        Federico Pisani dovrebbe essere qui con noi oggi 25 luglio a festeggiare i suoi 50 anni. E invece il fantasista dell'Atalanta non c'&egrave; pi&ugrave; dal 1997, da quando una morte tragica fece calare il sipario su uno dei migliori talenti del vivaio della Dea. Un incidente stradale, una maglia ritirata, la curva dello stadio di Bergamo che porta il suo nome. Ma Federico "Chicco" Pisani &egrave; ormai un lontano ricordo. Pisani dalla Garfagnana a Bergamo Pisani &egrave; il prototipo del ragazzino che dalla "periferia del calcio" giunge all'Atalanta che lo trasforma in un giocatore di Serie A. A Bergamo Federico arriva a 15 anni, dal Margine Coperta di Montecatini, club affiliato a quello nerazzurro. Le referenze sono ottime: piccolo, brevilineo, grande tecnica, Fede &egrave; uno che cambia le partite con una giocata, una sterzata, un dribbling. Molto attaccato alla sua terra, la Garfagnana (provincia di Lucca ma verso le montagne), qualche anno prima era stato il Torino a interessarsi a lui, ma non si era concluso nulla. A 19 anni invece con l'Atalanta vince il campionato primavera e il torneo di Viareggio. L'allenatore &egrave; Cesare Prandelli, i compagni di squadra tra gli altri Alessio Tacchinardi, Domenico Morfeo, Simone Pavan e William Viali; gente che avrebbe sfondato ovunque, ad altissimi livelli. Ha gi&agrave; esordito tra i grandi, in Serie A, il 15 marzo 1992: uno 0-0 contro il Cagliari in cui entra al posto di Bianchezi. In tutto per lui saranno 44 le presenze nella massima categoria, con 5 gol. Dopo una stagione in prestito al Monza, Pisani &egrave; protagonista per l'Atalanta anche quando gioca in Serie B, nel campionato 1994-95. E in quello successivo sembra ormai pronto per prendere i galloni del titolare, in una squadra dove l'allenatore &egrave; Emiliano Mondonico e davanti gioca con Christian Vieri. I tifosi impazziscono per lui, anche se un infortunio ai legamenti del ginocchio lo frena per sei mesi. "Ieri era qua con noi ad allenarsi" Il 5 gennaio del 1997 rientra, contro il Verona c'&egrave; uno spezzone di partita. L'Atalanta non ha pi&ugrave; Vieri davanti, ma Pippo Inzaghi. Poco male, entra a inizio ripresa, la Dea vince con l'Hellas, gol di Magallanes. Sar&agrave; la sua ultima partita da professionista. Un mese dopo, il 12 febbraio, dopo una serata con la fidanzata Alessandra e una coppia di amici, il tremendo incidente stradale alle porte di Milano, l'auto che cappotta e sbatte su un pilone, muoiono Federico e la compagna, gli altri due intontiti ma illesi. I compagni vengono a sapere della notizia solo in spogliatoio: mancano solo Morfeo e Foglio, impegnati con l'under-21. Nessuno ci vuole credere. "Ieri sera si era cambiato qui, accanto a me - sono le parole del capitano, Daniele Fortunato - avevamo scherzato". Mondonico &egrave; a pezzi, Pisani era uno dei suoi pupilli, quello della scossa anche partendo dalla panchina. La partita successiva &egrave; contro il Vicenza dopo che al funerale in 4mila si sono radunati per rendere omaggio al giovane calciatore morto cos&igrave; prematuramente. Finisce 3-1, una vittoria commovente per i bergamaschi; ogni gol (due sono di Pippo Inzaghi) una corsa verso la curva, a salutare la maglia numero 14, quella di Fede, ritirata quasi subito. Una curva che prender&agrave; il nome proprio di Pisani.&nbsp; &nbsp;       

Il fantasista dell'Atalanta mor&igrave; nel 1997 a nemmeno 23 anni in un incidente stradale. La curva dei tifosi nerazzurri porta il suo nome e la maglia numero 14 &egrave; stata ritirata da allora

Federico Pisani, quel talento spento nella notte

        Sebino Nela aveva una caratteristica speciale: da difensore sapeva fare tutto anche se era nato centrocampista. Un jolly vero. &laquo;A 22 anni ero gi&agrave; un calciatore completo&raquo;, ricorda con il sorriso di chi sa fare con disinvoltura l&rsquo;occhiolino al passato. Liedholm diceva di lui: &laquo;Pu&ograve; giocare a destra, a sinistra, al centro, persino in tribuna se non gli piace una posizione di queste&hellip;&raquo;. In realt&agrave; il Barone non ci ha mai rinunciato a Nela, che oltre alle doti tecniche era accompagnato da un fisico possente (tanto da essere soprannominato l&rsquo;Incredibile Hulk) e da un agonismo che ha fatto innamorare i tifosi prima della Roma e poi del Napoli, le uniche due squadre dove ha giocato dopo aver lasciato la casa madre del Genoa. La sua carriera prende la corsia di sorpasso dell&rsquo;A1 nel 1981: Nela sbarca a Roma in cambio di tre miliardi e mezzo&nbsp;in&nbsp;contanti pi&ugrave;&nbsp;la&nbsp;compropriet&agrave; di Iachini,&nbsp;Romano e Capezzuoli. Un&rsquo;enormit&agrave; per un 20enne. Alla fine di quella finestra di mercato fu il giocatore pi&ugrave; pagato in Italia. Entra subito nel cuore dei tifosi che cominciano a osannarlo con il coro &ldquo;Picchia Sebino&rdquo; per le sue entrate al limite per&ograve; sempre confinate dentro il recinto della sportivit&agrave;. &Egrave; amore totale tra la Curva Sud e Nela. In giallorosso ci passa undici stagioni, vince lo scudetto, gioca due finali europee e alza tre Coppe Italia. Si rompe il ginocchio in mille pezzi e rinasce. Diventa leggenda anche per un dito medio mostrato all&rsquo;allenatore del Dundee, reo di aver insultato i suoi compagni. Poi va a finire la carriera al Napoli, ci resta due anni. Era stato chiamato da Ottavio Bianchi per rimettere in piedi una stagione iniziata male ma finita con una salvezza tranquilla. &nbsp; Nela, come &egrave; nata la firma con la Roma?&laquo;Dal nulla. Non sapevo niente. All&rsquo;epoca funzionava in maniera diversa: mi ha chiamato il presidente del Genoa e mi ha detto che ero stato venduto. Fine. Valigie e sono andato via&raquo;.&nbsp; Non se l&rsquo;aspettava?&nbsp;&laquo;No, credevo di restare dopo la promozione dalla Serie B&raquo;.&nbsp; Il primo impatto con la Citt&agrave; Eterna?&nbsp;&laquo;Notevole. Roma era ed &egrave; la bella del mondo, non solo per il suo patrimonio artistico. Negli Anni 80 si viveva veramente bene, non c&rsquo;era traffico e la gente era pi&ugrave; simpatica. Mica come oggi che sono tutti incazzati&raquo;.&nbsp; Roma l&rsquo;ha adottata&hellip;&nbsp;&laquo;Direi proprio di s&igrave;. Ancora oggi vivo all&rsquo;Eur&raquo;. &nbsp; &nbsp;   Come era lo spogliatoio?&nbsp;&laquo;Per un ragazzo che veniva dal Genoa incredibile perch&eacute; dentro c&rsquo;erano Bruno Conti, Pruzzo e Turone, i miei idoli&raquo;.&nbsp; &nbsp; Come si spiega il rapporto d&rsquo;amore con i tifosi?&nbsp;&laquo;Sapevo cosa era il senso di appartenenza, in giallorosso l&rsquo;ho sviluppato. In campo, al di l&agrave; delle doti tecniche che Liedholm ha potenziato, ero un generoso. I tifosi non sono stupidi e se ne sono accorti. Ero orgoglioso di indossare la maglia della Roma&hellip;&raquo;.&nbsp; Parla di orgoglio&hellip;&nbsp;&laquo;S&igrave;, perch&eacute; a me piace stare dalla parte dei pi&ugrave; deboli. La Roma non &egrave; mai stata l&rsquo;Inter, il Milan o la Juve, ma la sentivo mia, anche e soprattutto quando mi chiamavano terrone in giro per gli stadi del nord&raquo;.&nbsp; Come riassume le 11 stagioni a Roma?&laquo;Facile dire con lo scudetto. Io preferisco ricordare l&rsquo;Olimpico pieno, sempre e comunque. Oggi con Mourinho si grida al miracolo, ma in quel periodo era la normalit&agrave; avere lo stadio sold out&raquo;. &nbsp; &nbsp;   Rimpianti?&nbsp;&laquo;Potevamo vincere di pi&ugrave; ma alla fine &egrave; stata un&rsquo;avventura bellissima. Zero rimpianti. &Egrave; vero, abbiamo perso la finale di Coppa Campioni ai rigori contro un Liverpool mostruoso, ma l&rsquo;unica ferita aperta &egrave; la partita contro il Lecce del 1986. Quel titolo era nostro&raquo;.&nbsp; &nbsp;L&rsquo;anno dopo si infortun&ograve; gravemente al ginocchio. Ebbe paura di smettere?&nbsp;&laquo;Tantissima. I medici dicevano che non ce l&rsquo;avrei fatta. Sono stato fuori quasi un anno ma ho lavorato duro tranne il giorno di Natale. Sono tornato ma perdendo almeno il 20 per cento del mio potenziale&raquo;.&nbsp; &nbsp; Venditti le dedic&ograve; il brano &ldquo;Correndo Correndo&rdquo;.&nbsp;&laquo;Ero in ritiro in Toscana con la Roma con le stampelle, mi vennero a chiamare in camera, mi dissero di scendere perch&eacute; c&rsquo;era Venditti. Nella hall dell&rsquo;albergo c&rsquo;era un pianoforte e lui si &egrave; messo a suonare e mi ha fatto sentire la canzone che mi aveva scritto. Fu una cosa bella, molto emozionante. E ci tengo ad aggiungere una cosa&raquo;.&nbsp; Dica.&nbsp;&laquo;La ascolto tutti i giorni almeno una volta. Mi d&agrave; la carica per affrontare la vita&raquo;. &nbsp; Dopo la Roma, la parentesi finale a Napoli.&nbsp;&laquo;Non volevo andare via, avrei voluto chiudere la carriera a Roma. Ma questioni interne, adesso ampiamente risolte, mi hanno portato a Napoli, dove era stato chiamato Bianchi al posto di Ranieri&raquo;.&nbsp; Due anni intensi.&nbsp;&laquo;La squadra era forte ma rischiava di retrocedere. Alla fine ci salvammo bene e l&rsquo;anno dopo and&ograve; meglio&raquo;.&nbsp; Come si trov&ograve;?&nbsp;&laquo;Alla grande. Perch&eacute; a Napoli come a Roma si vive di calcio e per il calcio&raquo;.&nbsp; La prima da ex se la ricorda?&nbsp;&laquo;Mi ha fatto molto strano. Per&ograve; lo spettacolo sia al San Paolo che all&rsquo;Olimpico era unico. Le tifoserie poi erano amiche&raquo;.&nbsp; Genova, Roma e Napoli: la sua vita&hellip;&nbsp;&laquo;In comune hanno il mare e il calore della gente. Sono felice di cosa ho fatto. Mi sento fortunato&raquo;.&nbsp; Roma-Napoli all&rsquo;Olimpico. Mourinho contro Mazzarri.&laquo;Non la perdo. Ma non tifer&ograve; n&eacute; per l&rsquo;una n&eacute; per l&rsquo;altra. Forse &egrave; deformazione professionale, ma io guardo le partite per il gusto di guardarle. Un po&rsquo; come quando giocavo per il gusto di giocare&raquo;.       

Fu acquistato nel 1981 quando aveva solo 20 anni: &laquo;L&rsquo;annuncio del Genoa mi colse di sorpresa, eravamo appena stati promossi Ho vinto lo scudetto e tre Coppe Italia. Sempre orgoglioso del mio passato&raquo;

Nela, cuore Roma, dolci ricordi napoletani

        Con la Juventus ho contribuito a vincere due scudetti e sono stato protagonista. Con il Napoli non &egrave; stato cos&igrave;, purtroppo. Mi sarebbe piaciuto essere protagonista e lasciare il segno anche l&igrave;, ma non ci sono riuscito. La differenza tra le due esperienze &egrave; tutta l&igrave;&raquo;. Emanuele Giaccherini ha vestito la maglia della Juventus dall&rsquo;estate del 2011 al giugno del 2013: ha legato il suo nome a due titoli vinti dalla squadra guidata da Antonio Conte. A giugno del 2016, dopo gli Europei, giocati da protagonista con la maglia azzurra, si trasferisce a Napoli. Con gli azzurri gioca una stagione e mezza, senza per&ograve; trovare continuit&agrave; di rendimento. &laquo;Purtroppo speravo di potermi ritagliare pi&ugrave; spazio, ma non &egrave; stato cos&igrave;. Mi sono dovuto accontentare di piccoli spezzoni di gara&raquo;. Due anni a Torino, poco meno a Napoli, qual &egrave; la principale differenza che divide queste due piazze?&laquo;La differenza &egrave; legata alla mentalit&agrave;. Al Napoli, almeno quando c&rsquo;ero io, non c&rsquo;era la stessa mentalit&agrave; che ho registrato alla Juve. Una mentalit&agrave; rigida, fino alla fine: fino alla vittoria finale e che ti permette di saper gestire anche i momenti pi&ugrave; difficili. A Napoli invece, a mio avviso, forse c&rsquo;era troppa esaltazione in caso di vittorie ed eccessiva depressione quando si perdeva. Fortunatamente per i tifosi azzurri, ho visto che le cose sono cambiate lo scorso anno&raquo;. A Napoli non &egrave; scoccato il feeling con Sarri?&laquo;Non ho avuto un grandissimo rapporto extra campo con lui. Era un tecnico che guardava tantissimo il lavoro sul campo, ma a livello umano non curava troppo il rapporto con i giocatori. Dal punto di vista professionale, non ho avuto una grande considerazione da parte sua. Io venivo da un Europeo straordinario e mi aspettavo sicuramente qualcosa in pi&ugrave;. Magari sar&agrave; dipeso anche da me, per&ograve; lui aveva un modo di intendere il calcio troppo rigido e vincolato a un ristretto numero di calciatori. Magari io e tutti quelli che rimanevano di solito fuori, abbiamo sbagliato qualcosa e non gli davamo quello che chiedeva, ma alla fine &egrave; andata cos&igrave;&raquo;.    Dell&rsquo;esperienza a Napoli, cosa le &egrave; rimasto dentro?&laquo;L&rsquo;affetto dei tifosi. Unici. Nonostante non fossi un titolare, mi hanno sempre sostenuto, amato e fatto considerare importante. Mi hanno dato rispetto e riconoscenza. E poi ho lasciato anche tanti amici. Ho creato tanti rapporti a Napoli. Una citt&agrave; meravigliosa, che ti entra nel cuore e nella quale &egrave; bellissimo vivere. I tifosi sono unici&raquo;. E dal punto di vista calcistico?&laquo;Un terzo posto conquistato, e un&rsquo;esperienza che alla fine mi ha fatto maturare a livello caratteriale. Troppo facile ricordare solo le cose che vanno bene. Dai momenti negativi si cresce e si matura. E l&rsquo;esperienza a Napoli mi ha fatto maturare. E poi entrare nel San Paolo&hellip;&raquo;. Che esperienza &egrave; stata?&laquo;Unica. Io l&rsquo;ho provata nelle gare in cui ho giocato dall&rsquo;inizio. Quando ho segnato il gol al Genoa in campionato, ho sentito un&rsquo;esplosione. Uno stadio che ti trascina. Capisci la differenza che c&rsquo;&egrave; tra Napoli e tutte le altre piazze. Il pubblico ti regala qualcosa in pi&ugrave;, c&rsquo;&egrave; poco da fare&raquo;.   Tra i suoi ex compagni, con i quali ha instaurato un rapporto pi&ugrave; forte? &laquo;Sicuramente con Maggio e Gabbiadini. Abbiamo condiviso tanti momenti insieme, anche extra campo. Due persone splendide, con le quali vivevo anche vicino. Maggio, poi, mi ha aiutato molto anche nei momenti di difficolt&agrave;&raquo;. Passiamo alla Juventus, e torniamo a quella mentalit&agrave; che aveva precedentemente descritto. &egrave; l&rsquo;arma in pi&ugrave; del club bianconero?&laquo;Io quando sono arrivato alla Juve si respirava un&rsquo;aria negativa: la squadra veniva da due settimi posti. Ma tutti avevamo la sensazione che stava cambiando qualcosa. La Juve era ripartita da zero. Cambi&ograve; tante figure all&rsquo;interno: dall&rsquo;allenatore, Conte, ai medici, ai fisioterapisti, fino ai magazzinieri. Avevamo la sensazione che stesse partendo un nuovo ciclo: c&rsquo;erano campioni importanti, come Buffon, Del Piero, Chiellini, ma c&rsquo;era soprattutto alle spalle una societ&agrave; importante&raquo;. Come influiva la societ&agrave; sul vostro modo di lavorare?&laquo;Ti dava la sensazione di essere in un club dove la sconfitta non era prevista. Certo, nel calcio vince solo una squadra, ma la mentalit&agrave; era portata verso la vittoria&raquo;. Se con Sarri il feeling non &egrave; scoppiato, con Conte le cose sono andate diversamente?&laquo;La fortuna dei giocatori la fanno soprattutto gli allenatori. Con Conte sentivo la stima e la fiducia. Lui mi ha voluto fortemente alla Juve, andando anche contro tutti. Anche contro una societ&agrave; che magari preferiva altri giocatori. Lui mi avrebbe voluto gi&agrave; al Siena, ma in quell&rsquo;occasione ho preferito rimanere al Cesena e giocarmi le mie carte in Serie A e ho fatto una bella stagione. Poi, una volta passato alla Juve, il mister mi ha chiamato nuovamente. E so che quando i bianconeri mi hanno ceduto al Sunderland, lui ha fatto di tutto per tenermi alla Juve&raquo;. La pi&ugrave; bella partita giocata con la maglia della Juventus?&laquo;Ne ho giocate diverse (ride, ndr.). Ne ricordo soprattutto una, in Coppa Italia contro il Bologna. Feci gol, dopo una bella serpentina e fu la gara nella quale Conte coni&ograve; il termine &ldquo;Giaccherinho&rdquo;, dicendo che se fossi stato preso da un club straniero ci sarebbe stata un&rsquo;altra considerazione nei miei confronti. Probabilmente intorno al mio nome, anche perch&eacute; venivo dalla provincia, c&rsquo;era sempre un po&rsquo; di scetticismo. Quello fu il primo, vero squillo, che diedi ai tifosi e alla societ&agrave;&raquo;. E con il Napoli, c&rsquo;&egrave; una gara da ricordare?&laquo;Contro lo Spezia in Coppa Italia: feci un gran gol al volo sul secondo palo. Purtroppo, come dicevo, a Napoli mi dovevo accontentare soprattutto degli spezzoni. Ma quella partita giocai molto bene&raquo;.       

Due scudetti con la Juventus e poi un anno e mezzo in azzurro: &laquo;Non ho fatto bene, con Sarri non &egrave; mai scattato l&rsquo;amore&raquo;

Emanuele Giaccherini: Il Napoli ha tifosi speciali

        Le figurine della nostra Serie A, quando eravamo ragazzini, avevano i baffi; spesso i basettoni e la chioma ribelle, arruffata, come i protagonisti dei &ldquo;poliziotteschi&rdquo; di Umberto Lenzi. Non sempre, per&ograve;, parlavano in maniera forbita, analitica, come veniva naturale a Paolo Conti, nato funambolo, diventato portiere. Venuto alla luce a Riccione il primo giorno di aprile, ma non era uno scherzo; casomai una canzone di Amedeo Minghi, perch&eacute; era il 1950, con l&rsquo;Italia in ricostruzione e Serenella che avrebbe ascoltato alla radio quella canzone pensata per lei. &nbsp;   La fine del &ldquo;grigio&rdquo; del portiere &nbsp; Una ventina d&rsquo;anni dopo, gracchiando ogni domenica la radio avrebbe iniziato a parlare di lui, minuto per minuto, anche per la ventata di novit&agrave; che il personaggio, divenuto portiere per caso, avrebbe portato nella nostra Serie A: con le sue divise colorate rispetto al grigio usuale, stile Zoff per capirci; con le sue uscite basse e apparentemente avventate, che anticipavano i tempi oltre che gli attaccanti; con l&rsquo;usanza di giocare senza guanti, senza proteggere le manone che erano due morse ma, un po&rsquo; come l&rsquo;olandese Jongbloed, tra i primi a usare i parastinchi, proprio perch&eacute; la proiezione in uscita comportava gli impatti che coinvolgevano gli arti inferiori. &laquo;Dicevano che ero un portiere che comandava la difesa, che uscivo spesso dall&rsquo;area perch&eacute; avevo il fisico, con i piedi, sull&rsquo;avversario&hellip; Ma ero solo un autodidatta: io non avevo fatto il settore giovanile, venivo dalla strada, dai parchi, dalle partite con gli amici. Dovevo solo coprire i miei limiti. E poi fino ai diciotto anni ho giocato solo praticamente da centravanti, mica da portiere&raquo;: troppo vero per non essere pure bello, ci volle l&rsquo;occhio di un dirigente del Riccione durante una partitella. &nbsp;  Gli inizi e l&rsquo;esordio in serie A &nbsp; Dal 1968 al 1970 nella societ&agrave; di casa, poi due anni di Modena, quindi Arezzo nel 1972-73, stagione al termine della quale arriva la chiamata della Roma, che inizia a pensare al futuro dopo Ginulfi. Il 18 novembre del &lsquo;73, mezzo secolo fa, Paolo Conti esordisce tra i pali all&rsquo;Olimpico, dal primo minuto, contro il Verona: comincia un&rsquo;era, per la societ&agrave; giallorossa, con una vittoria per 1-0 firmata da Pierino Prati su rigore. Non impiegheranno troppo tempo, i tifosi della Roma, a individuare il soprannome giusto per quel portiere cos&igrave; na&iuml;f: bocciato in fretta il banale e troppo politicizzato &ldquo;baffone&rdquo;, Paolo Conti diventa &ldquo;tenaglione&rdquo; per via di quelle mani grandi e forti, senza guanti, che in uscita bassa si aprono come ombrelli e che nel campionato 1974-75, quello di un orgoglioso terzo posto, proteggeranno la porta giallorossa al punto tale da renderla la meno perforata della Serie A. &laquo;Tra le tante cose non capivo, prima di venire a Roma, come si potesse impazzire per il calcio, mi sentivo lucido, capite? Ero distaccato, ma non freddo, questo mai. Roma m&rsquo;&egrave; rimasta nel sangue, e io sono rimasto romanista&raquo;. Un breve interregno con Ginulfi, poi l&rsquo;avvio di un voluminoso capitolo di storia della Roma, composto da sette campionati e 206 presenze complessive, con 205 reti incassate, pi&ugrave; la Coppa Italia del 1980, vinta quando l&rsquo;avvicendamento con Franco Tancredi si &egrave; gi&agrave; consumato. &nbsp;   Dopo la Roma &nbsp; Conti lascia la Roma nell&rsquo;estate del 1980, per poi percorrere con estrema rilassatezza e con una serie di stagioni pi&ugrave; che degne il viale del tramonto: Verona in B, vestendo la maglia della societ&agrave; contro la quale aveva esordito in giallorosso; poi due anni di Sampdoria, con tanto di promozione dalla B alla A nella primavera del 1982; la stagione &lsquo;83 - &lsquo;84 a Bari in C1, quindi quattro anni a Firenze, con il ritorno in Serie A come secondo di Giovanni Galli, dal 1984 al 1988. Nel suo palmar&egrave;s personale, anche la maglia azzurra, con sette presenze dal &lsquo;77 al &lsquo;79, pi&ugrave; l&rsquo;esperienza come secondo di Zoff al Mondiale argentino del 1978, dove lui e Jongbloed i guanti li incrociarono per davvero. I guanti no, perch&eacute; entrambi ne facevano a meno.       

Dall&rsquo;esordio in Serie A con la maglia della Roma il 18 novembre 1973 inizi&ograve; la storia di un portiere atipico, senza guanti e sempre in uscita bassa

Paolo Conti, il “baffo” funambolo

        Dei francesi che portarono lo scudetto a Roma nel 2001, Vincent Candela &egrave; quello che &egrave; rimasto pi&ugrave; scolpito nella memoria dei tifosi. Rispetto a Jonathan Zebina, l&rsquo;altro transalpino protagonista di quella grande stagione, era pi&ugrave; bravo, pi&ugrave; fedele alla maglia (otto anni nella Capitale contro quattro) e pi&ugrave; immerso nel mood della citt&agrave;. Zebina era un parigino che amava la pittura: forse anche per questo Fabio Capello nutriva per lui una predilezione che a molti appariva quasi inspiegabile. Candela, occitano di B&eacute;darieux, aveva bisogno di minori sofisticazioni per godersi la vita e si adatt&ograve; pi&ugrave; facilmente in un ambiente all&rsquo;atavica ricerca di nuovi gladiatori.  &nbsp;  L&rsquo;arrivo a Roma &nbsp; Lui che, nel sud della Francia, era cresciuto con gli umori del Mediterraneo, non ci mise molto a farsi apprezzare quando, all&rsquo;inizio del 1997, giunse a Roma proveniente dal Guingamp, sessantesimo straniero della storia giallorossa e primo francese. Un trasferimento desiderato con tutte le forze: a ventitr&eacute; anni Vincent si sente pronto a giocare le sue carte nel campionato pi&ugrave; competitivo del mondo e, per non perdere il treno sul quale la Roma gli offre di salire, litiga col suo presidente. Inizialmente il suo arrivo fu oscurato da quello concomitante di Omari Tetradze, terzino destro accompagnato dalla maggior fama acquisita soprattutto grazie alla militanza nella nazionale russa. Gli ci volle un mese, quello trascorso tra l&rsquo;esordio nella partita casalinga col Vicenza del 2 febbraio 1997 e il match disputato all&rsquo;Olimpico contro il Verona del 9 marzo, per rompere gli indugi delle osservazioni titubanti e cominciare a far sognare i tifosi. Fu proprio anche grazie a una sua doppietta, infatti, che i giallorossi batterono gli scaligeri. Candela si guadagn&ograve; i titoli dei giornali del luned&igrave; e la consapevolezza di un pubblico che, da quel giorno in poi, lo amer&agrave; senza riserve. &nbsp;  Da Carlos Bianchi a Capello, passando per Zeman &nbsp; Sopravvissuto con onore alla catastrofica stagione con Carlos Bianchi in panchina, il terzino francese &egrave; titolare indiscusso anche nella Roma di Zeman. Di media statura ma ben strutturato (anche per via del rugby praticato in passato) sostiene gli allenamenti del tecnico anche se, una volta in partita, non ne segue sempre alla perfezione i dettami. Del resto Candela ha piedi raffinati e voglia di divertirsi tipici di un numero dieci pi&ugrave; che di un difensore ed &egrave; poco incline alla disciplina tattica che richiede il boemo. Che, in situazioni di emergenza, gli chiede anche di fare il difensore centrale, ruolo nel quale Vincent si sacrifica senza entusiasmo per mero amor di patria. Per lui, pur se destro naturale, &egrave; la fascia sinistra la tela sulla quale imprimere il suo gioco ideale. Uno spazio nel quale alterna i contrasti al doppio passo, un cross a rientrare e il colpo di tacco. L&rsquo;intesa con Totti &egrave; totale e fluisce in un rapporto che combina naturalmente professionalit&agrave; e amicizia. I loro duetti sulla sinistra, boccate d&rsquo;ossigeno per esteti del calcio, nei momenti d&rsquo;eccesso mandano Zeman in fibrillazione. &Egrave; il prezzo del talento, che alla fine il boemo accetta senza sorridere troppo.E probabilmente &egrave; anche il rapporto non idilliaco con l&rsquo;allenatore a spingere Candela, al termine della stagione 1998-99, ad accettare una proposta dell&rsquo;Inter. I nerazzurri hanno mezzi ed esperienza per vincere il campionato: impossibile dire no. Fin quando a Trigoria arriva Fabio Capello: un nome, un brand che significa successo. Basta una telefonata per far ricredere Vincent, che torna felicemente sui suoi passi a preparare la scalata al paradiso. Che non &egrave; immediata: il primo anno col tecnico del Milan degli Invincibili scivola via insipido nonostante un buon avvio. &Egrave; nell&rsquo;estate del 2000 che Franco Sensi fa gli acquisti giusti, aggiunge campioni a una rosa gi&agrave; talentuosa e Candela si guadagna il lasciapassare per la storia. &nbsp;  Scudetto, Mondiali ed Europei  &nbsp; La sua presenza in campo raggiunge un livello di autorevolezza paradigmatico: &egrave; migliorato nella scelta dei tempi, nel dosare le sortite offensive con i ripieghi sulla linea della difesa a tre. Giocando un po&rsquo; pi&ugrave; lontano da Totti prende maggiori responsabilit&agrave;, diventando una sorta di rifinitore esterno al quale i compagni possono affidarsi quando il capitano &egrave; bloccato nelle gabbie difensive avversarie. La postura col petto in fuori e i capelli lunghi schiacciati dal cerchietto che gli cinge il capo donano al francese un aspetto da personaggio romanzesco. Se sulla destra Cafu spinge cavalcando la fascia con una fisicit&agrave; elastica e fluida, a sinistra Candela alterna spada e fioretto, pause di ritmo e allunghi, ricami e potenza. Nella trasferta di Bari del 20 maggio 2001, il gol di apertura che porta la sua firma rappresenta plasticamente le sue qualit&agrave; di palleggio, forza e precisione. Lo scudetto coi giallorossi, celebrato il mese successivo, &egrave; il momento apicale di una carriera che pure l&rsquo;ha visto contribuire alla conquista di traguardi pi&ugrave; importanti, come la Coppa del Mondo del 1998 e l&rsquo;Europeo 2000. Ma con la sua nazionale Vincent non &egrave; il primattore di Roma: troppo forte la concorrenza nel ruolo di Lizarazu, terzino sinistro del Bayern Monaco, per trovare lo spazio adeguato a sentirsi fondamentale. Anche se, tra il 1996 e il 2002, saranno quaranta le volte che Candela indosser&agrave; la maglia dei Bleus. Ad altissimi livelli la carriera di Vincent non &egrave; longeva. Intorno ai trent&rsquo;anni gli stimoli cominciano a sfumare: Capello, che lo stima molto, prova a scuoterlo senza grossi risultati. Finisce il suo primo matrimonio, il piacere del bere sconfina qualche volta di troppo nel vizio. Anche per Totti, amico fraterno, diventa difficile arginare un momento di difficolt&agrave; che, arrivato in quella fase della vita professionale, incide profondamente sul suo rendimento. Nel gennaio del 2005 lascia i giallorossi per provare un&rsquo;esperienza in Inghilterra col Bolton che dura solo sei mesi. Poi a Udine, Siena e Messina ultima il suo percorso senza ulteriori fiammate. Dopo il ritiro non pu&ograve; che tornare nella Capitale a ricordare con gli amici di oggi, nel suo italiano arroccato tra romanesco e accento francese, le gesta di quella Roma nella quale erano compagni.       

Gioc&ograve; nella Capitale per otto anni. Dopo due stagioni con Zeman, l&rsquo;arrivo di Capello lo port&ograve; alla maturazione e alla vittoria di uno storico scudetto con i giallorossi

Vincent Candela, il francese innamorato della Roma e di Roma

Ingaggiando Nikola Mirotic l&rsquo;Olimpia Milano ha ufficializzato di voler vincere l&rsquo;Eurolega, dove nell&rsquo;ultima stagione &egrave; rimasta fuori addirittura anche dai playoff, nonostante un budget di sicuro fra i primi 8, forse anche 4, d&#39;Europa. Non perch&eacute; il montenegrino naturalizzato spagnolo sia garanzia di vincerla, l&rsquo;Eurolega, anzi in tanti anni fra Real Madrid e Barcellona non l&rsquo;ha mai vinta e spesso nei momenti decisivi &egrave; stato sotto il suo standard. Per&ograve; Mirotic &egrave; probabilmente il pi&ugrave; forte fra i giocatori che potrebbero giocare nella NBA, cosa che lui ha fatto e anche bene per cinque anni, ma non ci gioca per scelta ed &egrave; quindi in un certo senso l&rsquo;uomo immagine dell&rsquo;Eurolega. Un colpo per l&rsquo;Olimpia paragonabile al Chacho Rodriguez di quattro anni fa, pi&ugrave; che a miti impareggiabili come McAdoo, Carroll o Bradley. Purtroppo l&rsquo;evidenza mediatica generalista per questa grandissima operazione &egrave; stata minima e quasi tutta dovuta al carisma (e alle inserzioni pubblicitarie) di Giorgio Armani, una situazione sconfortante che la pallacanestro italiana dovrebbe considerare il suo primo problema.  Del passato Olimpia fa parte da 7 anni Alessandro Gentile, che &egrave; pi&ugrave; giovane di Mirotic&hellip; uno dei pi&ugrave; grandi talenti sprecati della pallacanestro italiana torna in Serie A, nella Scafati di Sacripanti, per invertire una tendenza ben sintetizzata dal suo continuo cambiare squadra, a ritmi notevoli anche per gli standard odierni: dal 2016 ad oggi 10 maglie diverse e situazioni diversissime, perdendo per problemi anche personali treni giusti come quelli della Virtus Bologna e di Trento. Dal punto di vista tecnico Gentile &egrave; un giocatore che nella Serie A attuale pu&ograve; starci ancora benissimo, per lo meno come attaccante, la sua pallacanestro basata sugli isolamenti pu&ograve; anzi mettere in difficolt&agrave; chi &egrave; abituato ad affrontare squadre di tiratori da dieci metri. Il resto &egrave; tutto nella sua testa, anche il ritorno in una Nazionale dove non gioca dal Mondiale 2019, quando in panchina c&rsquo;era Sacchetti. Ma forse non ci crede pi&ugrave;.  Il lungo addio di Massimo Zanetti dalla Virtus Bologna, di cui si parla da tanto, &egrave; stato sottolineato anche dal suo sfilarsi dalla propriet&agrave; del nuovo palasport da 10.000 alla Fiera di Bologna, dove il club dovrebbe giocare dalla stagione 2024-25. La Virtus ci andr&agrave; in affitto, come del resto Zanetti aveva deciso da mesi, e la novit&agrave; &egrave; che si sta parlando di questo mentre &egrave; in atto un ridimensionamento di un club che in questo mercato ha gi&agrave; salutato Mannion, Weems, Jaiteh, Ojeleye, Camara e ovviamente Teodosic. Senza contare la gran voglia di Shengelia di andare al Panathinaikos ed il fatto che Scariolo sia rimasto perch&eacute; gli sono saltati gli incastri NBA e spagnoli.&nbsp;  Dalle partite con Turchia e Cina non sono uscite grandi novit&agrave;, nemmeno le grandi personalit&agrave; e faccia tosta mostrate da Matteo Spagnolo lo sono. A questo punto il ventenne pugliese &egrave; sicuro di essere fra i 12 per il Mondiale, al momento i due tagli di Pozzecco (dopo il saluto di Mannion e la partenza di Visconti) dovrebbero essere Woldetensae e Severini. Meglio usare il condizionale per infortuni e considerazioni sulla forma fisica e psicologica, che potrebbero mettere in discussione Tonut, o sulla cilindrata internazionale, che fa mettere un asterisco su Caruso. Come si vede, considerazioni slegate dai ruoli come &egrave; logico che sia per una Nazionale che deve cambiare pelle a seconda delle circostanze, in un Mondiale dove non &egrave; fantabasket puntare ai quarti di finale, visto che superando l&rsquo;abbordabile primo girone si finirebbe in un altro con la Serbia senza Jokic e Micic (comunque uno squadrone, per quanto battuto dall&rsquo;Italia quando contava, nel 2021 e 2022) e con una seconda fra Cina e Portorico.  stefano@indiscreto.net 

L&#39;Olimpia da Eurolega, Gentile a Scafati, il lungo addio di Zanetti, la faccia di Spagnolo &nbsp;

Il senso di Mirotic

        Un allenatore nato il primo aprile in Emilia-Romagna: facile, Arrigo Sacchi. Vero, ma non solo lui. Ce n'&egrave; un altro che con il "vate di Fusignano" ha molte cose in comune, compreso l'aver vinto uno scudetto con il Milan al primo anno sulla panchina rossonera. Parliamo di Alberto Zaccheroni, nato il primo aprile del 1953. &nbsp;Zaccheroni e gli inzi in Romagna&nbsp; Come Sacchi, anche Zaccheroni, che nasce l'1 aprile 1953, viene da una famiglia borghese e da calciatore non ha praticamente esperienza se non per qualche partita tra i dilettanti. Di sicuro c'&egrave; che &egrave; tifoso dell'Inter, una passione trasferitagli da pap&agrave; Adamo, proprietario di un albergo con 45 stanze a Cesenatico che vorrebbe addirittura chiamare Internazionale. Alla fine l'insegna dir&agrave; "Ambrosiana", ma siamo comunque l&igrave;. Per Alberto, un diploma da perito turistico, per seguire le orme del padre. E invece spunter&agrave; il calcio a cambiare le carte in tavola. Gioca poco per motivi di salute, passa dalle giovanili del Bologna ma gli toccano i campi periferici della Romagna iniziando ad allenare per divertimento. Grazie ad alcuni amici finisce ad allenare i Pulcini dell'Ad Novas, in terza categoria: &egrave; solo il debutto di una carriera che trova terreno fertile in una regione come la Romagna, appunto, dove il calcio pullula di squadre, allenatori e giocatori. Nella stagione 1983-84 &egrave; alla guida degli Allievi del Cesenatico, quando l&rsquo;allenatore Magrini viene esonerato e la societ&agrave; si affida incredibilmente a lui per evitare la retrocessione tra i dilettanti. Zaccheroni tiene la squadra in C-2 ma torna ai ragazzi; stessa cosa nella stagione successiva, quando viene promosso a stagione in corso. Siamo pronti al grande salto, alla titolarit&agrave; della panchina. Riccione, San Lazzaro, Baracca Lugo: tutto sempre in zona, prima della chiamata del Venezia. In Laguna &egrave; subito promozione dopo uno spareggio con il Como incredibilmente a Cesena. Per la quarta volta Zaccheroni ha portato una squadra in una categoria superiore dopo il Riccione e il doppio balzo con il Baracca Lugo. Stavolta per&ograve; il Venezia &egrave; arrivato addirittura in B. &nbsp;Zaccheroni e la difesa a tre Nel tritacarne di Zamparini &egrave; difficile lavorare: due volte esonerato e due volte richiamato dopo quella promozione, alla fine Zac cede e va a Bologna, dove pure l&igrave; finisce licenziato. Si rigenera prendendo in corsa il Cosenza, in zona-retrocessione in B nel campionato 1994-95, e portandolo alla salvezza. Zaccheroni &egrave; ancora giovane, ha 42 anni, e arriva la chiamata della Serie A, dall'Udinese. Anche il patron friulano Pozzo &egrave; uno che tende a silurare gli allenatori con cui non va d'accordo, ma Udine &egrave; una piazza tutto sommato tranquilla. Comincia con un decimo posto, ma il capolavoro vero &egrave; nella stagione successiva, nel 1996-97; non solo per il quinto posto finale, ma per una rivoluzione tattica destinata a cambiare nel suo piccolo la storia del calcio italiano. Zaccheroni, infatti, lancia uno schema che diventer&agrave; un suo marchio di fabbrica: il 3-4-3. L'ispirazione gli era venuta quando, dopo l'esonero dal Bologna, era andato a Barcellona per vedere alcuni degli allenamenti di Johan Cruijff al Barcellona. L'olandese utilizzava un 3-4-3 con un centrocampo a rombo e Guardiola ad abbassarsi tra i difensori. Zac preferisce mettere in linea la mediana e sfruttare al massimo tre attaccanti di razza come Amoroso, Bierhoff e Poggi. Serve solo l'occasione giusta per testarla, e questa capita appunto nel campionato '96-97, addirittura in una partita in trasferta contro la Juventus. Quando dopo 50 secondi l&rsquo;arbitro, Roberto Bettin, espelle il terzino destro belga Genaux, Zaccheroni non tocca niente: difesa a tre e due punte. La Juve non capisce niente e finisce affossata 3-0, in casa, con doppietta di Amoroso e gol di Bierhoff. Uno schema replicato da l&igrave; in avanti e per sempre, nel limite del possibile. Il segreto &egrave; avere giocatori disposti a sacrificarsi, cosa che magari in un grande club &egrave; pi&ugrave; difficile.  Il Milan e quello storico scudetto Sta di fatto che i radar delle big sono arrivati fino a Udine ed &egrave; il Milan che sceglie Zaccheroni per risalire dopo due anni disastrosi. Il tecnico romagnolo porta in rossonero due fedelissimi, due chiavi di quel 3-4-3: il danese Helveg come esterno destro di centrocampo e soprattutto Oliver Bierhoff, riferimento assoluto al centro dell'attacco, con le sue capacit&agrave; uniche di primeggiare nel gioco aereo. Il problema &egrave; che forse nella rosa del Milan non ci sono giocatori adatti allo schema-tipo, a partire dagli attaccanti, un po' troppo anarchici (Weah), o da alcuni fantasisti di difficile collocazione (Boban, Leonardo). Zac invece dopo un girone d'andata difficile trova una quadra insperata, vince le ultime sette partite e lo scudetto in volata sulla Lazio, con Bierhoff autore di 20 gol e Boban che &egrave; andato a &ldquo;sporcare&rdquo; lo schema in un 3-4-1-2. Sar&agrave; l'unica gioia di Zaccheroni in rossonero, nonostante le tante analogie con Sacchi. Esonerato durante la stagione 2000-01 dopo un flop in Champions League, diventer&agrave; una specie di &ldquo;tinkerman&rdquo;, di aggiustatore di lusso, per le squadre in crisi a met&agrave; stagione. Comincia con la Lazio, per poi andare all'Inter e alla Juventus. Trova una seconda patria in Giappone. Con la nazionale nipponica &egrave; un quadriennio d'oro, letteralmente, con la vittoria in Coppa d'Asia nel 2011 e la partecipazione al mondiale del 2014. Non fortunatissima a dire il vero con l'eliminazione al primo turno per mano di Colombia e Grecia. Eccellente commentatore anche in tv, sempre pacato, Zaccheroni &egrave; stato un allenatore che pur non vincendo molto ha comunque lasciato il segno in quanto a competenza e attaccamento al lavoro. &nbsp;       

Il tecnico romagnolo ha segnato il calcio italiano con il suo schema unico, il 3-4-3, con cui divent&ograve; grande all'Udinese e che tent&ograve; di replicare al Milan dove vinse uno scudetto insperato

Alberto Zaccheroni, la competenza più del palmarès

        Ascolta il podcast e clicca sul tasto segui    Podcast de Il Cuoio dedicato a Juventus-Sampdoria e al doppio ex Domenico Marocchino. Tornante, protagonista negli anni Ottanta, ha indossato le maglie di Cremonese, Atalanta, Juventus, Sampdoria e Bologna. Un patrimonio di ricordi, ma soprattutto di saggezza. Quello di Marocchino &egrave; uno sguardo romantico al calcio d&rsquo;altri tempi e disilluso rispetto a quello di oggi.  Buon ascolto con il podcast intervista a Domenico Marocchino con Stefano Cocci e Paolo Valenti de Il Cuoio.       

Chiacchierata a 360 gradi con il tornante bianconero degli anni Ottanta: ex Samp, sempre tifoso della Vecchia Signora

PODCAST – Marocchino: “Il calcio oggi è paranoico, per la Juventus sogno Osimhen”

        Ascolta il podcast e clicca il tasto segui    Nella nuova puntata del podcast de Il Cuoio raccontiamo Roma-Juventus, una delle rivalit&agrave; pi&ugrave; accese del calcio italiano, che affonda le sue radici negli anni Trenta del secolo scorso e si esalta negli anni Ottanta, tra le battute di Dino Viola e la caustica vivacit&agrave; di Giampiero Boniperti, fino alle dinamiche pi&ugrave; recenti, da Zeman a Mourinho. Il podcast su Roma-Juventus &egrave; con Stefano Cocci, Alessandro Ruta e Paolo Valenti. Seguilo e clicca la campanella su Spotify e su tutte le app gratuite di ascolto podcast.       

Dal 5-0 di Campo Testaccio alle polemiche tra Boniperti e Viola fino ai giorni nostri: racconto di una delle rivalit&agrave; pi&ugrave; accese del calcio italiano

PODCAST - Roma-Juve, la storia infinita

        L&rsquo;estate del 1992 rappresenta per il nostro Paese un punto cruciale, una data spartiacque che definisce molto chiaramente un prima e un dopo. Se dal punto di vista della vita politica l&rsquo;Italia &egrave; in subbuglio con l&rsquo;epocale inchiesta Mani Pulite che non staremo qui ad approfondire, anche la Serie A vive un momento storico: con il pareggio del 7 giugno contro il Bologna, l&rsquo;Ancona ottiene la sua prima storica promozione nel massimo campionato. Il patron Longarini, dopo l&rsquo;entusiasmante cammino, vuole regalare ancora emozioni ai suoi tifosi e cerca un grande nome. La scelta ricade su un giovane attaccante del Monaco, che con le sue reti in Ligue One promette pi&ugrave; che bene: George Weah. Il presidente anconetano offre 4 miliardi, i monegaschi ne chiedono 5, non sa per&ograve; che l&rsquo;attaccante liberiano non &egrave; mai stato davvero nelle possibilit&agrave; del suo club. L&rsquo;offerta di Longarini scatena infatti un&rsquo;asta che vedr&agrave; il PSG assicurarsi le prestazioni del futuro Pallone d&rsquo;Oro per ben 7 miliardi. Il numero uno del club marchigiano non si abbatte, continua a cercare e preleva dalla Bundesliga un giovane argentino idolo del pubblico di Norimberga: Sergio Fabian Zarate.&nbsp;  Sergio Zarate, una doppietta per la storia dell'Ancona Faccia vagamente da indio, capelli lunghissimi, viene soprannominato in patria El Raton, non per la somiglianza ad un topo, quanto per la furbizia che dimostra in area di rigore. Di questa fantomatica furbizia purtroppo ad Ancona non si sono mai accorti. Le prestazioni di Zarate non convincono e la squadra, probabilmente non attrezzata per quella Serie A, inanella una brutta sconfitta dopo l&rsquo;altra. Il 25 ottobre di 30 anni fa arriva l&rsquo;unico squillo di una stagione pi&ugrave; che anonima. Al Dorico si presenta il Foggia di Zeman per disputare una partita che entrer&agrave; di diritto nella storia dei biancorossi: finir&agrave; infatti 3-0, udite udite, con doppietta del Raton Zarate che regala ai suoi la prima vittoria della loro storia nella massima serie. L&rsquo;argentino sembra in stato di grazia: dopo pochi minuti si trova a tu per tu con l&rsquo;estremo difensore avversario, lo salta con un bel tocco di suola e mette in rete. Poi si concede la gioia del secondo gol con un tiro da fuori, dopo un dribbling a rientrare sul destro. La terza rete porta una firma illustre: &egrave; infatti l'unica segnatura nel nostro campionato per Oscar Ruggeri. Il veterano argentino - campione del Mondo 1986 - era stato l'altro grande rinforzo estivo messo a disposizione di mister Guerini.&nbsp;  Sergio Zarate in quella stagione, purtroppo, non segner&agrave; pi&ugrave;. In compenso verr&agrave; beccato da tifosi e stampa per le prestazioni sempre pi&ugrave; mediocri, che gli varranno, non spetta a noi giudicare se a torto o a ragione, lo stigma di bidone. A fine stagione, visto il magrissimo bottino e la retrocessione dei dorici in Serie B, El Raton se ne torner&agrave; al Norimberga, dove ricomincer&agrave; a segnare con una certa frequenza. Nonostante la sua apparizione pi&ugrave; che fugace nel nostro campionato, l'argentino &egrave; entrato di diritto nella memoria collettiva calcistica nostrana: per gli anconetani rimarr&agrave; sugli almanacchi come mattatore della prima vittoria in Serie A, per tutti gli altri incarner&agrave; per sempre il prototipo di promessa mancata, o come si dice in questi casi, di bidone. Sar&agrave; il fratello minore, Mauro Matias, a ridare lustro al nome della famiglia Zarate in Italia, quando nel 2008 comincier&agrave; a deliziare il pubblico dell'Olimpico biancoceleste.&nbsp;        

Il 25 ottobre 1992 l&rsquo;attaccante argentino, fratello del pi&ugrave; celebre Mauro, sigl&ograve; i suoi unici due gol nel massimo campionato, contribuendo a superare il Foggia di Zeman

Sergio Zarate, quando El Raton regalò la prima vittoria in Serie A all’Ancona

        &ldquo;La mia vita &egrave; stata un dribbling alla sventure&rdquo; dir&agrave; Francesco &ldquo;Cecco&rdquo; Rosetta tanti anni dopo il suo ritiro. Non gli si pu&ograve; di certo dar torto, ripercorrendo la sua storia e soffermandosi soprattutto su quella seconda met&agrave; degli anni &rsquo;40, quando ancora ventitreenne lascia la sua Novara per vestire la maglia di quel Grande Torino che alla tragedia e alla sventura ha purtroppo legato il suo nome per sempre. Nella stagione 1946-47 Rosetta colleziona 13 partite e si cuce il tricolore sul petto per la prima volta, per poi essere ceduto all&rsquo;Alessandria. Tra il Tanaro e il Bormida vive un&rsquo;annata modesta, non riesce a salvare i grigi dalla Serie B e decide di cambiare aria: la tentazione di tornare in granata, squadra che lo riprenderebbe con piacere, &egrave; forte. &Egrave; qui che Rosetta dribbla e beffa il destino, si ritrova ad un passo dalla fine e, come un novello Dostoevskij che sul patibolo riceve la grazia dallo zar Nicola a pochi secondi dall&rsquo;esecuzione, ottiene la sua seconda possibilit&agrave;. Lo zar Nicola nella storia di Rosetta si chiama Luigi Ferrero, il tecnico che lo ha avuto a Torino e ora lo vuole fortemente a Firenze, dove si &egrave; trasferito da una stagione: senza di lui lo stopper novarese sarebbe tornato nel capoluogo piemontese e con ogni probabilit&agrave; sarebbe anche salito su quell&rsquo;aereo per Lisbona.&nbsp; La seconda vita a Firenze&nbsp; La scelta di seguire Ferrero e trasferirsi alla Fiorentina non solo gli salver&agrave; la vita, ma segner&agrave; il vero e proprio punto di svolta della sua carriera calcistica. Sulle sponde dell&rsquo;Arno Rosetta arriva silenziosamente, gi&agrave; campione d&rsquo;Italia ma proveniente da una stagione fallimentare. La fiducia che Ferrero nutre nei suoi confronti &egrave; per&ograve; pressoch&eacute; assoluta: gli consegna da subito una maglia da titolare oltre alle chiavi del reparto difensivo viola. &ldquo;Cecco&rdquo;, come viene soprannominato a Firenze, &egrave; un difensore puntuale negli interventi ed estremamente elegante, oltre che leale come pochi altri hanno saputo essere. I tifosi viola pi&ugrave; attempati lo ricordano con grande piacere come un difensore pulito e dal tocco di palla morbido, che riusciva a toglier la sfera all&rsquo;avversario giocando d&rsquo;anticipo senza mai fare fallo. A Firenze ben presto conquista tutti, sopravvive anche all&rsquo;addio di Ferrero nel 1951 e nel frattempo inizia a collezionare anche qualche presenza in Nazionale. La prima volta in azzurro, neanche a dirlo, la gioca proprio nella &ldquo;sua&rdquo; Firenze, il 22 maggio del &rsquo;49 nella vittoria sull&rsquo;Austria in Coppa Internazionale. Con la maglia viola passa praticamente tutto il resto della carriera: in nove stagioni colleziona 245 presenze diventandone capitano. Ha la fascia al braccio anche nella stagione 1955-56, quella che come ben sanno tutti i tifosi viola, porter&agrave; il primo storico scudetto nella citt&agrave; gigliata. Con Bernardini in panchina e la coppia terribile Virgili-Montuori in avanti la Fiorentina in quell&rsquo;anno &egrave; davvero un rullo compressore: la squadra toscana si prende la prima posizione alla settima giornata e non la lascia pi&ugrave;, inanellando un&rsquo;incredibile serie di partite senza sconfitta macchiata solo dal 3-1 a Genova dell&rsquo;ultima giornata, ormai inutile ai fini della classifica. La vittoria del campionato fa entrare di diritto Rosetta nell&rsquo;Olimpo degli eroi viola, anche se la sua storia con Firenze sta volgendo al termine. Nella stagione successiva vince la Coppa Grasshoppers, ma non fa parte degli undici che al Bernabeu perdono la finale di Coppa dei Campioni. Rosetta, ormai 35enne, decide di dire addio alla squadra che gli ha dato tutto, e termina la carriera nel 1958 dopo un anno passato con l&rsquo;Hellas Verona. Rimarr&agrave; comunque per sempre legato alla Fiorentina e alla sua gente, anche una volta tornato nella sua Novara, dove rimarr&agrave; fino alla fine dei suoi giorni.&nbsp;       

Il trasferimento a Firenze lo salv&ograve; dalla tragedia di Superga e gli permise di entrare nella leggenda del club toscano, con cui si laure&ograve; Campione d&rsquo;Italia nel &rsquo;56. Nasceva a Novara il 9 ottobre di 100 anni fa

Francesco Rosetta, il capitano del primo scudetto della Fiorentina

Stando a numeri, statistiche e palmares, il prossimo campionato di Serie B si presenta come uno dei pi&ugrave; blasonati della storia. In campo scenderanno venti squadre in rappresentanza di quattordici regioni (isole comprese) e sei capoluoghi di regione. Un torneo impreziosito da dieci scudetti, i nove del Genoa pi&ugrave; il tricolore del Cagliari, e quattro titoli europei, tutti nella bacheca del Parma. Soltanto tre club, inoltre, non hanno mai conosciuto la Serie A: si tratta di Cittadella, Cosenza e Sudtirol. Se a questo aggiungiamo le 34 vittorie del campionato di B e le cinque Coppe Italia, il giudizio non pu&ograve; che essere unanime: siamo di fronte a uno dei campionati cadetti pi&ugrave; prestigiosi di sempre dopo la storica - quanto atipica - stagione 2006/2007, quella del post Calciopoli e delle promozioni di Juventus, Napoli e Genoa.  Una vera e propria Serie A2  Sono almeno sette le squadre che puntano al ritorno nel massimo campionato: le nobili decadute Genoa e Cagliari (quanti benefici il paracadute da 25 milioni), il derelitto Parma di Buffon ma anche Pisa (sconfitto nell&rsquo;ultima finale playoff dal Monza), Brescia, Benevento e Frosinone. Ambizioni e rinnovato entusiasmo anche per Bari, Palermo e Modena, promosse dalla Serie C insieme alla matricola Sudtirol - prima squadra trentina ad approdare tra i cadetti -, che hanno aggiunto prestigio e qualit&agrave; a un torneo che gi&agrave; abbondava di tradizione.  A primo acchito si tratta, come detto, di un campionato d&rsquo;elite in cui non esiste una vera e propria classe media. Una sorta di &lsquo;Serie A2&rsquo;, come lasciato intendere del presidente del Coni Giovanni Malag&ograve;: &laquo;Non voglio mancare di rispetto alle altre squadre per dire che tra le piazze di Serie B ci saranno molti capoluoghi di regione e club che hanno militato a lungo in Serie A con una lunga storia calcistica&raquo;. Il numero uno del Coni sorvola per&ograve; su una domanda che parrebbe legittima: quali sono le cause che hanno portato alcuni dei club pi&ugrave; blasonati d&#39;Italia a sgomitare in Serie B piuttosto che in Serie A? E ancora: il calcio italiano pu&ograve; permettersi piazze da 20-30 mila spettatori tra i cadetti privando il massimo campionato di un numero cos&igrave; importante di tifosi e appassionati?    Tra fallimenti, conti in rosso e tribunali  &Egrave; nelle pieghe di un torneo che fa sempre pi&ugrave; gola a sponsor e tv che si celano i problemi atavici del calcio italiano. Quasi la met&agrave; delle venti squadre in organico viene da almeno un fallimento negli ultimi quindici anni: si va dal crac del Pisa del 2009 al fallimento del Palermo del 2019. Nel mezzo storie di debiti, conti in rosso e istanze di tribunali. Il &ldquo;campionato degli italiani&rdquo; - parafrasando lo slogan della Lega B - vedr&agrave; ai nastri di partenza l&rsquo;Ascoli, fallito nel 2013, il Bari, fallito nel 2014 e nel 2018, il Como (2017), il Cosenza (2013), il Modena (2018), il Perugia (2010), il Parma (2015) e la Spal (2012). A queste si aggiungono Reggina e Venezia, escluse dalla Lega Pro 2015/2016 a causa di debiti ingenti e ripartite dalla Serie D grazie al salvagente del &ldquo;merito sportivo&rdquo;.  La Serie B &egrave; diventata dunque la frontiera verso un nuovo inizio, a met&agrave; tra l&rsquo;inferno della Lega Pro e del dilettantismo e il paradiso della Serie A. Lo specchio della malandata industria italiana del pallone. La cancellazione della vecchia Serie C2 (poi Lega Pro Seconda Divisione) ha eliminato un filtro efficace tra dilettanti e professionisti. L&rsquo;attuale Serie D non &egrave; in grado di reggere la forza economica delle grandi piazze precipitate dalle categorie superiori. Le recenti cavalcate - tra le altre - di Cesena, Bari e Palermo verso la C ne sono la dimostrazione. Non meglio riesce a fare proprio la Serie C, campionato funestato da scandali, penalizzazioni e mancate iscrizioni, che si &egrave; spesso rivelata un sentiero tutt&rsquo;altro che arduo da percorrere. La B &egrave; quindi il naturale approdo di quei club rinati dalle ceneri di gestioni fallimentari e vogliosi di riprendersi il proscenio della Serie A.  L&#39;intasamento della B &egrave; logica conseguenza delle fragilit&agrave; di C e D, oltre che di un sistema che non fornisce un&#39;adeguata barriera all&#39;ingresso nel calcio professionistico. Il rischio per le nobili decadute &egrave; quello di restare ingarbugliate nel campionato cadetto, sempre pi&ugrave; incerto e incline ai colpi di scena. Le sole tre promozioni appaiono strette rispetto alle ambizioni di gran parte dei club in organico. Il meccanismo dei playoff, allargati dalla terza fino all&rsquo;ottava squadra in classifica, non riesce a sopperire al problema. La Serie B pu&ograve; trasformarsi in un pantano dal quale risulta difficile venire fuori, oltre che un torneo di gran lunga meno competitivo rispetto alla A. Lo conferma il dato che vede dodici neopromosse retrocesse in B negli ultimi sette campionati di Serie A. Significa che, numeri alla mano, una neopromossa in A ha poco pi&ugrave; del 40% di possibilit&agrave; di salvarsi.    &nbsp;  I capitali stranieri alla conquista di un sistema vecchio  Nel corso degli ultimi anni, a risollevare le sorti di alcuni club storici precipitati nell&rsquo;inferno dei dilettanti sono state propriet&agrave; straniere. Nella Serie B 22/23 se ne contano addirittura otto. A farla da padrone sono gli americani, proprietari di Genoa, Parma, Venezia, Pisa e Spal. A stelle e strisce anche il socio di minoranza dell&rsquo;Ascoli, detenuto per il 31% da North Sixth Group. Parlano straniero anche il Como della famiglia indonesiana degli Hartono - a capo di un impero da 40 miliardi di dollari l&rsquo;anno - e il Palermo, fresco di acquisizione da parte del City Football Group.  Propriet&agrave; che hanno portato capitali freschi ma che sono ancora in attesa di un ritorno di redditivit&agrave;, garantito per forza di cose dal salto in Serie A. In tal senso, risulta ancora abissale la differenza di profitto tra A e B. Alcune stime parlano di una media di 8 milioni di euro percepiti dai club cadetti per la cessione dei diritti tv. La promozione in Serie A - secondo alcuni dati riportati da Calcio e Finanza - varrebbe 16 milioni in pi&ugrave;. Il tutto senza contare l&rsquo;incremento dei ricavi (seppur marginale rispetto ai diritti tv) da sponsor e botteghino. Imbarazzante il paragone con l&rsquo;Inghilterra, in cui il salto dalla Championship alla Premier League porta nelle casse dei club circa 200 milioni.  Le propriet&agrave; straniere della B si trovano di fronte a un altro dei problemi annosi del nostro calcio, quello relativo alle infrastrutture. Drammatica la situazione impianti: gli stadi della prossima Serie B hanno un&rsquo;et&agrave; media di 69 anni (al netto degli immancabili interventi di riqualificazione). Due quelli costruiti addirittura prima della Prima Guerra Mondiale: il Ferraris di Genova (1911) e&nbsp;il Penzo di Venezia (1913). Soltanto il maxi parcheggio della Unipol Domus di Cagliari e lo Stirpe di Frosinone (unico di propriet&agrave; da parte della societ&agrave;) sono stati inaugurati negli anni 2000. Il problema strutture esiste ed &egrave; ancora pi&ugrave; accentuato tra i cadetti. Non si pu&ograve; pensare di valorizzare un prodotto senza il packaging adatto. La Serie B degli stadi vecchi e fatiscenti non gioca a favore della crescita del sistema calcio, soprattutto se paragonato agli impianti del resto del continente.  C&rsquo;&egrave; poi un altro aspetto che riguarda i tifosi. Secondo il sito specializzato Stadiapostcard, nell&rsquo;ultima stagione di Serie B sono stati in media 4.129 gli spettatori presenti sugli spalti, seppur il dato sia stato &lsquo;inquinato&rsquo; dalle restrizioni anti Covid. Nella stagione 2018/2019, l&rsquo;ultima prima della pandemia, la media era stata di 7.365. Nell&rsquo;ultimo campionato soltanto il Lecce ha superato la media di 10 mila spettatori. Emblematico, anche in questo caso, il confronto con il resto d&rsquo;Europa: la Championship inglese (dati Transfermarkt) ha portato allo stadio in media oltre 16 mila persone (prima della pandemia il dato superava i 20 mila spettatori), la Liga2 spagnola 7.277 (pre pandemia 10.490) e la Ligue 2 francese 5.542 (pre pandemia 6.861). Numeri che ricalcano quelli della Serie A e che confermano l&rsquo;allontanamento sempre pi&ugrave; accentuato dei tifosi italiani dagli stadi. Le retrocessioni di Genoa e Cagliari e le promozioni di Bari e Palermo daranno senz&rsquo;altro nuova linfa ai botteghini.    La Serie B come &quot;laboratorio del calcio italiano&quot;  A fare da contraltare ai numeri appena riportati &egrave; per&ograve; la crescita del campionato in termini economici e di visibilit&agrave; nelle ultime stagioni. Lo scorso anno la Lega B ha incassato 48 milioni di euro dalla vendita dei diritti tv contro i 24 del ciclo precedente. A detenere l&rsquo;esclusiva fino al 2023/2024 saranno Sky, Dazn e Helbiz. Calcio e Finanza ha stimato inoltre che, con le retrocessioni di Genoa e Cagliari e le promozioni di Palermo e Bari, la Serie B ha visto incrementare il proprio bacino d&rsquo;utenza del 67%.  Sulle colonne del Secolo XIX il presidente della Lega B, Mauro Balata, ha detto che &laquo;il parterre di societ&agrave; si &egrave; ulteriormente impreziosito con storie calcistiche di primo livello&raquo; e che &laquo;l&rsquo;impegno &egrave; di consolidare tutto ci&ograve; in un momento economico non facile&raquo;. Balata, commentando le recenti convocazioni del CT Roberto Mancini, ha aggiunto che c&rsquo;&egrave; &laquo;un impegno massimo per sviluppare strategie per rendere la Serie B il vero laboratorio del calcio italiano&raquo;. Nell&rsquo;ultimo stage azzurro, 18 calciatori su 54 provenivano proprio dal campionato di Serie B. Soltanto due per&ograve; quelli scesi in campo: Gatti e Zerbin, entrambi del Frosinone.  Siamo allora di fronte alla domanda fatidica: qual &egrave; il vero volto della Serie B? &Egrave; davvero, il campionato degli italiani, l&#39;isola felice di milioni di tifosi e decine di citt&agrave; tornate a respirare aria di grande calcio dopo anni di sofferenze o soltanto una tappa di un cammino lungo e tortuoso tra i crinali del malandato calcio italiano? La Serie B ha gi&agrave; imboccato la via del cambiamento. Il passo definitivo sar&agrave; quello di garantire qualit&agrave; e competitivit&agrave; al campionato e ridurre il gap tecnico ed economico con la Serie A. Inevitabile, infine, anche una riflessione sulla Serie C. Molti indicano nel semiprofessionismo la soluzione agli annosi problemi che affliggono le squadre di Lega Pro. L&#39;unica certezza &egrave; che, per il nostro calcio, la necessit&agrave; &egrave; quella di ridare credibilit&agrave; al sistema ripartendo dal basso.  A cura di:&nbsp;   

Alla scoperta del campionato cadetto pi&ugrave; affascinante degli ultimi anni

&Egrave; tutto oro quel che luccica in Serie B?

        Una storia di calcio il cui protagonista &egrave; un brasiliano scanzonato, amante della vita e di tutte le sue sfaccettature. Ma, purtroppo, anche i nostri eroi genuini delle favole pi&ugrave; romantiche possono fare una fine tragica. Dirceu amava talmente tanto il calcio che non gli interessava nemmeno lo stipendio; tipico brasiliano che viveva alla giornata, spensierato e felice solo perch&eacute; aveva la possibilit&agrave; di passare l&rsquo;esistenza correndo dietro un pallone: "Giocavo per sentimento. Per provare emozioni. Me ne fregavo dei soldi e anche degli altri. Pensavo solo a calciare bene la palla. Infatti per due anni il Coritiba nemmeno mi ha pagato, dicevano di non avere i soldi. E io non protestavo, non ci badavo: era la squadra della mia citt&agrave;, era tutto per me". Fin da bambino aveva ereditato la pi&ugrave; grande passione del padre: "Mi accompagnava dappertutto. Non fumava, n&eacute; beveva per potermi comprare le scarpe da calcio". Il piccolo Jos&eacute; aiutava la madre nel bar di famiglia e non si perdeva una partita:&nbsp;"Mi divertivo solo a palleggiare e giocare. Giocavo anche 4 partite al giorno e se non avessi avuto paura di buscarle mi sarei messo a giocare pure in Chiesa". Chiunque lo ricorda per la sua trasparenza e per quel sorriso stampato, che illuminava il volto contornato da un&rsquo;inconfondibile chioma riccia. Un uomo umile, modesto e divertente: un calciatore straordinario.  Offensivo, dava il meglio di s&eacute; schierato sulla trequarti, nella sua infinita carriera ha ricoperto tutti i ruoli del centrocampo, come solo i grandi campioni potevano fare nel paradiso del calcio, quando la Serie A -&nbsp;in seguito alla riapertura delle frontiere -&nbsp;era competitiva, tirata, difficile come non mai. Dirceu nasce comunque ala sinistra. In Nazionale ha giocato con tutti: Jairzinho e Rivelino; Zico, Falcao, Cerezo, Edinho, calciatori straordinari con i quali ha battagliato poi nel nostro campionato, protagonisti dei ballottaggi continui nella testa di Tel&ecirc; Santana o degli altri Ct verdeoro. Ha giocato anche con Socrates, Junior e Careca (altri brasiliani poi passati in Italia), aggiuntisi al blocco dei gi&agrave; precedentemente citati nei convocati per i Mondiali 1982, gli ultimi disputati da Dirceu. Si &egrave; fermato a tre campionati del mondo, sfiorando il record che all'epoca apparteneva a Pel&eacute;, saltando quelli del 1986 per un infortunio. Una beffa per uno che si &egrave; sempre allenato al massimo e che sull&rsquo;atletismo ha costruito le fortune di un&rsquo;intera carriera: non era velocissimo, ma&nbsp;instancabile. Sempre l&rsquo;ultimo a mollare: quando gli altri non ne avevano pi&ugrave; riusciva a carburare ancora, ricoprendo all&rsquo;occorrenza tutte le zone del campo. Per questo in Brasile lo chiamavano &ldquo;la formiga&rdquo; (&ldquo;la formica&rdquo;). Per intenderci: durante il servizio militare svolto nel &rsquo;70 venne iscritto ai Campionati Militari, specializzandosi nella disciplina del mezzofondo e segnando il nuovo record nazionale sui 1000 metri.  Mescolate alle eccellenti caratteristiche fisiche, tecnica sopraffina &ndash; tipica brasiliana &ndash; e sinistro delizioso, letale, indifferentemente efficace con potenti conclusioni o con magiche traiettorie effettate. Un&rsquo;atleta con i piedi fatati, una &ldquo;Farfalla&rdquo; &ndash; altro soprannome affibbiatogli &ndash; che sorvolava ogni zona di campo regalando gioie ai tifosi.&nbsp; Gli inizi in Brasile Il percorso di Dirceu in Sudamerica &egrave; in ascesa fin da subito. Gioca nel Coritiba, squadra della sua citt&agrave;, inizia a 16 anni e passa cinque stagioni condite da due vittorie del Campionato Paranaense, che restituiscono al panorama calcistico brasiliano un talento gi&agrave; pronto per dare spettacolo con il Botafogo. Nel &rsquo;72, prima di entrare stabilmente a far parte della Sele&ccedil;ao, aveva partecipato anche alle Olimpiadi di Monaco insieme a Falcao. Al Botafogo &egrave; compagno di stanza del leggendario Jairzinho, dal campione verdeoro impara tanto: "&Egrave; stato il mio maestro, mi ha insegnato l'importanza del dribbling e come sviluppare il gioco". Il 1973 &egrave; anche l&rsquo;anno in cui incontra l&rsquo;amore della sua vita. &Egrave; di ritorno dalla trasferta di Berlino, un&rsquo;amichevole vinta 1-0 dal Brasile con il suo primo, stupendo, sigillo in Nazionale, quando: "Al ritorno a Rio sono accolto da uno stuolo di amici, di ammiratori, incontro Vania, la donna che sarebbe diventata mia moglie. Era bella e mi guardava con commozione. La salutai distrattamente, frastornato dai festeggiamenti&rdquo;.  La consacrazione, il Mondiale '78 e lo sbarco in Europa Prosegue la sua avventura in Sudamerica giocando per Fluminense e Vasco da Gama, squadre con cui vince due Campionati Carioca, prima di trasferirsi in Messico nel Club America. L&rsquo;esperienza messicana - che gli aprir&agrave; le porte dell'Europa con il trasferimento all'Atletico Madrid nell'estate 1979 - &nbsp;&egrave; preceduta dal Mondiale argentino. La Sele&ccedil;ao zoppica nel primo girone e, nonostante dia spettacolo nel secondo, esce a causa della differenza reti, grazie ai 6 gol rifilati dall'Albiceleste al Per&ugrave; nell&rsquo;ultima gara, quella che viene ricordata come la &ldquo;Marmelada peruana&rdquo;. Per Dirceu doppietta nel successo contro il Per&ugrave;, gol vittoria nella finalina vinta a discapito dell&rsquo;Italia (2-1) e Pallone di Bronzo come terzo miglior giocatore del torneo, alle spalle di Kempes e Rossi. L&rsquo;approdo in Messico per uno dei calciatori pi&ugrave; famosi al mondo sembra quasi un mistero, presto svelato dalla portata economica dell&rsquo;affare: dalla cessione della Formiga il Vasco riceve 600mila dollari, il cui 15% spetta al calciatore. Con quei soldi Dirceu costruisce 5 palazzine, acquistando il terreno dove sorge il campo del Coritiba, quello in cui aveva mosso i suoi primi passi da calciatore. Spartisce le palazzine con la famiglia e parte per il suo lungo viaggio, allontanandosi per la prima volta dalla terra natia.  Dalla Liga alla Serie A: Verona impazzisce Madrid &egrave; bella, la Liga affascinante e Dirceu si trova bene. Segna come mai prima. Nel secondo campionato i Colchoneros si piazzano terzi, ma il brasiliano sogna l&rsquo;Italia. Guarda dalla panchina la tripletta di Pablito al Sarri&aacute;, assistendo all&rsquo;eliminazione della sua (strafavorita) Sele&ccedil;ao, i cui grandi nomi militano o militeranno in Serie A. Era stato il presidente della Roma Dino Viola ad avvicinare Dirceu per regalare un altro fuoriclasse verdeoro a Liedholm. Le parti per&ograve; non avevano trovato l&rsquo;accordo: Jos&eacute; chiedeva un triennale, la Roma gli offr&igrave; solo un anno di contratto (con il senno di poi non sarebbe cascato malissimo). Terminato il Mondiale e scaduto il termine massimo per il tesseramento degli stranieri, l&rsquo;unica strada percorribile per approdare in Serie A &egrave; quella di accettare un trasferimento in una neopromossa.  Il suo approdo a Verona genera un entusiasmo senza precedenti. I botteghini scoppiano: tutti vogliono veder giocare il brasiliano. Alle tantissime tessere sottoscritte si affiancano le dichiarazioni stonate di Bagnoli, preoccupato nel dover sconvolgere gli equilibri della squadra: per far posto a Dirceu deve rinunciare al suo fidato capitano Francesco Guidolin. Nonostante i mugugni del tecnico, la stagione si rivela memorabile: partiti con due sconfitte, gli scaligeri infilano 17 risultati utili consecutivi, tornando a perdere proprio nella prima partita saltata dal sudamericano. Straordinario il primo gol in Serie A: un sinistro potentissimo che quasi buca la porta del Catanzaro, a suggellare una vittoria per 3-1 (24 ottobre 1982). La squadra chiude il girone d&rsquo;andata a una sola lunghezza dalla Roma capolista, perde qualche punto di troppo in primavera e termina al quarto posto, centrando la prima storica partecipazione alla Coppa Uefa. A godere delle magie della Formiga &ndash; ormai trasformato a tutti gli effetti in regista offensivo &ndash; &egrave; Domenico Penzo, autore di 15 reti e acquistato in estate dalla Juve. Proprio la &ldquo;maledetta Juve&rdquo;, quella che si frappone tra l&rsquo;Hellas e la storia. La stagione 1982-83, infatti, oltre a regalare ai tifosi giallobl&ugrave; un campionato da sogno, &egrave; quella dell&rsquo;impresa sfiorata in Coppa Italia: dopo un cammino memorabile e una finale d&rsquo;andata vinta 2-0 al Bentegodi, Rossi e Platini la ribaltano in 120&rsquo; al ritorno.&nbsp;  Nelle 5 stagioni in cui giocher&agrave; in Serie A &ndash; tutte con maglie diverse, ecco perch&eacute; presto verr&agrave; ribattezzato &ldquo;lo Zingaro&rdquo; &ndash; Dirceu mostrer&agrave; al pubblico una capacit&agrave; balistica impressionante: 20 gol in campionato tra Verona, Napoli, Ascoli, Como e Avellino, la maggior parte dei quali su calci piazzati da distanza proibitiva, che batte con le tre dita, esattamente come far&agrave; Roberto Carlos qualche anno pi&ugrave; tardi. Napoli, Ascoli, Como e Avellino: il viaggio dello "Zingaro" Il viaggio dello Zingaro riparte nel 1983, direzione Napoli. &Egrave; sua l&rsquo;ultima 10 prima del &ldquo;Diez&rdquo;: con quel mancino puoi portare solo quella e non &egrave; un&rsquo;eresia quantomeno avvicinare quello di Dirceu a quello di Diego, che ovviamente vince su tutti.  Il cambio in panchina non basta, la stagione azzurra scorre via. In estate Diego sbarca a Napoli, Dirceu non vede l&rsquo;ora di poter duettare con Maradona, ma &egrave; proprio l&rsquo;argentino a chiedere la sua cessione. El Pibe finir&agrave; per abitare nell&rsquo;appartamento lasciato libero dallo Zingaro che, nel frattempo, tra magagne contrattuali e accordi saltati, decide di ripartire da Ascoli. Disputa un altro campionato di livello: 5 gol, miglior marcatore della squadra al pari di Cantarutti e Nicolini. Un dato positivo per il brasiliano, ma che non pu&ograve; bastare a salvare il Picchio dalla retrocessione. Si consola assistendo a un miracolo: vedere i suoi ex compagni del Verona vincere il campionato, stravolgendo ogni pronostico.  La Serie B, ovviamente, non la pu&ograve; fare. Opta per Como, una squadra proveniente da una salvezza agevole, dove pu&ograve; continuare a dispensare calcio. Per carisma e classe gli viene affidata la fascia da capitano. Nel 1986, per&ograve;, non &egrave; fortunato: ad aprile s&rsquo;infortuna al ginocchio perdendo il suo quarto Mondiale; nel frattempo i lariani raggiungono una storica semifinale di Coppa Italia che, nonostante una Samp senza i rispettivi nazionali partiti in massa per il Messico, perdono beffardamente. A Dirceu, come dichiarato in una recente intervista dal suo ex compagno Bobo Maccoppi, il sorriso non &egrave; mai mancato: &ldquo;Era veramente incredibile. Ricordo che a fine allenamento radunava me, Borgo, Butti, Invernizzi, tutti i pi&ugrave; giovani del gruppo, palleggiava e ci diceva: 'Dai facciamo Cinquenta. Cinquenta forza, cinquenta'. 'Cinquenta' era cinquanta: dovevamo fare almeno 50 palleggi di gruppo al volo, senza far mai cadere il pallone. 'Se facciamo cinquenta domenica vinciamo. Se facciamo 100 vinciamo sicuro'. Oltre a essere uno dei calciatori pi&ugrave; forti con cui ho giocato, era simpaticissimo&rdquo;. &nbsp; Le cose migliori le tiene in caldo per la sua ultima stagione in Italia, trascorsa con la maglia dell&rsquo;Avellino. Il debutto &egrave; da urlo: si presenta al Partenio con una doppietta alla Fiorentina. Due punizioni calciate con le tre dita dalla lunga distanza. Nella stessa maniera colpisce poi le sue ex squadre, Como e Verona, mentre con una punizione a giro segna alla Samp. 5 piazzati vincenti in un solo campionato, ai quali si aggiunge il rigore all&rsquo;Atalanta. Qualcosa da far vedere in tutte le scuole calcio, per far capire ai ragazzi qual &egrave; il giusto posizionamento del corpo, dove si deve impattare il pallone: in sostanza, come si calcia in porta!  Gli ultimi anni Ma l&rsquo;avventura dello Zingaro in Italia non &egrave; finita: torner&agrave; nel 1989 per trovare finalmente la sua casa a Eboli, firmando a sorpresa per l&rsquo;Ebolitana. Un&rsquo;altra parte della vita del brasiliano che meriterebbe un approfondimento per le circostanze e gli aneddoti che caratterizzano il suo terzo soggiorno in Campania&hellip; Sta di fatto che Dirceu, accompagnato sempre fedelmente da Vania (dalla quale ha avuto tre figli), si spegne a Rio de Janeiro il 15 settembre 1995. Fatale, a soli 43 anni, un incidente stradale, con l&rsquo;amata moglie incinta del quarto frutto del loro amore.&nbsp; Ci piace poter pensare che sia solo volato in cielo per ripetere &lsquo;Cinquenta&rsquo; con il pallone tra i piedi, mentre insegna agli angeli a calciare con le tre dita.        

Approdato in Italia nel 1982, ha vestito le maglie di Verona, Napoli, Ascoli, Como e Avellino, regalando gioie a tutti i tifosi, grazie a un sinistro magico e alle sue incredibili punizioni

Dirceu, lo "Zingaro" della Serie A: storia di un campione sfortunato

        L&rsquo;Italia intera non pu&ograve; esserne ancora consapevole, non sa che sta per vivere un&rsquo;estate indimenticabile. &Egrave; il 16 maggio 1982, giorno della vigilia degli Internazionali maschili al Foro Italico di Roma; la corsa Rosa sta entrando nel vivo ed &egrave; purtroppo la prima domenica senza Gilles Villeneuve, deceduto in seguito al terribile incidente sul circuito di Zolder, provocando tristezza infinita nel cuore di tutti gli amanti del motorsport. In questo contesto l&rsquo;evento che tiene tutto il Paese con la radiolina sintonizzata su &ldquo;Tutto il calcio minuto per minuto&rdquo; &egrave; la 30esima giornata del campionato di Serie A, l&rsquo;ultima di uno dei tornei pi&ugrave; emozionanti e spettacolari di sempre. Juventus e Fiorentina sono giunte all&rsquo;ultimo round a pari merito: 44 punti per i viola &ndash; &nbsp;che volano in Sardegna per sfidare il Cagliari &ndash; , gli stessi per i bianconeri, che scendono a Catanzaro. In caso di arrivo a pari punti si giocherebbe uno spareggio che manca dal 1964. Oltre allo scudetto, ad eccezione della retrocessione anticipata del Como, tutti gli altri verdetti sono ancora da scrivere. La vigilia tormentata dei bianconeri In Calabria la Juve viene accolta all&rsquo;aeroporto da una contestazione agguerrita: in 3mila a fischiare e insultare la squadra. La massa &egrave; composta in maggioranza da tifosi anti-juventini. Alcuni giocatori vengono addirittura aggrediti, come Rossi, colpito da uno schiaffo in volto e finito a terra. Il povero Pablito &egrave; tra i pi&ugrave; criticati per le note vicende che l&rsquo;hanno visto protagonista: la lunga squalifica per il Totonero &egrave; terminata lo scorso 28 aprile e Trapattoni lo ha lanciato subito contro l&rsquo;Udinese. Rossi ha risposto con una prestazione maiuscola, contribuendo con un gol nel 5-1 rifilato ai friulani. Anche in quell&rsquo;occasione era stato accolto da sonori fischi, il tutto davanti agli occhi di Bearzot, recatosi al Friuli per testare le condizioni fisiche e, soprattutto, mentali dell&rsquo;ex Perugia. Quelli che l&rsquo;hanno riempito di fischi dimenticheranno tutto a meno di due mesi di distanza&hellip; La Juventus sale cos&igrave; sul pulmann e scappa via in fretta e furia dall&rsquo;aeroporto di Lamezia Terme. Rossi, come tutta la squadra, resta comunque concentrato sulla partita, Boniperti ha tuonato: &ldquo;L&rsquo;anno prossimo dobbiamo giocare la Coppa dei Campioni&rdquo;. Per presenziare al tavolo delle grandi la Juve deve prima avere la meglio sul Catanzaro di Bruno Pace, anche se questo potrebbe non bastare. I calabresi, gi&agrave; ampiamente salvi, sfoggiano due grandi talenti del nostro calcio: Massimo Mauro e Edi Bivi, entrambi azzurrini all&rsquo;ordine di Vicini. Il primo &ndash; corteggiato da mezza Italia &ndash; si accaser&agrave; a Udine, prima di transitare anche a Torino. Il secondo non riuscir&agrave; mai a esplodere definitivamente, rimanendo comunque un apprezzato mestierante d&rsquo;area di rigore. Ad alzare l&rsquo;et&agrave; media dei giallorossi ci pensa Sergio Santarini, professione stopper, ex bandiera della Roma. Nelle 13 stagioni trascorse nella Capitale ha condiviso lo spogliatoio con Picchio De Sisti: erano compagni di stanza durante i ritiri sull&rsquo;Aurelia. &Egrave; nata un&rsquo;amicizia vera con l&rsquo;attuale allenatore della Fiorentina, motivo per il quale Santarini arriva motivatissimo alla sfida. Si stenderebbe di traverso pur di non far passare la Signora: &ldquo;In questi giorni penso alla Fiorentina. La nostra leggerezza potrebbe distruggere il campionato della Viola, polverizzare tutte le sue fatiche, non sarebbe giusto. Ragionerei cos&igrave; anche se non conoscessi Picchio&rdquo;.  Catanzaro-Juventus, la gara del Comunale&nbsp; All&rsquo;ex Campo Militare di Catanzaro &egrave; tutto esaurito: 30mila spettatori, con insistenti proteste da parte dei 60mila rimasti fuori. Fortunati i bagarini quel giorno&hellip; Il Trap recupera in extremis Tardelli, davanti ancora assente Bobby gol Bettega: giocano Rossi e Virdis, con Fanna che scalpita in panchina. Furino vince il ballottaggio con Bonini, per il resto &egrave; la solita Juve, capitanata da Zoff alla 300esima presenza in bianconero. &Egrave; l&rsquo;ultima gara di Liam Brady, Boniperti infatti ha gi&agrave; piazzato due colpi da 90 per la prossima stagione: i tasselli per gli stranieri sono stati occupati da Boniek e Platini, quest&rsquo;ultimo ufficializzato proprio nell&rsquo;ultimo giorno disponibile, il precedente 30 aprile. I primi tempi della 30esima giornata scivolano via, Enrico Ameri e Sandro Ciotti &ndash; in collegamento rispettivamente da Catanzaro e Cagliari &ndash; si palleggiano la linea dei campi principali, dove il punteggio &egrave; fermo sullo 0-0. Da segnalare un brivido nell&rsquo;area juventina al 39&rsquo;, quando il contatto tra Borghi e Brio viene giudicato regolare dall&rsquo;arbitro Pieri. Dalle parti di Zaninelli bianconeri vicini al gol con Tardelli. La ripresa si apre con una clamorosa occasione ancora per il centrocampista ex Pisa, che da ottima posizione stampa di testa sulla traversa. Con il passare dei minuti Brady sale in cattedra e con lui si alza il livello dell&rsquo;intera squadra: la Juve comincia a girare, lottano tutti come leoni, il gol &egrave; nell&rsquo;aria. Intanto dal Sant&rsquo;Elia interviene Ciotti per comunicare l&rsquo;annullamento della rete di Graziani, episodio al quale seguiranno oceani di polemiche (dalle immagini il fallo non sembra cos&igrave; evidente). Il fischio di Trapattoni &ndash; che nel frattempo ha sostituito Virdis con Fanna &ndash; si sente fino alle ultime file delle tribune, i suoi continuano ad attaccare cercando disperatamente il gol vittoria. Al 30&rsquo; Brady pesca Marocchino, l&rsquo;inesauribile centrocampista si allunga la palla e cavalca verso il fondo, il suo cross raggiunge Rossi che colpisce il palo. Sulla carambola la sfera finisce sui piedi di Fanna, che controlla e calcia a botta sicura trovando sulla traiettoria del tiro il braccio di Celestini. L&rsquo;arbitro Pieri questa volta indica il dischetto: dagli undici metri si presenta lo specialista Liam Brady, proprio l&rsquo;irlandese con le valigie in mano che finir&agrave; alla Sampdoria, pu&ograve; decidere le sorti del campionato. Rincorsa breve e piattone sinistro alla destra di Zaninelli che si tuffa dall&rsquo;altra parte: lo scudetto prende la via Torino. Quando Ameri annuncia il vantaggio bianconero sulle tribune del Sant&rsquo;Elia la radiolina dei Pontello finisce in mille pezzi. A Catanzaro invece inizia un nutrito lancio di oggetti, che dalle tribune bersagliano l&rsquo;avamposto di Trapattoni. Serie A 1981-82, i verdetti del campionato L&rsquo;epilogo &egrave; scontato, la Fiorentina non riesce a segnare e dopo 90 minuti spasmodici la Juventus si conferma campione d&rsquo;Italia, conquistando il suo 20esimo scudetto. L&rsquo;ultima, pazza, giornata regala altri verdetti pesanti: il pareggio del Sant&rsquo;Elia condanna al secondo posto la Viola ma salva il Cagliari; si salva anche il Genoa, grazie alla rete di Faccenda che vale il 2-2 al San Paolo. I pareggi dei sardi e dei liguri condannano il Milan: nonostante l&rsquo;eroico ribaltone sul Cesena firmato Jordan, Romano e Antonelli, i rossoneri tornano in Serie B. Stessa sorte per il Bologna, retrocesso per la prima volta nella sua storia nella stagione in cui ha lanciato uno dei futuri astri del nostro calcio: Roberto Mancini.&nbsp; Il post partita e i giorni seguenti all&rsquo;epilogo saranno bollenti: mentre mezza Torino corre festante a Caselle per accogliere i campioni, a Firenze sfilano cortei e slogan in protesta contro gli arbitraggi. Anche il capitano viola Antognoni nel post partita rilascia dichiarazioni pesanti, ma alla Vecchia Signora importa poco: inizier&agrave; il nuovo campionato con sulle maglie cucita la seconda, prestigiosa, stella.  Catanzaro-Juventus del 16 maggio 1982: il tabellino CATANZARO: Zaninelli, Celestini, Salvadori, Boscolo (1' st Cascione), Santarini, Peccenini, Mauro, Braglia, Borghi, Sabato, Bivi (26' st Palese). A DISP: Bertolini, Cardinali, Nastase.&nbsp;ALL.:&nbsp;Pace JUVENTUS: Zoff, Gentile, Cabrini, Furino, Brio, Scirea, Marocchino (40' st Bonini), Tardelli, Rossi P., Brady, Virdis (8' st Fanna). A DISP: Bodini, Osti, Galderisi.&nbsp;ALL.: Trapattoni ARBITRO: Pieri (Genova) . MARCATORI:&nbsp;75' rig. Brady.&nbsp;        

Un trionfo arrivato all&rsquo;ultima giornata di un campionato agguerrito, grazie al rigore di Brady. Beffata la Fiorentina di De Sisti fermata sullo 0-0 a Cagliari

Juve, 16 maggio 1982, a Catanzaro lo scudetto della seconda stella 

Bruno Giordano non ha bisogno di presentazioni, cos&igrave; come il Napoli del primo scudetto ha gi&agrave; avuto tanti libri celebrativi. Per&ograve; quello scritto dal centravanti di quel Napoli e da Salvatore Bagni &egrave; un&#39;opera davvero molto interessante anche per chi pensa di sapere tutto di quell&rsquo;epoca e di quella squadra che aveva Maradona come leader, icona, divinit&agrave;. Che vi siete persi&hellip;, con Sperling &amp; Kupfer come editore, parte da quel 10 maggio 1987 per raccontare tutta una stagione dal di dentro, senza filtri o mediazioni. Ogni argomento ha una doppia versione, quella di Giordano e quella di Bagni, e lo schema funziona benissimo perch&eacute; nel calcio i punti di vista sono sempre diversi. Di quel Napoli abbiamo parlato con Giordano, che nel libro racconta anche molto altro di s&eacute;, a partire dal suo rapporto con la Lazio.    Come mai questa idea di libro insieme a Salvatore Bagni, a 35 anni da quel trionfo?  Con Salvatore ci sentiamo sempre e si finisce spesso a parlare di quella stagione: dopo avere letto tante rievocazioni di altri abbiamo voluto quindi proporre la nostra. Perch&eacute; un conto &egrave; immaginare e raccontare cose che non si sono vissute, un altro &egrave; il ricordo dei diretti interessati. &nbsp;&nbsp;  Lei &egrave; stato fra i protagonisti del primo scudetto del Napoli, nel secondo non c&rsquo;era ma pu&ograve; lo stesso fare un confronto. Che differenza c&rsquo;&egrave; fra quei due scudetti, perch&eacute; il primo &egrave; stato molto pi&ugrave; celebrato del secondo e finora ultimo?  Bisognerebbe chiederlo alla gente, forse molto semplicemente il primo amore non si scorda mai. Quello del 1986-87 fu un successo aspettato per decenni, fra speranze e delusioni. Quello di tre anni dopo fu vinto da un Napoli che era gi&agrave; forte da diversi campionati. Soltanto a distanza di tempo mi sono reso conto che quella del 10 maggio 1987 &egrave; stata una data storica sotto l&rsquo;aspetto sportivo e sociale, per il Napoli e per Napoli: se la gente e anche noi stessi ne parliamo come se fosse cosa recente un motivo ci sar&agrave;.   Nel libro lei racconta che Maradona gi&agrave; in campo, quando lei ancora giocava nella Lazio, le chiese di venire al Napoli. E che addirittura Italo Allodi, quando la incontr&ograve; per il contratto, non si mise a mercanteggiare, dicendo chiaramente che Maradona la voleva al Napoli a tutti i costi. Com&rsquo;&egrave; stato il vostro rapporto?  Diego era pi&ugrave; grande come amico e compagno che come calciatore, e con questo avrei detto tutto visto che &egrave; stato il pi&ugrave; grande calciatore di tutti i tempi. Noi avevano tante pressioni, ma quelle che aveva lui erano inimmaginabili. E nonostante questo aveva tempo e voglia per gesti di generosit&agrave; che valgono pi&ugrave; di ci&ograve; che ha fatto in campo. Il nostro rapporto era straordinario, nacque durante un Italia-Argentina del 1979 ed &egrave; arrivato fino alla sua morte.  Perch&eacute; nel 1988 la sua storia con il Napoli fin&igrave;, nonostante l&rsquo;amore del pubblico e l&rsquo;amicizia con Maradona? Pu&ograve;, a distanza di tanti anni, dire cosa ci fosse di vero nel famoso ammutinamento contro Ottavio Bianchi?  Non ci fu alcun ammutinamento, fra l&rsquo;altro quella lettera io, Bagni, Ferrario e Garella la scrivemmo dopo la partita con il Milan e non prima. Per spiegare quanto successo, viste le brutte chiacchere che a Napoli giravano su quella rimonta, non sappiamo se alimentate da qualcuno nella societ&agrave;. Ma noi avevamo dato tutto, finendo la stagione in calo e contro un Milan in condizioni fisiche straordinarie. Non c&rsquo;erano retroscena, tanti di noi stavano male e la stessa partita del San Paolo con il Milan fu giocata da Bagni e Romano soltanto grazie ad infiltrazioni.   Lei nel libro ha parole di stima per Italo Allodi, il dirigente che costru&igrave; il Napoli dello scudetto e che a met&agrave; stagione ebbe un&rsquo;ischemia.  Ho una grande opinione di lui e del resto &egrave; stato uno dei grandi dirigenti del nostro calcio. Rimango convinto di una cosa: se nella stagione successiva ci fosse stato Allodi avremmo rivinto lo scudetto, anche in condizioni precarie, perch&eacute; avrebbe tenuto unito l&rsquo;ambiente.  Lei nel libro scrive del dolore per aver vissuto da squalificato per il calcioscommesse il Mondiale &rsquo;82 e da escluso di Bearzot quello &rsquo;86. La Nazionale &egrave; una ferita ancora aperta?  S&igrave;, perch&eacute; la squadra del 1982 la sento un po&rsquo; anche come la mia squadra, senza la squalifica ci sarei stato di sicuro. Ancora oggi non capisco come sia stato possibile subire una squalifica di questo genere, in rapporto alle responsabilit&agrave;. Lo stesso Paolo Rossi pag&ograve; molto pi&ugrave; del dovuto. Speravo che almeno quello del 1986 sarebbe stato il mio Mondiale, ma Bearzot non mi chiam&ograve; nonostante negli anni precedenti mi avesse fatto giocare e nel 1985 anche portato nella tourn&egrave;e in Messico. Vuol dire che sar&ograve; ricordato come il centravanti che ha vinto lo scudetto con Maradona, non &egrave; poco.  Lei nel libro dice che la Lazio l&rsquo;aveva nel 1984 ceduta alla Juventus e poi, dopo il suo rifiuto, alla Roma di Viola. Un rifiuto anche in questo caso ed un ultimo anno nella Lazio, molto difficile con societ&agrave; e tifosi. Come sarebbe cambiata la carriera di Giordano alla Juventus o alla Roma?  Contentissimo di come &egrave; andata, perch&eacute; poi sono finito al Napoli. Non ho vinto quanto avrei potuto, lo so, ma sia nella Lazio sia nel Napoli penso di avere dato e ricevuto tante emozioni: alla fine &egrave; per questo che si viene ricordati, non per gli albi d&rsquo;oro o le statistiche.   Lei racconta di un rapporto spesso difficile con Chinaglia, idolo di infanzia ma anche compagno e presidente impossibile. Che ricordo ha oggi di lui, altra icona del tifo laziale?  Giorgio un idolo, ancora di pi&ugrave; per me che sono nato come tifoso della Lazio. Ricordo ancora l&rsquo;emozione quando giocavo negli Allievi della Lazio e Chinaglia veniva al campo a vederci. Da compagni ci siamo incrociati poco, purtoppo il grande ciclo di Maestrelli era finito, l&rsquo;ho conosciuto meglio come presidente e l&igrave; qualche volta ci sono stati problemi. Ma poi il nostro rapporto &egrave; diventato buono e ci siamo visti fino a poco prima della sua scomparsa.   Quali sono stati i calciatori pi&ugrave; forti con cui ha giocato? Dopo Maradona, ovviamente.  Tutti i nazionali del 1982, un&rsquo;Italia di campioni veri. Pi&ugrave; D&rsquo;Amico, Manfredonia, Laudrup, Careca, Bagni, Daniel Bertoni&hellip;   I media hanno rappresentato Giordano nel modo giusto o si &egrave; a volte sentito trattato male, sottovalutato?  Non mi lamento, mi &egrave; mancato il Mondiale del 1982 e quello avrebbe cambiato tante cose.  Cosa farebbe Bruno Giordano nel calcio di oggi?  Non voglio mancare di rispetto ai grandi attaccanti che ci sono adesso, ma penso che negli anni Settanta e Ottanta fare l&rsquo;attaccante fosse molto pi&ugrave; difficile. Arbitraggi diversi con regole diverse, meno rigori, meno protezione, un calcio con una mentalit&agrave; pi&ugrave; difensivista. Non hanno senso i discorsi statistici tipo &lsquo;Superato Gigi Riva&rsquo;. E i difensori difendevano.   &nbsp; 

Intervista all&#39;ex centravanti della squadra campione d&#39;Italia 1986-87, che a quello scudetto ha dedicato un libro scritto insieme a Salvatore Bagni...

Il Napoli di Bruno Giordano

        Erik ten Hag sar&agrave; il prossimo allenatore del Manchester United, con contratto fino al 2025, e la notizia &egrave; interessante anche in ottica italiana. Perch&eacute; l&rsquo;ormai ex allenatore dell&rsquo;Ajax &egrave; il classico allenatore da progetto e non soltanto perch&eacute; abbia il passaporto olandese o sia stato assistente di Guardiola (al Bayern Monaco), a prima vista non la migliore scelta per una squadra che ha vinto la sua ultima Premier League 9 anni fa, all&rsquo;ultima stagione di Alex Ferguson. In una situazione simile, con tanti giocatori sopravvalutati, Pogba su tutti, ma comunque di alto livello, secondo la cultura italiana, ma non solo (Real Madrid, PSG, eccetera) si dovrebbe chiamare un gestore. Ancelotti, Allegri o altri. Invece lo United ha preso la via di chi ha valorizzato, anche se non proprio formato (all&rsquo;Ajax &egrave; da 2017) i vari De Ligt, Van de Beek e De Jong, lavorando sotto e con Overmars, poi cacciato e riciclatosi all&rsquo;Anversa. Insomma, una scelta di rottura ma anche in linea con la strada presa con Rangnick, una scelta che non &egrave; detto che paghi in un ambiente dove dopo Ferguson hanno fallito pesi massimi come Van Gaal e Mourinho, pesi medi come Moyes e uomini del club come Solskjaer, senza contare Giggs e Carrick. Per&ograve; la filosofia rimane interessante e segno che qualcosa sta cambiando: il tifoso del grande club, anche del grande club che non vince da tanto, chiede un'idea, un qualcosa in cui identificarsi, e non il risultato fine a se stesso. Non &egrave; un discorso tattico, perch&eacute; lo stesso progetto pu&ograve; essere portato avanti da Guardiola come da Mourinho.&nbsp; La designazione di Simone Sozza per arbitrare Inter-Roma ha destato perplessit&agrave; in molti tifosi giallorossi, oltre che di Milan e Napoli, perch&eacute; il giovane arbitro appartiene alla sezione di Seregno ma &egrave; comunque nato a Milano. In altre parole, secondo questo ragionamento, tenderebbe a simpatizzare per una squadra milanese e non per una squadra romana. Fra l&rsquo;altro in questa stagione c&rsquo;&egrave; un precedente cugino di Inter-Roma e cio&egrave; il Milan-Lazio di Coppa Italia del 9 febbraio, quarto di finale che i rossoneri vinsero 4-0 senza, per fortuna di Sozza, alcun episodio dubbio. Quello del tifo degli arbitri &egrave; un tab&ugrave; anche giornalistico, ma senz&rsquo;altro non pu&ograve; essere legato al luogo di nascita o di residenza, perch&eacute; Inter, Milan e Juventus sono geograficamente trasversali. Uno di Milano, o di Seregno, pu&ograve; essere indifferentemente interista, anti-interista, o addirittura equilibrato. Certo i vertici arbitrali, nel caso specifico Rocchi, senza bisogno di fascicoli segreti conoscono bene la storia di ognuno. I tifosi della Lazio contro Lotito. Quante volte sar&agrave; successo negli ultimi 18 anni? Forse &egrave; il titolo statisticamente pi&ugrave; presente sui giornali sportivi. Per Lazio-Milan ci si aspetta un Olimpico mezzo vuoto e comunque con prevalenza di tifo milanista, a causa del rincaro dei prezzi dei biglietti deciso dal presidente della Lazio, ad esempio con un biglietto di curva portato a 40 euro. Argomento ad alto rischio demagogia, perch&eacute; sono ben pochi i concerti a cui oggi si pu&ograve; andare con meno di 40 euro, per non parlare dei ristoranti e di altre situazioni non di prima necessit&agrave; (come il calcio, bisogna dire), e dall&rsquo;altro lato far tornare i conti per una singola partita significa magari avere danni di immagine nel lungo periodo. Zlatan Ibrahimovic pu&ograve; ancora essere utile al Milan? Evitiamo confronti fra un quarantunenne sempre infortunato che non vuole che si spengano le luci della ribalta e l&rsquo;Ibrahimovic che &egrave; stato fra i pi&ugrave; grandi attaccanti dell&rsquo;ultimo ventennio, parliamo soltanto del Milan. Che all&rsquo;inizio del 2020 riusc&igrave; a farlo tornare grazie ad un&rsquo;intuizione di Boban e Maldini, che da ex grandi calciatori sapevano benissimo quanto un grande, anche del passato, pu&ograve; trascinare la classe media e medio-bassa. E cos&igrave; &egrave; stato, perch&eacute; nel Milan che sta lottando per lo scudetto l&rsquo;importanza di Ibrahimovic non va misurata con le statistiche ma con il cambio di status che ha dato ad un ambiente depresso almeno dal 2012 (cio&egrave; da quando fu ceduto Ibrahimovic al PSG, insieme a Thiago Silva). Poi bravo Pioli e tutto il resto, ma senza l&rsquo;icona Ibrahimovic il Milan sarebbe molto pi&ugrave; in basso. Da dirigente pseudo-motivatore non sarebbe la stessa cosa. La lotta fra la UEFA e la Superlega &egrave; surreale, al di l&agrave; del fatto che il tribunale di Madrid abbia ribaltato la prima sentenza e che quindi adesso, in sostanza, Ceferin possa infliggere sanzioni a Juventus, Real Madrid e Barcellona, cio&egrave; i 3 club che ancora ci credono, con altri furbamente (per non dire vilmente) alla finestra. La lotta &egrave; surreale perch&eacute; la Superlega non esiste, di fatto &egrave; diventata una lobby di grandi club che chiedono 100 per ottenere 60 (la Champions League dopo il 2024 assomiglia moltissimo alla Superlega, dai 2 posti inventati con il ranking storico al resto), e tutti la citano come il male assoluto quando il male &egrave; gi&agrave; qui, fra di noi, adesso. La UEFA sta perseguendo quello che allo stato attuale &egrave; un reato di opinione, ed andr&agrave; probabilmente a sbattere contro l&rsquo;Unione Europea fra un paio di mesi. La Superlega non si far&agrave;, ma almeno la si potr&agrave; minacciare.       

La scelta del Manchester United, l'arbitro di Inter-Roma, laziali contro Lotito, l'importanza di Ibrahimovic giocatore e la punizione ai superleghisti.&nbsp;

Cosa vuol dire Ten Hag

        Il relativo suicidio del Napoli, relativo per i meriti della Fiorentina e suicidio perch&eacute; questa per Spalletti era la stagione da ora o mai pi&ugrave;, quasi un ultimo treno per la sua carriera, ha emesso l&rsquo;ennesima sentenza definitiva, super-definitiva, da smentire magari fra pochi giorni: e cio&egrave; che lo scudetto sembra un affare per Milan e Inter. La squadra di Pioli nella sua versione spenta ha pareggiato sul campo del Torino, che contro le grandi ha quasi sempre giocato bene, e quella di Inzaghi ha contro il Verona trovato una partita almeno come spirito degna dei mesi in cui volava. Il Napoli non &egrave; riuscito a sfruttare la forma di un Osimhen stellare, con i viola ha rivissuto l'incubo di 4 anni fa (lo scudetto di Sarri perso in albergo), e adesso si trova a dipendere dalle eventuali disgrazie degli altri. Milan e Inter sono invece senza attaccanti in forma, e devono per forza cambiare pelle rispetto alle loro migliori versioni: difficile dire, se non per i punti di vantaggio (nel caso nerazzurro punti virtuali), cosa abbiano pi&ugrave; del Napoli o addirittura della Juventus, che in fondo &egrave; adesso a 6 punti dal Milan ed ha un passo da scudetto. I discorsi sono i soliti, su tutti quello che l&rsquo;impegno delle squadre senza pi&ugrave; obbiettivi far&agrave; la differenza anche pi&ugrave; che nel passato, perch&eacute; Milan, Inter e Napoli sono da tempo in calando e possono soffrire anche contro squadre inferiori. Ha sempre funzionato cos&igrave;? Un buon motivo per smarcarsi dal passato, con playoff o incentivi veri per chi sta a centro classifica.&nbsp; Con la tripletta al Genoa il quattordicesimo posto nella classifica marcatori di Serie A di tutti i tempi &egrave; diventato di Ciro Immobile, con 179 gol di cui 147 con la maglia della Lazio. Superato quindi Boniperti, cosa meno importante (perch&eacute; ai tempi di Boniperti gli attaccanti subivano ogni sorta di intimidazione, in trasferta erano quasi eroi) di aver superato lo shock da eliminazione mondiale, con Immobile fra i principali imputati per chi pensa che l&rsquo;Italia di Mancini abbia un gioco strepitoso ma le manchino soltanto gli attaccanti. Stiamo parlando di una nazionale che ha perso s&igrave; con la Macedonia, ma dopo non essere riuscita a battere Svizzera, Bulgaria e Irlanda del Nord. Come sempre avviene in questi casi, critica e pubblico se la prendono con i pochi decenti invece che con i tanti indecenti. Per quanto riguarda i numeri, invece, la media gol a partita di Immobile &egrave; inferiore soltanto a quella di Nordahl. Certo il trentaduenne Immobile rimarr&agrave; con un solo Mondiale giocato (Nordhal nemmeno quello, per colpa della federazione svedese che nel 1950 non volle in nazionale i professionisti), ma il processo agli ultimi 9 mesi di Nazionale deve ancora essere fatto. E l&rsquo;imputato non pu&ograve; essere Immobile. In coda perdono tutte, con gradi di colpa diversi. Il Cagliari contro la Juventus ha trovato, pur giocando bene, la quinta sconfitta consecutiva, ma il Venezia beffato dall&rsquo;Udinese ed il crollo del Genoa contro la Lazio permettono a Mazzarri, con tre punti di vantaggio proprio su Venezia e Genoa, di dipendere soltanto dal rendimento della propria squadra: che dopo il Sassuolo avr&agrave; Genoa, Verona, Salernitana, Inter e Venezia. Come a dire: due squadre demotivate ma forti come Sassuolo e Verona, le tre che lottano per spedire il Cagliari in B e l&rsquo;Inter in corsa per lo scudetto. Il Genoa ha uno scontro diretto solo, quello appunto con il Cagliari, ma anche Milan, Juventus e Napoli e la Sampdoria non ancora salva. Per Blessin l&rsquo;unica partita contro un&rsquo;avversaria senza obbiettivi sar&agrave; l&rsquo;ultima, contro il Bologna, che per&ograve; se ha tolto punti al Milan pu&ograve; farlo anche con il Genoa. Il Venezia invece deve affrontare Fiorentina, Atalanta, il recupero con la Salernitana, Juventus, Bologna, Roma e all&rsquo;ultima giornata il Cagliari in casa, in una partita che potrebbe essere sportivamente drammatica. Quando ci sono obbiettivi il calcio &egrave; sempre interessante, non occorre Manchester City-Liverpool. Ha fatto molto discutere la classifica di Forbes sui pi&ugrave; ricchi azionisti di maggioranza dei club, anche se &egrave; una classifica da asteriscare perch&eacute; non tiene conto di chi ha dietro interi stati, come nel caso di Manchester City e PSG. Senza stare a copiarla, passiamo subito ad una banale considerazione: avere tanti soldi non significa vollerli bruciare nel calcio. Se no l&rsquo;Oviedo di Carlos Slim sarebbe il club pi&ugrave; ricco del pianeta, e il Rennes di Pinault giocherebbe per vincere la Champions League, cos&igrave; come il Lipsia del signor Red Bull. I pi&ugrave; ricchi dei proprietari di squadre italiane sono gli indonesiani Hartono, del Como, mentre il pi&ugrave; ricco della Serie A &egrave; Rocco Commisso, che in effetti nei suoi due anni e mezzo alla Fiorentina di soldi ne ha messi. Ma certo &egrave; che i proprietari-tifosi sono sempre di meno, con tutto ci&ograve; che di male ne consegue in termini di garanzie e di controllo sociale. L&rsquo;esclusione del Catania dalla Serie C, dopo il fallimento dichiarato dal tribunale lo scorso dicembre e questi mesi di esercizio provvisorio alla ricerca di acquirenti, &egrave; una delle tante pagine nere di questa categoria ormai priva di senso, al di l&agrave; dei discorsi sulla sostenibilit&agrave; che potrebbero finire subito, contando le decine di club scomparsi e le innumerevoli penalizzazioni degli ultimi anni. Non dipende dall&rsquo;avere 60 squadre invece di 40 o 80, ma dalla filosofia che si vuole dare alla C. Calcio di provincia ancorato al territorio (come direbbe la realt&agrave;), palestra per i giovani (come direbbero i contributi federali per l&rsquo;utilizzo degli Under 23, che hanno creato alcuni mostri), area di parcheggio per giocatori controllati dai grandi club (ma dopo tanto parlare si &egrave; presentata soltanto la Juventus), succursale di realt&agrave; pi&ugrave; ricche (come direbbero alcune regole, come quella sui giocatori &lsquo;temporanei&rsquo;)? Nel mondo del 2022 il professionismo assistito non pu&ograve; esistere. E comunque il Catania poteva essere cancellato anche fra un mese, visto che la sua agonia si trascina da anni.&nbsp;       

L'occasione di Spalletti, il processo a Immobile, le sconfitte in coda, i soldi di Commisso e la Serie C senza il Catania.

L'ultimo albergo del Napoli

        Il 2 novembre del 2003 allo Stadio Dall&rsquo;Ara si affrontano il Bologna di Mazzone e la Sampdoria di Novellino. Le due formazioni arrivano alla sfida in una situazione di classifica simile, non idilliaca per entrambe, e sono alla ricerca di qualche punto per risollevarsi. I padroni di casa, gi&agrave; orfani di Mazzone in panchina perch&eacute; squalificato, devono fare i conti anche con la defezione del capitano e bomber Beppe Signori, fermo per infortunio. Dall&rsquo;altro lato invece mister Novellino pu&ograve; contare sulla rosa al completo con Flachi che vince il ballottaggio con Marazzina.  La punizione di Doni che decide il match Sono i doriani a fare la partita, i liguri giocano meglio sfruttando il dinamismo sulle fasce di Diana, Doni e Bettarini e le geometrie di Volpi in mezzo al campo. Il Bologna, privo anche di Locatelli, conferma di non essere in un gran momento di forma e concede ad Antonioli un primo tempo di assoluto riposo. La squadra bolognese sembra ancora non aver digerito i dettami di Mazzone e fatica non poco in mezzo al campo. Al 33&rsquo; arriva il vantaggio degli ospiti, proprio dai piedi di uno dei migliori in campo, Cristiano Doni, in questo frangente aiutato anche dalla fortuna: il centrocampista calcia una punizione dai 25 metri che, deviata dalla barriera, inganna Pagliuca e si insacca in rete.  Bologna frastornato, Samp corsara I rossobl&ugrave;, incapaci di rimettersi in carreggiata, subiscono le sortite offensive dei genovesi, riuscendo per&ograve; in pi&ugrave; di un&rsquo;occasione a evitare il raddoppio. Il Dall'Ara non gradisce e fischia un Bologna privo di idee, a cui il forfait di Signori ha dato forse il colpo di grazia. Al 25&rsquo; della ripresa Pagliuca devia in angolo una conclusione del neo-entrato Zenoni;in campo sembra esserci solo la Samp, che meriterebbe forse qualcosa in pi&ugrave;. A un quarto d&rsquo;ora dal termine invece i liguri rischiano addirittura di incassare il pari: una bella azione Tare-Rossini-Dalla Bona porta l&rsquo;ex milanista a concludere su Antonioli che in uscita disperata salva il risultato. Alla fine basta il gol di Doni, che risolleva le sorti dei suoi e affonda un Bologna in crisi di idee e risultati. Ad oggi quel Bologna-Sampdoria 0-1 del 2 novembre 2003 resta l&rsquo;ultimo successo doriano al Dall&rsquo;Ara in campionato.  Bologna-Sampdoria 0-1 del 2 novembre 2003: il tabellino  BOLOGNA(4-2-3-1):&nbsp;Pagliuca; Zaccardo (13' pt Guly), Natali, Juarez, Moretti; Nervo (16' st Troise), Dalla Bona, Colucci; Pecchia (1' st Tare); Rossini, Bellucci. A disp.: Manninger, Amoroso, Gamberini, Loviso. All.: Scarafoni (Mazzone squalificato). SAMPDORIA(4-4-2):&nbsp;Antonioli; Sacchetti, Falcone, Carrozzieri, Bettarini; Diana (19' st C.Zenoni), Volpi, Donati (45' st Palombo), Doni; Flachi (12' st Marazzina) Bazzani. A disp.: Turci, Yanagisawa, M.Conte, Antonini. All.: Novellino. ARBITRO:&nbsp;Farina (Novi Ligure). MARCATORE:&nbsp;Doni al 33' pt. &nbsp;       

Era il 2 novembre 2003, quando la squadra di Novellino sconfisse quella di Mazzone grazie a una punizione di Doni deviata dalla barriera

Bologna-Sampdoria 0-1 2003-04, l’ultima vittoria doriana al Dall’Ara

        Di corto muso l&rsquo;Inter &egrave; uscita viva dalla trasferta sul campo della Juventus, anzi &egrave; tornata in vita dopo due mesi di occasioni perse e di calo fisico. Lo dice il risultato e lo dice l&rsquo;intensit&agrave; feroce con cui la squadra di Simone Inzaghi ha difeso il rigore di Calhanoglu, di fatto l&rsquo;unico tiro nerazzurro verso la porta di Szczesny. Non lo dice certo il gioco contro la migliore e pi&ugrave; aggressiva Juventus finora vista nella seconda incarnazione bianconera di Allegri, fra l'altro con il miglior Rabiot. Una Juventus che ha dominato il primo tempo, mentre nel secondo le situazioni di super-agonismo hanno preso il sopravvento, per non parlare dei mille episodi da moviola. Per la Juventus la prima sconfitta dopo 16 partite di campionato, l&rsquo;uscita definitiva dalla lotta scudetto ma anche un messaggio per il futuro, insieme ai rimpianti per una stagione buttata: essendo l&rsquo;unica realt&agrave; italiana con un azionista che metta di continuo soldi veri, il messaggio &egrave; che la ricreazione &egrave; finita. Quanto all&rsquo;Inter, che comunque ha dimostrato di crederci ancora, e non &egrave; poco, essere a 3 punti dal Milan, 3 punti veri visto che ad entrambe manca di giocare con il Bologna, e dal Napoli &egrave; una grande notizia in mezzo a diversi problemi, primo fra tutti le punte ai minimi termini.&nbsp; Il pallino dello scudetto sembra comunque in mano al Milan ma il Napoli vincendo 3-1 sul campo dell&rsquo;Atalanta ha detto diverse cose: la principale &egrave; che Spalletti ha saputo in questo momento della stagione cambiare un po&rsquo; faccia a seconda delle circostanze, giocando un calcio che una volta avremmo definito all&rsquo;italiana. Difesa e contropiede, che nel linguaggio del 2022 diventano attenzione alla fase difensiva e ripartenze, oltretutto senza Osimhen anche se con un Insigne extralusso. L&rsquo;Atalanta tradita dai suoi giocatori offensivi (Muriel impreciso, Malinovsky e Boga raramente cos&igrave; male) saluta definitivamente la zona Champions League ma forse non le speranze di un posto al sole, visto che ci potrebbe arrivare conquistando l&rsquo;Europa League. Anche se in vista del quarto di finale contro il Lipsia sta perdendo i pezzi&hellip; Da probabile esonerato a possibile allenatore dell&rsquo;anno in pochi pi&ugrave; di tre mesi: il calcio &egrave; questo e la stagione di Thiago Motta allo Spezia &egrave; stata questa. Senza l&rsquo;impresa con il Napoli poco prima di Natale l&rsquo;italo-brasiliano sarebbe stato sostituito, contatti erano gi&agrave; stati presi con Giampaolo e Maran. Adesso &egrave; invece quasi salvo, fra l&rsquo;altro battendo quasi tutte le squadre di bassa classifica: Genoa, Sampdoria, Cagliari e sabato il Venezia, con l&rsquo;ennesima partita in cui tutti hanno dato il 100%, che poi sarebbe il principale criterio per giudicare un allenatore. A proposito: lo Spezia di Thiago Motta &egrave; simile a quello di Italiano come numeri, ma certo non nel gioco (&egrave; molto pi&ugrave; difensivo) e nella distanza dalla zona pericolo, che adesso &egrave; molto maggiore. Insomma, per quello che sta facendo, che ha cancellato le poche partite al Genoa, e soprattutto per il suo passato internazionale da calciatore, il nemmeno quarantenne Thiago Motta ha il physique du r&ocirc;le per una grande panchina. Fra le tante situazioni della zona retrocessione quella pi&ugrave; clamorosa &egrave; il suicidio del Cagliari, che in teoria oggi potrebbe essere raggiunto dal Genoa al terzultimo posto. Quella contro l&rsquo;Udinese &egrave; stata la quarta sconfitta consecutiva per la squadra di Mazzarri, ma al di l&agrave; dei numeri (fra queste quattro anche le partite con Lazio e Milan) il tracollo con l&rsquo;Udinese &egrave; pesantissimo per una squadra che inizio anno aveva cambiato marcia e che forse si &egrave; creduta salva troppo presto. Soltanto Cragno e Jo&atilde;o Pedro, di rientro dalla Nazionale, hanno dato segnali di vita, mentre Lovato &egrave; stato travolto da Beto. Ma l&rsquo;ultima giornata preoccupa meno delle prossime sette, in cui il Cagliari ha soltanto due partite contro squadre senza bava alla bocca, Sassuolo e Verona, che comunque lo possono battere. Il resto? Juventus, Inter e le tre dirette concorrenti, Genoa, Salernitana ed il Venezia proprio alla fine. Un club con un organico da centro-classifica sta quindi rischiando davvero tanto. L&rsquo;attualit&agrave; del calcio tritura tutto, ma non deve far dimenticare Silvio Longobucco, il terzino di Ternana, Juventus e Cagliari che &egrave; stato un&rsquo;icona degli anni Settanta e che gioc&ograve; anche una finale di Coppa dei Campioni, quella del 1973 persa a Belgrado dalla Juventus contro l&rsquo;Ajax di Cruijff e Neeskens: il gol decisivo fu segnato da Rep al 5&rsquo;, un colpo di testa in anticipo proprio su Longobucco che peraltro poi disput&ograve; una buona partita. In bianconero tre scudetti, una partenza non voluta (dopo le polemiche per il famoso pugno a Gorin) e una cosa che le statistiche non dicono: l&rsquo;identificazione che lui, calabrese, faceva scattare in una parte del pubblico, mentre altri giocatori rappresentavano altre parti d&rsquo;Italia. La differenza con il calcio di oggi &egrave; evidente: si giocava peggio, anche a causa di regole diverse e altri fattori, ma chi giocava rimaneva di pi&ugrave; nell&rsquo;immaginario collettivo. Un concetto sintetizzato bene da Longobucco, bravo professionista, pi&ugrave; che dai campioni celebrati.       

La migliore Juventus, il Napoli all'italiana, l'anno di Thiago Motta, il tracollo di Mazzarri ed il significato di Longobucco.&nbsp;

Inter di corto muso

        Paulo Dybala e la Juventus si separano dopo sette anni, anche se in teoria non sarebbe detta l&rsquo;ultima parola. Per la verit&agrave; il club bianconero non ha detto alcuna parola, nel senso che non ha fatto all&rsquo;argentino alcuna offerta, nemmeno al ribasso: e pensare che lo scorso ottobre l&rsquo;accordo per il prolungamento era stato raggiunto, con firma rimandata soltanto per un problema amministrativo dell&rsquo;agente di Dybala, poi risolto in gennaio. &Egrave; chiaro, come ha detto Arrivabene, che Vlahovic ha cambiato lo scenario, ma questo non toglie che Dybala sia il calciatore pi&ugrave; amato della Juventus, fra i pi&ugrave; spendibili a livello di marketing, oltre che un giocatore che da sano &egrave; (era?) fra i migliori del mondo nel suo ruolo. Di pi&ugrave;: &egrave; un giocatore di Allegri e da Allegri, non a caso la Juventus tent&ograve; di cederlo nell&rsquo;estate 2019, appena dopo l&rsquo;esonero di Allegri, con lo scambio Dybala-Lukaku con il Manchester United che salt&ograve; soltanto per volont&agrave; di Dybala. Le infinite sliding doors del calcio: con il Lukaku 2019 alla Juventus, anche alla Juventus allenata da Pirlo, la striscia vincente di scudetti sarebbe adesso a 10 e Paratici sarebbe ancora sul ponte di comando evitandosi errori di mercato e figure come quella dell&rsquo;esame di Suarez a Perugia. Poi se Dybala non si chiamasse Dybala saremmo qui a dire che si tratta di un giocatore di quasi 29 anni, con un ingaggio altissimo ed un ruolo che tatticamente condiziona troppo, per non parlare della serie di piccoli infortuni che ormai quasi regolarmente lo mette fuori dai giochi nella fase decisiva della stagione, cio&egrave; quella della fase ad eliminazione diretta della Champions. Insomma, la Juventus ha fatto la sua scelta, in un divorzio tutt'altro che consensuale. L&rsquo;aspetto originale di tutta la vicenda &egrave; che, diversamente da mille casi analoghi, in questo caso non pu&ograve; funzionare lo schema mediatico del &lsquo;traditore&rsquo;. I tifosi, della Juventus e di tutte le altre squadre, ci pensino quando un calciatore penser&agrave; soltanto ai suoi interessi.&nbsp; Roberto Mancini sostiene di non avere un piano B, nel senso che nemmeno vuole pensare ad un&rsquo;Italia fuori dal Mondiale. Per&ograve; potrebbe anche essere che gli azzurri la qualificazione non se la giochino contro il Portogallo, che contro la Turchia sar&agrave; senza tre quarti della difesa titolare. Discorsi prematuri, mentre drammaticamente attuale &egrave; quello di Paolo Nicolato sui giovani della Serie A. Nella massima categioria ci sono infatti 2,7 giocatori italiani convocabili per l&rsquo;Under 21, e quasi sempre sono ai margini della rosa, visto che sono in campo soltanto per il 4% dei minuti disponibili. La soluzione immediata, praticata dal c.t. dell&rsquo;Under 21, &egrave; quella di pescare in B, ma in alcuni ruoli, in particolare in attacco, la situazione &egrave; drammatica, avendo nel giro soltanto due di Serie A (Cancellieri e Yeboah) e certo non da protagonisti. La triste ideologia del &lsquo;Tanto peggio tanto meglio&rsquo; direbbe che l&rsquo;Italia di Mancini fuori dai Mondiali farebbe riflettere su ci&ograve; che c&rsquo;&egrave; dietro, ma se questo non &egrave; accaduto quattro anni fa non si capisce perch&eacute; dovrebbe avvenire adesso. La riluttanza a lanciare i giovani italiani &egrave; figlia di varie situazioni, prima fra tutte che quasi nessun allenatore pu&ograve; davvero lavorare per il futuro, nemmeno quelli di squadre da centroclassifica. Interessante a questo proposito &egrave; la statistica del CIES sulla permanenza media in panchina nei campionati di tutto il mondo: si va dai 772 giorni della Premier League ai 384 della Serie A, parlando di tornei top, passando dai 628 di Bundesliga, i 617 della Liga e i 385 della Ligue 1. Ma ovviamente dietro a questa crisi di vocazioni e di utilizzo c'&egrave; anche molto altro, non solo allenatori sull'orlo dell'esonero.&nbsp; Quale futuro per Maurizio Sarri? Il derby straperso, anche per qualche episodio girato male (il rigore su Milinkovic non fischiato, per dirne uno), &egrave; l&rsquo;occasione per un bilancio. Che &egrave; piuttosto semplice, andando oltre le statistiche: una Lazio gestita alla Lotito, ma viene da dire anche alla Tare, con occasioni ed opportunit&agrave; che vengono colte al momento, non pu&ograve; essere il progetto che Sarri pretende e che probabilmente gli era stato anche promesso, se si pensa ai discorsi (fatti da Lotito...) sul prolungamento praticamente a vita del contratto. Senza contare il fatto che nel 2022 le &lsquo;opportunit&agrave;&rsquo; sembrano tutte in uscita, fra mancati rinnovi come Luiz Felipe e cessioni quasi obbligate come Milinkovic e Luis Alberto. &nbsp;       

Lo scenario cambiato da Vlahovic, la denuncia di Nicolato e il futuro di Sarri

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