        L'Estadio Monumental di Buenos Aires &egrave; un cerchio perfetto, che la contingenza ha trasformato in un catino infuocato. L'azzurro e il bianco del vessillo Argentino ricoprono ogni fazzoletto lasciato libero dalla gente, che a sua volta sventola bandierine con i colori nazionali. Compressi uno sull'altro in un enorme abbraccio collettivo, festeggiano la vittoria del Mundial casalingo, dimenticandosi che la mattina dopo l'euforia rientrer&agrave; nei binari della normalit&agrave;. A soli settecento metri da l&igrave;, alla Scuola di meccanica della Marina, il governo imprigiona, tortura e uccide. Chi ha parlato sar&agrave; fatto stare zitto e chi non l'ha mai fatto dovr&agrave; continuare a tenere la testa bassa e la bocca cucita. Cos&igrave; vogliono Jorge Rafael Videla, Emilio Massera e Orlando Agosti, il cerbero a tre teste che comanda la Giunta militare che dal colpo di stato del 1976 governa il Paese. Tra le migliaia di persone in festa, c'&egrave; un allenatore che a nemmeno quarant'anni ha gi&agrave; scalato tutti i gradini che portano alla gloria sportiva, ma che ha dovuto passare attraverso mille ripensamenti per essere l&igrave;: ogni mese ha presentato le dimissioni in Federazione, ma il presidente le ha respinte. Suo malgrado, con la vittoria &egrave; diventato un veicolo della propaganda di regime e megafono di una dittatura che le persone che la pensano come lui le fa sparire senza lasciare traccia. Luis Cesar Menotti, di formazione peronista, nel cuore, nella pratica e nel pensiero era comunista. Tanto che nei mesi precedenti aveva rischiato di finire in quel luogo senza ritorno dove si sono dissolti i desaparecidos, buio e ghiacciato come il nono cerchio dell'Inferno di Dante. In macchina con degli amici, era stato fermato dalla polizia militare, tirato a forza per i capelli &ndash; che per tutta la vita ha tenuto lunghi a coprire le orecchie come quelli dei Beatles &ndash; sbattuto faccia a terra e minacciato di morte sotto il tiro di una pistola. Solo quando qualcuno l'aveva riconosciuto, &ldquo;Accidenti, ma quello &egrave; il Ct dell'Argentina&rdquo;, si era salvato da un destino ben peggiore tra le scuse imbarazzate dei soldati.   &nbsp; Menotti, epopea del Flaco &nbsp; Lo chiamavano &ldquo;Flaco&rdquo;, il magro, perch&eacute; era alto e allampanato. Fumava dai due ai tre pacchetti di sigarette al giorno, per stemperare la tensione accumulata in quel periodo da incubo. L'Argentina doveva vincere quel Mondiale e l'aveva vinto, ma il costo emotivo dell'impresa era stato corrosivo. La gente lo implorava perch&eacute; vincesse, cos&igrave; da nascondere il dolore per una notte. I militari, sempre a fianco della squadra, pretendevano quel successo, perch&eacute; cos&igrave; avrebbero recuperato un po' di popolarit&agrave; tra le masse oppresse. I giocatori guardavano a lui per essere rassicurati, guidati, difesi. E lui l&igrave;, la cicca in bocca sempre accesa. Lo sguardo malinconico fisso in un punto lontano. Parlava, insegnava, spiegava calcio. Prendendosi pause, riflettendo. Tra un sospiro e una tirata.    Dopo il 3-1 in finale sull'Olanda, Videla, il dittatore, l'aguzzino, il boia, aveva premiato la squadra e in campo gli aveva stretto la mano. I due, il comunista e l'assassino si erano guardati negli occhi. Si erano fatti fotografare. Tanti anni dopo, Menotti ancora se ne rammaricava. Un esempio di come vedeva il mondo? Andando contro la volont&agrave; popolare, aveva escluso un giovane Diego Armando Maradona, stellina dell'Argentinos Juniors gi&agrave; con l'aura del predestinato, con il solo intento di proteggerlo dalla pressione ambientale che tutto travolgeva. Avrebbe rischiato di bruciarsi. Poi insieme avevano vinto il Mondiale Under 20 in Giappone l'anno seguente, forse la gioia pi&ugrave; pura per il Menotti allenatore. Non aveva denunciato le torture, le sparizioni, &egrave; vero, ma disse che non sapeva che i cadaveri degli oppositori venivano gettati nell'Oceano dagli elicotteri. Non conosceva quanto era terribile la barbarie che lo circondava e, a sua discolpa, nel 1980 fu l'unico sportivo a firmare una petizione del quotidiano &ldquo;Clar&iacute;n&rdquo; affinch&eacute; fossero pubblicate le liste dei desaparecidos. Da giocatore, Menotti &egrave; stato una vita nel Rosario Central, gi&agrave; cerebrale e flemmatico. Ha accumulato una manciata di presenze in nazionale e poi &egrave; andato svernare al Santos come riserva di Pel&eacute;, dove ha imparato a coltivare il culto della bellezza dai migliori.   &nbsp; Menotti, l&rsquo;allenatore &nbsp; Una volta ritirato, si &egrave; seduto sulla panchina dell'Hurac&aacute;n e l'ha portato ai vertici della Primera Divisi&oacute;n facendo innanzitutto correre la palla. Era il tipo di allenatore che se vinceva una partita 1-0 giocando male lasciava il campo amareggiato, perch&eacute; &ldquo;non vedo un futuro&rdquo;. Diceva che per vincere una finale ci vogliono cinquanta giorni di concentrazione e sacrifici, ma che tutto questo non merita il rispetto dovuto a un &ldquo;ragazzo che fa quattro lavori, non dorme, mangia male e riesce comunque a risparmiare qualche pesos&rdquo;. Dopo la nazionale &ndash; allenata anche in Spagna, quando l'Italia l'ha battuto 2-1 &ndash; ha girato molto, passando da Madrid, sponda Atletico, Uruguay e Messico. &Egrave; stato pure a Barcellona, ai tempi di Diego: &ldquo;Cesar, se rimani io non vado a Napoli&rdquo;, gli aveva detto il &ldquo;Pibe&rdquo;. Lui era tornato in Argentina. In Italia lo abbiamo visto nella Sampdoria nel 1997, per otto brutte partite: &ldquo;Pochi sogni e troppi coglioni&rdquo;. Non era roba per lui. &ldquo;Chi era Menotti?&rdquo; hanno chiesto a Carlos Bilardo, il secondo dei tre allenatori che hanno vinto una coppa del Mondo con l'Argentina e contraltare della sua visione di calcio: &ldquo;Un uomo che quando ha un'idea la vuole imporre&rdquo;. Li volevano nemici, ma il &ldquo;Flaco&rdquo; non ha mai abboccato. &Egrave; morto da direttore tecnico della nazionale campione del Mondo in carica, a ottantacinque anni. Probabilmente con l'ennesima sigaretta tra le labbra, anche se gli avevano ordinato di smettere. Era considerato un &ldquo;Maestro&rdquo;, uno che vuole trasmettere concetti e un'idea di vita pi&ugrave; che semplici schemi tattici. Ha plasmato il calcio argentino per come lo conosciamo ora, lavorando sulla tecnica individuale, la mentalit&agrave; offensiva e la garra: &ldquo;L'efficacia non deve essere slegata dalla bellezza. Il nostro calcio &egrave; sempre stato entrambe le cose. La bellezza non &egrave; un orpello&rdquo;. &nbsp;       

Se ne &egrave; andato a 85 anni il commissario tecnico dell&rsquo;Argentina del 1978, ex allenatore, tra le tante, della Sampdoria e a Barcellona con Diego Armando Maradona prima di Napoli &nbsp;

Efficacia e bellezza: il calcio di Menotti

        Cos'&egrave; stato l'Ajax di Crujiff? Cos'&egrave; stata l'Olanda del &ldquo;calcio totale&rdquo;? Una macchina di gioco spettacolo ma soprattutto un'organizzazione quasi maniacale che iniziava se non proprio dal portiere (uno diverso per il club e per la nazionale, comunque) da una difesa di piedi buoni e teste pensanti. Ridurre Ruud Krol a un terzino sinistro, lo era sia dell'Ajax che dell'Olanda, &egrave; banalissimo. Lui &egrave; stato molto di pi&ugrave;, un punto di riferimento per quelle squadre che non erano solo Crujiff e Neeskens, Van Hanegem e Rensenbrink. &nbsp;   Ruud Krol, destro a sinistra  Nato il 24 marzo del 1949, Krol fa in fretta a scalare le gerarchie all'Ajax partendo dalle giovanili. E anche dove trova teorici ostacoli li schiva per guadagnarsi spazio. Il ruolo di terzino destro che sarebbe il suo &egrave; gi&agrave; di Suurbier? Nessun problema, inizia a giocare a sinistra ed &egrave; come se non avesse fatto altro che occupare quella porzione di campo. L'importante &egrave; saper giocare nella ragnatela &ldquo;totale&rdquo; di Michels e poi di Kovacs, testa alta e piedi buoni, a volte centrocampista aggiunto, far sudare la palla pi&ugrave; che il proprio corpo. Un corpo che peraltro per l'epoca &egrave; quello di un corazziere, 1.85 per 80 chili: rapido e veloce, Krol non lascia passare uno spillo, nemmeno le alette frizzanti che lo puntano e lo dovrebbero mettere in difficolt&agrave;. Cos&igrave; vince tre volte di fila la Coppa Campioni anche se salta la prima finale di quell'Ajax, contro il Panathinaikos nel 1971, per un brutto infortunio alla gamba. Titolare inamovibile per&ograve; sia nel 1972 con l'Inter che nel 1973 con la Juventus, con Jair e Causio (non proprio due scappati di casa) che rimediano una magra figura. &Egrave; il 1974 e per un'intera generazione di calciatori olandesi c'&egrave; l'occasione del secolo: vincere il mondiale. Lo sappiamo tutti come si conclude, con la Germania Ovest che in finale disinnesca il piano-partita degli oranje, che si innervosiscono e perdono 2-1.    Krol gioca ogni minuto di quel mondiale, terzino sinistro libero di inserirsi come quando segna nel celebre 4-0 all'Argentina con una sventola da fuori (naturalmente di destro) sugli sviluppi di un calcio d'angolo. Non manca nemmeno al mondiale del 1978 dove &egrave; il capitano dell'Olanda. Sempre presente e nessun gol segnato stavolta, solo un'ammonizione nella finale contro l'Argentina persa 3-1: il canto del cigno di una generazione d'oro che anche a livello di competizioni per club inizia a soffire.   &nbsp; Napoli sogna  Estate 1980, l'Italia apre di nuovo le frontiere dopo 14 anni e arriva in Serie A un po' di tutto, seppur in quantit&agrave; limitata visto che c'&egrave; la possibilit&agrave; di un solo straniero per club: da Falcao a Luis Silvio Danuello, da Brady a Eneas, bidoni e campioni si mescolano. Il Napoli va sul sicuro e prende proprio Krol, reduce da una breve parentesi ai Vancouver Whitecaps, nell'ancora nebbioso campionato nordamericano dopo 12 anni all'Ajax: ha 31 anni, l'olandese, per molti &egrave; gi&agrave; sul viale del tramonto e in pi&ugrave; &egrave; costato 110 milioni. Il direttore sportivo Antonio Juliano in compenso rassicura: "Fidatevi di me". Certo, passare dall'Ajax a una squadra di met&agrave; classifica in Italia &egrave; un bel balzo, ma a Ruud basta poco per inserirsi. Non pi&ugrave; come terzino sinistro, seppur "totale", ma libero. I risultati si vedono subito perch&eacute; a 5 giornate dalla fine il Napoli &egrave; in vetta a pari punti con Juventus e Roma e ha la seconda difesa meno perforata. Poi il crollo, ma insomma per la squadra di Rino Marchesi &egrave; una stagione indimenticabile che si chiude con terzo posto bissato l'anno successivo da un quarto posto.    Krol resta a Napoli fino al 1984, mantenendo una forma fisica invidiabile e con le stimmate del leader: classe e signorilit&agrave; fino alla fine. Se ne va proprio poche settimane prima dell'arrivo di Maradona e sarebbe stato davvero bello vedere questi due giganti del calcio assieme. Chiude la carriera al Cannes, nel campionato francese.       

L'olandese ha avuto una vita calcistica lunghissima, vincendo tutto con l'Ajax "totale" degli anni Settanta e deliziando anche i tifosi del Napoli &nbsp;

Ruud Krol, il professore della difesa

        Ci sono giocatori che funzionano solo in un continente piuttosto che in un altro. Sar&agrave; l'aria, sar&agrave; la facilit&agrave; di ambientamento, ma uno come Martin Palermo se fosse stato europeo sarebbe stato celebrato ancora di pi&ugrave;. "El Loco", "Il matto", &egrave; stato il volto per anni del Boca Juniors e in generale il simbolo di squadre rognosissime da affrontare a cominciare da lui, centravanti prolifico e trascinatore, capopopolo e in fin dei conti abbastanza sottovalutato. &nbsp; Palermo "El Tit&agrave;n" &nbsp; Nato il 7 novembre 1973, Martin Palermo non ha molto del predestinato. In Argentina per fortuna non si fanno problemi nel lanciarti gi&agrave; giovanissimi e il giovane centravanti di La Plata all'Estudiantes riesce a trovare spazio anche grazie alla crisi economica del club all'epoca. Sgraziato, ma prolifico, passa da uno a 17 gol nel giro di una stagione attirandosi le attenzioni delle big. Quando Diego Armando Maradona d&agrave; l'addio al calcio con il Boca Juniors uno dei suoi ultimi consigli &egrave;: &laquo;Prendete Palermo, non ve ne pentirete&raquo;. In effetti agli Xeneizes Martin continua con le sue medie realizzative straordinarie, a volte anche di un gol a partita. Un campionato vinto dopo l'altro arriva la grande occasione della Libertadores che nel 2000 il Boca Juniors vince battendo ai rigori in finale il Palmeiras. Uno di questi rigori li segna proprio Palermo, ormai ribattezzato "El Tit&agrave;n". Grande e grosso com'&egrave;, incute un evidente timore ai difensori; tuttavia anche tecnicamente &egrave; uno che si fa valere, non &egrave; solo un armadio forte fisicamente. Se ne rende conto anche il Real Madrid, a cui Palermo segna una doppietta in Coppa Intercontinentale nel giro di tre minuti, regalando al Boca uno dei momenti pi&ugrave; felici della sua storia. Quel Boca viene smembrato dal mercato, se ne vanno Samuel alla Roma e Riquelme al Barcellona, tra gli altri. Lo stesso Martin cede alle lusinghe europee e va al Villarreal, una delle squadre pi&ugrave; ambiziose della Liga. Quasi subito, nella seconda parte del campionato 2000-01, dopo aver segnato un gol al Levante va a festeggiare in mezzo ai tifosi come spesso aveva fatto in Argentina: il problema &egrave; che la tribuna dove sono assiepati i fan del "Sottomarino Giallo" crolla sulla sua gamba. Tibia e perone andati, anni per riprendersi del tutto. &nbsp; Quei tre rigori sbagliati &nbsp;&nbsp; La medicina migliore &egrave; tornare a casa, al Boca Juniors: &egrave; il 2004, Palermo degli Xeneizes diventa capitano ed &egrave; come se non se ne fosse mai andato. Comanda lui un nuovo ciclo vincente, che culmina con la vittoria di un'altra Copa Libertadores nel 2007 strapazzando il Gremio in finale. Anche Riquelme &egrave; tornato, in una squadra dove fanno faville anche il centrocampista Ever Banega e l'attaccante con la treccia, Rodrigo Palacio. Pur avendo scollinato abbondantemente i 30 anni, Palermo rimane uno dei migliori centravanti sudamericani. Non smetter&agrave; mai di segnare fino al 2011, anno del suo ritiro, diventando il miglior marcatore nella storia del Boca Juniors. Insomma, stiamo parlando di un colosso del futbol. Purtroppo per Palermo, la concorrenza spietata in nazionale gli impedir&agrave; di avere grande fortuna con la Selecci&ograve;n. Convocato per il mondiale del 2010, in quest'ultimo torneo ritrova uno dei suoi mentori, quel Diego Armando Maradona che l'aveva consigliato al Boca. "El Pibe" dovr&agrave; molto a sua volta a Palermo, autore del gol decisivo contro il Per&ugrave; nel torneo di qualificazione a Sudafrica 2010, sotto un diluvio mai visto a Buenos Aires: tocco da pochi passi a porta vuota e tuffo di Maradona sul prato fradicio per festeggiare. Purtroppo per Martin, il motivo per cui passa alla storia con l'Argentina &egrave; tutto l'opposto della sua carriera, ovvero i 3 rigori sbagliati contro la Colombia, il 4 luglio 1999, in una partita persa 3-0 in Coppa America. Anche questo per&ograve; rientra alla fine nel personaggio di questo attaccante straordinario, idolo in Sudamerica e che in Europa si &egrave; notato troppo poco.       

L'argentino &egrave; passato alla storia per aver sbagliato 3 rigori in una partita e per essere stato il simbolo di squadre che hanno sempre dato tutto, come il Boca Juniors. Fu capace anche di rompersi una gamba festeggiando un gol

Martin Palermo, l'attaccante degli estremi

        Casa, famiglia e Inter: si potrebbe riassumere cos&igrave; la vita di Javier Zanetti. "El Tractor", ma anche "Pupi", il primo soprannome per rimarcare quella sua andatura travolgente, il secondo pi&ugrave; intimo. Nel dubbio, il capitano.&nbsp; Dal 1995 al 2014 in nerazzurro, nei momenti buoni e meno buoni, davvero come un matrimonio. Ora, vice-presidente: a 50 anni, una vita senz'altro soddisfacente. Zanetti &gt; Rambert Estate 1995: l'Inter da pochi mesi ha cambiato presidente da Ernesto Pellegrini a Massimo Moratti. Il nuovo massimo dirigente nerazzurro ha un portafoglio molto ampio e tra i collaboratori ex giocatori proprio dell'Inter, gente che in passato aveva vestito la maglia della Beneamata anche quando il presidente era suo pap&agrave; Angelo. Uno di questi &egrave; Antonio Valentin Angelillo, argentino ma ormai milanese d'adozione, che gli suggerisce di comprare il terzino destro del Banfield, squadra semi-sconosciuta della zona di Buenos Aires: si chiama Javier Zanetti, ha quasi 22 anni e origini chiaramente italiane. Nel pacchetto dell'affare c'&egrave; anche un attaccante pi&ugrave; giovane che sembra destinato a spaccare il mondo, Sebastian "Avioncito" Rambert. Su quest'ultimo si concentrano le attenzioni il giorno della presentazione, nella lussuosa cornice della Terrazza Martini a Milano. Il primo giorno di ritiro a Cavalese, addirittura, Javier sembra essere arrivato l&igrave; per caso: in mano ha solo un sacchetto con le sue cose ed &egrave; un perfetto sconosciuto. L'Inter ha preso anche Roberto Carlos in quella sessione, di lui s&igrave; che si parla un gran bene ed effettivamente diventer&agrave; un fenomeno. Fin dalle prime amichevoli, per&ograve;, l'allenatore Ottavio Bianchi punta sull'argentino come terzino destro, un ruolo in cui in effetti l'Inter era scoperta. Nel 5-3-2 del tecnico nessuno pu&ograve; scalfire "El Tractor", che quando parte diventa impossibile da fermare: fisico compatto, andatura da rugbista, quadricipiti generosi e tanta fame. Il cocktail perfetto per sfondare anche nel cuore dei tifosi. Di Rambert, invece, nessuna traccia, tanto che al mercato invernale verr&agrave; ceduto al Saragozza e sparir&agrave; per sempre dai radar interisti. Zanetti da allora ha sempre giocato, 858 presenze in maglia nerazzurra (record assoluto), praticamente in tutti i ruoli tranne l'attaccante e il portiere. Terzino destro in una difesa a quattro o a tutta fascia in un 5-3-2 (o 3-5-2), idem a sinistra; e poi mediano o incursore a centrocampo. Maglia numero 4, sua gi&agrave; ai tempi del Banfield, fino al termine della stagione 2013-14: ritirata poi dal club. In mezzo, 16 trofei compresa la Champions League del 2010. &nbsp; Il capitano Difficile riassumere in poche righe cos'&egrave; stato Javier Zanetti per l'Inter, la sua costanza di rendimento, la sua assoluta allergia a qualsiasi tipo di infortunio tranne nell'ultimo campionato in cui gi&agrave; oltre i 40 anni i cigolii sono aumentati in maniera esponenziale (e normale). Senza dimenticare il suo totale innamoramento con la citt&agrave; di Milano, le attivit&agrave; anche benefiche realizzate assieme alla moglie Paula. Da terzino destro a mediano, da anonimo argentino a capitano dopo l'addio di Ronaldo, destinato a ereditare la fascia: sempre mettendoci la faccia nei momenti delle sconfitte, anche beffarde, e poi il primo a sollevare tutti quei trofei (16) vinti dal 2005 al 2011, un tempo irripetibile con la Champions League come culmine, senza dimenticare i cinque scudetti, il Mondiale per Club e la Coppa Uefa del 1998. Zanetti le ha viste veramente tutte, segnando poco ma in momenti decisivi. A proposito di Coppa Uefa, suo il 2-0 nella finale di Parigi contro la Lazio in cui da esterno sinistro tir&ograve; una saetta sotto la traversa da fuori area. Un altro gol fondamentale nella stagione 2007-08 quando pareggi&ograve; contro la Roma all'88' a San Siro una partita che se persa avrebbe portato lo scudetto probabilmente ai giallorossi. Anche se forse il suo pi&ugrave; bello fu la cavalcata a Verona nel campionato 1996-97, una serpentina chiusa con un missile all'incrocio dei pali, gol-vittoria peraltro. Unica mancanza nel palmar&eacute;s di Zanetti, chiss&agrave;, un acuto con la nazionale, nonostante le 161 presenze complessive inclusa l'Olimpica. Grande occasione nel 1998, quarti di finale al Mondiale in Francia ed eliminazione beffarda con l'Olanda dopo che un suo gol aveva raddrizzato la contesa agli ottavi con l'Inghilterra. Questione anche di fortuna, sicuramente. A 50 anni ha la stessa faccia di quando con 22, timido, si present&ograve; al calcio italiano. In campo, poi, una belva. L'accento argentino, mai scomparso, ma anche quello rimasto nel "pacchetto" di questo calciatore semplicemente straordinario, da clonare.&nbsp; &nbsp; &nbsp; &nbsp;       

L'argentino &egrave; stato l'anima dei nerazzurri fino a diventarne il capitano e il vice-presidente una volta ritiratosi. Arrivato in sordina, diventer&agrave; il condottiero del ciclo vincente pi&ugrave; grande nella storia recente del club

Javier Zanetti, c'è solo l'Inter

        La mattina dell&rsquo;8 giugno 1990 l&rsquo;Italia era finalmente pronta a sollevare il sipario sul suo Mondiale e mostrarlo come uno scrigno prezioso agli occhi del pianeta. Citt&agrave; bardate a festa, atmosfera frizzante, strutture ricettive pronte ad accogliere gli stranieri, aria di vacanze anticipate. &Egrave; giusto pensare che quella manifestazione abbia rappresentato una linea di passaggio tra il Paese che negli anni Ottanta aveva vissuto di &ldquo;edonismo reaganiano&rdquo; (per dirla col gergo della trasmissione di Renzo Arbore &ldquo;Quelli della notte&rdquo; che a met&agrave; di quel decennio riempiva di una comicit&agrave; originale la seconda serata televisiva della Rai) e una nuova era nella quale la nazione avrebbe modificato i suoi connotati. E chiss&agrave; se fu solo un caso, o un segno voluto dalla storia, che la partita di apertura di quel torneo venisse giocata a San Siro, in quella Milano da bere iconizzata nelle pubblicit&agrave; dell&rsquo;epoca e raccontata come la capitale economica e morale di una societ&agrave; che di l&igrave; a poco si sarebbe svelata uguale da nord a sud nei suoi vizi peggiori, trovando proprio nel capoluogo lombardo l&rsquo;epicentro iniziale di una crisi di valori fino a quel momento relegata nella vulgata comune ai palazzi romani della politica.  L'Italia organizza il Mondiale&nbsp; Assegnata all&rsquo;Italia il 19 maggio 1984, l&rsquo;organizzazione del Mondiale port&ograve; con s&eacute; sprechi e approssimazioni il cui impatto ha pesantemente gravato sullo Stato anche negli anni seguenti la conclusione della manifestazione. I costi per la costruzione ex novo (o l&rsquo;ammodernamento) degli stadi e delle infrastrutture necessarie ad ospitare l&rsquo;evento subirono una lievitazione ingente in corso d&rsquo;opera. Molti dei lavori vennero ultimati a ridosso dell&rsquo;inizio del torneo, talvolta in maniera approssimativa. Ma, una volta arrivato l&rsquo;8 giugno, le questioni sull&rsquo;argomento vennero messe da parte per lasciare spazio ai campi di gioco e ai suoi protagonisti. Pochi, quel giorno, immaginavano che il carico di emozioni che avrebbe portato il Mondiale italiano sarebbe rimasto impresso nella memoria collettiva della nazione per gli anni a venire, tanto che, ancora oggi, l&rsquo;eco di quell&rsquo;evento riecheggia nei ricordi sempre vividi di chi quelle Notti Magiche le ha vissute in prima persona.   Nacquero le Notti Magiche Notti Magiche accompagnate dalle note di &ldquo;Un&rsquo;estate italiana&rdquo;, singolo interpretato da Edoardo Bennato e Gianna Nannini diventato immediatamente un successo, colonna sonora ideale per i sogni di un popolo che, dopo il Mondiale del 1982, voleva riassaporare la gioia della vittoria in casa propria: un&rsquo;affermazione che avrebbe significato l&rsquo;apogeo per un Paese che da tempo viveva oltre le proprie reali capacit&agrave; economiche. Un successo inseguito da tutti, in primis da Antonio Matarrese, ambizioso presidente della Federcalcio, che da un eventuale trionfo avrebbe acquisito ulteriore prestigio e potere personale. Cercato da Luca Cordero di Montezemolo, giovane manager rampante amato da Gianni Agnelli, messo alla guida del Comitato Organizzatore; sognato da Azeglio Vicini, tecnico di una Nazionale cresciuta a sua immagine e somiglianza, fautore della trasformazione dei suoi ex talentuosi ragazzini dell&rsquo;Under 21 in giocatori pronti a sollevare al cielo di Roma la coppa pi&ugrave; importante del mondo. Italia 90, un Mondiale equilibrato Per raggiungere quell&rsquo;obiettivo bisognava sbaragliare la concorrenza di altre ventitr&eacute; nazionali, allineate su valori piuttosto omogenei che avrebbero dato vita a un campionato molto equilibrato con pochi gol (alla fine la media sar&agrave; di 2,21 a partita) e gare spesso ai limiti della noia, che nella fase a eliminazione diretta avranno pi&ugrave; volte bisogno di tempi supplementari e calci di rigore per trovare un vincitore. Uno spettacolo dall&rsquo;estetica discutibile come la mascotte della manifestazione, quel Ciao che, sin dalla presentazione, sollev&ograve; molte critiche per via della sua smilza essenzialit&agrave;: un pupazzetto tricolore composto da elementi cubici e da un pallone che volevano rappresentare la figura stilizzata di un calciatore.  Mondiali Italia 90: il Camerun sorprende l'Argentina all'esordio Preludio appropriato di quello che si vide in quel mese di calcio fu proprio la partita inaugurale disputata dai campioni uscenti dell&rsquo;Argentina e dal Camerun. L&rsquo;Albiceleste ha ancora in Maradona la sua guida tecnica e spirituale, anche se il Pibe ha addosso quattro anni in pi&ugrave; di quegli eccessi che, a stretto giro, ne condizioneranno pesantemente la carriera e la salute. I Leoni Indomabili fanno della fisicit&agrave; estrema e dell&rsquo;entusiasmo le loro armi migliori e con quelle colpiscono le velleit&agrave; di replicare la vittoria di Messico 86 dei sudamericani. Giocano duro, ai limiti del regolamento e oltre, raccolgono cartellini di ogni colore (a fine partita saranno due gialli e due rossi) ma col gol realizzato da Omam-Biyik al 67&rsquo; vincono e regalano al Mondiale la sua prima, grande sorpresa.       

L&rsquo;8 giugno 1990 la partita tra l&rsquo;Albiceleste e i Leoni Indomabili inaugur&ograve; una delle edizioni della Coppa del Mondo rimasta pi&ugrave; impressa nella memoria collettiva italiana

Argentina-Camerun, a San Siro scoprimmo il Mondiale delle Notti Magiche

        Non si erano mai affrontate in una Finale della Coppa del Mondo; avevano incrociato i tacchetti in tre occasioni nel corso di un Mondiale, ma mai all&rsquo;ultimo atto. Argentina - Francia sar&agrave; dunque una finale inedita, con quattro titoli mondiali in campo: quelli del 1978 e del 1986 per gli argentini, del 1998 e del 2018 per i transalpini.La prima occasione in cui si confrontarono coincide con la prima volta in assoluto del Mondiale di calcio, vale a dire l&rsquo;edizione del 1930 in Uruguay. Nella fase a gironi gli argentini ebbero la meglio sui francesi solamente a dieci minuti dal termine: uno a zero, con la firma di Luis Monti. Primo gol in assoluto di un calciatore argentino nella Coppa del Mondo, nonch&eacute;, sempre per la storia della manifestazione, primo gol in assoluto su calcio di punizione. Luis Monti, l'argentino campionde del mondo con l'Italia Chi &egrave; stato Monti per la storia del football? Sarebbe meglio chiedersi &ldquo;cosa&rdquo; ha rappresentato, uno come lui: oriundo, nato a Buenos Aires nel 1901, in quella edizione uruguaiana della Coppa lo troviamo finalista, sconfitto, con la maglia dell&rsquo;Albiceleste contro la nazionale di casa: 4-2 per l&rsquo;Uruguay allo stadio del Centenario di Montevideo.Sin dal 1932, i suoi avi vissuti in terra emiliana gli valsero la possibilit&agrave; di essere naturalizzato e poter di conseguenza vestire la maglia azzurra, indossando la quale vinse il Mondiale italiano del 1934, dopo la finale vittoriosa di Roma, allo Stadio Nazionale del PNF, 2 - 1 alla Cecoslovacchia dopo i tempi supplementari. Da quel giorno, il 10 giugno del 1934, Monti divenne l&rsquo;unico e fino a oggi ultimo giocatore ad aver disputato due finali mondiali con due nazionali differenti. Con l&rsquo;Italia, in particolare, conta diciotto presenze e un gol, dal 1932 al 1936. Oltre alla vittoria della Coppa del Mondo, un altro episodio storicamente rilevante fu la sua partecipazione alla celeberrima &ldquo;Battaglia di Highbury&rdquo;, il 14 novembre del 1934, quando il centravanti inglese Drake con un pestone gli frattur&ograve; l&rsquo;alluce.  Come giocava Lusi Monti Di statura non elevata ma di straordinaria compattezza muscolare e solidit&agrave;, Monti era un centrale di difesa con una capacit&agrave; naturale di agire anche da centromediano, con i compiti tipici del ruolo all&rsquo;epoca: francobollare, come si usava dire, il centrattacco avversario, per poi, in fase di possesso, rilanciare l&rsquo;azione sovrintendendo, di fatto, alla prima fase della costruzione del gioco.Dopo una carriera importante anche a livello di club, in Argentina, soprattutto con le maglie del CA Palermo e del San Lorenzo, Monti in et&agrave; calcisticamente matura arriv&ograve; in Italia, a trent&rsquo;anni, per vestire la maglia della Juventus dal 1931 al 1939, totalizzando 263 presenze con 21 reti, vincendo quattro scudetti e una Coppa Italia. La rivalit&agrave; tra Monti e Schiavio Proverbiale, molto cavalcata dai rotocalchi giornalistici dell&rsquo;epoca, la sua rivalit&agrave; con Angelo Schiavio, affrontato gi&agrave; nell&rsquo;estate del 1929 a Buenos Aires, quando Schiavio era in tourn&eacute;e in Sudamerica con il Bologna: interventi al limite del regolamento e rissa sfiorata. Nel 1932, in Italia, Schiavio venne colpito da Monti con una gomitata durante una gara di campionato tra Bologna e Juventus e perse i sensi per una buona mezz&rsquo;ora. Furono riavvicinati dal Commissario Tecnico azzurro Vittorio Pozzo, che ne fece due perni della Nazionale.Nel nostro Paese &egrave; stato poi allenatore, dal 1939 al 1950, cominciando dalla Triestina e finendo con il Pisa, passando per Juventus, Varese, Fossanese, Atalanta, Vigevano.Se n&rsquo;&egrave; andato nel 1983, Luis Monti, a causa di un arresto cardiaco, nella sua casa di Escobar, alle porte di Buenos Aires; di lui si ricordano, oltre alle imprese calcistiche e ai trofei, tanti aneddoti e tanti episodi a met&agrave; tra reali e leggendari, come quelli dei telegrammi con minacce di morte in occasione delle due finali disputate con Argentina e Italia: il primo da parte della mafia, che minacciava i pi&ugrave; importanti giocatori argentini; il secondo, si narra, quattro anni dopo da parte di Benito Mussolini alla vigilia della finale contro la Cecoslovacchia: &ldquo;Siete padroni del vostro destino; se vincerete, bene; se perderete, che Dio vi aiuti&rdquo;.        

Nei Mondiali del 1930 decise il primo precedente assoluto tra Albiceleste e Bleus, prima di perdere in finale. Quattro anni pi&ugrave; tardi gioc&ograve; e trionf&ograve; con la maglia della nostra Nazionale

Argentina-Francia: Monti, l'argentino campione del mondo con l'Italia

        Quando, nel mese di marzo del 1976, la giunta militare guidata dal generale Jorge Rafael Videla prese il potere in Argentina, al calcio d&rsquo;inizio del Mondiale di calcio mancavano poco pi&ugrave; di due anni e l&rsquo;apparato organizzativo, fino a quel momento, non aveva brillato per efficienza e tempismo. In altre parole c&rsquo;era pi&ugrave; di qualche preoccupazione legata alla buona riuscita della manifestazione che per&ograve; sfum&ograve; nel momento in cui i principali esponenti della dittatura compresero il valore strumentale al quale avrebbero potuto piegare il campionato del mondo. Fu cos&igrave; che, grazie anche alle risorse ingenti che si decise di utilizzare, il Mondiale argentino si svolse senza alcun disguido organizzativo: troppo importante il ritorno di immagine internazionale che avrebbe garantito per fallire la gestione dell&rsquo;evento. La nazione, in qualche modo, ritrov&ograve; una parte della sua unit&agrave;, volendo dimostrare al mondo di potercela fare. A Cesar Luis Menotti e ai calciatori venne chiesto di dare il loro meglio: a quello che serviva fuori dal campo per vincere ci avrebbero pensato i politici.  Le premesse del Mondiale argentino Ai nastri di partenza non si presentava una vera e propria favorita, anche se Germania Ovest, Olanda e Brasile sembravano avere qualcosa pi&ugrave; delle altre. Difficile, inizialmente, capire le reali possibilit&agrave; dei padroni di casa, altalenanti nei risultati raccolti nelle partite premondiale e con una formazione titolare individuata solo all&rsquo;ultimo momento.&nbsp; L&rsquo;Italia part&igrave; accompagnata da sfiducia e perplessit&agrave; che, come anche in altre occasioni, alla fine vennero dissipate sul campo. Le critiche alla rinnovata Nazionale guidata da Enzo Bearzot, che aveva fallito l&rsquo;appuntamento con gli Europei del 1976, si basavano sulle poco brillanti esibizioni che gli azzurri avevano fornito nelle ultime amichevoli disputate prima dell&rsquo;inizio del campionato del mondo. Bearzot, per&ograve;, se ne preoccupava il giusto: sapeva che, investendo su un gruppo unito, avrebbe avuto un ritorno quando le partite avrebbero avuto davvero importanza. Quell&rsquo;unit&agrave; fu uno dei segreti del convincente Mondiale argentino giocato dall&rsquo;Italia, che alla fine arriv&ograve; quarta e fece scoprire al mondo due giovani ragazzi che avrebbero scritto tra le pagine pi&ugrave; belle della storia del nostro calcio: Antonio Cabrini e Paolo Rossi. &nbsp; Argentina-Per&ugrave;: la &ldquo;marmelada peruana&rdquo; Nel 1978 venne riproposta la formula gi&agrave; utilizzata in Germania quattro anni prima che, dopo il primo turno, prevedeva la costituzione di due gironi di semifinale che avrebbero promosso le vincitrici alla finale e le seconde classificate alla disputa dell&rsquo;incontro per il terzo posto. Una formula che espose le ultime partite a dubbi e supposizioni che inquinarono l&rsquo;atmosfera della competizione. Esempio emblematico, la cui eco nemmeno gli anni sono riusciti a sopire, fu il match che giocarono Argentina e Per&ugrave; il 21 giugno 1978. Era l&rsquo;ultima gara del girone di semifinale che, per via dei risultati fin l&igrave; verificatisi, costringeva i padroni di casa a dover battere il Per&ugrave; con una doppia opzione: tre gol di scarto segnandone almeno cinque oppure vincendo con quattro reti di differenza. Calcoli precisi possibili perch&eacute; i padroni di casa poterono giocare quel match sapendo gi&agrave; il punteggio finale del Brasile, appaiato a pari punti prima dello svolgimento delle ultime rispettive partite e vincitore per 3-1 sulla Polonia poche ore prima del fischio d&rsquo;inizio di Argentina-Per&ugrave;. Il risultato con cui l&rsquo;Albiceleste super&ograve; la nazionale andina fu clamoroso: un 6-0 che aliment&ograve; mille sospetti per l&rsquo;arrendevolezza con cui i peruviani si fecero travolgere nel secondo tempo. Le polemiche sorsero gi&agrave; prima del match, quando balz&ograve; all&rsquo;evidenza che il portiere Quiroga era argentino di Rosario (la citt&agrave; dove si disputava la partita) naturalizzato peruviano, tanto che la Federazione brasiliana chiese di non schierarlo in campo. Nel tempo si disse anche che i brasiliani offrirono ai giocatori biancorossi 10.000 dollari a testa per non perdere con pi&ugrave; di tre gol di scarto e che l&rsquo;Argentina promise il rifornimento al Per&ugrave; di ingenti forniture di grano. Tutte insinuazioni pesanti ma mai definitivamente accertate. Anche se nel 2018 l&rsquo;ex centrocampista del Per&ugrave; Jos&eacute; Vel&aacute;squez rilasci&ograve; un&rsquo;intervista che non lasciava adito a molti dubbi: &rdquo;I dirigenti si vendettero la partita, molti vi hanno indagato. Il fatto che non ci siano prove non significa che non sia successo. Videla entr&ograve; nel nostro spogliatoio prima del calcio d'inizio insieme al segretario di Stato statunitense, Kissinger, per augurarci una buona partita e ricordarci che i nostri Paesi avevano sempre collaborato e vantavano ottime relazioni. Suon&ograve; tutto come una minaccia velata, fu come dirci che se non avesse vinto l'Argentina sarebbe successo il putiferio. E anche sei giocatori si sono venduti, ma posso nominarne solo quattro perch&eacute; ce ne sono due famosi e danneggerei le loro carriere: sono Rodolfo Manzo, Ra&uacute;l Gorriti, Juan Jos&eacute; Mu&ntilde;ante e Ram&oacute;n Quiroga&rdquo;. Insomma, a distanza di quarant&rsquo;anni, di quella &ldquo;marmelada peruana&rdquo; si continua a parlare molto.  I protagonisti della vittoria Alla fine la Coppa riusc&igrave; a finire nelle mani di Daniel Passarella, capitano di una squadra che, seppur aiutata dai pesanti condizionamenti che impedirono al Brasile di giungere in finale e all&rsquo;Olanda di disputarla in un clima sereno, dimostr&ograve; valori indiscutibili che passavano per le giocate di calciatori del calibro di Ardiles, Bertoni, Houseman e del capocannoniere della competizione: Mario Kempes, tornato in patria per regalare alla sua gente momenti di felicit&agrave; assoluta.&nbsp; &nbsp;        

Per arrivare a disputare la finale del torneo, l&rsquo;Albiceleste affront&ograve; il Per&ugrave; con l&rsquo;obbligo di goleada. Il 6-0 con cui vinse suscit&ograve; polemiche e sospetti di cui si discute ancora oggi

Storie Mondiali: Argentina ‘78 e la “marmelada peruana”

        Olanda-Argentina e i Mondiali di calcio: un grande classico, la terza gara pi&ugrave; ricorrente di sempre. Solo Brasile-Svezia e Argentina-Germania hanno pi&ugrave; precedenti (7). La prima che torna alla mente &egrave; la discussa finale del 1978, edizione disputata proprio nel Paese sudamericano e vinta dai padroni di casa. Quattro anni prima l&rsquo;Arancia Meccanica di Cruijff aveva strapazzato l&rsquo;Albiceleste nel girone (4-0), mentre finir&agrave; 0-0 sempre ai gironi la sfida del 2006. Drammatica &ndash; ancora per gli Oranje &ndash; la semifinale del 2014 vinta ai rigori da Messi e compagni. Ma Olanda e Argentina, prima di Qatar 2022, si erano gi&agrave; affrontate anche nei quarti di finale.  Francia &rsquo;98, Olanda-Argentina: chi vince prende il Brasile in semifinale Mondiali francesi, sabato 4 luglio 1998, Stadio V&eacute;lodrome di Marsiglia. Un torneo ricco di stelle, tantissime giocano (giocavano o giocheranno) nel nostro campionato. Olanda-Argentina non fa eccezione, a partire dalle panchine: Frank Rijkaard, vice di Guus Hiddink, da una parte, Daniel Passarella dall&rsquo;altra. Era stato proprio El Gran Capitan ad alzare la coppa al cielo di Baires nel &rsquo;78, dopo il palo di Rensenbrink che aveva fatto tremare tutto il regime videlista: a 20 anni di distanza si trova in difficolt&agrave;; criticato dalla stampa e col futuro da Ct in bilico, a prescindere dal risultato.  Olanda-Argentina, quanta Serie A in campo 4-4-2 (o 4-2-4, interpretazione libera) per gli Oranje. L'Olanda s&rsquo;impernia sull&rsquo;allenatore in campo; numero 4, regista arretrato e capitano Frank de Boer. In porta gioca Van der Sar, Stam completa il reparto dei centrali, Numan e Reiziger quello dei terzini. Davids e Jonk formano l&rsquo;equilibrata mediana; Cocu e l&rsquo;altro De Boer agiscono sulle fasce. 3-5-2 &ndash; se di centrocampo a 5 si pu&ograve; parlare quando composto da uomini come Ortega e Veron &ndash; per l&rsquo;ex Fiorentina. Roa in porta; milita tutta in Serie A la difesa: Sensini (Parma), Chamot (Lazio), Ayala (Napoli); cos&igrave; come (quasi) tutto il centrocampo: Zanetti e Simeone (Inter), Veron (Sampdoria), Ortega &ndash; che arriver&agrave; a breve in blucerchiato mentre la Brujita saluter&agrave; direzione Parma &ndash; e Almeyda (Lazio). Non ci siamo dimenticati le punte, queste valgono un discorso a parte: non tanto per l&rsquo;attacco argentino &ndash; composto da Batistuta (capitano della Fiorentina) e Lopez, che prima di arrivare alla Lazio la butter&agrave; fuori dalla Champions con il Valencia &ndash; quanto per quello olandese, formato da due &ldquo;scarti&rdquo; di Inter e Milan come Bergkamp e Kluivert. Ci siamo presi la licenza, dato che &ldquo;l&rsquo;olandese non volante&rdquo; da considerevole tempo dispensa magie sotto al Big Ben, mentre il centravanti originario del Suriname &egrave; in procinto di abbandonare Milanello: beffa rossonera doppia per chi conosce la storia, quantomeno Dennis una coppa europea all&rsquo;Inter l&rsquo;aveva regalata&hellip;  A Kluivert risponde Lopez Sono proprio i due scarti delle milanesi a regalare la semifinale all&rsquo;Olanda. Un gol per tempo per matare un&rsquo;Argentina formato Serie A. In mezzo il pareggio di Claudio Lopez, servito da un passaggio geniale di Veron. Il vantaggio olandese era arrivato al 12&rsquo;, grazie a una combinazione veloce tra Bergkamp e Kluivert: l&rsquo;ex Inter, dopo aver ricevuto da Ronald de Boer, accasciandosi per colpire di testa, prolungava verso il compagno di reparto che freddamente batteva Roa. Parit&agrave; all&rsquo;intervallo con l&rsquo;Argentina che pu&ograve; rimuginare sul palo clamoroso colpito da Ortega, andato a compensare il destro di Jonk &ndash; altro ex nerazzurro &ndash; che in avvio di gara aveva salvato Roa.  Nella ripresa il sole continua ad abbagliare il V&eacute;lodrome, mentre il Pitbull corre a destra e sinistra mordendo le caviglie agli avversari. Sfruttando l&rsquo;ennesimo servizio di Veron &ndash; il migliore dei suoi &ndash; Batistuta sconquassa il legno alla sinistra dell&rsquo;inerme Van der Sar. Non trovano fortuna i bolidi lanciati dall&rsquo;Albiceleste, Stam fatica ma non lascia altri varchi al Piojo, bilanciando un duello che si ripeter&agrave; infinite volte sui campi di Formello. Al 76&rsquo; l&rsquo;episodio che potrebbe cambiare la gara: Numan stende il capitano argentino Simeone, che si rotola a terra come se gli avessero sparato. Il fallo non &egrave; duro, ma in ritardo e stoppa una ripartenza: secondo giallo ed espulsione per il terzino del PSV. Potrebbe essere la svolta per l&rsquo;Albiceleste, che per&ograve;, a 4' dal termine vanifica la superiorit&agrave; numerica. La scemenza la compie Ortega: dopo essersi buttato in area e aver animosamente chiesto un rigore, va faccia a faccia con Van der Sar accennando una leggera testata. &ldquo;Durante una partita cade almeno trenta volte. Il suo comportamento &egrave; assurdo. E ha fatto bene l&rsquo;arbitro a non credere alle sue sceneggiate. Ortega &egrave; salito alla ribalta solo per una testata al nostro portiere. Per il resto, non &egrave; esistito&rdquo;, parole di Edgar Davids, dopo la positiva prova.  Nel Mondiale dei maghi la gemma di Bergkamp In 10 contro 10 a pochi minuti dal termine, sembra scontato poter benificiare di almeno un&rsquo;altra mezzora abbondante di sole, Bergkamp evidentemnte ha troppo caldo. Minuto 89&rsquo;: sventagliata di 60 metri di Frank de Boer, che da prima del centrocampo pesca Bergkamp sul vertice destro dell&rsquo;area di rigore. Sullo scarpino dell&rsquo;8 c&rsquo;&egrave; il Super Attak, in testa il cappello a cilindro di un mago col quale fa sparire inspiegabilmente il pallone ad Ayala. Il tocco d&rsquo;esterno con cui batte Roa &egrave; una delle gemme dei Mondiali di calcio: un gol favoloso, che fa esplodere il muro arancione che si issa proprio dietro la porta argentina. &ldquo;Ho seguito l&rsquo;istinto. &Egrave; stato il gol pi&ugrave; bello e pi&ugrave; importante della mia vita&rdquo;, dir&agrave; a fine gara. Grande gioia anche per il compagno di reparto Kluivert: &ldquo;Il mio Mondiale era cominciato nel modo peggiore, con quell&rsquo;espulsione (nella gara con il Belgio, ndr) che mi aveva fatto precipitare nello sconforto. Ora mi sento anche io un protagonista positivo. Il Brasile di Ronaldo? &Egrave; la nazionale pi&ugrave; forte, quella che alla vigilia &egrave; stata indicata da tutti come la favorita&rdquo;. Passer&agrave; dopo i rigori la Sele&ccedil;ao del Fenomeno, ma il Mondiale dei maghi lo vincer&agrave; Zizou.  Olanda-Argentina 2-1 del 4 luglio 1998: il tabellino OLANDA (4-4-2): Van der Sar; Reiziger, Stam, F. de Boer, Numan; R. de Boer (19' st Overmars), Davids, Jonk, Cocu; Kluivert, Bergkamp. A DISP.: Hesp, De Goey, Bogarde, Ooijer, Van Bronckhorst, Seedorf, Winter, Zenden, Hasselbaink, Van Hooijdonk. ALL.: Hiddink. ARGENTINA (3-5-2): Roa; Ayala, Sensini, Chamot (44' st Balbo); Zanetti, Simeone, Almeyda (23' st Pineda), Ortega, Veron; Batistuta, Lopez. A DISP.: Burgos, Cavallero, Paz, Vivas, Astrada, Berti, Gallardo, Crespo, Delgado. ALL.: Passarella.&nbsp; ARBITRO: Carter (Messico). MARCATORI: 12' Kluivert (O), 17' Lopez (A), 44' st Bergkamp (O).&nbsp;       

Nel Mondiale di Francia '98 le due nazionali si affrontarono ai quarti. In campo c'era mezza Serie A, ma a decidere la gara fu una gemma assoluta di uno "scarto" dell'Inter

Olanda-Argentina, una perla di Bergkamp per la semifinale col Brasile

        Il &ldquo;Supercl&aacute;sico&rdquo; tra River Plate e Boca Juniors &egrave; l&rsquo;evento per eccellenza dell&rsquo;Argentina, il derby per antonomasia, una rivalit&agrave; eterna tra le due squadre pi&ugrave; titolate e pi&ugrave; popolari della nazione, i &ldquo;Millonarios&rdquo; contro gli &ldquo;Xen&egrave;izes&rdquo; (i ricchi contro gli immigrati genovesi). Anche se ormai da tanti anni non &egrave; pi&ugrave; uno scontro ideologico tra borghesi e proletari, l&rsquo;odio sportivo tra le due compagini della capitale &egrave; comunque rimasto inalterato nel tempo. Quello del 25 ottobre 1997 per&ograve; non fu un &ldquo;Supercl&aacute;sico&rdquo; come gli altri, perch&eacute; quel giorno Diego Armando Maradona aveva deciso di recitare il suo ultimo ballo sui campi da calcio. Essendo Diego uno degli d&egrave;i pagani di questo sport (al pari di Pel&egrave;, Alfredo Di Stefano, Johan Cruyff e pochi altri eletti), per il suo definitivo addio alle scene aveva necessariamente bisogno di una location di un certo spessore, di un pubblico pronto per le grandi occasioni, per dare il giusto commiato alla sua immensa carriera, davanti alla sua gente: il derby tra Boca e River si prestava perfettamente all&rsquo;occasione, e non ci potevano essere altre opzioni nella testa di Diego. Maradona ovviamente gioca per gli Azul y oro, dove gi&agrave; all&rsquo;inizio degli anni Ottanta aveva contribuito a deliziare il pubblico della Bombonera con la sua classe gi&agrave; immane, anche se la partita-evento si gioca al Monumental, la casa del River, ma tanto per una (ed unica) volta si pu&ograve; riporre l&rsquo;ascia di guerra per salutare il pi&ugrave; grande di tutti, anche se gioca dalla parte dei &ldquo;nemici&rdquo;. Inutile sottolineare che quel giorno erano presenti pi&ugrave; giornalisti e fotografi del solito, tutti pronti ad assediare con i loro scatti il &ldquo;Diez&rdquo; per la sua uscita di scena dai campi di gioco. Prima dell&rsquo;inizio del match, Diego fa due gesti pi&ugrave; che eclatanti: alza i pugni al cielo e poi si fa il segno della croce. Il Maradona politico, il terzomondista schierato dalla parte dei pi&ugrave; deboli, amico di Fidel Castro e Hugo Chavez, e nemico dei potenti della Terra, dei presidenti americani e della corrotta Fifa, &egrave; assolutamente inseparabile dal Maradona giocatore, e viceversa. Il Maradona credente, invece, dichiara questo: &ldquo;&Egrave; Dio che mi fa giocare bene. Mi faccio sempre il segno della croce quando scendo in campo. Se non lo facessi, lo tradirei&rdquo;. La consapevolezza di essere una &ldquo;divinit&agrave; minore&rdquo; al cospetto del Padre.  Diego gioca una partita modesta, senza grandi acuti e senza azioni di rilievo, venendo sostituito gi&agrave; alla fine del primo tempo dal suo grande amico Claudio Caniggia: era ormai un ex-calciatore dal 1994, anno della squalifica di 18 mesi per efedrina ai Mondiali statunitensi. Maradona sapeva bene, nel crepuscolo della propria carriera, di poter contare solo sulla sua immagine e sul suo mito per attirare folle oceaniche di persone. Gli bastava unicamente la presenza fisica, corporale, per suscitare ancora emozioni, urla, gioia e commozione, ed &egrave; anche questa una delle ragioni della sua grandezza. Per la cronaca la partita fin&igrave; 2 a 1 per il Boca, che riusc&igrave; a rimontare lo svantaggio iniziale segnando due reti nel secondo tempo (quella decisiva la sigl&ograve; un giovanissimo Martin Palermo). Intervistato a fine gara, Diego dichiarer&agrave;: &ldquo;Il Boca ha giocato come il Boca, e il River era il River. Hanno giocato un grande primo tempo, ma poi gli si sono calate le mutande.&rdquo; Mitomania pura, come si addice a un mito(mane) come Diego.  A cura di:&nbsp;        

Il 25 ottobre 1997, al Monumental di Buenos Aires, la casa del River Plate, andava in scena l&rsquo;ultima partita del "genio del f&ugrave;tbol mundial"

Nel Superclásico l'ultimo "tango" di Diego Armando Maradona

        Irreversibile &egrave; ci&ograve; che nessuno potr&agrave; mai cancellare. Poi, che mettano pure in discussione tutto il resto, che esibiscano concetti claudicanti come un ginocchio troppo spesso malandato; come un sacco pieno zeppo di giocate sul quale s&rsquo;era posata la cenere dei troppi infortuni; ma non si potr&agrave; mai cambiare la Storia a dispetto di chi l&rsquo;ha scritta. Il fatto &egrave; che a volte basta un giro di lancette in mezzo a tutti quelli trascorsi e ai pochi che mancano, per superare l&rsquo;equatore dei giudizi, delle definizioni, delle catalogazioni soprattutto. Di Jorge Burruchaga, argentino di Gualeguay, laddove Buenos Aires &egrave; ancora soltanto un&rsquo;ipotesi, classe 1962, si pu&ograve; dire innanzitutto che era una grande mezzala, o un trequartista delizioso se preferite, gi&agrave; prima del 29 giugno del 1986; anzi, del minuto 86, come quell&rsquo;anno in cui il suo destino attravers&ograve; definitivamente la linea d&rsquo;ombra della considerazione e quando il suo pregio tecnico, gi&agrave; europeizzato dal campionato francese, ottenne il bollino di ceralacca della consacrazione mondiale, in questo caso non rosso scarlatto ma iridato, perch&eacute; il mondo se lo stavano giocando, allo Stadio Azteca, sotto la cappa di un 2-2 pi&ugrave; stagnante dell&rsquo;umidit&agrave; che aveva provocato malori in tribuna. E i tedeschi, vestiti di verde per l&rsquo;occasione, cominciavano a mostrare di avere pi&ugrave; benzina in corpo, rispetto a un&rsquo;Argentina pi&ugrave; piccola nelle proporzioni e prosciugata nelle risorse atletiche. Ma quando si addensano le nubi, decidono gli dei con un soffio di vento: il batti e ribatti dentro al cerchio di centrocampo &egrave; occasione e pericolo al tempo stesso, con gli spazi aperti davanti, perch&eacute; i tedeschi hanno alzato il baricentro; con la voragine alle spalle, perch&eacute; mezza argentina &egrave; l&igrave; a morsicare il pallone. E i tedeschi non sono gli inglesi, loro ti abbattono prima: &egrave; ci&ograve; che l&rsquo;istinto suggerisce a Maradona, quando dopo aver conteso di testa un paio di rimbalzi capisce che i malleoli gli serviranno ancora per scrivere la storia sotto il Vesuvio; allora invece di andare nello spazio che si apre, ci spedisce il pallone, di prima, sussurrandogli coi giri contati il nome di Burruchaga, quello col numero sette, che ha gi&agrave; capito e suggerito a Diego al tempo stesso cosa abbia senso fare, sapendo che Diego lo far&agrave; nello stesso tempo che ogni altro impiegherebbe per tentare di capire. El Burru scatta sul lato destro e tutti i muri di Berlino gi&agrave; piangono lacrime di breccia che diventa improvvisamente friabile: persino Briegel che &egrave; stato un decatleta capisce che la linea dove si trova &egrave; quella di un destino speculare e contrario, la sua rincorsa disperata &egrave; un bunker residuo del 1945, che gli piega la testa all&rsquo;indietro e gli fa mancare sotto i piedi il terreno della seconda finale persa. Burruchaga porta avanti la palla col sinistro, nei suoi tratti da indio e nel busto compresso sembra esserci la rincorsa per prendere a calci in culo un occidente intero: questa non &egrave; pi&ugrave; l&rsquo;Argentina dei Generali, questa &egrave; una nazionale che chiama Malvinas le isole che le spetterebbero e che non ne pu&ograve; pi&ugrave; dei suoi criminali novecenteschi e dei crimini secolari di chi le ha piegato il collo sotto uno stivale spagnolo. Dopo essersene andato con il mancino, lo stesso piede del tocco ricevuto da Maradona, vede Schumacher in uscita, uno che per chiudere la porta non esiterebbe a infilare un parastinchi in gola all&rsquo;attaccante: allora riesce ad accelerare ancora, per aprire la strada alla liberazione del destro. Il resto &egrave; storia, alla quale passa un giocatore la cui parabola da quel momento in poi andr&agrave; riconsiderata alla luce di quel frammento, e anche questa peraltro &egrave; un&rsquo;ingiustizia dei potenti, a ben vedere.  La storia calcistica di Burruchaga era gi&agrave; degna di essere raccontata prima di quel gol, lui che aveva fatto parte dei grandi dell&rsquo;Independiente con Bochini e Trossero, quelli della Copa Libertadores e della Coppa Intercontinentale del 1984; che poi se n&rsquo;era andato al Nantes per farsi eleggere migliore di Francia, che s&rsquo;era beccato pure una squalifica per colpa delle combine tra Marsiglia e Valenciennes quando era arrivato da poco a vestire la maglia biancorossa dei Cigni, che all&rsquo;Independiente sarebbe tornato per cucire l&rsquo;ultimo assist laddove la sua grandezza era cominciata.  Nella faccia di ogni sudamericano c&rsquo;&egrave; una piega confusa tra le altre che rende malinconico il sorriso, nemmeno la sua fa eccezione. Deve essergli tornata utile per esorcizzare il dolore delle ginocchia troppo fragili, da un certo momento in poi: lo stesso momento in cui Maradona aveva convinto Ferlaino a portarlo a Napoli, dopo il 1987. E&rsquo; andata come &egrave; andata, cos&igrave; come la finale del 1990, quando i tedeschi il Muro non ce l&rsquo;avevano pi&ugrave; ma avevano pi&ugrave; alleati, nella finale dell&rsquo;Olimpico. Di certo nessuno ha mai potuto portar via al Burru il ricordo di quell&rsquo;istante in cui, mentre tutto il mondo pensava a Diego, Diego ha pensato a lui.        

Nato il 9 ottobre del 1962, l'ex centrocampista dell'Independiente con una rete su assist di Maradona regal&ograve; la Coppa del Mondo all'Argentina nel 1986. Con il club di Avellaneda vinse anche la Libertadores e l'Intercontinentale

Jorge Burruchaga: il gol alla Germania nel Mondiale '86 e non solo

        Sino agli anni 2000 i portieri sudamericani godevano decisamente di minore considerazione rispetto agli omologhi europei. Su questa linea ci sono state per&ograve; alcune eccezioni nel corso dei decenni: Gilmar (goleiro del Brasile di Pel&eacute;), Ladislao Mazurkiewicz (miglior estremo con la Celeste del Mondiale 1970), Amadeo Carrizo e Ubaldo &ldquo;El Pato&rdquo; Fillol, probabilmente i migliori arqueros argentini di sempre. Qui veniamo a raccontare di un altro portiere latinos. Gli anni al Boca Juniors Nel 1972 a Bouquet, comune argentino della provincia di Santa Fe, nasceva Roberto Abbondancieri; qualcuno star&agrave; pensando ad un refuso ma invece non &egrave; cos&igrave;. Il nonno di Roberto di origini italiane, infatti, venne erroneamente registrato alla dogana ed il cognome da Abbondanzieri venne trasformato proprio in Abbondancieri. Il ragazzo passa la sua infanzia a Buenos Aires, ed &egrave; proprio in quegli anni che i suoi amici coniano per lui il soprannome perfetto: El Pato (Il Papero). Molti penseranno che questo nomignolo richiamasse al celebre &ldquo;Pato&rdquo; originale, Ubaldo Fillol, ma non &egrave; questo il motivo; il suo modo di camminare da papera, infatti, ricordava il famoso personaggio della Walt Disney Daffy Duck. Quindi non un portiere ma un cartone animato sta alla base del soprannome! Il nostro Pato milita durante le giovanili e debutta in prima squadra nel Rosario Central, con il quale vince la Coppa CONMEBOL del 1995; nel 1997 si trasferisce nel club argentino pi&ugrave; prestigioso (insieme al River Plate): il Boca Juniors. Nell&rsquo;anno del debutto, da secondo di Oscar Cordoba (ultimo baluardo della nazionale colombiana), ha il privilegio di godere da vicino delle ultime recite di Diego Armando Maradona. Pato ha sempre avuto un&rsquo;ammirazione enorme verso il Pibe e ne &egrave; testimonianza un video ripreso in occasione dell&rsquo;ultima partita di Diego, prima del Superclasico. In quell&rsquo;occasione Maradona tiene la squadra a colloquio e si nota come Roberto lo guardi incantato, ammaliato dal suo carisma unico. Il 2002 oltre ad essere l&rsquo;anno della titolarit&agrave; definitiva (Cordoba si trasferisce a Perugia) &egrave; anche quello in cui recupera l&rsquo;originario cognome di Abbondanzieri. Il punto pi&ugrave; alto della sua carriera in maglia Xeneizes&nbsp;&egrave; stata la finale della &ldquo;vecchia&rdquo; Coppa Intercontinentale contro il Milan. A Yokohama la gara termin&ograve; sull&rsquo;1-1 e furono i tiri dal dischetto a decretare il vincitore; sia Dida che il Pato erano dei &ldquo;draghi&rdquo; dagli undici metri. Abbondanzieri respinse i tiri di Pirlo e Costacurta e il Boca si fregi&ograve; della sua terza e ad oggi ultima Intercontinentale. Roberto resta numero 1 degli Xeneizes sino al 2006, chiudendo con ben 14 titoli in bacheca.  La sfortuna della Coppa del Mondo 2006 Nell&rsquo;estate 2004 l&rsquo;estremo diventa il titolare dell&rsquo;Albiceleste e subito conquista l&rsquo;argento nella Copa America dello stesso anno. Nel 2006 la nazionale guidata da Pekerman &egrave; una delle favorite alla vittoria finale del Mondiale. Primo girone e ottavi di finale sono una sorta di passeggiata; il Pato subisce solo due reti in quattro incontri prima di affrontare nei quarti la corazzata tedesca, padrona di casa. Nella vita di un calciatore ci sono incontri destinati a lasciare per sempre un segno, sia in positivo che in negativo. In questo caso all&rsquo;arquero argentino il destino riserv&ograve; la seconda opzione. L&rsquo;Argentina domin&ograve; il match fino a met&agrave; ripresa, quando su un calcio d&rsquo;angolo Klose urt&ograve; Abbondanzieri con una ginocchiata costringendolo a uscire in barella: la sua Coppa del Mondo fin&igrave; in quel preciso istante e quella dei compagni poco dopo; l&rsquo;Argentina usc&igrave; infatti ai rigori (specialit&agrave; del Pato) e il subentrato Leo Franco non riusc&igrave; ad essere decisivo. Ancora oggi molti supporter si chiedono come sarebbe finita quella partita con il Nostro tra i pali.  L&rsquo;arrivo in Europa: il Getafe Come detto all&rsquo;inizio, per i baluardi sudamericani non &egrave; sempre facile vivere con i pregiudizi che li accompagnano rispetto ai portieri europei. Alla fine della Coppa, per&ograve; Roberto venne acquistato &ndash; con un contratto triennale &ndash; dalla matricola Getafe. Il campionato degli azzurri fu magnifico, condito dalla qualificazione in Coppa Uefa, grazie alla finale di Copa del Rey. Il Pato, non solo sment&igrave; tutti gli scettici, ma il suo stile di parata pi&ugrave; simile a quello europeo che a quello sudamericano conquist&ograve; tutti tanto da portarlo alla conquista del prestigioso Trofeo Zamora (coppa dedicato al mitico Ricardo Zamora che va al portiere meno battuto della Liga).  Ritorno a casa Il ritorno nella famiglia Boca avviene a gennaio 2009, per poi chiudere la carriera all&rsquo;Internacional in Brasile con l&rsquo;ultimo successo di una vita agonistica piena di trionfi. Il Pato pu&ograve; vantare di essere stato uno dei pochi giocatori ad avere giocato con i due dei pi&ugrave; forti giocatori di sempre: Diego Maradona e Leo Messi. Il suo coniugare lo stile sudamericano con una tecnica pi&ugrave; europea l&rsquo;ha portato ad essere uno dei migliori portieri del mondo nel periodo 2000-2010. Chiudiamo con una sua frase, dedicata al suo Boca Juniors: &rdquo;Non posso tornare alla Bombonera a vedere una partita del Boca. Mi sento ancora quel giocatore che arriva un&rsquo;ora e mezza prima della partita. Mi prende troppa nostalgia&rdquo;. Gli appassionati del ruolo e soprattutto i tifosi Xeneizes hanno invece una grande nostalgia di &ldquo;Daffy Duck&rdquo;.        

Nato il 19 agosto del 1972, il numero 1 argentino ha conquistato ogni trofeo disponibile con la gloriosa maglia del Boca Juniors. Un unico rimpianto: il doloroso infortunio al Mondiale 2006&nbsp;

Pato Abbondanzieri: l'unico portiere ad aver giocato con Maradona e Messi

        Al di l&agrave; delle polemiche suggerite dalla situazione ambientale che contorn&ograve; l&rsquo;evento, la nazionale argentina vincitrice dei mondiali del 1978 era una squadra costituita da grandi giocatori che crearono un gruppo unito, proiettato a ottenere un successo difficilmente ripetibile. Ne danno contezza nomi come quelli di Kempes, Passarella, Bertoni, Luque e Houseman, che ancora oggi echeggiano nella memoria dei calciofili come musica suonata da strumenti finemente accordati.  Osvaldo Ardiles, centrocampista verticale In quell&rsquo;orchestra di interpreti raffinati si inseriva a pieno titolo Osvaldo C&eacute;sar Ardiles, centrocampista estremamente dinamico che in quella nazionale svolgeva un ruolo unico che il CT Menotti aveva saputo riconoscergli, imponendolo a un&rsquo;opinione pubblica inizialmente restia a comprenderne il valore. Forse perch&eacute; nei canoni del calcio sudamericano il centrocampista che gioca nel mezzo veniva all&rsquo;epoca identificato appieno nell&rsquo;organizzatore di gioco statico, propenso alle trame orizzontali, quelle gestite sotto ritmo, pronto a tenere palla e a dispensarla con giocate illuminate ma estemporanee. In questo identikit, Ardiles non poteva riconoscersi perch&eacute; gi&agrave; proiettato nel calcio a cadenze pi&ugrave; elevate che sarebbe arrivato negli anni successivi. Limitato nella statura (raggiungeva a stento il metro e settanta), trovava nel ritmo e nella qualit&agrave; dei piedi i suoi punti di forza, che sapeva combinare in un&rsquo;interpretazione del gioco verticale pi&ugrave; per istinto che per richiesta degli allenatori. Inseguendo sapeva distruggere; ripartendo in velocit&agrave; ribaltava l&rsquo;azione, porgendo assist ai compagni o chiedendo sponda per aprire gli spazi o andare a concludere. Guizzante pi&ugrave; che potente, dotato di tecnica che declinava con razionalit&agrave; pi&ugrave; che nell&rsquo;indulgenza dell&rsquo;effimero, non fu un caso che, dopo la vittoria del Mundial, attravers&ograve; l&rsquo;Atlantico per diventare protagonista a Londra, sponda Tottenham.  L&rsquo;esperienza al Tottenham di Ardiles Per paradosso, anche in Inghilterra il suo calcio gi&agrave; affacciato sul futuro inizialmente ebbe qualche difficolt&agrave; a essere apprezzato, su campi dove l&rsquo;unica fonte di gioco sembravano essere i cross in mezzo all&rsquo;area. Conquist&ograve; prima i tifosi di White Hart Lane, poi i trofei: nel 1981 e nel 1982 la FA Cup, nel 1984 la Coppa Uefa. Incidentalmente divenne anche attore, scritturato da John Huston per una parte nel film &ldquo;Fuga per la vittoria&rdquo; dove recit&ograve; insieme ad altri calciatori come Pel&eacute;, John Work, Bobby Moore, Paul van Himst e Kazimierz Deyna. E da Pit&ograve;n, soprannome che aveva guadagnato in Argentina, divenne pi&ugrave; semplicemente Ossie.  Argentina, Inghilterra e la guerra delle Falkland-Malvinas La madrepatria e l&rsquo;Inghilterra: due mondi, due culture che in quei soprannomi cos&igrave; differenti rappresentavano una diversit&agrave; che in Ardiles aveva trovato il modo di coesistere armoniosamente. Al contrario dei governi dei due Paesi, che nella primavera del 1982, a poche settimane dall&rsquo;inizio del Mondiale nel quale Osvaldo e i suoi compagni avrebbero dovuto difendere il titolo conquistato quattro anni prima, si scontrarono in una guerra stupida che colp&igrave; profondamente la vita di Ardiles: la famosa vicenda delle Falkland-Malvinas, quattro scogli al largo dell&rsquo;oceano Atlantico che i generali argentini in crisi di consenso e una lady di ferro che non aveva nessuna intenzione di subire sgarbi si contesero, lasciando sul campo di battaglia circa 900 vittime. Allo stadio i tifosi avversari lo bersagliarono di cori insultanti ai quali solo in parte quelli del Tottenham si opposero. A sua difesa, nell&rsquo;ultima partita che gioc&ograve; prima di andare in ritiro premondiale con l&rsquo;Albiceleste (la semifinale di FA Cup Leicester-Tottenham), alcuni supporters mostrarono uno striscione: &rdquo;Argentina can keep the Falkland, we&rsquo;ll keep Ossie&rdquo; (&ldquo;l&rsquo;Argentina pu&ograve; tenersi le Falkland, noi terremo Ossie&rdquo;). Era una situazione lacerante per una persona intelligente e sensibile come il Pit&ograve;n-Ossie, che non poteva immaginare che tra i morti di quella breve guerra ci sarebbe stato anche Jos&egrave; Leonidas Ardiles, suo cugino di primo grado.  La terra di mezzo Quel lutto lo costrinse ad affrontare il periodo pi&ugrave; difficile della sua carriera, che qualche anno pi&ugrave; tardi il centrocampista ricord&ograve; con queste parole: &rdquo;Ero diviso tra il Paese in cui ero cresciuto e quello che mi aveva accolto come un figlio, e in cui vivevo. La morte di mio cugino mi prostr&ograve; terribilmente: la guerra l&rsquo;avevo sempre considerata un evento lontano, e invece mi era entrata in casa&rdquo;. Un periodo nel quale Ardiles non era a casa in nessun posto, visto come una sorta di rinnegato in Argentina e un nemico in Gran Bretagna. Il destino di chi vede il mondo con equilibrio e sa riconoscerne pregi e difetti in ogni situazione, senza lasciarsi condizionare da punti di vista parziali. In quel momento restare in Inghilterra non sembrava pi&ugrave; la migliore delle opzioni. Cos&igrave; l&rsquo;argentino di Londra inizi&ograve; la stagione 1982-83 col Paris Saint Germain: le ferite della guerra avevano bisogno di essere curate dal tempo. Che non fu molto, in realt&agrave;, perch&eacute; Ossie torn&ograve; al Tottenham gi&agrave; all&rsquo;inizio del 1983. Ma ormai il meglio era scritto nel suo passato, in quella terra di mezzo tra Sudamerica ed Europa che solo lui e pochi altri erano riusciti a svelare.  &nbsp;       

Nato il 3 agosto del 1952, dopo aver vinto il Mondiale con l&rsquo;Albiceleste il centrocampista si trasfer&igrave; a White Hart Lane: gioie e dolori in un periodo storico segnato dalla guerra delle Falkland

Osvaldo Ardiles, dinamismo a tutto campo tra Argentina e Tottenham

        Nel mondiale spagnolo del 1982, dopo un girone eliminatorio superato a stento, per l&rsquo;Italia arrivava la partita della verit&agrave;: quella del 29 giugno contro l&rsquo;Argentina. La vigilia di quel match contro i campioni del mondo in carica, offuscati dalla ruggine che aveva intaccato le forze degli eroi del 1978 (pur rinvigoriti dalla presenza dell&rsquo;astro nascente Maradona), era stata il preambolo di una sentenza di condanna che pareva gi&agrave; scritta. Troppo scadenti le prestazioni dell&rsquo;Italia per poter coltivare una pur flebile speranza di vittoria nei confronti della Selecci&oacute;n&nbsp;di Menotti che, seppur non scintillante come in passato, rimaneva la seconda forza del girone di ferro nel quale erano scivolati gli azzurri dopo il passaggio farraginoso del primo turno. Favoritissimo era il Brasile dei meravigliosi Zico, Socrates, Falc&atilde;o, Cerezo, Junior, Eder: campioni che sembravano arrivati in Spagna per spiegare il verbo di un calcio inarrivabile a discenti ammaliati da quella bellezza sublime.  Il problematico cammino degli azzurri Al 29 giugno ci si era arrivati a fatica: quella di un girone nel quale l&rsquo;Italia era giunta alle spalle della Polonia di Zib&igrave; Boniek e a pari punti con il Camerun, presente per la prima volta alla fase finale di un campionato del mondo. L&rsquo;esordio coi polacchi aveva parzialmente ammansito il furoreggiare delle critiche verso Bearzot e i suoi ragazzi, colpevoli da mesi di partite noiose e dai risultati scadenti. Come il 2-0 rimediato a Parigi contro la Francia di Platini a febbraio, l&rsquo;umiliante 1-0 subito a Lipsia con la Germania Est ad aprile e il pareggio conseguito in Svizzera (1-1) a pochi giorni dall&rsquo;inizio del Mundial. Italia-Polonia aveva avuto le sembianze della mattina nebbiosa che lascia sperare che a mezzogiorno s&rsquo;alzer&agrave; il sole, con una traversa colpita da Tardelli a far immaginare per un attimo che la Nazionale si fosse destata e l&rsquo;aria fresca della Galizia avesse rinfrancato energie e morale di una squadra ormai lontana da quella brillante d&rsquo;Argentina. Anche il primo tempo col Per&ugrave; fece intravedere buone trame che trovarono esaltazione nel gol di Bruno Conti e naufragarono nel pantano di una ripresa della quale Rossi non fece parte, ancora sofferente di quell&rsquo;apatia post squalifica dovuta al calcio scommesse di cui non era ancora riuscito a spogliarsi. La partita qualificazione col Camerun riport&ograve; il barometro delle polemiche sulla bassa pressione: brutta Italia, in grado di avanzare al girone successivo solo per via di un gol in pi&ugrave; segnato rispetto agli africani, appaiati in classifica con gli stessi punti e la stessa differenza reti. La stampa nota, con masochistico sarcasmo, che la nostra Nazionale &egrave; la prima, nella storia della Coppa del Mondo, a passare il turno eliminatorio senza vincere nemmeno una gara. Le critiche sono feroci, prendono di mira soprattutto Paolo Rossi, che nello sguardo sciupato di quei giorni condensa la fragilit&agrave; di una condizione psico-fisica deficitaria. Quando, ai commenti da campo, si aggiungono quelli da caserma (con le illazioni che colpiscono proprio Pablito e il compagno di stanza Cabrini), la sopportazione degli azzurri arriva a superare quel limite che li porta al silenzio stampa. Si interrompono cos&igrave; le interlocuzioni coi giornalisti, lasciando che le loro elucubrazioni vengano alimentate esclusivamente dalle scarne dichiarazioni di capitan Zoff. E si vola a Barcellona, dove nell&rsquo;inferno del caldo catalano gli azzurri dovranno affrontare due partite impossibili cominciando, appunto, dall&rsquo;Argentina di Menotti, anch&rsquo;egli critico verso un&rsquo;Italia ritenuta non all&rsquo;altezza di quella del Mondiale precedente. A onor del vero anche l&rsquo;Albiceleste non appare il pi&ugrave; irresistibile degli avversari: &egrave; inciampata all&rsquo;esordio (0-1 contro il Belgio), &egrave; andata bene con l&rsquo;Ungheria, quando Maradona ha realizzato una doppietta (4-1), e ha svolto il compitino contro El Salvador (2-0). Ma appare comunque favorita, soprattutto perch&eacute; pu&ograve; avvalersi del Pibe de Oro, motivato a presentarsi al meglio nella citt&agrave; che dopo l&rsquo;estate lo vedr&agrave; protagonista del campionato spagnolo.  Italia-Argentina, la partita del Sarri&aacute; Bearzot non cambia la formazione che &egrave; scesa in campo col Camerun: deve solo decidere a chi far controllare Maradona, gi&agrave; affrontato in passato da Tardelli. Alla fine, per&ograve;, non &egrave; lui a doversi occupare del 10 argentino: il prescelto &egrave; Gentile, ruvido e capace di concentrarsi sulla marcatura, meno utile del compagno nella fase di appoggio alla manovra. Una mossa che risulter&agrave; decisiva.Cos&igrave;, alle 17.15 del 29 giugno 1982, l&rsquo;arbitro rumeno Rainea fischia l&rsquo;inizio della prima partita del gruppo C che elegger&agrave; una delle quattro semifinaliste. Lo stadio &egrave; il Sarri&aacute;, del quale oggi &egrave; possibile solo coltivare il ricordo, il campo dove &egrave; solito disputare le partite casalinghe l&rsquo;Espanyol. Le squadre sono decise, tese, determinate gi&agrave; nei primi contrasti. Gentile si appiccica a Maradona dando vita a un duello che sembra affondare le radici pi&ugrave; nei canoni della lotta libera che nelle regole del calcio. La maglietta del Diez si allunga, viene stracciata; i suoi scatti bloccati sul nascere da ostruzioni a braccia aperte, gambe intrecciate, sgambetti cercati. L&rsquo;Italia &egrave; attorcigliata sul filo di una tensione che ne evidenzia una combattivit&agrave; finalmente rinata. I giocatori, iniettati di fiducia da Bearzot, giocano alla pari coi campioni del mondo. Chi osserva da fuori non si capacita di una metamorfosi agonistica insperata, piacevolmente sorprendente. Andare all&rsquo;intervallo senza aver subito reti &egrave; un primo miracolo che induce a una speranza che il secondo tempo trasforma nella realt&agrave; di una Nazionale ormai libera dal fardello di una negativit&agrave; inibente. La ritrovata mobilit&agrave; di Rossi, i dribbling di Conti, le discese di Cabrini e le incursioni di Tardelli sono i fattori sui quali si costruiscono i gol che segnano l&rsquo;esito della partita: al 57&rsquo; &egrave; il centrocampista a infilare con un bel diagonale Fillol mentre tocca al Bell&rsquo;Antonio andare al raddoppio dieci minuti pi&ugrave; tardi. Non serve, nel finale, il gol su punizione di Passarella a rimettere in discussione una vittoria convincente che restituisce orgoglio a giocatori, tecnico e tifosi. Pensare al Brasile, in quel momento, &egrave; solo un pensiero che pu&ograve; incrinare la festa: domani &egrave; un altro giorno, si vedr&agrave;.  Italia-Argentina 2-1 del 29 giugno 1982: il tabellino ITALIA: Zoff (C), Gentile, Cabrini, Oriali (31' st Marini), Collovati, Scirea, Conti, Tardelli, Rossi (36' st Altobelli), Antognoni, Graziani. A DISP.: Bordon, Galli, Baresi, Vierchowod, Bergomi, Dossena, Causio, Massaro, Selvaggi. CT: Enzo Bearzot.&nbsp; ARGENTINA: Fillol, Olguin, Galvan, Gallego, Passarella (C), Tarantini, Bertoni, Ardiles, Diaz (14&rsquo; st Calderon), Maradona, Kempes (14&rsquo; st Valencia). A DISP.: Baley, Pumpido, Trossero, Van Tuyne, Olarticoechea, Barbas, Hernandez, Santamaria, Valdano.&nbsp;CT: Cesar Luis Menotti.&nbsp; ARBITRO: Rainea (Romania).&nbsp;MARCATORI: 12' st Tardelli (I), 22' st Cabrini (I), 38' st Passarella (A).&nbsp;       

Dopo un girone passato a fatica, il 29 giugno di 40 anni fa, la Nazionale di Bearzot batteva l&rsquo;Albiceleste, regalandosi una speranza con la Sele&ccedil;ao. Decisive le reti di Tardelli e Cabrini

Spagna ’82: l’Italia rinasce con l’Argentina e aspetta il Brasile

        Si scrive Rosario ma si legge &ldquo;patria del football&rdquo;. Nella citt&agrave; argentina che sorge sulla riva occidentale del Paran&agrave; il calcio &egrave; una vera e propria religione con due confessioni ben distinte, quella del Central e del Newell&rsquo;s, oltre che centinaia di santi. Stiamo parlando dei numerosissimi grandi calciatori che sono nati e cresciuti all&rsquo;ombra del Monumento hist&oacute;rico nacional a la Bandera, dal Trinche Carlovich fino ad arrivare a Leo Messi. Jorge Valdano dice che nascere l&igrave; vuol dire essere argentino in una maniera esagerata, fino alle estreme conseguenze. Ebbene, tra i numerosi figli di Rosario ce n&rsquo;&egrave; uno in particolare che ha portato grandissimo lustro alla nazionale argentina: Oscar Ruggeri.&nbsp; Un rosarino non convenzionale Nonostante i suoi natali, Ruggeri non ha mai giocato n&eacute; nel Central n&eacute; nel Newell&rsquo;s, rendendosi protagonista della storia calcistica di un&rsquo;altra citt&agrave; argentina: Buenos Aires. Lo stopper ha iniziato infatti la sua carriera nel Boca, insieme a Diego Armando Maradona, prima di trasferirsi ai Millonarios del River. Nel 1988 Ruggeri sceglie di dire addio al Sud America per sbarcare in Europa: qui approda inizialmente nel piccolo club del Logrones, in cui milita per una stagione prima di vestire la maglia dei Blancos di Madrid nella stagione 1989-90. Dopo la parentesi spagnola lo stopper di Rosario torna in patria, dove veste le maglie di Velez, San Lorenzo e Lanus con in mezzo una brevissima esperienza in Serie A con l&rsquo;Ancona. Le vittorie con l&rsquo;Albiceleste Nonostante la sua ottima carriera a livello di squadre di club, Ruggeri deve la sua fama principalmente alle vittorie conquistate con la maglia della nazionale argentina. Figura fondamentale della formazione laureatasi campione del mondo nel 1986, ha partecipato anche alle successive due edizioni da assoluto protagonista, raggiungendo il secondo posto a Italia &rsquo;90. Nel palmar&egrave;s vanta anche due vittorie in Copa America, nel 1991 e nel 1993, edizione che vince con i gradi di capitano, oltre alla Confederations Cup del 1992. Con i suoi 97 gettoni &egrave; stato per diverso tempo il recordman di presenze con la Seleccion, prima di essere raggiunto e superato da Diego Simeone, che a sua volta &egrave; stato superato, neanche a dirlo, da un ragazzo di Rosario: Lionel Andr&eacute;s Messi Cuccittini.&nbsp;       

Lo stopper ha indossato le maglie di Boca, River e Real Madrid, ma &egrave; con l&rsquo;Argentina che ha vinto tutto

Oscar Ruggeri: da Rosario fino al tetto del mondo

        Questa notte alle 2:00 (ora italiana) al Maracan&agrave; di Rio de Janeiro si disputer&agrave; l&rsquo;atto finale di questa edizione della Copa America. Ad andare in scena sar&agrave; uno dei pi&ugrave; grandi classici del calcio mondiale: Argentina-Brasile, Messi contro Neymar, Albiceleste contro Sele&ccedil;ao. Dal 1975, anno in cui prese forma l&rsquo;attuale formula del torneo, ad oggi, le due big sudamericane si sono incontrate in finale solamente 2 volte. 1991, lo scontro fondamentale  L&rsquo;edizione del 1991 non prevedeva una finale diretta, ma un mini girone decisivo di quattro squadre. La partita tra Brasile e Argentina all&rsquo;Estadio Nacional de Cile, la prima di questo &ldquo;torneo nel torneo&rdquo;, risulta dunque quasi decisiva. A spuntarla furono Batistuta e compagni dopo una gara ricca di emozioni. Al primo minuto subito in vantaggio l&rsquo;Albiceleste con Franco che incorna su calcio d&rsquo;angolo. Dopo nemmeno 4 minuti Branco rimette in pari con una punizione magistrale dai 30 metri. La partita &egrave; infuocata: al 31&rsquo; Mazinho entra malissimo su Caniggia che reagisce in maniera violenta, l&rsquo;arbitro Carlos Maciel manda entrambi sotto la doccia. Per la cronaca, la partita terminer&agrave; con cinque espulsi. Prima del 45&rsquo; la formazione allenata da Alfio Basile segna altri due gol, portandosi sul 3-1. Nella ripresa c&rsquo;&egrave; spazio per il gol di Joao Paulo che accorcia le distanze e per tanti, tantissimi falli, come tradizione sudamericana impone. Finir&agrave; 3-2, grazie a quel successo l&rsquo;Albiceleste vincer&agrave; il girone con 5 punti e di conseguenza il torneo.&nbsp; Le vittorie verdeoro del 2004 e 2007  Argentina e Brasile si incontrano in una vera finale 13 anni dopo, nell&rsquo;edizione del 2004. Questa volta a fare da cornice alla sfida &egrave; l&rsquo;Estadio Nacional Jos&egrave; Diaz di Lima, in Per&ugrave;. L&rsquo;Albiceleste si porta in vantaggio quasi subito grazie alla trasformazione dagli undici metri di Kily Gonz&aacute;lez e il Brasile riesce ad acciuffare il pareggio quasi allo scadere del primo tempo con Luisao. La seconda frazione &egrave; ricca di emozioni: dopo le solite botte da orbi e ben 5 cartellini gialli, all&rsquo;87&rsquo; Cesar Delgado porta in vantaggio la formazione di Bielsa. Gli argentini, ormai convinti di avere la vittoria in tasca, abbassano la guardia e concedono il pareggio al 93&rsquo;, firmato da Adriano. I verdeoro, sulle ali dell&rsquo;entusiasmo, la spuntano ai rigori, sfruttando gli errori di D&rsquo;Alessandro e Heinze. L&rsquo;edizione successiva vede ancora le due formazioni scontrarsi nell&rsquo;ultimo atto della competizione: questa volta non c&rsquo;&egrave; storia, la Sele&ccedil;ao travolge Tevez e compagni per 3-0, laureandosi campione del Sudamerica per l&rsquo;ottava volta.       

Le due nazionali si sono incontrate gi&agrave; due volte nell&rsquo;atto conclusivo del torneo sudamericano, nel 1991 invece fu decisivo lo scontro nel girone

Argentina-Brasile, i precedenti in finale di Copa America

        22 giugno 1986: appuntamento con la storia. Quarti di finale della Coppa del Mondo. Lo Stadio Azteca brilla: la luce del sole &egrave; accecante, ma s&rsquo;incentra su un singolo giocatore, quello con la maglia numero dieci dell&rsquo;Argentina.&nbsp;L&rsquo;Albiceleste non &egrave; una squadra da titolo, ma in campo ha Diego Armando Maradona. Basta lui per mettere in ginocchio l&rsquo;Inghilterra.&nbsp;Due gol per la leggenda: il primo &egrave; un&rsquo;astuzia, un pugno teso verso il cielo che anticipa l&rsquo;uscita di Shilton, che schiaffeggia il regolamento del calcio e che penetra dritto dritto nello stomaco dei gentlemen inglesi, i quali rimangono attoniti davanti all&rsquo;esultanza di Diego. Maradona non ha finito: Enrique serve &ldquo;l'assist del secolo&rdquo;, un passaggio di cinque metri al Dies che riceve il pallone a 70 metri dalla porta. Parte. Nessuno lo pu&ograve; fermare. Dentro quel gol c&rsquo;&egrave; tutto: classe sopraffina, corsa, rabbia, orgoglio, genio. Gli inglesi non lo possono fermare, non hanno quella cattiveria ideologica per intervenire duramente sulle gambe di Maradona. Diego va: corre verso l&rsquo;infinito, incontrastato in direzione dell&rsquo;area di rigore avversaria. Salta tutta l&rsquo;Inghilterra, compresa la Thatcher, Primo ministro del Regno Unito che pochi anni prima aveva intrapreso la guerra alle Malvinas, nella quale pi&ugrave; di 600 argentini persero la vita per difendere un paio di rocce vicino all&rsquo;Antartide. Maradona ha appena segnato il gol del secolo. Per descriverlo non servono tante parole, basta una frase, pronunciata da Victor Hugo Morales, il telecronista di quella partita: &laquo;De qu&eacute; planeta viniste, barrilete cosmico!&raquo;.       

Il 22 giugno 1986 El Pibe de Oro si carica sulle spalle tutta l'Argentina e annichilisce l'Inghilterra con due reti iconiche, entrate, in modo diverso, nella storia del calcio

Maradona vs Inghilterra, due gol per la leggenda

        Da Crespo a Messi, passando per Veron, Riquelme, Zanetti, Di Maria, Aguero, Higuain&hellip; generazioni di talenti assoluti, calciatori che hanno fatto sognare i tifosi di tutto il mondo. Ma l&rsquo;ultimo grande campione argentino capace di vincere con la gloriosa maglia Albiceleste resta Gabriel Omar Batistuta. L&rsquo;Argentina, infatti, ha messo in bacheca il suo ultimo trofeo nel lontano 1993, grazie alla vittoria della Copa America. La Copa America 1993 &nbsp; La formula &egrave; cambiata: aumentano le partecipanti da 10 a 12. Sono Stati Uniti e Messico le prime rappresentative della Concacaf a essere invitate. Le due selezioni centroamericane completano il tabellone gi&agrave; composto da Argentina, Brasile, Cile, Uruguay, Paraguay, Per&ugrave;, Bolivia, Ecuador, Colombia e Venezuela. La Seleccion &egrave; guidata da Alfio Basile e detiene lo scettro di campione in carica, in seguito alla vittoria del 1991, ottenuta soprattutto grazie alle grandi prestazioni di un giovane ma gi&agrave; decisivo Batistuta. Nel &rsquo;93 Basile schiera una formazione che si struttura sul fosforo del giovane Redondo e sul dinamismo del Cholo Simeone a centrocampo, per poi esplodere nella &ldquo;cattiveria&rdquo; del bomber Batistuta. La retroguardia &egrave; solida, ben strutturata da uomini di esperienza. L&rsquo;Albiceleste passa il girone grazie a due pareggi e al successo nel giorno del debutto contro la Bolivia firmato Batigol. Lo snodo principale della competizione avviene nei quarti, quando la Seleccion trova sulla sua strada il Brasile. I tempi regolamentari terminano 1-1 (al gol del vantaggio di Muller, risponde un colpo di testa di Leonardo Rodriguez). I supplementari non sono previsti, si va direttamente ai calci di rigore. Dopo 12 trasformazioni in altrettante esecuzioni, Boiadeiro fallisce e Jorge Borelli porta i suoi in semifinale. Qui la storia si ripete: dopo una gara terminata in parit&agrave; contro la Colombia (0-0), &egrave; ancora il difensore del Racing Borelli a calciare il rigore che decide la serie. La finale: Argentina-Messico &nbsp; Dall&rsquo;altra parte del tabellone la grande sorpresa &egrave; il Messico, che alla sua prima partecipazione, dopo essersi qualificato come terza nel girone, ha battuto nettamente Per&ugrave; ed Ecuador. Il 4 luglio 1993 si gioca la finale, il teatro &egrave; il Monumental di Guayaquil. Succede tutto in 10 minuti della ripresa. Al 63&rsquo; Batistuta se ne va di forza sul versante destro dell&rsquo;area di rigore e scarica una terribile fucilata, che batte Jorge Campos sul primo palo. Solo quattro minuti pi&ugrave; tardi Hugo Sanchez si guadagna il rigore che Galindo trasforma per il pari. Ma l&rsquo;uomo della Coppa &egrave; il Re Leone: al 74&rsquo; si libera in area e firma di sinistro la rete del sorpasso. Il Messico &egrave; battuto, l&rsquo;Argentina &egrave; campione per la quattordicesima volta nella storia, staccando cos&igrave; l&rsquo;Uruguay in testa all&rsquo;albo d&rsquo;oro della competizione. &nbsp;       

Nell'edizione giocata in Ecuador nel '93 la Seleccion biss&ograve; il successo del '91 ancora nel segno di Batistuta. Resta l'ultimo titolo per l'Albiceleste

Copa America, nel 1993 l'ultima vittoria dell'Argentina

        Cinquantasei anni dopo, l&rsquo;Italia torna a ospitare un campionato Mondiale di calcio. La prima e unica occasione in cui la Coppa del Mondo si era disputata nel nostro Paese risale al 1934, edizione che vide il primo storico trionfo degli azzurri guidati da Vittorio Pozzo. L&rsquo;8 giugno 1990, invece, prende il via il Mondiale delle Notti Magiche. La lunga vigilia di Italia &lsquo;90 &nbsp; Ai nastri di partenza la nostra Nazionale non pu&ograve; non essere inserita tra le favorite. Oltre al grande vantaggio di giocare in casa, il nostro movimento calcistico domina l&rsquo;Europa: il Milan di Sacchi ha vinto la seconda Coppa dei Campioni consecutiva; la Juventus di Zoff si &egrave; aggiudicata la Coppa Uefa al termine di una finale tutta italiana contro la Fiorentina; la Sampdoria di Boskov ha appena trionfato in Coppa delle Coppe, vincendo il suo primo (e unico) trofeo internazionale. Spetta per&ograve; all&rsquo;Argentina campione in carica l&rsquo;onore di scendere in campo per prima. La Selecci&ograve;n dovrebbe giocare il suo girone tra il San Paolo di Napoli e il San Nicola di Bari, ma debutta a San Siro, stadio designato per la cerimonia d&rsquo;apertura. La squadra di Bilardo affronta il Camerun, schierando nell&rsquo;undici titolare ben due giocatori dell&rsquo;Udinese, Balbo e Sensini, e ovviamente Diego Armando Maradona: molti dei 73.780 spettatori presenti sono accorsi a Milano proprio per vedere le magie del Pibe, intento a trascinare l&rsquo;Argentina verso un altro trionfo Mondiale. Argentina-Camerun 1990: primo tempo &nbsp; Il fischietto francese Michel Vautrot, che i tifosi italiani ricordano per la direzione della semifinale di Coppa dei Campioni tra Roma e Dundee nel 1984, d&agrave; il via al Mondiale italiano. L&rsquo;Argentina si rende subito pericolosa con un paio di affondi che non vanno a buon fine. Al 21&rsquo; i Leoni Indomabili sfiorano il vantaggio: un traversone basso mette in difficolt&agrave; Basualdo, il centrocampista pasticcia mettendo fuori causa il portiere Pumpido con un tocco maldestro; quando la sfera sta per terminare in rete, Nestor Fabbri la butta miracolosamente in calcio d&rsquo;angolo. Sugli sviluppi del corner l&rsquo;Albiceleste riparte, la pelota arriva al Diez, che pur mancando lo stop riesce a liberarsi del diretto marcatore e lanciare in profondit&agrave; un pallone a mezzaria. In questo preciso istante arriva come un treno Victor N&rsquo;Dip, che colpisce Diego con un calcio Kamikaze in pieno petto. L&rsquo;argentino cade a terra, ma Vautrot, incredibilmente, estrae solo il cartellino giallo. La partita si incattivisce e il primo tempo regala solo un&rsquo;ultima chance agli africani, con la conclusione di Biyik respinta dai guantoni di Pumpido. La sorpresa arriva nel secondo tempo &nbsp; Bilardo prepara l&rsquo;assalto e a inizio ripresa manda in campo un attaccante, Caniggia, al posto di un difensore, Ruggeri. La mossa del selezionatore porta i suoi frutti al minuto 61, quando un&rsquo;accelerazione del Figlio del Vento provoca l&rsquo;espulsione diretta di Kana-Biyik. Il rosso sembra eccessivo, ma forse negli spogliatoi a Vautrot &egrave; stato segnalato l&rsquo;errore commesso nell&rsquo;episodio del calcio a Maradona. Il Camerun resta in 10 e la partita potrebbe prendere una strada ben delineata. Invece, come spesso accade nel calcio, succede il contrario. Al 67&rsquo;, sugli sviluppi di un calcio di punizione, la sfera s&rsquo;impenna. Fran&ccedil;ois Omam-Biyik salta e la impatta in cielo: il tentativo di opposizione del portiere Pumpido &egrave; a dir poco maldestro e, di fatto, accompagna la sfera in rete. Tra lo stupore di tutto il mondo, il Camerun &egrave; in vantaggio sull&rsquo;Argentina. La Selecci&ograve;n spreca una buona opportunit&agrave; con Balbo, che cicca di testa sul traversone dello scatenato Caniggia. Il numero 8 &egrave; l&rsquo;ultimo ostacolo che si frappone tra i Leoni Indomabili e un successo storico. &Egrave; ancora lui, dopo aver saltato tre avversari con un&rsquo;incredibile accelerazione, a provocare la seconda espulsione di giornata. Questa volta l&rsquo;intervento di Massing &egrave; duro e fuori tempo: il secondo giallo &egrave; sacrosanto. Nonostante la doppia inferiorit&agrave; numerica, il muro africano regge fino al triplice fischio. Il Mondiale delle Notti Magiche inizia con la sorpresa.  &nbsp;       

Nella gara inaugurale delle Notti Magiche, l'Albiceleste di Maradona perse 1-0 contro gli africani decimati dai cartellini rossi

Argentina-Camerun: il Mondiale di Italia '90 inizia con la sorpresa

        Capelli al vento, corsa continua e tanta, tantissima grinta: &egrave; forse stato l&rsquo;esempio lampante dell&rsquo;applicazione della &ldquo;garra&rdquo; sudamericana su un rettangolo verde. Matias Jes&uacute;s Almeyda nasce ad Azul, una piccola cittadina nella provincia di Buenos Aires, il 21 dicembre 1973. Oggi il suo aspetto &egrave; molto simile ai tempi in cui giocava, porta ancora la lunga chioma che lo ha sempre contraddistinto mentre prova a trasmettere quella grinta che applicava in campo alla prima squadra del San Jose Earthquakes dove allena dal 2018.  Gli inizi Matias si affaccia nel grande calcio a inizio anni &rsquo;90. A dargli l&rsquo;opportunit&agrave; &egrave; &ldquo;El mas grande de Argentina&rdquo; (&ldquo;Il pi&ugrave; grande d&rsquo;Argentina&rdquo;), il club che trasuda orgoglio e storia: il River Plate. Cinque stagioni in cui vince tre Campionati Apertura, ma soprattutto culmina il quinquennio con la conquista della coppa pi&ugrave; importante: la Libertadores 1996. A 23 anni, dopo aver accumulato esperienza ed essere cresciuto come uomo e come calciatore, arriva il momento del grande salto: dal Sudamerica fino al Vecchio Continente. I colori del Siviglia sono gli stessi del River, ma la sua unica annata in Liga termina con una tragica retrocessione. &ldquo;El Pelado&rdquo; non pu&ograve; restare, ad accorgersi di lui &egrave; un presidente ambizioso che da l&igrave; a poco riuscir&agrave; ad allestire la mediana pi&ugrave; forte del mondo: Sergio Cragnotti.  La svolta Nonostante un 1997-98 caratterizzato da alti e bassi, il centrocampista argentino vince il suo primo trofeo italiano, una Coppa Italia che alla Lazio mancava da ben 40 anni. I biancocelesti arrivano in fondo anche in Coppa Uefa, Almeyda gioca titolare nella finale di Parigi, ma in quella notte la squadra di Eriksson deve fare i conti con il calciatore pi&ugrave; forte del pianeta: i sogni di gloria vengono mandati in fumo dall&rsquo;Inter di Ronaldo. Nell&rsquo;estate &lsquo;98 il patron laziale aggiunge a una squadra gi&agrave; fortissima alcuni tasselli fondamentali come Salas, Mihajlovic, Con&ccedil;ei&ccedil;ao, Couto, Stankovic e Vieri. L&rsquo;altra &ldquo;pescata&rdquo; dalla Liga non avr&agrave; gli stessi effetti dell&rsquo;esplosivo Almeyda: Ivan de la Pe&ntilde;a si riveler&agrave; un incredibile flop. La Lazio &egrave; fortissima, e con un gladiatore come Matias che lotta e sradica palloni a centrocampo lasciando agli avversari solo le briciole, avanza su tutti i fronti. La stagione si apre con la vittoria in Supercoppa contro i campioni d&rsquo;Italia della Juve e prosegue con un cammino trionfale nell&rsquo;ultima edizione della Coppa delle Coppe. Almeyda &egrave; titolare al Villa Park di Birmingham e vince la sua prima coppa europea, regalando questa emozione anche alla Lazio. Lo scudetto sfuma solo sul finale, e prende la via della Milano rossonera. Poco importa, perch&eacute; per scrivere la pagina pi&ugrave; importante della storia biancoceleste - insieme all&rsquo;indelebile scudetto 1974 - manca pochissimo. Cragnotti si scatena in estate e completa quel centrocampo stellare con gli innesti di tre suoi connazionali: Veron, Simeone e Sensini. Vola Lazio vola La stagione inizia il 27 agosto a Montecarlo, dove si disputa la Supercoppa Europea. L&rsquo;avversario dei biancocelesti &egrave; lo United del &ldquo;Treble&rdquo;. La mediana di Sir Alex Ferguson &egrave; composta da Roy Keane, Scholes e Beckham, dall&rsquo;altra parte per&ograve; c&rsquo;&egrave; una Lazio in grado di schierare tre giocatori dai piedi fatati come Veron, Nedved e Stankovic, in mezzo ai quali c&rsquo;&egrave; bisogno dei dieci polmoni del &ldquo;Pelado&rdquo;. Il gol di Salas decide la gara e la Lazio riparte con un&rsquo;altra coppa in bacheca. In mezzo alla qualit&agrave; e all&rsquo;abbondanza di Eriksson, c&rsquo;&egrave; un posto fisso per i tackle e le scivolate di Almeyda. I tifosi lo amano e lui &egrave; il profilo ideale da schierare in un reparto che basa sulla classe e i piedi buoni le sue fondamenta. Quello che succede alla quarta giornata di campionato, quando la Lazio espugna il Tardini di Parma 2-1, si pu&ograve; riassumere nella reazione del trafitto Gigi Buffon, incredulo nel vedere il pallone in fondo al sacco. La gara &egrave; decisa da uno dei pochissimi gol in carriera dell&rsquo;argentino: in quella sensazionale rete c&rsquo;&egrave; incoscienza e istinto puro. Dopo la respinta di Lassissi, la sfera sta per cadere sui 30 metri, Almeyda non ci pensa due volte e lascia partire un bolide volante di mezzo esterno che si va a infilare sotto l&rsquo;incrocio dei pali. &Egrave; uno dei gol pi&ugrave; belli e iconici della storia biancoceleste. Quell&rsquo;annata per&ograve; rischia di diventare una grande beffa: la Lazio, prima per quasi tutto il campionato, subisce il sorpasso della Juve, ma la magia del calcio regala ai capitolini un finale thrilling che culmina nella conquista di uno scudetto &ldquo;pazzo&rdquo;, sotto la pioggia di Perugia. Insieme alla vittoria della Coppa Italia, &egrave; il modo pi&ugrave; incredibile per festeggiare l&rsquo;anno del centenario. Almeyda non poteva fare di pi&ugrave; per la causa e non poteva aspettarsi pi&ugrave; amore dal popolo laziale, che ogni domenica lo accompagnava in Curva Nord con lo stendardo &ldquo;Undici Almeyda&rdquo;, a dimostrazione dell&rsquo;imprescindibilit&agrave; di un lottatore argentino per il cammino vincente di quella Lazio. Un calciatore onnipresente a centrocampo, che sembrava sdoppiarsi per andare a riconquistare il pallone e far ripartire la manovra. La storia d&rsquo;amore finisce in estate, con il mediano dai lunghi capelli che saluta Roma per approdare a Parma nell&rsquo;operazione che porta Crespo alla Lazio. La sua esperienza italiana dura fino al 2004, divisa tra i giallobl&ugrave;, l&rsquo;Inter - dove matura l&rsquo;amicizia con il grande tifoso del River Lele Adani - e una brevissima esperienza a Brescia. Con il Parma vince anche la Coppa Italia 2002, ma i migliori ricordi nel nostro campionato li ha lasciati senza dubbio a Roma, dove rimarr&agrave; per sempre idolo del popolo biancoceleste.       

Il centrocampista argentino arriv&ograve; alla Lazio nel 1997. Fondamentale nello scacchiere di Eriksson, fu il polmone del secondo scudetto biancoceleste

Matias Almeyda, l’essenza della “garra”

Al di l&agrave; dei gol, con i due alla Sampdoria &egrave; salito in questa stagione a quota 11 (4 i rigori),&nbsp;Mauro Icardi&nbsp;sembra entrato in una nuova dimensione e soltanto lo straordinario vivaio argentino gli impedisce di essere titolare nella sua nazionale e addirittura anche di essere sicuro di essere nei 23 convocati di&nbsp;Sampaoli&nbsp;per Russia 2018. Hanno lo stesso suo passaporto Messi, Dybala, Higuain, Ag&uuml;ero, Benedetto, Correa, Acosta, Alario, Pastore, Di Maria, Gomez (nel senso di Papu), per citare giocatori offensivi che sono stati chiamati nell&#39;Albiceleste negli ultimi sei mesi e dimenticando volutamente Tevez, Lavezzi, Pratto, Vietto... Caratteristiche diverse, ma l&#39;evidenza che non possono giocare e nemmeno essere tutti convocati nella stessa squadra, a maggior ragione se Sampaoli dar&agrave; corso alla sua idea di costruire tutto intorno a Messi, un po&#39; come fece&nbsp;Bilardo&nbsp;nel 1986 e nel 1990 con&nbsp;Maradona, avendo a disposizione una generazione molto inferiore a quella odierna.  Di sicuro Icardi non avrebbe in alcun caso rimpianti per la scelta fatta 4 anni fa e che vale la pena di ricordare in un&#39;epoca in cui la nazionalit&agrave; sembra qualcosa di burocratico e non invece identit&agrave;, appartenenza, cultura. Il grande pubblico conosce Icardi l&#39;Epifania del 2013, quando a nemmeno 20 anni segna, con la maglia della Sampdoria, una doppietta allo Juventus Stadium dando alla squadra allora allenata da Delio Rossi una incredibile vittoria, in dieci contro undici, contro quella di Conte avviata verso il suo secondo scudetto. Un grandissimo colpo di&nbsp;Riccardo Pecini, eroe di tante plusvalenze sampdoriane (ricordiamo solo Skriniar e Schick), che lo aveva preso dalle giovanili del Barcellona per 400.000 euro: in pieno guardiolismo duro e puro, un centravanti cos&igrave; non era previsto nemmeno fra i ragazzi (oggi Guardiola la pensa diversamente).  In poche settimane Icardi, che ancora guadagna 60.000 euro lordi all&#39;anno, diventa un uomo mercato e la FIGC di Abete inizia a interessarsi seriamente a lui dopo gli approcci del passato con l&#39;Under 19 guidata da Evani: una convocazione rifiutata, al contrario di quelle nell&#39;Unger 20 argentina.&nbsp;Prandelli&nbsp;gli parla e capisce che non ha ancora le idee chiare: in Italia &egrave; esploso e grazie al nonno piemontese il suo passaporto italiano &egrave; a prova di qualsiasi verifica, ma lui si sente argentino nonostante di fatto non viva in Argentina da quando ha 9 anni. L&#39;emigrazione in Spagna dei suoi genitori non &egrave; stata infatti al seguito del figlio fenomeno (come per Messi e tanti altri), ma per pura mancanza di lavoro in patria. &Egrave; il c.t. azzurro, a quell&#39;epoca fresco della finale agli Europei, a dirgli di pensarci bene. L&#39;Argentina &egrave; piena di attaccanti forti anche nel 2013 e l&#39;entourage di Icardi non sarebbe contrario a questa svolta italiana, ma a met&agrave; febbraio dopo un colloquio con Sabella proprio il giorno dei suoi 20 anni prende una decisione: sono argentino, giocher&ograve; nell&#39;Argentina o star&ograve; a casa. In effetti Sabella qualche mese dopo lo convocher&agrave; per una partita di qualificazione mondiale contro ml&#39;Uruguay, facendolo anche giocare qualche minuto, ma poi la porta della nazionale rimarr&agrave; chiusa fino allo scorso maggio e anche adesso il suo posto sembra abbastanza precario.  Tutto questo non per dire che Icardi dovrebbe giocare titolare nell&#39;Argentina, perch&eacute; magari con il senno di poi diremo che &egrave; diventata campione del mondo grazie a Benedetto che non toglie spazio a Messi, ma per ricordare la differenza fra club e nazionale in un&#39;epoca in cui tutto sembra sia in vendita. 

Mauro Icardi&nbsp;sembra entrato in una nuova dimensione e soltanto lo straordinario vivaio argentino gli impedisce di essere titolare nella sua nazionale&nbsp;

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