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Arrivò nella diffidenza e si rivelò come uno dei migliori stranieri del decennio. Si affermò in Irpinia, stupì in Friuli, lo voleva Ferlaino per metterlo vicino a Maradona ma non se ne fece nulla
Sotto i riccioli a ombrello di Gerónimo Barbadillo c'erano polmoni andini e piedi da funambolo, ma non inteso come dribblomane fine a se stesso; altrimenti, non avrebbe potuto battersi in quei meandri di classifica dove si mangia il pane scuro del rischio, nella Serie A della prima metà degli Anni Ottanta.
Quando lo vedemmo arrivare nel nostro calcio, era come se già lo conoscessimo, perché lo avevamo visto alla Coppa del Mondo del 1982, maglia bianca con banda rossa trasversale, con la Nazionale peruviana, con la quale lui aveva già vinto una Copa America e contro la quale noi pareggiammo nel girone iniziale, con un gol memorabile di Bruno Conti. Qualche settimana prima, era già stato una nostra figurina dell'Album Panini dedicato al Mondiale spagnolo, con l'acconciatura che lo faceva sembrare uno dei "The Jackson 5" e il nome di confine tra esotismo sudamericano e vocali acconciate all'italiana.
Gerónimo Barbadillo, da Lima con furore agonistico e dribbling reiterati; nato nella capitale peruviana il 24 settembre del 1954, che quando arrivò ad Avellino sembrava un oggetto misterioso, uno dei tanto bizzarri acquisti dei presidenti di provincia dopo la riapertura delle frontiere. In realtà, aveva già alle spalle una carriera si tutto rispetto in Centro e Sud America, perché dopo gli inizi con gli Sport Boys e la stagione con l'Atlético Defensor Lima, dal 1975 al 1982 aveva vestito la casacca del Tigres, in Messico, vincendo due campionati e una coppa nazionale, ma soprattutto impattando nella storia del club al punto tale che, quando venne formalizzata la sua cessione agli irpini, il Tigres ritirò la maglia numero sette.
Una volta in Italia, ci mise poco a far vedere che tutto era tranne che un bluff; che per prenderlo bisognava intercettarlo in partenza, sulla fascia di competenza, perché se gli si concedeva qualche passo di vantaggio poi non lo si acciuffava più. All'occorrenza, poi, faceva anche gol.
Tre stagioni di grande Serie A, in un Avellino memorabile, quando lo Stadio "Partenio" era la tana dei Lupi dell'Irpinia e nei collegamenti di "Novantesimo minuto" il clamore dei tifosi che ancora non erano usciti dallo stadio avvolgeva la postazione della tribuna stampa.
Dopo che presidenti del calibro di Viola e Ferlaino si interessano a lui, nell'estate del 1985 accetta l'offerta dell'Udinese, dalla quale è appena venuto via Zico. Disputa una pur stagione decorosa, in Friuli, per poi finire fuori rosa poco dopo l'inizio del campionato successivo, sia perché a Udine arriva Daniel Bertoni, sia perché gli screzi con il Presidente Pozzo erano iniziati quando Barbadillo si era accordato con il Napoli, per andare a giocare al fianco di Maradona, ma l'Udinese aveva preteso troppi soldi per il suo cartellino.
In Friuli c'è però rimasto a vivere, perché si era trovato bene e poi perché ha avuto la felice intuizione di investire nel business della ristorazione, come gestore di pizzerie. Al calcio ci è tornato appena ha potuto, però, come osservatore dell'Udinese e poi come talent scout in proprio.
In Perù lo chiamavano "El Patrulla" per la somiglianza con l'attore Clarence Edwards III, il protagonista della serie tv "Patrulla Juvenil", un agente di polizia con i capelli voluminosi che inseguiva i ladri a gran velocità, molto popolare negli anni Settanta in Sudamerica.
In Italia, anche per la concomitanza col noto spot di un dolce a base di cioccolata, divenne Tartufòn. A dargli il benvenuto nel nostro Paese fu in ogni caso la "diagnosi" del presidente dell'Avellino, il discusso e vulcanico Sibilia, che quando lo vide gli disse - Cumpà, tieni e' gambe storte ma va bbene ppe' fa e dribbling. Ci sta sul nu' problema: te aià taglià e' capill' -.
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