Nela, cuore Roma, dolci ricordi napoletani

Nela, cuore Roma, dolci ricordi napoletani

Fu acquistato nel 1981 quando aveva solo 20 anni: «L’annuncio del Genoa mi colse di sorpresa, eravamo appena stati promossi Ho vinto lo scudetto e tre Coppe Italia. Sempre orgoglioso del mio passato»

Lorenzo Scalia/Edipress

23.12.2023 ( Aggiornata il 23.12.2023 16:01 )

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Sebino Nela aveva una caratteristica speciale: da difensore sapeva fare tutto anche se era nato centrocampista. Un jolly vero. «A 22 anni ero già un calciatore completo», ricorda con il sorriso di chi sa fare con disinvoltura l’occhiolino al passato. Liedholm diceva di lui: «Può giocare a destra, a sinistra, al centro, persino in tribuna se non gli piace una posizione di queste…». In realtà il Barone non ci ha mai rinunciato a Nela, che oltre alle doti tecniche era accompagnato da un fisico possente (tanto da essere soprannominato l’Incredibile Hulk) e da un agonismo che ha fatto innamorare i tifosi prima della Roma e poi del Napoli, le uniche due squadre dove ha giocato dopo aver lasciato la casa madre del Genoa. La sua carriera prende la corsia di sorpasso dell’A1 nel 1981: Nela sbarca a Roma in cambio di tre miliardi e mezzo in contanti più la comproprietà di Iachini, Romano e Capezzuoli. Un’enormità per un 20enne. Alla fine di quella finestra di mercato fu il giocatore più pagato in Italia. Entra subito nel cuore dei tifosi che cominciano a osannarlo con il coro “Picchia Sebino” per le sue entrate al limite però sempre confinate dentro il recinto della sportività. È amore totale tra la Curva Sud e Nela. In giallorosso ci passa undici stagioni, vince lo scudetto, gioca due finali europee e alza tre Coppe Italia. Si rompe il ginocchio in mille pezzi e rinasce. Diventa leggenda anche per un dito medio mostrato all’allenatore del Dundee, reo di aver insultato i suoi compagni. Poi va a finire la carriera al Napoli, ci resta due anni. Era stato chiamato da Ottavio Bianchi per rimettere in piedi una stagione iniziata male ma finita con una salvezza tranquilla.

 

Nela, come è nata la firma con la Roma?
«Dal nulla. Non sapevo niente. All’epoca funzionava in maniera diversa: mi ha chiamato il presidente del Genoa e mi ha detto che ero stato venduto. Fine. Valigie e sono andato via». 

Non se l’aspettava? 
«No, credevo di restare dopo la promozione dalla Serie B». 

Il primo impatto con la Città Eterna? 
«Notevole. Roma era ed è la bella del mondo, non solo per il suo patrimonio artistico. Negli Anni 80 si viveva veramente bene, non c’era traffico e la gente era più simpatica. Mica come oggi che sono tutti incazzati». 

Roma l’ha adottata… 
«Direi proprio di sì. Ancora oggi vivo all’Eur».  

 

Come era lo spogliatoio? 
«Per un ragazzo che veniva dal Genoa incredibile perché dentro c’erano Bruno Conti, Pruzzo e Turone, i miei idoli». 

 

Come si spiega il rapporto d’amore con i tifosi? 
«Sapevo cosa era il senso di appartenenza, in giallorosso l’ho sviluppato. In campo, al di là delle doti tecniche che Liedholm ha potenziato, ero un generoso. I tifosi non sono stupidi e se ne sono accorti. Ero orgoglioso di indossare la maglia della Roma…». 

Parla di orgoglio… 
«Sì, perché a me piace stare dalla parte dei più deboli. La Roma non è mai stata l’Inter, il Milan o la Juve, ma la sentivo mia, anche e soprattutto quando mi chiamavano terrone in giro per gli stadi del nord». 

Come riassume le 11 stagioni a Roma?
«Facile dire con lo scudetto. Io preferisco ricordare l’Olimpico pieno, sempre e comunque. Oggi con Mourinho si grida al miracolo, ma in quel periodo era la normalità avere lo stadio sold out».  

 

Rimpianti? 
«Potevamo vincere di più ma alla fine è stata un’avventura bellissima. Zero rimpianti. È vero, abbiamo perso la finale di Coppa Campioni ai rigori contro un Liverpool mostruoso, ma l’unica ferita aperta è la partita contro il Lecce del 1986. Quel titolo era nostro». 

 
L’anno dopo si infortunò gravemente al ginocchio. Ebbe paura di smettere? 
«Tantissima. I medici dicevano che non ce l’avrei fatta. Sono stato fuori quasi un anno ma ho lavorato duro tranne il giorno di Natale. Sono tornato ma perdendo almeno il 20 per cento del mio potenziale». 

 

Venditti le dedicò il brano “Correndo Correndo”. 
«Ero in ritiro in Toscana con la Roma con le stampelle, mi vennero a chiamare in camera, mi dissero di scendere perché c’era Venditti. Nella hall dell’albergo c’era un pianoforte e lui si è messo a suonare e mi ha fatto sentire la canzone che mi aveva scritto. Fu una cosa bella, molto emozionante. E ci tengo ad aggiungere una cosa». 

Dica. 
«La ascolto tutti i giorni almeno una volta. Mi dà la carica per affrontare la vita».  

Dopo la Roma, la parentesi finale a Napoli. 
«Non volevo andare via, avrei voluto chiudere la carriera a Roma. Ma questioni interne, adesso ampiamente risolte, mi hanno portato a Napoli, dove era stato chiamato Bianchi al posto di Ranieri». 

Due anni intensi. 
«La squadra era forte ma rischiava di retrocedere. Alla fine ci salvammo bene e l’anno dopo andò meglio». 

Come si trovò? 
«Alla grande. Perché a Napoli come a Roma si vive di calcio e per il calcio». 

La prima da ex se la ricorda? 
«Mi ha fatto molto strano. Però lo spettacolo sia al San Paolo che all’Olimpico era unico. Le tifoserie poi erano amiche». 

Genova, Roma e Napoli: la sua vita… 
«In comune hanno il mare e il calore della gente. Sono felice di cosa ho fatto. Mi sento fortunato». 

Roma-Napoli all’Olimpico. Mourinho contro Mazzarri.
«Non la perdo. Ma non tiferò né per l’una né per l’altra. Forse è deformazione professionale, ma io guardo le partite per il gusto di guardarle. Un po’ come quando giocavo per il gusto di giocare».

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