Delio Rossi tra Atalanta e Lazio: «Sarò per sempre un tifoso laziale»

Delio Rossi tra Atalanta e Lazio: «Sarò per sempre un tifoso laziale»

L'allenatore ricorda il suo passato in biancoceleste: «Sento di aver lasciato qualcosa di importante. A Bergamo no»

Paolo Colantoni/Edipress

04.02.2024 ( Aggiornata il 04.02.2024 15:01 )

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«Sono arrivato a Roma da signor nessuno e in un ambiente particolare. Ho sempre detto che il mio sogno era salutare i tifosi della Lazio in un Olimpico pieno e colorato di biancoceleste. E così è stato. Ho alzato al cielo la Coppa Italia in uno stadio che esplodeva di gioia. È stata una delle soddisfazioni più grandi della mia vita da allenatore». Delio Rossi ha guidato la Lazio dall’estate del 2005 al giugno del 2009: quattro anni intensi, fatti di lavoro, sudore, sacrificio e passione. Ha vinto un trofeo, ha portato la formazione biancoceleste in Champions League ed ha partecipato alla ricostruzione di una squadra che, lentamente, stava tornando a recitare un ruolo da protagonista nel palcoscenico italiano. «Non fu facile. I tifosi erano reduci dai fasti dell’era Cragnotti e ora si ritrovavano a seguire una squadra fatta di buoni giocatori, ma di scommesse. Dai Veron, dai Nedved, Simeone e Crespo, si è passati a un Muslera arrivato dall’Uruguay, a un De Silvestri promosso dagli Allievi e a giocatori che nelle Lazio precedenti probabilmente avrebbero trovato poco spazio. Ma la gente ha capito lo spirito e la passione con la quale abbiamo lavorato. E ancora oggi sento che mi vuole bene. Anzi, forse sento l’amore dei laziali più oggi di quando allenavo. È proprio vero che, se ti comporti bene con i tifosi biancocelesti, resti laziale a vita. E loro mi continuano a dare molto più rispetto di quanto ho fatto io per loro».

 

Delio Rossi arriva nella Capitale l’estate del 2005, reduce dall’avventura sulla panchina dell’Atalanta.
«Dal punto di vista umano, quello che mi è successo a Bergamo non me lo sarei mai aspettato. Sono arrivato in una situazione particolare, con la squadra che sembrava spacciata e con la società che in breve tempo mi ha venduto tutti i big, come Pazzini».

 

E come ha reagito?
«Ero di fronte a un bivio: potevo andarmene, ma ero arrivato da dieci giorni e l’ambiente non meritava una resa. Ho fatto di necessità virtù promuovendo quattro giocatori dalle giovanili: Motta, Defendi, Calderoni, Capelli, tutti giocatori che hanno fatto una discreta carriera. Abbiamo iniziato a vincere e a scalare la classifica e abbiamo lottato fino all’ultima giornata. Perdemmo in casa con la Roma e il nostro sogno terminò. A fine partita tutto lo stadio si è alzato in piedi per applaudirci. Una cosa così non la dimenticherò mai».

 

A giugno arriva la Lazio.
«Il primo impatto fu con Walter Sabatini, che mi dice subito che io non ero la sua scelta. Ma che il mio nome fu fatto solo dal presidente Lotito. Iniziammo con il piede sbagliato, ma poi formammo un connubio straordinario. Il migliore della mia carriera».

 

Al primo anno alla Lazio raggiunge la qualificazione in Coppa Uefa. Traguardo che viene vanificato da Calciopoli.
«È stato bravo Sabatini a creare un gruppo formato da giovani scommesse, insieme a elementi reduci dalle Lazio del passato: i Peruzzi, Zauri, Liverani, con il quale inizialmente ci fu qualche screzio, ma che poi è stato fondamentale. Senza dimenticare Rocchi, Pandev, Di Canio. Raggiungemmo la qualificazione in Europa, che Calciopoli si portò via. Mi dispiacque molto per i ragazzi. Non fu facile soprattutto per loro, digerire di aver perso una cosa che si erano guadagnati sul campo, per responsabilità che non erano loro».

 

L’estate del 2006 fu difficile da preparare?
«Ricordo che avevamo prenotato la sede del ritiro a Vipiteno, o forse Bressanone. Non c’era ancora la sede di Auronzo di Cadore. Bene, non ci hanno voluto. Temevano che potessimo portare un danno di immagine alla città. Così siamo dovuti andare in Austria. Lì, in quella sede parlai alla squadra. Dissi ai giocatori che l’anno precedente avevano fatto benissimo, ma che nella nuova stagione dovevano fare ancora di più, per recuperare dalla penalizzazione. Che io sarei stato in prima linea e che se qualcuno non se la sentiva, non mi sarei offeso. Ma che tutti quelli che fossero rimasti, avrebbero dato la vita per la Lazio. Rimasero tutti».

 

Lo sa, mister, che un discorso simile lo fece Fascetti vent’anni prima?
«Non lo sapevo. Ma era l’unica cosa che si poteva fare. Iniziammo quella stagione da penalizzati e la chiudemmo con la qualificazione in Champions League. Fu un campionato fantastico. Devo essere onesto: sin dai primi giorni di ritiro ho capito che quello era un gruppo eccezionale».

 

A un certo punto Delio Rossi cambiò modulo...
«Sentivo che mancava qualcosa davanti, che eravamo diventati troppo prevedibili e che non riuscivamo più a segnare come prima. Eravamo piatti: la svolta ci fu con l’intuizione di spostare Mauri dietro le punte. Provammo e andò bene. La squadra iniziò a volare: ricordo che a Parma rimanemmo in dieci dopo un quarto d’ora. Eppure vincemmo, dominando la partita. Quando succedono cose così, capisci che puoi mirare a qualcosa di importante».

 

Il giocatore con il quale ha legato di più?
«Io ho un brutto carattere, me ne rendo conto. Per essere amico con qualcuno devi essere sullo stesso livello e un allenatore non potrà mai essere al livello di un giocatore. Io poi non sono uno che telefona, che manda gli auguri a Natale. Io sono sempre a loro disposizione, ma non sono mai stato un loro amico. Con alcuni di loro sarei andato volentieri a cena, e poi magari non li avrei fatti giocare perché per andare in battaglia preferivo altri, che magari mi stavano meno simpatici. Un allenatore ragiona così. Detto questo, ci sono stati giocatori fondamentali: Peruzzi, Ledesma, Pandev, Rocchi, Di Canio il primo anno, Mauri. Di loro ho un bellissimo ricordo».

 

Capitolo derby: nonostante le differenze tecniche, la Lazio di Delio Rossi metteva spesso in difficoltà la Roma di Spalletti. Come preparava le partite?
«Non preparavo il derby. La stracittadina si preparava da sola. Il calciatore, se ha un po’ di sangue nelle vene, sa cosa vuol dire un derby. Dal macellaio, dall’edicolante, nei bar. A Roma da quindici giorni prima non si parla d’altro. L’importante era non arrivare scarichi all’evento. Se c’era una gara dove evitavo di far salire la tensione era quella. Cercavamo di allentare la tensione. Il giovedì poi venivano 3000 persone a vedere l’allenamento e capivi che cosa dovevi fare. Il primo giorno che ho messo piede a Roma i tifosi mi hanno detto: ‘mister, non si dimentichi che qui ci sono due squadre’. Io non me lo sono mai dimenticato».

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