panchina; a Maiorca fa il player manager, e vince due campionati: per la prima volta nella storia, la formazione maiorchina viene promossa nella Liga spagnola. La Nazionale argentina e il tradimento capitale L&rsquo;exploit nel Maiorca richiama l&rsquo;attenzione dei dirigenti argentini che lo scelgono come Commissario tecnico dell&rsquo;Argentina alla vigilia dei Mondiali cileni del 1962. La spedizione non &egrave; propizia; l&rsquo;Albiceleste vince contro la Bulgaria e perde contro l&rsquo;Inghilterra. Il pareggio contro l&rsquo;Ungheria serve a poco. Lorenzo lascia la Nazionale, e accetta in corsa l&rsquo;offerta della Lazio che riporta in Serie A al primo colpo. Il tecnico argentino &egrave; preparatissimo, conosce ogni minimo dettaglio degli avversari, gioca sulle loro debolezze. Ma Lorenzo, dopo una salvezza sofferta pretende dalla societ&agrave; un organico di qualit&agrave;; il presidente Miceli delude le sue aspettative; nel giugno 1964 va in scena il grande tradimento: Lorenzo firma con la Roma! Dall&rsquo;altra parte del Tevere, la situazione economica &egrave; anche peggiore; la colletta del Sistina &egrave; il punto pi&ugrave; basso della storia giallorossa: la Roma ha un miliardo di deficit. Nonostante tutto, Lorenzo riesce ugualmente a lasciare il segno vincendo la finale di Coppa Italia contro il Torino, in un&rsquo;appendice della stagione precedente. La dirigenza giallorossa a questo punto gli impone una drastica riduzione dell&rsquo;ingaggio; Lorenzo - particolarmente attento al vil denaro - fa le valigie e torna in patria.  La buona esperienza in Europa lo riporta sulla panchina della Nazionale argentina, pronta ad affrontare il Mondiale del 1966. Questa volta l&rsquo;Albiceleste passa il girone battendo Spagna e Svizzera e pareggiando 0-0 contro la Germania. Ma nei quarti di finale va in scena &ldquo;El robo del siglo&rdquo;, il furto del secolo. L&rsquo;Argentina affronta i padroni di casa dell&rsquo;Inghilterra e perde per uno a zero. L&rsquo;arbitraggio &egrave; a senso unico; gi&agrave; a met&agrave; del primo tempo i sudamericani giocano in inferiorit&agrave; numerica per l&rsquo;espulsione di Rattin: la rivalit&agrave; con gli inglesi nasce da qui, e arriva fino ai giorni nostri. La seconda esperienza laziale Nel 1967-68 Juan Carlos Lorenzo torna al Maiorca; arriva in corsa, e se ne va in corsa: resta soltanto sei partite, il tempo di salvare la sua squadra dalla retrocessione prima di cedere al nuovo corteggiamento della Lazio. Il tecnico argentino prende la squadra in Serie B, e nel giro di una stagione la riporta nella massima serie. Nel campionato successivo, gli innesti di Pino Wilson e Giorgio Chinaglia, danno una spinta significativa alla Lazio che chiude il torneo con un onorevole ottavo posto. Ma nella stagione 1970-71, i biancocelesti retrocedono: sulla seconda esperienza laziale di Lorenzo arrivano i titoli di coda.&nbsp;  Il periodo dei trionfi Alla Lazio il tecnico lascia un pezzo di cuore, ma il ritorno in patria profuma di successo. Sulla panchina del San Lorenzo de Almagro vince il campionato Metropolitano e nel 1972 si aggiudica il campionato Nazionale senza perdere una partita; il percorso dei rossobl&ugrave; &egrave; trionfale, la squadra allenata da Lorenzo batte il Boca alla Bombonera per tre a zero, e il River Plate al Monumental con quattro gol di scarto. Il calcio europeo &egrave; un richiamo forte: quando arriva l&rsquo;offerta dell&rsquo;Atletico Madrid campione di Spagna, il tecnico sale sull&rsquo;aereo e torna in Europa. La squadra spagnola partecipa alla Coppa dei Campioni, e compie un percorso netto. Elimina al primo turno il Galatasaray, negli ottavi la Dinamo Bucarest, ai quarti di finale la Stella Rossa e in semifinale gli scozzesi del Celtic. In finale c&rsquo;&egrave; il Bayern Monaco. Gli spagnoli passano in vantaggio al 114&rsquo; con Luis Aragones, ma al 120&rsquo;, il Fato si volta dall&rsquo;altra parte: Schwarzenbeck prova il tiro della disperazione e trova l&rsquo;angolo. Si rigioca, e questa volta vincono i bavaresi. Sul tetto del mondo Torna in Argentina, e nel 1976 accetta l&rsquo;offerta del Boca Juniors. La sorte gli restituisce quanto tolto in precedenza; vince il campionato Nazionale e successivamente il Metropolitano, si qualifica per la Copa Libertadores che vince per due anni consecutivi, prima contro i brasiliani del Cruzeiro, poi contro il Deportivo Cali allenato da Carlos Bilardo. Il periodo d&rsquo;oro culmina - nel 1977 - con la vittoria della Coppa Intercontinentale contro il Borussia M&ouml;nchengladbach: i tedeschi - dopo il pareggio ottenuto in Argentina - appaiono favoriti; ma nella finale di ritorno giocata a Karlsruhe, Lorenzo mette in mostra tutte le sue qualit&agrave; di stratega. Gli argentini segnano tre gol nel primo tempo, e conquistano il &ldquo;Mondiale per club&rdquo;.   L&rsquo;epilogo Siamo a ridosso del Mondiali del 1978: Lorenzo &egrave; in cima al mondo, e potrebbe tornare sulla panchina della Nazionale. L&rsquo;Albiceleste gioca in casa, tutto lascia presagire che la Coppa del Mondo possa restare a Baires. &Eacute; l&rsquo;Argentina dei Generali, dei desaparecidos e delle Madri di Plaza de Mayo; &egrave; l&rsquo;Argentina della dittatura che vede con diffidenza una figura ingombrante e istrionica come quella di Lorenzo: il Generale Videla come D.T. gli preferisce Menotti. A questo punto, gli anni d&rsquo;oro di Juan Carlos Lorenzo vanno verso il tramonto; la carriera dell&rsquo;allenatore inizia la fase discendente, il tecnico vive tante esperienze e pochi successi. L&rsquo;ultima immagine italiana di Lorenzo &egrave; quella di un uomo ricurvo, invecchiato, affranto; l&rsquo;andamento lento delle sue gambe arcuate evidenzia anche la sua instabilit&agrave; interiore: col passo incerto - e i capelli impomatati - riprende il proprio cammino verso il Sudamerica, avulso da quel calcio che lo aveva nutrito per decenni, e che ora prova a gettarlo dentro al tunnel dell&rsquo;anonimato. Ma dall&rsquo;altra parte dell&rsquo;Oceano - anche a cento anni dalla sua nascita - continuano a ricordare El Toto Lorenzo con affetto, celebrando l&rsquo;uomo che per la prima volta nella storia port&ograve; il Boca Juniors sul tetto del mondo. &nbsp; &nbsp; &nbsp; &nbsp;&nbsp;       

A cento anni dalla nascita, il ricordo di Don Juan, tecnico argentino che allen&ograve; Lazio e Roma prima di portare il Boca Juniors in cima al mondo

Juan Carlos Lorenzo, uno stratega del futbol a ogni latitudine

        L&rsquo;anniversario della nascita di Tommaso Maestrelli evoca una figura apicale del calcio nazionale. Il suo profilo certifica lo spessore umano di un personaggio che personaggio non &egrave; mai stato, neanche quando il presidente federale Artemio Franchi gli offr&igrave; la panchina dell&rsquo;Italia. Non se ne fece nulla; il tecnico toscano decise di restare alla Lazio: quella che per gli altri poteva rappresentare soltanto una squadra, per lui era diventata una famiglia. &Egrave; intorno al suo nucleo familiare che Maestrelli costruisce e sviluppa la propria carriera, ma il connubio tra l&rsquo;uomo e l&rsquo;allenatore &egrave; talmente stretto che squadra e famiglia diventano un&rsquo;unica fonte di aggregazione, di condivisione, di affetti. Maestrelli ha saputo impreziosire il poco tempo che l&rsquo;avaro destino gli ha riservato; a cento anni dalla nascita - a quasi quarantasei dalla sua dipartita - il suo ricordo rimane forte e avvolgente, come il gioco delle sue formazioni che attraverso la coralit&agrave; esaltavano i singoli componenti. Giocatore, partigiano, politico, allenatore, marito, padre, amico: il palcoscenico della vita lo ha chiamato a impersonare uno spartito impegnativo e mai banale, interpretato in maniera esemplare, qualunque fosse il ruolo a lui assegnato.&nbsp;&nbsp;  Bari, la citt&agrave; adottiva Quando il treno arriv&ograve; a destinazione - proveniente da Pisa - il piccolo Masino si sent&igrave; subito a casa: l&rsquo;odore della stazione sapeva di buono, aveva lo stesso profumo che impregnava i vestiti di suo padre ferroviere che - dalla Toscana - era stato trasferito a Bari. Dodici anni, e il sogno di correre dietro a un pallone: Masino ci sapeva fare, non tard&ograve; a superare un provino con la Bari che lo accolse nelle proprie formazioni giovanili; bruci&ograve; le tappe scalando in fretta le categorie Giovanissimi, Allievi e Cadetti fino alle porte della prima squadra. L&rsquo;esordio in Serie A Quel ragazzo ha una visione periferica, &egrave; geometrico, ha una buona padronanza, e quando c&rsquo;&egrave; da recuperare palla, mulina le gambe e d&agrave; fiato ai polmoni. L&rsquo;allenatore della prima squadra non &egrave; tipo da farsi sfuggire uno cos&igrave;; &egrave; un ex calciatore della nazionale ungherese arrivato in Italia per sbarcare il lunario; si chiama Jozsef King; &egrave; nato a Budapest, ha giocato insieme a B&eacute;la Guttmann: il regime del Ventennio gli ha imposto di italianizzare il suo cognome, ora si chiama Giuseppe Ging. &Egrave; passato anche per Roma allenando la Fortitudo, prima che la fusione cancellasse altre sei squadre convogliandole in un unico club. Il 26 febbraio 1939 - a 16 anni, 4 mesi e 19 giorni - Tommaso Maestrelli fa il suo esordio in Serie A contro il Milan a San Siro. &Egrave; l&rsquo;unica partita che gioca in quel campionato, ma dall&rsquo;anno successivo entra in pianta stabile in prima squadra.  Il dramma della guerra: un capitano in prima linea Ma nell&rsquo;inverno del 1943, arriva a casa Maestrelli la cartolina del precetto militare, destinazione Cettigne-Podgorica; l&rsquo;Italia &egrave; in guerra, e lui viene spedito in prima linea: Tommaso &egrave; un artigliere della Divisione Ferrara, impegnato in Montenegro. Sarebbe dovuta essere una guerra-lampo, e invece - mese dopo mese - &egrave; diventata un massacro. Dopo l&rsquo;8 settembre, l&rsquo;ordine impartito alla Divisione Ferrara &egrave; quello di collaborare con i nazisti, ma i tedeschi disarmano tutti i soldati italiani e li deportano in un campo di concentramento. Nel lager di Sajmiste - alle porte di Belgrado - l&rsquo;eterna sofferenza scandisce l&rsquo;alternanza delle stagioni: i prigionieri talvolta vengono utilizzati per i lavori forzati, quello di rimuovere le macerie degli edifici bombardati &egrave; uno dei loro compiti. Tra le strade di Belgrado Maestrelli sa cogliere l&rsquo;attimo di distrazione dei suoi carcerieri, individua la via di fuga, e va. Tommaso corre, quelli della Gestapo non lo riprendono pi&ugrave;. Trova riparo in uno scantinato, sopravvive grazie alla benevolenza della popolazione serba. Ma all&rsquo;indomani della liberazione dai tedeschi, Maestrelli si unisce volontariamente alla Brigata Garibaldi per combattere - insieme all&rsquo;esercito di Tito - contro i nazisti. Sul campo di battaglia si guadagna i gradi di capitano, prende il comando di 360 uomini che partecipano alla liberazione della Dalmazia: l&rsquo;impresa gli vale una medaglia di bronzo al valore militare. Il 2 luglio del 1945 Maestrelli torna in Italia dove c&rsquo;&egrave; un intero Paese da ricostruire, la fidanzata Lina da riabbracciare, un campionato da ricominciare.  A Londra con la maglia azzurra Quando si riprende a giocare, l&rsquo;Italia &egrave; spaccata in due dalla Linea Gotica: il torneo della Divisione Nazionale &egrave; frazionato in due raggruppamenti. Un anno dopo, la rete di trasporto nazionale viene ripristinata, e si torna a giocare un unico campionato: la Bari &egrave; la stella del Sud, Maestrelli &egrave; la stella della Bari. Le sue buone prestazioni gli valgono la convocazione del Commissario Vittorio Pozzo per le Olimpiadi di Londra del 1948; nel leggendario Stadio di Highbury indossa con fierezza la maglia azzurra sfidando la Danimarca: il risultato non &egrave; propizio, si torna a casa. Maestrelli colleziona un&rsquo;unica presenza in Nazionale, ma quei novanta minuti rappresenteranno il traguardo sportivo di cui andr&agrave; pi&ugrave; orgoglioso, e lo porter&agrave; dentro per tutta la vita.  Un calciatore di valore L&rsquo;estate del 1948 segna un altro episodio significativo della carriera del centrocampista, corteggiato dalle squadre pi&ugrave; forti del campionato; Valentino Mazzola lo vuole nel Torino, poi c&rsquo;&egrave; la Juventus, la Fiorentina. Alla fine, lo prende l&rsquo;Inter. Il trasferimento a Milano sembra cosa fatta, ma i nerazzurri nel giro di poche ore lo cedono alla Roma - insieme a Tontodonati - per ottenere il cartellino di Amadei. La prima stagione in giallorosso &egrave; pi&ugrave; che buona, tanto che il Torino lo richiede nuovamente in prestito per giocare una partita amichevole in Portogallo contro il Benfica: le due societ&agrave; trovano l&rsquo;accordo, ma un dipendente dimentica la pratica per la richiesta del passaporto. Maestrelli su quell&rsquo;aereo non sale, e incredibilmente si salva la vita. Avrebbe voluto giocare nel Grande Torino, ma la squadra granata dal Portogallo non torner&agrave; pi&ugrave;. &ldquo;Gli eroi sono sempre immortali agli occhi di chi in essi crede. E cos&igrave; i ragazzi crederanno che il Torino non &egrave; morto: &egrave; soltanto in trasferta&rdquo;. I due successivi campionati giocati con la Roma non sono propizi; la squadra delude le attese, e al termine del campionato 1950-51 retrocede in Serie B. Maestrelli paga il forte legame con l&rsquo;ex tecnico Fulvio Bernardini; al momento dell&rsquo;esonero, il giocatore si &egrave; opposto con fermezza ai dirigenti, criticandoli in maniera severa. Per questo, a fine campionato viene mandato &ldquo;in esilio&rdquo; alla Lucchese dove resta per due anni prima di tornare a Bari per chiudere la carriera.&nbsp;  La carriera da allenatore Intraprende la carriera di allenatore iniziando come vice sulla panchina del Bari, e successivamente ricopre il ruolo di vice allenatore della prima squadra, ma la sua prima vera esperienza arriva nel 1964 - in Serie C - con la Reggina. Il primo campionato &egrave; trionfale, la formazione calabrese sale per la prima volta in Serie B. Nel secondo campionato, il tecnico sfiora l&rsquo;impresa arrivando a un solo punto dalla promozione in Serie A. Resta altre due stagioni sullo Stretto, ma nell&rsquo;estate del 1968 accetta la proposta del Foggia; &egrave; una scelta di cuore, la possibilit&agrave; di riavvicinarsi alla famiglia vale pi&ugrave; di ogni altro aspetto. L&rsquo;opportunit&agrave; professionale &egrave; importante, la vicinanza da Bari - dove &egrave; sempre rimasta la famiglia - &egrave; decisiva. Il sodalizio con il presidente Fesce &egrave; vincente; i rossoneri sfiorano subito la promozione, e conquistano la Serie A nella stagione successiva: gli uomini dell&rsquo;impresa si chiamano Pirazzini, Saltutti, Maioli, Bigon e Re Cecconi. Il Foggia ha un grande approccio al campionato di massima serie; dopo nove giornate la squadra rossonera &egrave; al quinto posto, ma nel girone di ritorno pian piano scivola verso la parte bassa della classifica. Al termine del torneo, il Foggia ha gli stessi punti di Sampdoria e Fiorentina, ma retrocede per differenza reti. Nonostante la retrocessione, la dirigenza e l&rsquo;ambiente vogliono la conferma di Maestrelli alla guida della squadra, ma il tecnico riceve una proposta irrinunciabile.  Nasce la Lazio di Maestrelli&nbsp; Il direttore sportivo della Lazio Antonio Sbardella sceglie Maestrelli per riportare i biancocelesti in Serie A. L&rsquo;ambiente laziale &egrave; molto legato all&rsquo;allenatore argentino Juan Carlos Lorenzo, che ha un ascendente considerevole anche all&rsquo;interno dello spogliatoio. I primi tempi non sono semplici, i dissensi non mancano, ma il nuovo tecnico affronta i tifosi senza alcun timore; durante una delle tante contestazioni allo stadio Flaminio si presenta - solo contro tutti - sotto la tribuna dei sostenitori inferociti. Qualche tifoso continua a essere scettico, ma dentro lo spogliatoio quell&rsquo;azione quasi temeraria dell&rsquo;allenatore a difesa dei propri giocatori gli vale una promozione a pieni voti; &ldquo;Quest&rsquo;uomo ha un grande coraggio, pu&ograve; essere la nostra guida&rdquo;.&nbsp;&nbsp;  Sul campo, Maestrelli presenta subito un biglietto da visita importante, vincendo il derby di Coppa Italia contro la Roma di Helenio Herrera: il gol - neanche a dirlo - &egrave; di Chinaglia.&nbsp;La squadra - dopo qualche difficolt&agrave; iniziale - ottiene la promozione in Serie A. Nell&rsquo;estate del 1972 - pur con poche risorse - nasce la formazione dei sogni; il direttore sportivo Antonio Sbardella porta avanti una campagna acquisti con grande strategia: cede Massa all&rsquo;Inter ottenendo in cambio Mario Frustalupi e i soldi necessari per gli acquisti di Pulici, Petrelli, Re Cecconi e Garlaschelli. Quella di Maestrelli &egrave; una squadra proiettata al futuro, propone un calcio in cui tutti attaccano, e tutti difendono: &egrave; il calcio totale, in Italia non si &egrave; mai visto nulla di simile. La squadra cresce domenica dopo domenica, lo sguardo amorevole dell&rsquo;allenatore e del fidato Bob Lovati, che spesso va in avanscoperta per osservare gli avversari, fanno la differenza. La societ&agrave; &egrave; snella, tutto ruota intorno al presidente Umberto Lenzini e ai suoi pochi collaboratori. La neo promossa Lazio stupisce tutti, scala la classifica, arriva a giocarsi lo scudetto all&rsquo;ultima giornata con Milan e Juventus; i rossoneri crollano a Verona, la Lazio perde a Napoli mentre all&rsquo;Olimpico i bianconeri vincono contro la Roma.   Lo scudetto di una squadra leggendaria L&rsquo;exploit della squadra biancoceleste viene considerato dalla critica un&rsquo;impresa occasionale, ma gli uomini di Maestrelli - con il giovane talento di Vincenzo D&rsquo;Amico - confermano sul campo le reali ambizioni. &Eacute; una formazione leggendaria che si azzuffa dal luned&igrave; al sabato, ma che quando scende in campo la domenica sa essere squadra. Se ne accorgono gli avversari, che uno dopo l&rsquo;altro vengono piegati dall&rsquo;impeto dei biancocelesti: &egrave; nata la &ldquo;Piccola Olanda&rdquo;. Tra i pali c&rsquo;&egrave; Felice Pulici, portiere dallo stile essenziale, gli unici due difensori sono il marcatore Oddi e l&rsquo;elegante libero Pino Wilson, capitano della squadra. Gli altri, vanno, attaccano tutti; sulle fasce ci sono Petrelli e Martini, che taglia frequentemente in diagonale. In mezzo al campo la sapiente regia di Mario Frustalupi, il dinamismo di Luciano Re Cecconi, la potenza di Franco Nanni. In avanti c&rsquo;&egrave; il talento di Vincenzino D&rsquo;Amico e l&rsquo;efficacia di Renzo Garlaschelli. E poi c&rsquo;&egrave; lui, Giorgio Chinaglia, l&rsquo;unico che nello spogliatoio pu&ograve; permettersi di chiamare il tecnico con il proprio nome, anzi con il diminutivo: &ldquo;Tom&rdquo;. Per tutti gli altri, l&rsquo;allenatore &egrave; &ldquo;il signor Maestrelli&rdquo;. Perch&eacute;, in effetti, &egrave; proprio un signore. La difesa &egrave; la migliore del campionato, il centrocampo &egrave; un&rsquo;orchestra polifonica, e l&rsquo;attacco &egrave; irrefrenabile; Chinaglia segna 24 gol in 30 partite e vince il titolo dei cannonieri. &Egrave; una formazione che va avanti in direzione ostinata e contraria, rissosa, battagliera, irriverente. Ma soprattutto &egrave; una squadra; dal luned&igrave; al sabato sono l&rsquo;un contro l&rsquo;altro armati, ma la domenica sono undici fratelli. &Eacute; la Lazio di Tommaso Maestrelli. Ora, e per sempre.&nbsp;&nbsp;  L&rsquo;ultimo miracolo del Maestro Quella stessa squadra - con lo scudetto sul petto - viene piegata qualche mese dopo quando scopre che il proprio allenatore ha un male incurabile. L&rsquo;ambiente &egrave; scosso, i giocatori sono sconvolti; il signor Maestrelli - come lo chiamano tutti in maniera deferente - non &egrave; soltanto un allenatore: &egrave; un padre, un amico, un confidente. La squadra viene colpita al cuore, la notizia strappa l&rsquo;anima di ogni giocatore. Si riparte con un nuovo tecnico, Gulio Corsini, che inizia a smontare la formazione: le cessioni di Frustalupi, Oddi e Nanni sono i presupposti nefasti di una stagione agonica; all&rsquo;interno della squadra non funziona nulla, la testa e il cuore dei giocatori sono con Maestrelli. All&rsquo;indomani della sconfitta contro l&rsquo;Ascoli, Corsini viene sollevato dall&rsquo;incarico. Siamo all&rsquo;inizio di dicembre: Tommaso Maestrelli si alza dal letto dell&rsquo;ospedale, si infila la tuta, e torna a Tor di Quinto; se non &egrave; il miracolo di Natale, poco ci manca.  La squadra - mal costruita - ha un sussulto d&rsquo;orgoglio, ma continua ad alternare buone prestazioni a debacle inaspettate. Arriva l&rsquo;ultima giornata di campionato, con la Lazio in piena zona retrocessione. Dopo un quarto d&rsquo;ora - a Como - i biancocelesti sono sotto di due gol, ma una rete di Giordano li tiene in gioco. Il discorso di Maestrelli nell&rsquo;intervallo della partita &egrave; realistico e persuasivo, qualcuno in un angolo dello spogliatoio ha modo di commuoversi; il richiamo dell&rsquo;allenatore &egrave; al tempo che fugge, alla vulnerabilit&agrave; degli uomini, alle occasioni nella propria vita di poter lasciare in eredit&agrave; qualcosa di importante. La Lazio reagisce da Lazio, torna a essere generosa e indomabile. Torna in campo e trova il pareggio. Poi, al termine della propria partita, si raduna intorno alla panchina laziale per ascoltare la radio e attendere il fischio finale dagli altri campi. Un urlo liberatorio accoglie la salvezza. Sofferente - ma soddisfatto - Maestrelli tira un sospiro di sollievo. Si alza dalla panchina a fatica, accennando un timido sorriso. Esce di scena in punta di piedi allo stesso modo in cui era entrato; se ne va cambiando la storia, lasciando un esempio: si pu&ograve; essere uomini in tanti modi, Maestrelli lo &egrave; stato nel modo migliore.        

Il 7 ottobre del 1922 nasceva il tecnico del primo tricolore biancoceleste. Da calciatore - per un errore burocratico - scamp&ograve; alla tragedia di Superga. Le sue doti umane plasmarono uno spogliatoio ribelle&nbsp;

Tommaso Maestrelli: un esempio immortale, oltre lo scudetto della Lazio

        Con quel fisico, volendo anche con quel cognome, non ci credeva nessuno. Si dice che il grande Fulvio Bernardini, addirittura, vedendoselo arrivare giovanissimo per un provino con la Lazio, gli avesse detto di lasciar perdere: "Ne riparliamo tra qualche anno". Era convinto, &ldquo;Fuffo&rdquo;, di non incontrarlo pi&ugrave;, quel piccoletto, e invece si sarebbe dovuto ricredere, perch&eacute; Mario Frustalupi, che oggi avrebbe compiuto 80 anni, era destinato a una grande e sottovalutatissima carriera.&nbsp;  Il tragico destino di Mario Frustalupi Parliamo al condizionale, purtroppo, perch&eacute; Frustalupi non c&rsquo;&egrave; pi&ugrave; dal 1990: 14 aprile, sabato di Pasqua, mezza Italia che si sposta in macchina o in treno. Mario parte da Pistoia, dove dopo il ritiro &egrave; diventato direttore sportivo della Pistoiese, in direzione Cervinia, Valle d&rsquo;Aosta. C&rsquo;&egrave; la famiglia ad attenderlo, moglie e due figli: carica in auto regali per tutti, compreso un uovo di Pasqua. Piove tantissimo, guai a distrarsi, ma il destino non guarda in faccia a nessuno. Frustalupi va tranquillo sulla sua Lancia Thema bianca, non pu&ograve; immaginare che qualcuno, all&rsquo;altezza di Ovada, in Piemonte, sta tentando una strana e pericolosissima manovra in autostrada, appena fuori da una galleria, un&rsquo;inversione di marcia in un tratto in cui il guardrail si interrompe. Mario sotto il diluvio non vede quella macchina, con a bordo quattro persone compresa una bimba di 3 mesi, che sta invadendo la sua corsia e la centra in pieno. Muoiono tutti sul colpo.&nbsp;  Frustalupi, il cervello dello scudetto della Banda Maestrelli Anche se Frustalupi aveva chiuso la carriera da giocatore a Pistoia rimanendo poi a vivere nel capoluogo toscano, era stato con la Lazio (oltre che con la Sampdoria da giovane) che aveva ottenuto i primi grandi successi. Arrivato in biancoceleste nel 1972, gi&agrave; oltre la trentina, da un&rsquo;Inter che l&rsquo;aveva di fatto scaricato ritenendolo gi&agrave; bollito, sar&agrave; uno dei protagonisti dello scudetto di due anni dopo. Nel centrocampo laziale &egrave; il cervello, il faro, l&rsquo;uomo che vede tutto un attimo prima degli altri: al suo fianco Re Cecconi, l&rsquo;inesauribile. Mariolino, col suo metro e 66, giganteggia, cosa che all&rsquo;Inter non gli era riuscita pur avendo vinto anche in nerazzurro un tricolore, nel 1971. Quando muore, la Lazio sta giocando in campionato contro l&rsquo;Ascoli (3-0, gol di Sosa, Amarildo e Marchegiani) e la notizia piomba allo stadio Flaminio come una coltellata. Giorgio Chinaglia, il suo vecchio compagno, &egrave; distrutto: "Mario era stato uno degli artefici di quello scudetto, era una persona intelligente, qualunque commento sarebbe superfluo", prova a commentare &ldquo;Long John&rdquo;, sottolineando la maledizione di quella squadra che aveva gi&agrave; perso proprio Re Cecconi (ucciso da un gioielliere per sbaglio) e l&rsquo;allenatore Tommaso Maestrelli, stroncato da un tumore. Solo tre anni in biancoceleste, poi la cessione al Cesena e il finale, appunto, alla Pistoiese, culminato con la prima storica promozione in Serie A. In mille si radunano il giorno del suo funerale, perch&eacute; &ldquo;Mariolino&rdquo; era speciale, una persona perbene e un grande giocatore.  Nicol&ograve; Frustalupi, vice nel nome del padre Orfano di padre a 13 anni, Nicol&ograve; Frustalupi ha deciso di intraprendere presto una carriera nel mondo del calcio. Per lungo tempo &egrave; stato lo storico assistente e viceallenatore di Walter Mazzarri, che ha seguito ovunque, dai tempi della Pistoiese (dove in teoria doveva solo occuparsi di marketing e del giornale ufficiale della squadra) fino al Livorno, alla Reggina, al Napoli, all&rsquo;Inter e persino nell&rsquo;avventura del tecnico toscano al Watford, in Inghilterra. Calciatore modesto, la sua prima esperienza come capoallenatore &egrave; stata, tanto per cambiare, alla Pistoiese, il &ldquo;club di famiglia&rdquo;. "Sono molto contento, &egrave; la piazza dove ho sempre sognato di arrivare. Penso che anche mio padre da lass&ugrave; sia molto contento. Lui &egrave; il mio mito, lo porto sempre dentro di me", ha spiegato Nicol&ograve; al momento della firma. Purtroppo per lui, poca fortuna con la Pistoiese: 12 partite nell&rsquo;ultima stagione, poi l&rsquo;esonero. Dall'anno scorso &egrave; diventato, invece, tecnico della Primavera del Napoli.        

Inizialmente scartato da Fuffo Bernardini perch&egrave; troppo gracile, prese poi in mano il centrocampo della Lazio. Tante stagioni con la Sampdoria, il tricolore con l'Inter e la storica promozione con la Pistoiese a fine carriera. Se ne and&ograve; troppo presto in un tragico incidente

Mario Frustalupi: il cervello dello scudetto della Banda Maestrelli

        Affermando che non esistono pi&ugrave; i grandi specialisti di un tempo, si rivela semplicemente la verit&agrave;. &Egrave; un dato di fatto: oggi si segna meno su punizione, sono rari i calciatori che non fanno dormire i portieri la sera prima della partita. Da Mariolino Corso, profeta della &ldquo;foglia morta&rdquo;, marchio di fabbrica che l&rsquo;ha reso mitologico, passando per Maradona, Zico e Platini, fino ad arrivare agli specialisti degli anni &lsquo;90/2000: Zola, DelPiero, Totti, Baggio, Recoba, Pirlo, Signori in Serie A; Beckham, Juninho, LeTissier, Koeman, Ronaldinho e Roberto Carlos nel resto dell&rsquo;Europa; addirittura due &ldquo;portieri volanti&rdquo; come Rogerio Ceni e Chilavert in Sudamerica. Sicuramente ne abbiamo dimenticato qualcuno; appositamente sono rimasti fuori dall&rsquo;elenco Sinisa Mihajlovic e Pierrevan Hooijdonk: in vista di Lazio-Feyenoord l&rsquo;accostamento tra i due sembra quasi scontato.  Le sassate di Mihajlovic hanno segnato un'epoca Una tecnica, quella del serbo, assimilata nella ex Jugoslovia. &Egrave; cresciuto a Borovo, sulle sponde del Danubio, frazione di Vukovar situata nell&rsquo;attuale Croazia: basta attraversare il fiume per trovarsi in territorio serbo. Passava interi pomeriggi a calciare ininterrottamente contro il garage di casa: &ldquo;I vicini si lamentavano del rumore, mio padre del fatto che dovesse cambiare due porte l&rsquo;anno. Pi&ugrave; tardi, ho iniziato a staccare la testa alle sagome&rdquo;. Una predisposizione affinata sui campi di calcio jugoslavi e resa letale con l&rsquo;approdo in Italia. In Serie A &ndash; statistiche raccolte dal 1987 &ndash; il serbo ne ha incastonate 28, solo Pirlo come lui. Cercava spesso il palo del portiere puntando sulla forza, come accadde in occasione del suo 3&deg; gol, quando impallin&ograve; Marchegiani sul proprio palo, punendo la sua futura squadra e aprendo la strada al successo doriano. La punizione che consent&igrave; alla Samp di pareggiare a Napoli fu una perla di rara bellezza: un tracciante da distanza siderale finito nel sette. Sarebbe sbagliato chiamarlo un colpo alla &ldquo;Maradona&rdquo;, troppa distanza dalla porta e troppa violenza nello schiaffo al pallone. &Egrave; un colpo alla Mihajlovic. Boskov se lo coccola pavoneggiando nel ricordare di essere stato lui ad averlo portato in Italia, alla Roma nel &lsquo;92. Forse ancora acerbo, sicuramente indisciplinato tatticamente &ndash; arriv&ograve; come centrocampista offensivo &ndash;, Sinisa Mihajlovic &egrave; maturato negli anni a Genova. Si &egrave; sposato, si &egrave; tagliato i capelli, ma soprattutto &egrave; diventato un tiratore infallibile, incubo di tutti i portieri. C&rsquo;&egrave; chi addirittura pens&ograve; di farlo calciare senza barriera per veder partire la sfera. Le sue bombe scendevano in picchiata a velocit&agrave; elevatissima, prese addirittura in esame dall&rsquo;Universit&agrave; di Belgrado: 160 km/h (secondo solo al brasiliano Eder, che ai Mondiali del 1982 calciava a 174,5 km/h). Da lontano o da vicino; da destra o da sinistra; sul lato corto o sul lato lungo dell&rsquo;area di rigore non fa differenza. Il calciatore che ritrova Eriksson alla Lazio &egrave; un cecchino: ogni sua punizione all&rsquo;Olimpico viene accompagnata come fosse un rigore. Appare lo stendardo &ldquo;Sinisa tira la bomba&rdquo;: nel 1998-99 ne mette 7, tre delle quali nella stessa partita contro la sua ex Samp. Una tripletta da record che gli consente di eguagliare un altro &ldquo;laziale&rdquo; come Signori, unico a riuscirci prima di lui, che per&ograve;, nel giorno della tripletta, ne calci&ograve; una indiretta.  Contornato da trofei, si tolse anche la soddisfazione di segnare il primo storico gol in Champions dei biancocelesti: battuta affilatissima, palo-gol sul campo del Leverkusen. Lui che aveva gi&agrave; punito una tedesca, il Bayern Monaco, nella semifinale della Coppa Campioni &lsquo;91 poi vinta con la Stella Rossa. Indimenticabile per i tifosi laziali anche la traiettoria da posizione defilata che regal&ograve; il prestigioso successo in maglia gialla a Stamford Bridge. &ldquo;Nessuno al mondo sa calciare come lui da fermo. Siamo di fronte al pi&ugrave; grande specialista di sempre. Mihajlovic non si limita ad aggirare la barriera, ma calcia con effetto e forza assieme. Se le mie punizioni erano un ricamo, quelle del serbo sembrano missili terra-aria. &Egrave; capace di trasformare le foglie morte in proiettili traccianti. &Egrave; il prototipo del tiratore del 2000". L&rsquo;investitura &egrave; di quelle importanti, arriva da Mario Corso (una trentina di punizioni trasformate in Serie A), che nel 1999 intervistato al Corriere della Sera lo elegge migliore di sempre. &ldquo;Il mio vero segreto &egrave; la rincorsa: a differenza degli altri, non ho bisogno di partire da lontano per calciare con forza, dunque il portiere non sa mai quale tipo di tiro aspettarsi dal sottoscritto", questo il segreto di Sinisa.  Le traiettorie di Van Hooijdonk, un'artista al De Kuip Passi brevi e schiaffo al pallone per Mihajlovic, preparazione e stile totalmente differenti per Pierre van Hooijdonk. L&rsquo;olandese prendeva una rincorsa laterale (creando quasi un angolo retto con la barriera) e si avvicinava al pallone con passi lunghi. Dava pi&ugrave; effetto e risultava pi&ugrave; efficace dalla media-corta distanza. Il modo di calciare era sempre lo stesso: uno stile inimitabile che gli consentiva di dipingere inimmaginabili traiettorie arcuate. Carriera segnata da tanti cambi di maglia con la costante del gol, non solo su punizione. Per dieci anni nel giro della nazionale Oranje, con la quale ha avuto alterne fortune. Le sue esecuzioni hanno cominciato a fare il giro del mondo, rendendolo una vera icona del gesto. Al De Kuip ha fatto impazzire i tifosi del Feyenoord per due stagioni, tornando poi a fine carriera. Chiedere a Buffon, rimasto immobile, battuto dal destro dell&rsquo;olandese nella gara d&rsquo;esordio della Champions 2002-03. Ma Pierre il suo capolavoro l&rsquo;aveva dipinto quattro mesi prima: rigore e punizione a segno nella finale Uefa contro il Dortmund vinta 3-2 anche grazie al gol del compagno di reparto Tomasson, futuro attaccante milanista. In quella squadra, che aveva eliminato l&rsquo;Inter in semifinale, giocava anche un imberbe Van Persie: al pari di Sneijder confesser&agrave; di aver rubato i segreti dei piazzati dal mago olandese. Sinisa e Pierre non si sono mai affrontati da avversari (l&rsquo;olandese era in panchina nell&rsquo;ottavo del Mondiale &rsquo;98 vinto dagli Oranje contro la Jugoslavia). In un confronto virtuale, viste le diverse opzioni di calcio a disposizione, la spunta Mihajlovic. Ma anche le punizioni a scavalcare la barriera di Van Hooijdonk hanno fatto scuola.        

Due fenomenali specialisti dell&rsquo;arte del calcio piazzato: Sinisa e Pierre tra quelli che hanno fatto scuola

Lazio-Feyenoord: che sfida di punizioni tra Mihajlovic e Van Hooijdonk

        Sante Ancherani &egrave; il simbolo lontano di quello che &egrave; stata la Lazio degli albori, in quella Roma di inizio &lsquo;900 dove la maggior parte delle persone guardava con sospetto quei giovanotti in maniche di camicia che correvano e davano calci a una sfera il pomeriggio in Piazza d&rsquo;Armi. Secondo molti Ancherani &egrave; il padre della Lazio, oltre che primissimo pioniere del calcio a Roma, quello che pi&ugrave; di tutti in quella mattina del gennaio 1901 rimane estasiato quando uno sconosciuto, un tale Bruno Seghettini, irrompe nella sede dei laziali e comincia a parlare di questo football, sport inventato in Inghilterra ma ormai famoso in mezza Europa. &Egrave; quello che rimane subito ipnotizzato da quella sfera di cuoio marrone cucita a mano che gli fa vedere lo sconosciuto, ci gioca in continuazione ogni volta che pu&ograve;, trascinando quei pochi sodali non ancora convinti. All&rsquo;inizio i ragazzi della podistica non trovano nessuno che voglia giocare a questo football, tranne un gruppo di ragazzi scozzesi, seminaristi in Vaticano, che conoscono bene il gioco. E infatti rifilano una sonora batosta a Sante e compagni, che per&ograve; fanno tesoro della sconfitta, rubando con gli occhi il modo di giocare dei pi&ugrave; navigati avversari. In breve i ragazzi della Lazio diventano i pi&ugrave; bravi dell&rsquo;Urbe, sconfiggono per 3-0 la Virtus nel 1904, con tripletta di Ancherani, in quella che &egrave; riconosciuta come la prima partita di calcio giocata tra due squadre di Roma.&nbsp; Il pioniere del calcio romano Il giovane talento biancoceleste &egrave; sempre pi&ugrave; affascinato dal football, vola in Inghilterra e torna con un paio di scarpini, li consegna al suo calzolaio e ne fa fare per tutta la squadra: i tempi in cui si davano calci al pallone in Piazza d&rsquo;Armi con gli scarponi del Regio Esercito sono finiti, nel frattempo i giovani pionieri del calcio romano si trasferiscono al Parco dei Daini, a Villa Borghese. Santino, come viene soprannominato per la sua statura di certo non imponente, &egrave; un atleta straordinario: secondo le cronache dell&rsquo;epoca era velocissimo e riusciva a giocare con la sfera come nessun altro. Nel corso degli anni la sua Lazio, sua perch&eacute; ne diventa centrattacco, capitano e allenatore, diviene la squadra di football pi&ugrave; forte e conosciuta di Roma, trovando pochi avversari in grado di tenerle testa in tutto il centro Italia. Esemplare &egrave; il Torneo di Pisa in cui i biancocelesti vengono sfidati da Lucca, Spes Livorno e Virtus Juventusque, battendole tutte e tre nel giro di poche ore.&nbsp; La guerra e la vita dopo il calcio Nel 1916 viene chiamato alle armi, dove combatte in prima linea fino al giugno del 1918. Torna a Roma, smette col calcio giocato ma dedica tutta la vita a quel fantastico gioco che ormai sta prendendo sempre pi&ugrave; piede: apre una bottega di articoli sportivi in via dei Prefetti dove rimane una vita intera, cercando di rimanere sempre aggiornato sulle ultime novit&agrave; dall&rsquo;Inghilterra, patria del football. Il suo negozio diventa La Mecca del calcio a Roma, per decenni fornir&agrave; i palloni con cui si giocano tutte le partite dell&rsquo;Urbe, cuciti spesso a mano da lui. Laziale per tutta la vita, segue i biancocelesti fino al 9 settembre del 1971, quando se ne va all&rsquo;et&agrave; di 89 anni.&nbsp;        

Tessera numero sei della Societ&agrave; Podistica, fu il primo atleta dell&rsquo;Urbe a rimanere affascinato dal football, praticandolo con continuit&agrave; e con una certa maestria. Nasceva il 6 settembre di 140 anni fa&nbsp;

Sante Ancherani: primo calciatore di Roma, pioniere della Lazio

        Nella lingua ceca "medved" significa "orso". La corporatura di Pavel non ricorda certamente quella del grande onnivoro, ma il carattere s&igrave;: brontolone, riservato, poco appariscente e, per i pi&ugrave;, antipatico. Il centrocampista ceco si &egrave; costruito questa taccia negli anni vissuti in campo &ndash; calciatore combattivo fino all&rsquo;inverosimile - e in quelli da dirigente prima e vicepresidente poi della Juventus, squadra pi&ugrave; tifata, ma allo stesso tempo, calcisticamente parlando, anche pi&ugrave; odiata in Italia. "S&igrave; &egrave; vero, ero un provocatore. Davo molto fastidio, perch&eacute; ero forte, avevano paura di me e parlavano". Alla Continassa Nedved &egrave; una leggenda; la sua Stella nel Walk of Fame &egrave; una delle pi&ugrave; lucenti proprio perch&eacute; brilla dei valori che da sempre caratterizzano il club. Quei valori trasmessi con affetto dal pap&agrave; Vaclav nella vecchia Cecoslovacchia, a Cheb, dove quel ragazzo biondo con gli occhi azzurri &egrave; diventato uomo: &ldquo;Mi &egrave; stato insegnato che i risultati si ottengono lavorando e soffrendo, in questo mi sento molto ceco&rdquo;. Nella Boemia occidentale al confine con la Germania il piccolo Pavel &egrave; cresciuto, ha studiato e si &egrave; diplomato. Ovviamente ha anche giocato, per tante, infinite ore: alla scuola calcio &ndash; fin dai 5 anni &ndash; e nel garage di casa, a battimuro, mentre scorrevano via i rigidi pomeriggi boemi.  Una storia italiana (ormai) quella di Pavel Nedved da Cheb, che continua a essere scritta a Torino e che inizia nel lontano 1996, quando un ragazzo con gli occhi di ghiaccio approda nel nostro campionato per giocare con la Lazio. &Egrave; costato 9 miliardi, arriva dallo Sparta Praga. Ha talento, grinta e tanta voglia di imparare. Il palcoscenico che gli ha permesso il salto &egrave; quello degli Europei inglesi, dove si &egrave; messo in luce con la sua Nazionale, che da ormai tre anni &egrave; l&rsquo;indipendente Repubblica Ceca.  Lo stesso Paese d&rsquo;origine del primo allenatore che trova in Italia. Zdenek Zeman ci aveva visto lungo, visionando e caldeggiando l&rsquo;acquisto di Nedved gi&agrave; prima dell&rsquo;Europeo (vetrina che ne ha lievitato il prezzo e allungato la lista delle contendenti). Pavel approda nel posto giusto, in un club che sta per raggiungere il punto pi&ugrave; alto della sua esistenza. Viene schierato come terzo di centrocampo sulla sinistra, sacrificato &ndash; potrebbe agire anche nel tridente &ndash; ma comunque collocato in una posizione che gli permette di inserirsi e accentrarsi per calciare di destro o crossare di sinistro. Una costante nella carriera del ceco &egrave; stata quest&rsquo;imprevedibilit&agrave; dovuta ai continui cambi di direzione: era difficile capire dove potesse andare a parare. Nedved nasce mancino, ma grazie al maniacale allenamento si &egrave; presto trasformato in un formidabile ambidestro, tra i migliori che si ricordino. Ai tempi di Praga i compagni lo chiamavano il &ldquo;Matto&rdquo; per le tante ulteriori ore di esercizio individuale alle quali si sottoponeva.  Le premesse per un grande torneo ci sono tutte, la Lazio per&ograve; parte male: alla 19esima c&rsquo;&egrave; il cambio in panchina, al boemo subentra Zoff. Problemi che &ndash; inaspettatamente, visto il feeling con Zeman che cercher&agrave; addirittura di portarselo alla Roma &ndash; non riguardano Pavel: da novellino salter&agrave; appena 2 gare in campionato partendo sempre tra i titolari. Apre il conto in Serie A (saranno 73 a fine carriera) il 20 ottobre con un siluro di destro dai 30 metri al Cagliari. Una bomba che infiamma l&rsquo;Olimpico e che segue la rasoiata di sinistro al Tenerife in Coppa Uefa (suo primo gol con la Lazio cinque giorni prima). Il ceco segner&agrave; anche al ritorno, ancora con una micidiale conclusione dalla lunga distanza che non servir&agrave; a evitare l&rsquo;eliminazione. Il suo rendimento, come quello di tutta la squadra, sale nel girone di ritorno. Chiude il primo campionato italiano al quarto posto, con 7 reti e tante giocate importanti. Le belle speranze in lui riposte sono ormai realt&agrave;: la Lazio ha la sua &ldquo;Furia Ceca&rdquo;.  Il triennio d&rsquo;oro della Lazio di Eriksson Nella stagione successiva Cragnotti inizia a costruire sogni. Ecco Eriksson, che dalla Samp &ndash; in attesa di Mihajlovic che arriver&agrave; un anno dopo &ndash; si porta dietro Mancini. L&rsquo;approdo del Mancio accende una miccia che esploder&agrave; in un grande addio: Beppe Signori lascer&agrave; nella finestra invernale di mercato. Lo svedese chiede e ottiene Jugovic, altro fenomenale tuttocampista gi&agrave; allenato a Genova bicampione d&rsquo;Europa con Stella Rossa e Juve. Dal Siviglia approda in biancoceleste il grintoso Almeyda. Una mediana che pu&ograve; usufruire per l&rsquo;ultimo anno di un Diego Fuser al top della forma, in attesa di essere rinforzata nell&rsquo;estate successiva con gli arrivi di Stankovic, Conceicao e De la Pena; e divinamente puntellata nel &rsquo;99 con Veron, Sensini e Simeone. In questo ricco carnevale prevalentemente sudamericano, Nedved rappresenter&agrave; la concretezza: l&rsquo;uomo pi&ugrave; performante e continuo del centrocampo stellare a disposizione di Eriksson. Quello che non molla mai.  Nel 1997-98 i biancocelesti lottano su tre fronti. Il 31 marzo &ldquo;Mezzasquadra&rdquo; Jugovic decide la semifinale d&rsquo;andata della Coppa Uefa al Calderon contro l&rsquo;Atletico Madrid (0-1). In quel momento la Lazio &egrave; a un passo dalla sua prima finale europea, terza in campionato (-2 dalla Juve capolista) e in procinto di disputare la finale di Coppa Italia. La Furia Ceca ha fatto cose straordinarie, da ricordare i 2 gol nei quattro derby stagionali vinti contro i cugini giallorossi: un guizzo fulmineo seguito da un tocco morbido a scavalcare Konsel a firmare il momentaneo 3-0 nella prima sfida - Delvecchio nel recupero segner&agrave; il gol della bandiera per la squadra proprio di Zeman -; un sinistro da posizione impossibile a sancire il 2-0 del quarto atto.  Vinta la Coppa Italia, persa la Uefa con l&rsquo;Inter di Ronaldo e chiuso il campionato al 7&deg; posto &ndash; crollo dovuto al cumulo di impegni nello sprint finale &ndash;, si riparte dalla Supercoppa del Delle Alpi contro la Juve. &Egrave; Nedved ad aprire la contesa: preciso esterno destro in seguito allo straordinario assist di tacco del Mancio. Una rete di Conceicao nel recupero regala poi il trionfo alla Lazio (2-1), ma la terza stagione romana del ceco sar&agrave; complicata, segnata da un infortunio che ne comprometter&agrave; il rendimento. Le magie le tiene comunque in caldo per l&rsquo;Europa. Porta la sua firma uno dei gol pi&ugrave; belli e importanti della storia del club: quello che decide la finale di Coppa delle Coppe, primo storico trofeo continentale alzato da Alessandro Nesta al cielo di Birmingham il 19 maggio 1999. Lo scudetto invece sfumer&agrave; sul pi&ugrave; bello, con la Lazio trascinata dalla nuova fenomenale coppia gol Vieri-Salas e dominatrice per quasi tutto il campionato beffata alla penultima dal sorpasso milanista.  Un tricolore restituito dalla sorte dodici mesi pi&ugrave; tardi sotto &ldquo;l&rsquo;Acquasanta&rdquo; di Perugia. Nel 1999-2000 ancora un gol in un derby vinto per la Furia Ceca, quello di ritorno, anche se forse la prova pi&ugrave; significativa resta quella del 9 gennaio, giorno del centenario del club. Traversa colpita che consente a Salas il facile tap-in del vantaggio e gol vittoria di testa a coronare una prestazione magnifica in una di quelle giornate che sembravano maledette, in cui la squadra non girava. Una partita in cui non si fa mancare proprio nulla, uscendo dal campo tarantolato per il doppio giallo rimediato a 5 dal termine. Nel frattempo ci &egrave; passata di mente un&rsquo;altra &ldquo;coppetta&rdquo; conquistata da Nedved e compagni, che ormai quasi un anno prima avevano battuto il Manchester United nella Supercoppa Europea giocata a Montecarlo.  Nedved, dalla Lazio alla Juve per 85 miliardi Nel 2000 la Lazio si porta a casa il &ldquo;Triplete Nazionale&rdquo; (scudetto, Coppa Italia e Supercoppa), Nedved ha ormai 28 anni ed &egrave; universalmente riconosciuto come uno dei centrocampisti pi&ugrave; forti al mondo. Gioca un&rsquo;altra stagione da campione prima di trasferirsi &ndash; voluto da mezza Europa &ndash; alla Juventus. Indimenticabile l&rsquo;ultima prova del ceco contro la sua futura squadra: doppietta in una notte magica all&rsquo;Olimpico (4-1). L&rsquo;istantanea finale ricordata dai tifosi laziali resta invece quella del derby di ritorno, quando riapre la sfida con un bolide da fuori prima del pareggio in pieno recupero di Castroman.  Gli stessi tifosi che si sentono traditi quando lo vedono passare in bianconero. Un &ldquo;tradimento&rdquo; che brucia ancor di pi&ugrave; pensando al sostituto del ceco: Gaizka Mendieta, pagato da Cragnotti 90 miliardi, 5 in pi&ugrave; di quelli incassati per Nedved.&nbsp; Quando arriva alla Juventus Pavel non &egrave; pi&ugrave; quel ragazzo timido e sconosciuto dai capelli pettinati con cura; &egrave; un uomo dai polmoni d&rsquo;acciaio e dai piedi fatati, mentre in testa regna una folta chioma bionda temuta e rispettata da tutti. Un signore del centrocampo chiamato a sostituire un altro campione come Zinedine Zidane. "Avevo gi&agrave; l&rsquo;accordo con Cragnotti, per&ograve; Pavel non lo sapeva. Mi disse di voler restare alla Lazio, era innamorato del verde e dei campi da golf dell&rsquo;Olgiata. Lasciai passare un paio di settimane e gli telefonai a Praga: gli spiegai che i campi da golf, bellissimi, c&rsquo;erano anche al parco della Mandria, dove risiedeva il dottor Umberto Agnelli, e l&rsquo;invitai almeno a visitarli in segreto, per poi decidere con tranquillit&agrave; il suo futuro. Accett&ograve; per cortesia e organizzai un volo privato, per&ograve; non mantenni il segreto: sparsi la voce tra i giornalisti, all&rsquo;aeroporto c&rsquo;erano fotografi e telecamere, a Roma si venne a sapere del blitz. Qualche tifoso la prese anche male, alla fine fu pi&ugrave; semplice ottenere il s&igrave;. Sono felice di aver contribuito, anche attraverso quel sotterfugio, quella trappola, a costruire l&rsquo;avvenire di un ragazzo eccezionale". (Luciano Moggi)  La prima Juventus di Pavel ritrova dopo due anni Marcello Lippi. L&rsquo;obiettivo &egrave; quello di rivivere i fasti degli anni &rsquo;90, tornare a dominare in Italia e in Europa. Trasformato ormai in un centrocampista totale, nel 2001-02 il ceco vive il suo upgrade tattico: viene spostato al centro, dove agir&agrave; sulla trequarti alle spalle di Del Piero e Trezeguet. Ci mette un pochino a interpretare al meglio la nuova posizione, zona del campo in cui &egrave; pi&ugrave; libero di svariare e che probabilmente gli ha allungato la carriera. Giusto il tempo di adattarsi ed ecco che, come a Roma, anche a Torino Pavel diventa presto il valore aggiunto di Marcello Lippi. Prende per mano la Signora e la porta fino al trionfo, uno dei pi&ugrave; indimenticabili della storia bianconera, che si concretizza il celebre 5 maggio. Due gol e otto assist nel girone di ritorno, tra cui il meraviglioso sinistro che stende il Piacenza a tempo scaduto nel giorno in cui l&rsquo;Inter viene fermata a Verona.  Il 2003 di Pavel Nedved, gioie e dolori Se vogliamo l&rsquo;unico difetto del Pavel Nedved calciatore dimora in quella foga eccessiva trasmessa in tutte le giocate, fino all&rsquo;ultimo pallone. I calciatori che non si risparmiano ricadono spesso in sanzioni. &Egrave; un attimo: quando l&rsquo;acido lattico si tramuta in fatica per i chilometri percorsi e la concentrazione cala fisiologicamente. Come all&rsquo;82esimo della semifinale di ritorno di Champions League, quando Pavel sgambetta il pi&ugrave; fresco &ndash; perch&eacute; appena entrato &ndash; Steve McManaman. Un cartellino giallo che lo costringe a saltare la finale tutta italiana contro il Milan. Chiss&agrave; come sarebbe finita con lui in campo, &egrave; questo il rimpianto di Pavel e di tutti i tifosi juventini.  "L&rsquo;ultimo capolavoro di Lippi consegna alla storia del calcio il trionfo di un gruppo che Alessandro Del Piero, David Trezeguet, Pavel Nedved e Gianluigi Buffon hanno guidato con la classe dei migliori, la stessa di Zidane, l&rsquo;ultimo madridista ad arrendersi, come dimostra il suo gol d&rsquo;autore. Peccato che per una vera, incommensurabile jattura, un&rsquo;ammonizione impedir&agrave; a Nedved di giocare a Manchester: se c&rsquo;&egrave; un campione che pi&ugrave; di ogni altro ha meritato la finale questi &egrave; il ceco per il quale il Pallone d&rsquo;Oro non &egrave; un premio, ma un diritto. Le lacrime di Nedved sono le lacrime di un fuoriclasse e di un uomo vero, di un calciatore unico nel suo genere" (Da &ldquo;Le lacrime di Nedved&rdquo; editoriale di Xavier Jacobelli sulla prima del Corriere dello Sport-Stadio 15/05/03)  Riassumendo la stagione 2002-03 della Furia Ceca in numeri: sono 9 gol in 29 gare di campionato; 5 in 15 di Champions; uno scudetto e una Supercoppa a livello di trofei. Il Pallone d&rsquo;Oro gli viene consegnato con 190 punti: 62 pi&ugrave; del secondo Thierry Henry, 67 pi&ugrave; del terzo Paolo Maldini. &Egrave; il secondo calciatore ceco ad essere insignito di tale riconoscimento dopo Josef Masopust, eccezionale centrocampista del Dukla Praga (squadra dove Nedved ha mosso i primi passi da pro) e secondo con la Cecoslovacchia ai Mondiali del 1962.&nbsp;  Seguono altre due stagioni ad altissimo livello con Lippi e Capello. Il tecnico di Pieris sostituisce il viareggino diventato nuovo Ct azzurro. Due campionati dominati ma stravolti dalle note vicende di Calciopoli nell&rsquo;estate 2006 che retrocederanno la Juve in B (il titolo 2004-05 verr&agrave; revocato, quello del 2006 assegnato all&rsquo;Inter terza sul campo). Mentre l&rsquo;Italia colora d&rsquo;azzurro il tetto del mondo, Nedved si toglie la soddisfazione di giocare il suo primo e unico Mondiale con la Repubblica Ceca. Ovviamente lo fa da capitano di una Nazionale che lascer&agrave; dopo la rassegna tedesca, con 91 presenze e 18 reti all&rsquo;attivo. Ma il 2006 &egrave; soprattutto l&rsquo;anno che lo legher&agrave; per sempre alla Juventus. Decide di restare anche in Serie B, come gli altri senatori Buffon, Del Piero e Trezeguet.  Per sempre bandiera della Juventus L&rsquo;inferno dura una sola stagione: la Juve torna subito in A per ricostruire. Con Ranieri e Ferrara arrivano un terzo e un secondo posto. L&rsquo;ultima recita di Nedved a Torino il 31 maggio 2009 proprio contro la Lazio. Quel giorno Alex Del Piero gli cede la fascia, tutta la squadra lo accoglie in campo con la maglia numero 11 e l&rsquo;Olimpico gli dedica la festa. &ldquo;Sono orgoglioso di avere giocato con Pavel Nedved (anche perch&eacute; me lo ricordo da avversario, e vi assicuro che &egrave; molto meglio averlo dalla propria parte). Sono orgoglioso di avergli messo al braccio la fascia che indosso da tanti anni. Mi legano a lui tanti ricordi, tante vittorie, qualche sconfitta, la scelta di restare alla Juventus anche in Serie B per ritornare in alto, insieme. Ma soprattutto mi legano a Pavel tutti quei momenti, anche apparentemente insignificanti, quegli attimi vissuti insieme in questi otto anni, che per me rappresentano la grandezza non solo del calciatore, ma anche dell'uomo, dell'amico&rdquo;  Parole al miele di Alex Del Piero per un campione che ha incarnato lo spirito Juve pi&ugrave; di chiunque altro. Un uomo che ha reso il Pallone d&rsquo;Oro un premio di contorno: per lui sono sempre importati il gruppo e i risultati ottenuti insieme grazie al duro lavoro. Anche quando entrato di diritto tra i centrocampisti pi&ugrave; forti in circolazione, la mattina si alzava all&rsquo;alba per andare a correre da solo prima dell&rsquo;allenamento.&nbsp;        

La carriera del fenomenale centrocampista ceco nato a Cheb il 30 agosto 1972. Sbocciato a Euro '96, &egrave; salito alla ribalta in Serie A ed &egrave; stato insignito con il Pallone d'Oro nel 2003&nbsp;

Pavel Nedved: campione con la Lazio e leggenda della Juventus

        Due artisti del pallone che fu; geni che udite udite, non hanno mai vestito la maglia della Nazionale: Vincenzo D&rsquo;Amico ed Evaristo Beccalossi. Sono i fantasisti di due scudetti operai: D&rsquo;Amico con la Lazio del &rsquo;74 timonata da Tommaso Maestrelli, venuto dal nulla e accolto con scetticismo, in grado di tramutare i &ldquo;clan&rdquo; interni dello spogliatoio in un gruppo vincente; Beccalossi con l&rsquo;Inter nel 1980, guidata dal Sergente di ferro Eugenio Bersellini, capace di surclassare una Juve pi&ugrave; attrezzata e in procinto di fare man bassa di trofei in Italia e in Europa negli anni a venire.  D&rsquo;Amico &Egrave; ancora un teenager Vincenzino quando Maestrelli lo lancia nel &rsquo;72: debutta non ancora 18enne all&rsquo;Olimpico contro il Modena, schierato in attacco al fianco di Chinaglia e Massa. &Egrave; proprio l&rsquo;addio di Peppiniello &ndash; trasferitosi all&rsquo;Inter &ndash; a lasciargli il posto in squadra. Vincenzino per&ograve; &egrave; sfortunato: si rompe il ginocchio ed &egrave; costretto a saltare l&rsquo;intero campionato alle porte. Sarebbe stato il suo primo in Serie A. Si rifar&agrave; diventando il Golden Boy del primo scudetto. Equilibratore di fantasia nel tridente di Maestrelli; lasciato fuori dalle faide interne al gruppo &ndash; sotto l&rsquo;ala protettiva del capitano Pino Wilson, delegato di controllarlo anche a tavola &ndash;, il ragazzino venuto da Latina scoppia in lacrime quando segna la prima rete in Serie A (su assist di tacco di Chinaglia) e ritrova il gol nel giorno pi&ugrave; importante, quello del derby di ritorno, pareggiando la sfida che Long John infiamma indicando la Sud. Una stracittadina passata alla storia che proietta la Lazio a +4 sulla Juve avvicinandola al tricolore. Uno scudetto che arriver&agrave; un mese e mezzo pi&ugrave; tardi, del quale Vincenzo D&rsquo;Amico rimarr&agrave; per sempre &ldquo;faccia pulita&rdquo; in mezzo ai volti dei vari bad boys che giocavano nella turbolenta Roma degli anni &rsquo;70.  Beccalossi Gli stessi anni in cui emerge calcisticamente il classe &rsquo;56 (due primavere in meno di D&rsquo;Amico) Evaristo Beccalossi. Un trequartista geniale che sboccia nel torneo 1976, nella sua Brescia in Serie B. L&rsquo;Inter lo acquista solo nel &rsquo;78, un anno dopo aver prelevato, sempre dalle Rondinelle, il suo grande amico Spillo Altobelli. A Milano Beccalossi diventer&agrave; un&rsquo;icona: un po&rsquo; per il modo di giocare, un po&rsquo; per il modo di essere. "Non ero un guerriero, mi allenavo poco, accendevo spesso e volentieri una Marlborina. Bersellini tent&ograve; di raddrizzarmi, ma fu tutto inutile". Il Becca &egrave; cos&igrave;, prendere o lasciare. E per i tifosi Bauscia i trucchi mostrati in campo hanno sempre prevalso sulla discontinuit&agrave; emersa nella carriera del fantasista bresciano. Genio e sregolatezza, come quando nel 1979-80 stende il Milan con una doppietta di destro: delizioso il primo tocco al volo; facile facile il secondo. &Egrave; quella la prestazione che ispira la celeberrima frase &ldquo;Sono Evaristo, scusate se insisto&rdquo;: "Merito del mio grande amico Beppe Viola. Dopo quel derby uscendo dallo stadio sent&igrave; un tifoso che diceva quella frase. La ripet&eacute; in televisione e da allora...".  Rigori e bandiere Evaristo insiste anche il 15 settembre &rsquo;82, Coppa Coppe, Inter-Slovan Bratislava: "Ero il primo rigorista, arrivo l&igrave; e sbaglio. Pazienza, succede. Dopodich&eacute;, secondo rigore. La regola era ferrea: se il rigorista principale sbaglia, tocca al secondo. Mi giro e vedo il secondo rigorista che corricchia all&rsquo;indietro verso centrocampo e capisco l&rsquo;antifona". Due rigori sbagliati resi ancora pi&ugrave; popolari a teatro dal comico Paolo Rossi, che li inser&igrave; nel suo show, prima di &ldquo;cantarne le gesta&rdquo; anche nella trasmissione &ldquo;Su la testa&rdquo;, andata in onda su Rai 3 nel &rsquo;92. Come il Becca &ndash; che in carriera ne ha comunque realizzati 17 sbagliandone solo 3 &ndash; anche D&rsquo;Amico si presentava spesso dagli 11 metri (14 segnati, 3 falliti). Si prendeva le responsabilit&agrave; Vincenzino: ceduto controvoglia al Toro e tornato in fretta e furia per mantenere a galla una Lazio vicina al baratro, orfana di Giordano, Wilson e Manfredonia. La sua fiamma biancoceleste in campo resta accesa fino al 1986, quando lascer&agrave;, forse tramandando qualcosa ai ragazzi che scriveranno l&rsquo;impresa del -9. Come dicevamo, una carriera ad alti livelli senza Nazionale. Rimpianto per D&rsquo;Amico, che da giovane ha vestito l&rsquo;azzurro dell&rsquo;Italia B, dell&rsquo;U-18, dell&rsquo;U-23 e di quella militare. Ancora pi&ugrave; grande il rammarico per Evaristo, che negli anni &rsquo;80 &egrave; addirittura salito di livello, sfiorando la finale di Coppa Campioni 1981, giocando un campionato 1981- 82 da urlo e agitando proteste popolari quando Bearzot lo escluse dal Mundial. Beccalossi rappresenta una delle ultime maglie di lana nerazzurre con su cucito il numero 10, quasi un&rsquo;icona pop; D&rsquo;Amico con quella faccia d&rsquo;angelo non poteva finire all&rsquo;inferno, cos&igrave; come la sua amata Lazio alla quale ha dedicato una vita. Regista offensivo, mancino, dribblomane &ndash; o Driblossi, come lo chiamava Brera &ndash; e meno faticatore Beccalossi; destro, schierato prevalentemente in fascia, terribile nello stretto e abile crossatore D&rsquo;Amico. Diversi in campo e fuori, entrambi romantici interpreti del calcio che fu.        

Vincenzino ed Evaristo, calciatori fantastici, adorati dai loro tifosi, non sono per&ograve; mai riusciti a giocare con la maglia della Nazionale italiana

Lazio-Inter: gli anni d'oro di D'Amico e Beccalossi

        Un grande protagonista della Serie A degli anni &rsquo;90/primi 2000, che ha girato lo Stivale da Nord a Sud, vestendo maglie importanti e giocando con tanti campioni: Massimiliano Esposito. Nato a Napoli il 27 maggio 1972, ha dato i primi calci al pallone come si faceva una volta: &ldquo;Come tutti i ragazzi napoletani ho iniziato a giocare per strada, le mie prime partite erano in mezzo alle macchine e alle persone nelle viuzze di Napoli. I primi passi sul campo li ho mossi nella scuola calcio di Gianni Improta e da l&igrave; sono stato catapultato in una societ&agrave; professionistica come il Catanzaro, che allora militava in Serie B&rdquo;. Ha spiccato il volo con la maglia della Reggiana, prima di arare le fasce dell&rsquo;Olimpico, al servizio di Zdenek Zeman con la Lazio: &ldquo;Mentre ero alla Reggiana arrivarono tantissime richieste. La chiamata che non potei rifiutare fu quella della Lazio di Zeman. Il boemo mi aveva gi&agrave; cercato quando era a Foggia e io a Catanzaro, ma l&igrave; il matrimonio non si fece per chiss&agrave; quale motivo&rdquo;. Poi il sogno dell&rsquo;approdo al Napoli, squadra della sua citt&agrave; per la quale faceva il tifo da bambino. Un&rsquo;esperienza complicata ma comunque indimenticabile, prima delle stagioni a Perugia e Brescia, dove la sua strada s&rsquo;incroci&ograve; con quella del mitico Carletto Mazzone: &ldquo;Seguirlo da Perugia a Brescia per me &egrave; stato importantissimo, non tanto dal punto di vista della carriera, ma da quello umano. Mi ha dato tantissimo e posso dire che tutto quello che mi ha trasmesso, cerco di inculcarlo oggi ai ragazzi che alleno. Sono valori importanti che ti porti dietro per tutta la vita&rdquo;. Nella lunga chiacchierata che ci ha gentilmente concesso, ripercorriamo tutta la carriera di Massimiliano Esposito. Come hai vissuto il salto diretto dalla Serie C2 con il Catanzaro alla Serie A con la Reggiana? &ldquo;Come tanti giornali dell&rsquo;epoca descrissero, fu un salto davvero vertiginoso, dalla Serie C2 alla A. Tutto potevo immaginare fuorch&eacute; diventare, al primo anno di Serie A, protagonista o eroe, come mi chiamano i tifosi della Reggiana, di una salvezza storica. Ad oggi nessuno &egrave; riuscito ad eguagliare quel risultato. &Egrave; stato un anno di crescita, grazie all&rsquo;aiuto della societ&agrave; e del mister ho avuto la possibilit&agrave; di formarmi in maniera lenta, tranquilla, ma costante. Questo lavoro poi mi ha portato a realizzare cinque reti nelle ultime otto partite, una pi&ugrave; importante dell&rsquo;altra. L&rsquo;ultima nella partita finale contro il Milan, dove vincemmo 1-0 e raggiungemmo la salvezza proprio al fotofinish&rdquo;.  Cinque reti decisive e di pregevole fattura: ma facevi solo gol belli? &ldquo;Ogni tanto mi rivedo i filmati dei gol che ho fatto, anche se me ne mancano tanti perch&eacute; non sono riuscito a recuperarli, ed effettivamente ho fatto tutti gol belli e difficili. Quelli facili non mi riuscivano (ride ndr)&rdquo;. Come quello che segnasti appena arrivato a Napoli in un&rsquo;amichevole di lusso al San Paolo contro l&rsquo;Olympiakos&hellip; &ldquo;La rovesciata contro l&rsquo;Olympiakos &egrave; una parentesi che ricordo sempre e che ricordano anche i tifosi. Purtroppo l&rsquo;ho fatta in un&rsquo;amichevole e non in una competizione ufficiale, perch&eacute; per la difficolt&agrave; del gesto tecnico sarebbe stato un gol del quale si parlerebbe ancora oggi&rdquo;. Hai sempre giocato sulla fascia destra, quanto &egrave; stato differente interpretare il tuo ruolo con allenatori fautori di un calcio agli antipodi come Zeman e Mazzone? &ldquo;Il mio ruolo &egrave; stato sempre quello di ala destra. Con Zeman giocavo largo nel tridente, facevo l&rsquo;ala offensiva, come con la Reggiana. Mazzone, sia se giocava a 3 dietro (quindi con i quinti a centrocampo) o con la mediana a quattro (quando ricoprivo comunque il ruolo di esterno di centrocampo), pretendeva che gli esterni ripiegassero sulla linea difensiva. Con lui mi sono trasformato nella classica ala tornante, attenta sia alla fase difensiva che a quella offensiva. Ruolo che richiedeva un grande dispendio di energie&rdquo;.  Quanto devi a Zeman e Mazzone? &ldquo;Sono i due allenatori che hanno segnato la mia carriera. Zeman mi ha dato la possibilit&agrave; di arrivare in un grande club come la Lazio: in un certo senso ha dato il la alla mia carriera. Carattere un po&rsquo; particolare, lo conosciamo tutti, ma grandissimo intenditore di calcio. Inventore di quel 4-3-3 che dava spettacolo. Con lui io andavo a nozze, visto che era un fautore del gioco offensivo. Mazzone &egrave; stato per me come un secondo padre, curava molto di pi&ugrave; i rapporti umani con i giocatori. Diventare un suo fedelissimo voleva dire tanto: parliamo di un uomo espertissimo, il decano degli allenatori. Ti racconto un aneddoto. Diceva sempre che aveva un fratello gemello: fuori dal campo era lui in persona, mentre in campo entrava in gioco il suo gemello. Queste due personalit&agrave; si amalgamavano alla grande, era un mix di insegnamenti, valori, battute, autoironia&hellip; Un uomo che ha dato tantissimo al calcio e a tutti i calciatori che hanno avuto la fortuna di averlo come allenatore&rdquo;.  Dopo la Reggiana l&rsquo;approdo alla Lazio, una squadra a cui eri gi&agrave; legato&hellip;&nbsp; &ldquo;S&igrave;, perch&eacute; io sono tifoso del Napoli, ma simpatizzo Lazio. Un un mio carissimo amico, Antonio Nosdeo, &egrave; tifoso biancoceleste. Eravamo insieme a Catanzaro e lui mi trasmise questa simpatia per la Lazio&rdquo;. Come and&ograve; l&rsquo;avventura nella Capitale? &ldquo;Ero partito titolare: all&rsquo;inizio Zeman mi aveva preferito a Rambaudi e avevo esordito in campionato addirittura con una doppietta. Poi un infortunio mi tenne lontano dai campi per circa due mesi e al rientro giocai un pochino meno&rdquo;. Nell&rsquo;estate del 1996 la realizzazione di un sogno: Massimiliano Esposito viene acquistato dal Napoli. &ldquo;L&rsquo;avventura di Napoli &egrave; un mix di emozioni. Soprattutto all&rsquo;inizio: sai, ritornare dopo tanti anni a casa e giocare con la squadra per cui hai sempre tifato, spogliarsi nello spogliatoio dove si spogliava Maradona, giocare al San Paolo e, soprattutto, giocare per la tua gente. Ripercorri da professionista tutto quello che avevi sognato da tifoso: &egrave; qualcosa d&rsquo;impagabile&rdquo;.  Cosa non and&ograve;? &ldquo;Purtroppo sono capitato in un Napoli dove l&rsquo;era Ferlaino stava finendo. Due anni particolari, difficili, che mi hanno fatto togliere comunque qualche soddisfazione. Abbiamo giocato una finale di Coppa Italia contro il Vicenza, perdendola in maniera rocambolesca. Ho solo sfiorato la vittoria di un trofeo, ma &egrave; stato comunque emozionante. Ricordo la semifinale contro l&rsquo;Inter. Al San Paolo c&rsquo;erano 80mila spettatori, non c&rsquo;era un buco, quelli restano ricordi indelebili per un giocatore, figuriamoci per un tifoso che scende in campo&rdquo;.  Cosa ti ha lasciato l&rsquo;avventura nella squadra della tua citt&agrave;? &ldquo;La cosa bella &egrave; che, pur non essendo stati due anni da ricordare per il Napoli, oggi riscontro sui social grande calore e affetto da parte dei tifosi napoletani, addirittura pi&ugrave; da parte loro rispetto a quelli delle altre piazze in cui ho giocato. Una cosa che sinceramente non mi sarei mai aspettato, invece c&rsquo;&egrave; e me la godo tutta. Questo dimostra che l&rsquo;attaccamento alla maglia e l&rsquo;impegno che ci ho messo, cose che purtroppo si vedono sempre meno nel calcio d&rsquo;oggi, &egrave; stato apprezzato&rdquo;. Vista la tua simpatia per la Lazio, se ti dico 14 maggio 2000? &ldquo;Giocavo con il Perugia. In squadra avevamo Materazzi, che ai tempi era super laziale (poi col tempo &egrave; diventato interista), quindi ti posso far immaginare come abbia caricato l&rsquo;ambiente e lo spogliatoio. Ovviamente per quanto mi riguarda c&rsquo;era poco da caricare, da ex laziale e simpatizzante avevo piacere che lo scudetto lo vincesse la Lazio piuttosto che la Juventus. Noi non avevamo niente da perdere, a parte le minacce di Gaucci che ci avrebbe portato in ritiro se avessimo perso la gara (ride ndr). Anche lo stesso Mazzone ci chiese di rispettare il campionato fino alla fine, di dare tutto quello che avevamo, dimostrando all&rsquo;Italia e al mondo intero che c&rsquo;era rispetto per la partita e per il campionato. Cos&igrave; &egrave; stato, magari non ci aspettavamo una vittoria, per&ograve; alla fine &egrave; arrivata. Avevamo pi&ugrave; benzina nelle gambe della Juve, perch&eacute; aldil&agrave; del campo pesante, eravamo pi&ugrave; liberi mentalmente. Venne fuori una grandissima vittoria che port&ograve; lo scudetto alla Lazio: tutti vissero felici e contenti&rdquo;. Dopo il Perugia, il trasferimento al Brescia. Cosa si prova a giocare con Roberto Baggio? &ldquo;Fin da piccolo, oltre ovviamente a Maradona che era l&rsquo;idolo incontrastato, provavo un fascino particolare per Baggio. Quando lo ritrovai a Brescia fu incredibile. Lo spogliatoio mi aveva affidato la maglia numero 10. Io per il mio ruolo preferivo la 7, ma non c&rsquo;erano in squadra &lsquo;giocatori da 10&rsquo;, quindi la affidarono a me, che accettai ben volentieri. Poi arriva Roberto Baggio: che fai? Decidemmo con il mister di vedere se c&rsquo;era la possibilit&agrave; di cambiare la numerazione che era gi&agrave; stata ufficializzata. La Federazione, in via del tutto eccezionale, proprio perch&eacute; era Baggio, riusc&igrave; a farlo. Con molto entusiasmo diedi la 10 a Baggio, ne sono stato felice perch&eacute; negli anni di Brescia ci ha emozionato tutti. Era incredibile allenarsi con lui, vedere come calciava. Spesso facevamo le gare di punizioni. Poter rubare da vicino i segreti del calcio a un maestro come lui non &egrave; da tutti, aggiungo che in quegli anni ho avuto la fortuna anche di giocare con Guardiola&hellip; Sul piano del bagaglio di esperienza, sia in campo che fuori, il periodo di Brescia &egrave; stato importantissimo. Anche Guardiola &egrave; una persona umile, oltre che, forse, il miglior allenatore al mondo. La sua umilt&agrave; dovrebbe essere d&rsquo;insegnamento a tanti allenatori e tanti ragazzi&rdquo;.  Alla fine della chiacchierata, Massimiliano Esposito ci ha tenuto a ringraziare &ldquo;Il Cuoio&rdquo; e il Guerin Sportivo per il lavoro svolto: &ldquo;&Egrave; grazie a progetti come il vostro che il &lsquo;calcio nostalgico&rsquo; viene riportato alla luce&rdquo;. Una dichiarazione che ci rende orgogliosi! Ricambiamo ringraziando Massimiliano per la grande disponibilit&agrave;.       

Dalle partite per le strade di Napoli alla Serie A: l&rsquo;ex l'esterno racconta l'incredibile parabola della sua entusiasmante carriera

Massimiliano Esposito: "Zeman mi ha lanciato, Mazzone un secondo padre"

        &ldquo;La Juventus &egrave; stata la nostra avversaria in quegli anni. Ci ha tolto uno scudetto nel 1973, ha combattuto contro di noi nel 1974 e poi &egrave; sempre stata la squadra da battere. Aveva giocatori eccezionali, in tutte le zone del campo. Soprattutto quelli che mi marcavano". Renzo Garlaschelli ha scritto pagine indimenticabili della storia della Lazio. &Egrave; stata l&rsquo;ala destra in grado di regalare gol, assist ed equilibrio alla &ldquo;Banda Maestrelli&rdquo;, diventando un partner offensivo perfetto per Giorgio Chinaglia. Ha partecipato alla crescita della squadra, che nel giro di pochi anni &egrave; passata dalla Serie B alla vittoria dello scudetto. Renzo Garlaschelli componeva con Chinaglia e D&rsquo;Amico il reparto offensivo negli anni in cui i biancocelesti combattevano contro la Juventus per la conquista del titolo. E ha disputato dieci stagioni nella Capitale, diventando un beniamino della tifoseria. &ldquo;Ancora oggi la gente mi vuole bene. I tifosi della Lazio non fanno altro che ricordare quello che abbiamo raggiunto in quegli anni. E non pu&ograve; che essere cos&igrave;. Abbiamo vinto lo scudetto, ci siamo divertiti e abbiamo fatto divertire tutti, giocando un calcio, per certi versi, moderno". Che posizione ricopriva in campo Renzo Garlaschelli?  &ldquo;In quegli anni chi giocava sulla fascia destra era giudicato o un tornante o una seconda punta. Io appartenevo pi&ugrave; a questa categoria. Ero certamente pi&ugrave; offensivo e mi risparmiavo un po&rsquo; di chilometri a partita&rdquo;. Nella Juventus invece c&rsquo;era Franco Causio.? &ldquo;Non facciamo paragoni per favore. Lo dico senza falsa umilt&agrave;. Lui era un tornante puro, ma soprattutto era un campione eccezionale. Uno che segnava, faceva segnare e che ha giocato con continuit&agrave; in Nazionale. Ha fatto la storia del calcio italiano e della Juventus&rdquo;. Come Renzo Garlaschelli ha fatto la storia della Lazio.  &ldquo;Fa piacere ogni tanto sentirselo dire. Con la Lazio ho vinto uno scudetto, ho giocato tanti anni e mi sono tolto grandi soddisfazioni. Sono rimasto laziale perch&eacute; mi ha regalato delle emozioni incredibili. La Lazio ti entra nel cuore, c&rsquo;&egrave; poco da fare&rdquo;. Che sfide erano quelle con la Juventus in quegli anni?  &ldquo;Sfide difficili. A Roma siamo riusciti spesso a batterli, giocando bene. A Torino era quasi impossibile. Ci hanno sempre fatto male&rdquo;. Perch&egrave; imporsi a Torino era cos&igrave; complicato?? &ldquo;La Juventus era una squadra oggettivamente superiore, costruita sempre per vincere. Noi in quei tre, quattro anni abbiamo provato a metterli in difficolt&agrave; con le nostre forze e devo dire che ci siamo riusciti. Ma andare a Torino e vincere non era semplice, per tanti motivi. Non mi fare aggiungere altro&rdquo;. I bianconeri erano i vostri avversari pi&ugrave; forti?  "La Lazio si &egrave; giocata poche volte lo scudetto e quando lo ha fatto, la Juventus c&rsquo;era sempre. Ti dico la verit&agrave;: il primo anno, la stagione 1972-73, il Milan era la formazione pi&ugrave; forte e pi&ugrave; accreditata, ma si suicid&ograve; perdendo a Verona. Poi nel 1973-74 noi abbiamo vinto contro i bianconeri e successivamente la Juve si &egrave; presa la rivincita. Chi voleva vincere il titolo doveva sempre avere a che fare con la Juve&rdquo;. Chi erano i suoi marcatori diretti?  &ldquo;Come cascavi, cascavi male: Spinosi, Gentile, Cabrini. Difensori fortissimi, gente di personalit&agrave;. Giocarci contro non era facile. E poi c&rsquo;era Tardelli, Furino e in attacco dei campioni incredibili. Ripeto, erano forti, poi l&rsquo;ambiente caldo: insomma a Torino era quasi impossibile uscire senza ossa rotte&rdquo;. All&rsquo;Olimpico invece?  &ldquo;Tutto diverso. Il 3-1 nell&rsquo;anno dello scudetto resta per me indimenticabile. Un insieme di emozioni incredibili. Ma non fu la nostra unica, grande partita, giocata contro i bianconeri. Per me resta unico il 3-0, in cui segnai un gran gol. Che purtroppo non ricorda nessuno&rdquo;. Per quale motivo?  &ldquo;Perch&eacute; Bruno Giordano ebbe la bella idea di segnare due reti meravigliose: una con un tiro al volo eccezionale, un&rsquo;altra con un doppio pallonetto a Zoff e Morini. Per tutti quel Lazio-Juve resta la partita della doppietta di Bruno Giordano. Ma &egrave; giusto cos&igrave;. Io per&ograve; mi tengo la soddisfazione di aver partecipato a quella festa, segnando un gran gol&rdquo;. Giordano, prima ancora Chinaglia, molti suoi compagni erano entrati nelle mire della Juventus.  &ldquo;Ti fermo subito. A me non mi hanno mai cercato (ride, ndi). Che ci facevano con Garlaschelli? Avevano Causio e tutta una lunga serie di campioni? Qualcuno in quegli anni buss&ograve; alla mia porta, ma la Juve mai&rdquo;. Chi sentiva di pi&ugrave; le sfide con la Juve?  &ldquo;Maestrelli le preparava molto bene. Ma &egrave; chiaro che c&rsquo;erano grandi attese. Giocare con la Juve per noi era un bel banco di prova. I bianconeri e il derby rappresentavo le sfide che tutti aspettavano. Io riuscivo a essere pi&ugrave; sereno rispetto agli altri, ma in campo poi mi scatenavo&rdquo;.       

"A Torino era quasi impossibile vincere contro i bianconeri, ma a Roma spesso ci siamo riusciti. Che emozione il 3-0 del &rsquo;77, segnai ma tutti hanno in mente solo la doppietta di Giordano"

Lazio, Garlaschelli: "La Juve, lo scudetto e quel gol che nessuno ricorda"

        Paolo Negro ha scritto, nell&rsquo;arco dei dodici anni passati a Roma, le pagine pi&ugrave; belle e vincenti della storia della Lazio. Cresciuto a Brescia, prima di esordire in Serie A a Bologna ancora giovanissimo, ha legato indissolubilmente il suo nome ai colori biancocelesti. A fine carriera si &egrave; tolto diverse soddisfazioni anche con la maglia del Siena. Lo abbiamo raggiunto in occasione dei suoi 50 anni per ripercorrere insieme le tappe della sua grande carriera. Sei stato, oltre che un grande centrale, anche terzino destro. Eppure da giovanissimo hai iniziato attaccante, come &egrave; avvenuta questa trasformazione? &ldquo;S&igrave;, &egrave; vero. Da ragazzino giocavo come attaccante, a Brescia. Poi verso i 17 anni quasi per caso cambiammo e iniziammo a giocare a zona e provarono a indietreggiarmi, schierandomi difensore centrale. Si resero conto che ero bravo, di l&igrave; a un anno giocavo in Serie A&rdquo;.  Chi era il tuo idolo da bambino? Ci racconti come nasce il Paolo Negro calciatore? &ldquo;Il calcio per me &egrave; sempre stato tutto. Ho foto da piccolissimo, dove a malapena camminavo, gi&agrave; con il pallone in mano. Dei grandi calciatori che vedevo da bambino su tutti mi colpiva l&rsquo;eleganza e la classe di Platini, un giocatore davvero eccezionale&rdquo;. Restando alle origini, ci racconti qualcosa della stagione del tuo esordio con il Bologna? &ldquo;Sono arrivato a Bologna direttamente dalla primavera del Brescia, e mi sono ritrovato ad appena 18 anni catapultato nella realt&agrave; di una prima squadra in Serie A. Inizialmente Scoglio mi fece esordire in assoluto tra i professionisti in Coppa Uefa, ma a dire il vero non giocai tantissimo. Fu con Radice che iniziai a giocare con continuit&agrave;, guadagnai i galloni da titolare e cos&igrave; iniziai la mia carriera da calciatore&rdquo;. Poi tornasti a Brescia, la squadra in cui sei cresciuto, e arriv&ograve; anche il tuo primo gol in Serie A. &ldquo;S&igrave;, sono tornato a Brescia con Lucescu, in una stagione sfortunata che ci ha visto retrocedere in B. Io segnai il mio primo gol, contro la Samp di Mancini. Fu un bel gol, di testa, come molti di quelli che ho fatto in carriera, e ci valse la vittoria che ci port&ograve; allo spareggio. Era contro l&rsquo;Udinese, a Bologna, ma purtroppo lo saltai per squalifica&rdquo;. A proposito di gol, con Lazio e Siena ne hai segnati parecchi, a quale o a quali di questi sei pi&ugrave; legato? &ldquo;Con la Lazio in particolare ne ho segnati tanti. Quello che ricordo con maggior piacere &egrave; quello in Champions League alla Dinamo Kiev, che &egrave; stato il primo nella competizione per la Lazio allo Stadio Olimpico. Fu un gran bel gol, anche quello di testa pochi minuti dopo il vantaggio degli ucraini su un rigore diciamo dubbio&rdquo;. &nbsp;  Dino Zoff, Zdenek Zeman e Sven-G&ouml;ran Eriksson, tre grandi allenatori dal gioco diverso. Con quale ti sei trovato meglio? Ricordi un episodio particolare legato a loro?&nbsp; &ldquo;Essendo un ex attaccante mi trovavo molto bene con Zeman, quando giocavo terzino con lui mi divertivo tantissimo, ero sempre nella met&agrave; campo avversaria, mi diceva in continuazione di spingere. Col boemo infatti ho vissuto il momento migliore della mia carriera dal punto di vista realizzativo. Per quanto riguarda l&rsquo;aneddoto, ricordo con estremo piacere quando segnai al 90&rsquo; il gol vittoria di Lazio-Fiorentina e negli spogliatoi Zoff mi ringrazi&ograve; baciandomi in fronte (ride n.d.i.). Per me fu un momento unico, vedere un idolo come Zoff, un uomo tutto d&rsquo;un pezzo, che si complimentava con me in quel modo: mi lasci&ograve; senza parole&rdquo;.  Raccontaci di come vivevate il gruppo nel periodo della Lazio&hellip; Con quali compagni hai legato di pi&ugrave;? &ldquo;C&rsquo;era uno splendido feeling con tutti, ma avevo un rapporto pi&ugrave; stretto con Favalli, siamo arrivati che eravamo ragazzini e siamo cresciuti insieme sia come calciatori che come uomini. Ci conoscemmo in Under 21 con la Nazionale e poi ci ritrovammo a Roma, passando insieme pi&ugrave; di dieci anni. Anche con Guerino Gottardi avevo un ottimo rapporto, sono stati anni indimenticabili&rdquo;.  Ancora oggi detieni il record di presenze in competizioni internazionali con la maglia della Lazio (64). Qual &egrave; il momento europeo che ricordi con pi&ugrave; piacere? &ldquo;Senza dubbio la Supercoppa Europea. Quella di Montecarlo &egrave; stata una notte davvero magica, vincemmo contro gli invincibili del Manchester United grazie al gol di Salas. &Egrave; stata senza dubbio una delle emozioni pi&ugrave; grandi della mia carriera&rdquo;.   Domanda d&rsquo;obbligo. 14 maggio 2000, uno degli scudetti pi&ugrave; pazzi di sempre. Ci racconti come hai vissuto quella giornata e quei minuti di attesa negli spogliatoi dopo il fischio finale di Lazio-Reggina? &ldquo;Io in quei concitati momenti facevo compulsivamente il tragitto tra gli spogliatoi e la palestra nella pancia dell&rsquo;Olimpico. Non so quante volte ho fatto avanti e indietro, ma credo di aver percorso pi&ugrave; chilometri in quel momento che durante la partita (ride n.d.i.). Poi quando arriv&ograve; la fine della partita a Perugia impazzimmo di gioia&rdquo;.&nbsp; Voi ci credevate prima della partita?&nbsp; &ldquo;Io, devo essere sincero, ci credevo davvero. Quella mattina dissi a mia moglie di portare la macchina fotografica, le dissi che credevo nei miracoli. Il resto &egrave; storia&rdquo;. Molti degli elementi di quella grande formazione che vinse lo scudetto nel 2000, come te tra l&rsquo;altro, sono oggi allenatori. Te lo saresti mai aspettato? &ldquo;A dire il vero s&igrave;, quella era una squadra di allenatori in campo, tutti giocatori di un&rsquo;intelligenza fuori dal comune&rdquo;. Con l&rsquo;arrivo della presidenza Lotito &egrave; terminata la tua avventura in biancoceleste, fu un caso o ci furono attriti tra te e il nuovo patron? &ldquo;Io ero il capitano di quella squadra, quindi nel bene o nel male, quello che parlava con il presidente e riportava i problemi. Evidentemente a lui magari qualcosa non and&ograve; gi&ugrave;, perch&eacute; mi ritrovai fuori dal progetto dall&rsquo;oggi al domani. In ogni caso io non rimpiango nulla, rifarei tutto esattamente come ho fatto, in maniera trasparente e chiara come la mia posizione imponeva&rdquo;.   Dopo la Lazio hai concluso la carriera a Siena, citt&agrave; a cui sei ancora legato professionalmente. Squadra che ti ha permesso quella &ldquo;rivincita personale&rdquo;, con il gol segnato alla Roma.  &ldquo;Nel calcio c&rsquo;&egrave; sempre una possibilit&agrave; per prendersi una rivincita. Fu una grande soddisfazione segnare sotto la sud quella volta con la maglia del Siena. Sai il calcio &egrave; una ruota che gira, e che forse ancora sta girando&rdquo;.  Non tutti ricordano che hai vestito pi&ugrave; volte anche la maglia della Nazionale maggiore, partecipando a Euro 2000. Che ricordo hai di quella sfortunata spedizione azzurra? &ldquo;Fu proprio una spedizione sfortunata. Io giocai contro la Svezia e vincemmo per 2-1. Purtroppo venimmo beffati in finale da quell&rsquo;assurda regola del Golden Gol. Fu un vero peccato perch&eacute; eravamo davvero a un passo dal vincerlo quell&rsquo;Europeo&rdquo;. &nbsp; Domanda d&rsquo;obbligo visti gli innumerevoli campioni affrontati: chi sono i tre avversari che ti hanno messo pi&ugrave; in difficolt&agrave;? E invece il compagno di squadra pi&ugrave; forte? &ldquo;Sai, io ho giocato con e contro tantissimi campioni. In quell&rsquo;epoca i calciatori fortissimi erano tanti. Quelli che ricordo maggiormente sono Maradona, Van Basten, Gullit e Ronaldo il Fenomeno. Lui era veramente impressionante. Per quanto riguarda i miei ex compagni farei un torto agli altri scegliendone uno solo. Quella Lazio era probabilmente la squadra pi&ugrave; forte del mondo in quel momento: io e pochi altri eravamo operai, e tenevamo ben saldo un gruppo di campioni incredibili. Salas era fortissimo, Mancini un leader. E poi Veron, Nedved, Vieri, Boksic. Dietro eravamo un vero e proprio muro con difensori e portieri fortissimi. Era una squadra davvero stellare&rdquo;.         

L'ex difensore ripercorre la sua carriera: dalle origini fino all'epopea biancoceleste. "Quella mattina dissi a mia moglie, 'esistono i miracoli'. Il resto &egrave; storia&rdquo;

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