        In Italia non si era ancora visto nulla del genere: e non perch&eacute; avesse segnato nel primo derby in cui metteva piede. Non si era mai visto un giocatore che poteva essere trequartista, mezz'ala e punta tutto assieme a una velocit&agrave; doppia rispetto agli avversari. Gol di testa al primo derby, non sarebbe stato il primo per Ricardo Izecson dos Santos Leite, alias Kak&agrave;, il 5 ottobre del 2003: Inter-Milan 1-3 e i rossoneri scoprirono di avere tra le mani qualcosa di speciale. Kak&agrave; e quel nomignolo... Quell'Inter-Milan &egrave; la prima stracittadina dopo la semifinale di Champions League di cinque mesi prima, quando i rossoneri erano riusciti a spuntarla per via del gol in trasferta. L'occasione &egrave; propizia per l'Inter per provare a prendersi una bella rivincita, mentre il Milan cerca di mantenere una certa continuit&agrave; ed &egrave; ancora imbattuto in stagione. Ha operato un mercato molto conservativo, in teoria, il Diavolo: Cafu e Pancaro sono i due nuovi terzini, presi da Roma e Lazio a costo zero, mentre la novit&agrave; &egrave; un 21enne brasiliano proveniente dal San Paolo, figlio di una famiglia benestante e acquistato per 8 milioni di euro appena. Ha vinto il Mondiale nel 2002, ma da comprimario, disputando uno spezzone di partita contro il Costarica: comunque, era l&igrave;. Kak&agrave; &egrave; atterrato in Italia con un paio di occhialini da intellettuale e schivando gli sfott&ograve; sul suo nomignolo. Preferisce lasciar parlare il campo. Entra in punta di piedi in una squadra che nel suo ruolo ha Rui Costa e Rivaldo, suo connazionale. Uno dei primi per&ograve; a rendersi conto che questo qua &egrave; qualcosa di diverso &egrave; il numero 10 portoghese. Kak&agrave; debutta contro l'Ancona e lascia l&igrave; un paio di giocate da stropicciarsi gli occhi. Tecnica individuale clamorosa, velocit&agrave; da mezzofondista, se parte dritto per dritto non lo ferma letteralmente nessuno. E poi &egrave; alto quasi 1.90, quindi volendo puoi anche dargliela alta, la palla, e lui la controller&agrave;. Per lui Ancelotti ha deciso di puntare decisamente sul 4-3-1-2, mettendo nell'armadio il caro 4-3-2-1. Quindi Kak&agrave; + Shevchenko + Pippo Inzaghi, questo &egrave; il tridente su cui il Milan si appogger&agrave; per la maggior parte della stagione, a meno di infortuni. Compreso nel derby del 5 ottobre 2003, quinta giornata di campionato.   Kak&agrave;, gol nel derby su assist di Gattuso Nettamente meglio il Milan, a cui la vittoria in Champions League del maggio precedente ha dato una botta di autostima notevole. Pirlo e Seedorf dialogano, Cafu a destra &egrave; una garanzia e dietro la coppia Nesta-Maldini &egrave; al top della forma. In porta poi c'&egrave; un Dida reduce da alcune esibizioni in Europa dove &egrave; sembrato pi&ugrave; un supereroe che altro. Davanti il tridente &egrave; una minaccia continua, Kak&agrave; sfiora subito il gol con Toldo che lo neutralizza in uscita poi conquista un fallo (ingenuo) al limite dell'area, commesso da Cristiano Zanetti. Calcia Pirlo, che colpisce in testa Inzaghi in barriera: Milan in vantaggio con uno schema che sar&agrave; replicato identico nella finale di Champions di Atene del 2007. Kak&agrave; dimostra di esserci anche spiritualmente nel derby andandosi a beccare con Kily Gonzalez dopo un contrasto duro a centrocampo. L'arbitro De Santis li ammonisce entrambi. Il brasiliano si fa notare anche in modo pi&ugrave; evidente e concreto al primo minuto della ripresa, quando su cross di Gattuso passa dietro Zanetti e di testa segna il 2-0, peraltro sotto la Curva Sud. In contropiede Kak&agrave; &egrave; assolutamente incontenibile e costringe Cannavaro a spendere un fallo da ammonizione. Sparisce dal campo l'Inter e Shevchenko segna il 3-0 dopo un duetto con Cafu. Accorcer&agrave; Martins, ma ormai &egrave; troppo tardi. Tutti i titoli del giorno dopo sono per questo 21enne brasiliano, ormai da considerare non pi&ugrave; un oggetto misterioso, bens&igrave; una certezza per i rossoneri con Rivaldo che sar&agrave; ceduto di l&igrave; a breve e Rui Costa costretto a sciropparsi tanta panchina. Primo gol in Serie A e nel derby, ne arriveranno con la maglia del Milan altri 103, pi&ugrave; svariati assist, uno scudetto, una Champions League, una Supercoppa italiana, due Supercoppe Europee e una Coppa Intercontinentale. Senza dimenticare il Pallone d'Oro nel 2007 per un giocatore che all'apice della sua carriera era veramente uno in grado di fare la differenza ovunque.       

Vent'anni fa il brasiliano segn&ograve; il suo primo gol in Italia con la maglia del Milan nel 3-1 dei rossoneri contro l'Inter

Kakà, un lampo di classe

        Ci sono i derby dei grandi nomi e quelli delle sorprese. La storia delle sfide tra Inter e Milan &egrave; meravigliosa anche per quei protagonisti inattesi rivelatisi poi decisivi in un particolare giorno. Ne abbiamo scelti due, tra i pi&ugrave; rappresentativi: Giuseppe Minaudo e Gianni Comandini. &nbsp; Minaudo, l'incubo di Berlusconi &nbsp; Il primo derby di Silvio Berlusconi da presidente del Milan finisce con una vittoria dell'Inter: 6 aprile 1986, &egrave; gi&agrave; primavera ma il cielo su Milano &egrave; plumbeo. Le due squadre sono staccatissime dalla vetta, i nerazzurri in compenso pochi giorni prima hanno sconfitto il Real Madrid nelle semifinali di Coppa Uefa. Risultato che per&ograve; verr&agrave; ribaltato al ritorno, in una delle tante serate europee mitiche dei blancos in Europa. Per il Milan di Nils Liedholm un'annata balorda, la questione societaria a prevalere su tutto con l'addio rocambolesco di Farina e l'ingresso in campo, appunto, di Silvio Berlusconi, il magnate delle telecomunicazioni. L&igrave; per l&igrave; "Sua Emittenza" pu&ograve; cambiare poco, la rivoluzione &egrave; di l&agrave; da venire e la rosa &egrave; quella che &egrave;, non eccezionale. I rapporti con Liedholm, poi, non sono granch&eacute; per via di due caratteri agli antipodi. In tutto questo il derby del 6 aprile &egrave; noioso e sonnolento. L'Inter dopo un'estate in cui ha preso dal Verona campione d'Italia due giocatori come Fanna e Marangon e dalla Juventus nientemeno che Marco Tardelli si &egrave; attorcigliata nei suoi problemi, con l'esonero dell'allenatore Castagner gi&agrave; a novembre. Al suo posto la bandiera Mario Corso, chiamato a fare da traghettatore.  Manca un quarto d'ora alla fine, il risultato &egrave; ancora 0-0: fallo ingenuo su Fanna sul lato sinistro dell'area di rigore e punizione per l'Inter, il classico corner corto. Calcia lo stesso Fanna verso il centro, colpo di testa di Mandorlini sul palo con il portiere del Milan Terraneo abbastanza incerto nell'occasione. Sul rimbalzo della palla si avventa un fantasista 19enne di Mazara del Vallo, in Sicilia, una delle stelle della primavera nerazzurra vincitrice pochi mesi prima del Torneo di Viareggio: si chiama Giuseppe Minaudo e non doveva nemmeno giocare. Entrato dopo l'intervallo al posto di Marangon che si era fatto male a una mano nel primo tempo, era addirittura finito in panchina in extremis visto che Rummenigge, l'attaccante titolare, aveva avuto un problema nel riscaldamento. Come una tessera del domino, Minaudo dalla tribuna si ritrova in campo e subito decisivo. Quando segna l'1-0, risultato che poi non cambier&agrave;, viene sollevato di peso da Riccardo Ferri come un fuscello. "Nella mia vita ho un incubo ricorrente: Minaudo", affermer&agrave; anni dopo Adriano Galliani, amministratore delegato del Milan nell'era berlusconiana. "Minaudito", si legger&agrave; sul Guerin Sportivo uscito la settimana dopo quel derby. Per Minaudo poi tre anni abbastanza anonimi nell'Inter prima di passare all'Udinese e all'Atalanta. &nbsp;  Comandini come Paolo Rossi  Gianni Comandini da Cesena nell'estate del 2000 &egrave; uno dei giovani pi&ugrave; ricercati sul mercato: titolare dell'under-21 campione d'Europa con Marco Tardelli, gioca in Serie B con il Vicenza ma in tanti hanno messo gli occhi su di lui. Centravanti che in campo da tutto, grande atletismo, sulla carta una forza della natura e, appunto, ancora molto giovane. Alla fine la spunta il Milan che sborsa per Comandini 20 miliardi di lire (11 milioni di euro circa). L'inizio &egrave; col botto, gol nel preliminare di Champions League contro la Dinamo Zagabria con quella maglia numero 9 sulle spalle che fa davvero sognare. Lui in coppia con Shevchenko, entrambi sotto i 25 anni, il futuro pare proprio roba loro. E invece no, iniziano le panchine e gli infortuni. Nel frattempo il suo allenatore nonch&eacute; conterraneo Alberto Zaccheroni viene silurato dopo l'eliminazione in Champions e in panchina arriva a traghettare il Milan l'ex ct dell'under-21, Cesare Maldini. Comandini ha recuperato dai guai fisici ed &egrave; a disposizione in un periodo in cui l'infermeria rossonera &egrave; strapiena. Arriva l'11 maggio del 2001, venerd&igrave; sera, e c'&egrave; il derby. Partita tra deluse, perch&eacute; nemmeno l'Inter sta attraversando un grande momento, un "derby in tono minore" si legge sui giornali, anche qua come nel 1986ss. In compenso da vincere, guai a sbagliare. Sulla panchina nerazzurra proprio Marco Tardelli, l'ex allenatore di Comandini nell'under-21, chiamato alla prima giornata dopo l'esonero di Marcello Lippi. Comandini quella sera deve giocare titolare davanti, nel 4-4-2 apparentemente scolastico di Maldini dove viene data ampia libert&agrave; in fascia a sinistra al brasiliano Serginho. Su quell'asse il Milan sblocca il risultato proprio con Gianni, ma non &egrave; finita: minuto 19, cross da sinistra ancora di Serginho e colpo di testa maestoso a incrociare di Comandini per il 2-0. Esultanza sotto la Sud, Inter annichilita e completamente asfaltata nella ripresa, quando il Milan infierisce fino al celebre 6-0 con gol di Giunti, doppietta di Shevchenko e timbro finale di Serginho. Per Comandini una serata alla Paolo Rossi, due soli gol in campionato con i rossoneri e proprio in un derby, nella stagione 1985-86, quella del gol di Minaudo, ma nella sfida di ritorno. S&igrave;, perch&eacute; a fine stagione Gianni andr&agrave; all'Atalanta per 30 miliardi: un'indimenticabile meteora.       

Protagonisti assoluti in una stracittadina e poi scomparsi dalla circolazione: la strana storia di questi due giocatori rimasti per sempre nella memoria dei tifosi dell'Inter e del Milan

Minaudo e Comandini eroi per caso del derby di Milano

        Casa, famiglia e Inter: si potrebbe riassumere cos&igrave; la vita di Javier Zanetti. "El Tractor", ma anche "Pupi", il primo soprannome per rimarcare quella sua andatura travolgente, il secondo pi&ugrave; intimo. Nel dubbio, il capitano.&nbsp; Dal 1995 al 2014 in nerazzurro, nei momenti buoni e meno buoni, davvero come un matrimonio. Ora, vice-presidente: a 50 anni, una vita senz'altro soddisfacente. Zanetti &gt; Rambert Estate 1995: l'Inter da pochi mesi ha cambiato presidente da Ernesto Pellegrini a Massimo Moratti. Il nuovo massimo dirigente nerazzurro ha un portafoglio molto ampio e tra i collaboratori ex giocatori proprio dell'Inter, gente che in passato aveva vestito la maglia della Beneamata anche quando il presidente era suo pap&agrave; Angelo. Uno di questi &egrave; Antonio Valentin Angelillo, argentino ma ormai milanese d'adozione, che gli suggerisce di comprare il terzino destro del Banfield, squadra semi-sconosciuta della zona di Buenos Aires: si chiama Javier Zanetti, ha quasi 22 anni e origini chiaramente italiane. Nel pacchetto dell'affare c'&egrave; anche un attaccante pi&ugrave; giovane che sembra destinato a spaccare il mondo, Sebastian "Avioncito" Rambert. Su quest'ultimo si concentrano le attenzioni il giorno della presentazione, nella lussuosa cornice della Terrazza Martini a Milano. Il primo giorno di ritiro a Cavalese, addirittura, Javier sembra essere arrivato l&igrave; per caso: in mano ha solo un sacchetto con le sue cose ed &egrave; un perfetto sconosciuto. L'Inter ha preso anche Roberto Carlos in quella sessione, di lui s&igrave; che si parla un gran bene ed effettivamente diventer&agrave; un fenomeno. Fin dalle prime amichevoli, per&ograve;, l'allenatore Ottavio Bianchi punta sull'argentino come terzino destro, un ruolo in cui in effetti l'Inter era scoperta. Nel 5-3-2 del tecnico nessuno pu&ograve; scalfire "El Tractor", che quando parte diventa impossibile da fermare: fisico compatto, andatura da rugbista, quadricipiti generosi e tanta fame. Il cocktail perfetto per sfondare anche nel cuore dei tifosi. Di Rambert, invece, nessuna traccia, tanto che al mercato invernale verr&agrave; ceduto al Saragozza e sparir&agrave; per sempre dai radar interisti. Zanetti da allora ha sempre giocato, 858 presenze in maglia nerazzurra (record assoluto), praticamente in tutti i ruoli tranne l'attaccante e il portiere. Terzino destro in una difesa a quattro o a tutta fascia in un 5-3-2 (o 3-5-2), idem a sinistra; e poi mediano o incursore a centrocampo. Maglia numero 4, sua gi&agrave; ai tempi del Banfield, fino al termine della stagione 2013-14: ritirata poi dal club. In mezzo, 16 trofei compresa la Champions League del 2010. &nbsp; Il capitano Difficile riassumere in poche righe cos'&egrave; stato Javier Zanetti per l'Inter, la sua costanza di rendimento, la sua assoluta allergia a qualsiasi tipo di infortunio tranne nell'ultimo campionato in cui gi&agrave; oltre i 40 anni i cigolii sono aumentati in maniera esponenziale (e normale). Senza dimenticare il suo totale innamoramento con la citt&agrave; di Milano, le attivit&agrave; anche benefiche realizzate assieme alla moglie Paula. Da terzino destro a mediano, da anonimo argentino a capitano dopo l'addio di Ronaldo, destinato a ereditare la fascia: sempre mettendoci la faccia nei momenti delle sconfitte, anche beffarde, e poi il primo a sollevare tutti quei trofei (16) vinti dal 2005 al 2011, un tempo irripetibile con la Champions League come culmine, senza dimenticare i cinque scudetti, il Mondiale per Club e la Coppa Uefa del 1998. Zanetti le ha viste veramente tutte, segnando poco ma in momenti decisivi. A proposito di Coppa Uefa, suo il 2-0 nella finale di Parigi contro la Lazio in cui da esterno sinistro tir&ograve; una saetta sotto la traversa da fuori area. Un altro gol fondamentale nella stagione 2007-08 quando pareggi&ograve; contro la Roma all'88' a San Siro una partita che se persa avrebbe portato lo scudetto probabilmente ai giallorossi. Anche se forse il suo pi&ugrave; bello fu la cavalcata a Verona nel campionato 1996-97, una serpentina chiusa con un missile all'incrocio dei pali, gol-vittoria peraltro. Unica mancanza nel palmar&eacute;s di Zanetti, chiss&agrave;, un acuto con la nazionale, nonostante le 161 presenze complessive inclusa l'Olimpica. Grande occasione nel 1998, quarti di finale al Mondiale in Francia ed eliminazione beffarda con l'Olanda dopo che un suo gol aveva raddrizzato la contesa agli ottavi con l'Inghilterra. Questione anche di fortuna, sicuramente. A 50 anni ha la stessa faccia di quando con 22, timido, si present&ograve; al calcio italiano. In campo, poi, una belva. L'accento argentino, mai scomparso, ma anche quello rimasto nel "pacchetto" di questo calciatore semplicemente straordinario, da clonare.&nbsp; &nbsp; &nbsp; &nbsp;       

L'argentino &egrave; stato l'anima dei nerazzurri fino a diventarne il capitano e il vice-presidente una volta ritiratosi. Arrivato in sordina, diventer&agrave; il condottiero del ciclo vincente pi&ugrave; grande nella storia recente del club

Javier Zanetti, c'è solo l'Inter

        Quando mosse i primi passi nel mondo del calcio in ruoli amministrativi, Italo Allodi era gi&agrave; una fuoriserie che viaggiava su strade battute solo da vetture utilitarie. Nell&rsquo;ambiente ci era entrato calzando gli scarpini ma le doti migliori le raccoglieva nell&rsquo;estremit&agrave; del corpo diametralmente opposta a quella dove stanno i piedi. Inclinazione superiore l&rsquo;aveva dimostrata sin da giovanissimo, quando fu categorico nel rifiutare l&rsquo;idea di seguire le orme del padre che serviva le Ferrovie dello Stato. Calcio, giornalismo e pittura occupavano nella sua mente gli spazi proiettati sul futuro. Il pallone, a suo dire, lo scelse per esigenze di portafoglio pi&ugrave; che per preferenza rispetto alle altre passioni. Gli serv&igrave; per imparare dall&rsquo;interno certe dinamiche e per scontrarsi con una realt&agrave; che, nelle spoglie di Edmondo Fabbri, gli fece capire che il calcio aveva bisogno di lui in altro modo. Si ritir&ograve; precocemente senza aver mai calcato grandi palcoscenici, cominciando a ricoprire ruoli societari in quel Mantova che, in cinque anni, dalla quarta serie arriv&ograve; in A.  La Grande Inter Fu cos&igrave; abile da farsi notare da Angelo Moratti che, poco pi&ugrave; che trentenne, lo chiam&ograve; nella sua Inter per avere un manager capace di occuparsi della direzione sportiva a trecentosessanta gradi. Il presidente nerazzurro ne aveva captato intelligenza, intuito e ambizione, che lo indirizzavano a percorrere anche le strade di una buona diplomazia per ottenere gli obiettivi che fissava. La costruzione della Grande Inter porta la sua firma, oltre che quella di Moratti ed Helenio Herrera, perch&eacute; c&rsquo;&egrave; il lavoro di Allodi dietro alle scelte dei migliori giocatori che di quella squadra costituisco i granelli di un rosario che ogni appassionato di calcio conosce a memoria. A cominciare da Luisito Suarez, spagnolo chiamato a Milano a progettare le giocate di un centrocampo che delle sue visioni aveva bisogno per diventare micidiale nelle transizioni offensive. Lo strapp&ograve; al Barcellona grazie a una cifra astronomica: trecento milioni di lire oltre all&rsquo;incasso di due amichevoli. Fu il primo colpo di una lunga serie: grazie alle capacit&agrave; di analisi dei giocatori e alle strategie negoziali con le quali Allodi si sapeva destreggiare, in nerazzurro arrivarono Picchi dalla Spal e Jair dal Portoguesa. E poi Sarti, Domenghini e Peir&ograve; mentre Burgnich, scaricato dalla Juventus, fu prelevato dal Palermo per la ragguardevole cifra di cento milioni. Ma quel manager con lo sguardo da James Bond non sapeva solo far fruttare al meglio il denaro che Moratti gli metteva a disposizione. Aveva anche la capacit&agrave; di puntare sui giovani migliori del vivaio interista: Facchetti e Mazzola salirono in prima squadra sotto la sua gestione.  I grandi colpi mancati Come ogni personaggio di successo alimentava anche le male lingue: gli vennero mosse accuse di comportamenti sconvenienti nei confronti degli arbitri, che ovviamente respinse al mittente e che non furono mai acclarati in sede di giudizio. Del glorioso periodo interista, durato un decennio, oltre ai grandi acquisti si ricordano anche gli ancor pi&ugrave; grandi colpi mancati, per sfortuna o per circostanze che non poteva governare. Ad Eusebio, la Pantera Nera, fece promettere che, ove avesse lasciato il Benfica, sarebbe approdato a Milano. Con Beckenbauer arriv&ograve; alla firma del contratto proprio nell&rsquo;anno in cui la Federazione decise di richiudere le frontiere agli stranieri. Anche con Pel&egrave; arriv&ograve; a un soffio dalla conclusione del trasferimento, per seicento milioni di lire. Ma le titubanze di Moratti, che temeva la reazione dei suoi operai, e le resistenze che provenivano dal Brasile bloccarono tutto.  Gli anni juventini Quando Moratti abbandon&ograve; la presidenza anche lui lasci&ograve; l&rsquo;Inter, destinazione Torino. La Juventus aveva bisogno di tornare in alto e nessuno meglio di Allodi poteva essere pi&ugrave; funzionale a un progetto di rilancio. Anche alla corte degli Agnelli sbagli&ograve; poco o niente: nel 1970 sistem&ograve; il centrocampo con Causio e Capello, due anni pi&ugrave; tardi mise Zoff tra i pali e Altafini a puntellare l&rsquo;attacco titolare formato da Anastasi e Bettega. In pratica defin&igrave; la struttura del club che avrebbe dominato il calcio italiano fino ai primi anni Ottanta, non solo in campo ma anche a livello organizzativo. Fu sua, tra l&rsquo;altro, l&rsquo;intuizione di inserire tra gli osservatori bianconeri quel Luciano Moggi che, ferroviere come suo padre, in futuro ne avrebbe in qualche modo raccolto l&rsquo;eredit&agrave; di re del calciomercato. Torino, per&ograve;, non &egrave; Milano: la sua figura &egrave; ingombrante e non pu&ograve; disporre dei margini di manovra allargati di cui godeva con Moratti. Entra in rotta di collisione con Giampiero Boniperti, alle dipendenze della famiglia Agnelli sin dal dopoguerra: &egrave; facile capire chi deve fare le valigie per fare spazio all&rsquo;altro. L&rsquo;esperienza con la FIGC Il passaggio successivo &egrave; con la Federazione. Assume la responsabilit&agrave; del centro tecnico di Coverciano, che rimodella secondo le sue inesauribili intuizioni, rendendolo un centro di formazione all&rsquo;avanguardia che fa frequentare anche a un certo Arrigo Sacchi. &laquo;Non c&rsquo;&egrave; organizzazione societaria senza cultura &ndash; diceva &ndash; Qui non si insegna a vincere ma a migliorare&raquo;. L&rsquo;esperienza termin&ograve; nel 1982 quando Bearzot, col quale non correvano buoni rapporti per via di qualche premio non riconosciuto e di critiche che il tecnico friulano aveva mal digerito, da vincitore del Mundial ne chiese la testa.  Gli incarichi con Fiorentina e Napoli Trov&ograve; rifugio prima nella Fiorentina dei Pontello, dove port&ograve; Lele Oriali e Claudio Gentile, e poi nel Napoli di Ferlaino, a cui serviva un manager della sua competenza per calibrare al meglio una societ&agrave; che, gi&agrave; forte di Maradona, aveva bisogno di modellare anche i dettagli organizzativi per andare a vincere il primo campionato della sua storia. Allodi dette il suo solito contributo di esperienza e intelligenza, consigliando a Ferlaino di dare la panchina a Ottavio Bianchi. Sfortunatamente non riusc&igrave; a godere appieno di quell&rsquo;ennesimo successo: un ictus lo colp&igrave; nel mese di gennaio del 1987 spingendolo ad appendere giacca e cravatta al chiodo solo qualche mese prima della vittoria di uno storico scudetto.       

Lasciato presto il calcio giocato per intraprendere ruoli amministrativi, fu l&rsquo;architetto della Grande Inter, della Juventus degli anni Settanta e del Napoli del 1987

Italo Allodi, il primo top manager del calcio italiano

        Anche gli eterni ragazzi compiono cinquant'anni. E nessuno &egrave; pi&ugrave; eterno ragazzo di Christian Vieri, per tutti Bobo, uno dei pi&ugrave; grandi attaccanti nella storia del calcio italiano, uno che ha fatto veramente epoca. Vieri, figlio d'arte Christian Vieri &egrave; figlio di Roberto, detto Bob, giocatore giramondo degli anni Sessanta-Settanta. Nasce a Bologna, ma solo perch&eacute; il pap&agrave; &egrave; l&igrave; che sta vestendo il rossobl&ugrave;: per il resto la famiglia &egrave; di Prato. Vieri senior &egrave; un fantasista brevilineo e fantasioso: fuma un pacchetto e mezzo di sigarette al giorno, ha i capelli lunghi e la barba, se &egrave; in forma fa letteralmente ci&ograve; che vuole. Come spesso succede, per&ograve;, non sembra va cos&igrave; anche se Bob oltre al Bologna &egrave; stato alla Fiorentina, alla Sampdoria e alla Juventus. Nel suo piccolo Vieri senior ha fatto la storia, perch&eacute; &egrave; stato uno dei primissimi calciatori italiani che sono emigrati all'estero per giocare. Nel 1977 gli offrono un contratto per disputare otto partite con i Marconi Stallions di Sydney, che oltre ad avere 8mila soci si finanziava con le slot machine. Bob prende la moglie e soprattutto i figli Christian e Max: "Ventiquattro ore di volo, Madonna bona! Ma quando arrivammo l&igrave; trovammo un paese stupendo", ricorder&agrave; anni dopo in un'intervista. Rimarr&agrave; per un sacco di tempo, con la famiglia. Christian fino a 14 anni gioca a cricket, rugby e basket: di calcio, manco a parlarne. Poi inizia quasi per divertimento anche lui col Marconi e un giorno dice a suo pap&agrave; che vuole tornare in Italia. A fare cosa? Il calciatore. Bob accetta, un po' stranito, e Christian finisce a Prato dove lo sgrezzano un po'. Nel 1990, per&ograve;, la chiamata del Torino, dove allena un vecchio amico di Bob come Emiliano Mondonico. Proprio in granata Bobo, un carro armato che sbuffa e lotta, fa a sportellate coi difensori come faceva Chinaglia (anche lui emigrato, ma in Galles). Il debutto in A il 15 dicembre 1991: Torino-Fiorentina, entra al 90' al posto di Walter Junior Casagrande. Il primo gol il 9 maggio 1992, nel 4-0 al Genoa. Vieri bomber d'Italia Da l&igrave; in avanti Christian cambia una squadra all'anno, fino al 1999. Il crescendo &egrave; fortissimo: Pisa, Ravenna, Venezia, Atalanta, Juventus, Atletico Madrid, Lazio, Inter. Dalla B al vertice d'Europa, aumentando il suo prezzo e soprattutto il suo ingaggio. Con l'Atalanta la prima stagione in A completa, sette gol nel 1995-96; da l&igrave; il balzo alla Juventus, per 7,3 miliardi di lire. Una squadra fortissima, quella bianconera, che vince lo scudetto, l'Intercontinentale, la Supercoppa Europea e sfiora la Champions League, perdendo a sorpresa contro il Borussia Dortmund. Ma Vieri sembra una colonna su cui fondare la Juve del futuro, fino a quando non piomba l'Atletico Madrid, che per ben 34 miliardi lo porta nella capitale spagnola. Quando si parla di Bobo macchina da gol &egrave; riduttivo, perch&eacute; all'Atletico segna letteralmente una rete a partita, il tassametro dice 24 in campionato pi&ugrave; altre gemme in Coppa Uefa del tutto senza senso come quella contro il Paok Salonicco, un sinistro a giro dalla linea di fondo quasi senza guardare. Fa scalpore anche il passaggio alla Lazio, dove vince la Coppa delle Coppe piazzando un gran gol in finale al Maiorca, ma soprattutto quello all'Inter nell'estate del 1999: per lui i nerazzurri sborsano 90 miliardi di lire, record assoluto per l'epoca, incluso il cartellino di Simeone. Va a formare una coppia all'apparenza "illegale" con Ronaldo, ma per via degli infortuni del brasiliano i due giocheranno assieme pochissimo. Nel pieno della maturit&agrave; agonistica, comunque, Vieri &egrave; uno dei migliori attaccanti del mondo (debutta con l'Inter segnando una tripletta al Verona), uomo-copertina di videogiochi ma anche per le sue storie sentimentali extra-calcistiche come quella con la velina Elisabetta Canalis. In sei stagioni nerazzurre segna 123 gol in 190 presenze, anche lui come Ronaldo spesso limitato dagli infortuni. Titoli, pochini, ma non certamente per colpa sua. Nel frattempo &egrave; diventato anche il punto di riferimento della Nazionale, con cui realizza 9 reti in altrettante partite in due edizioni del Mondiale, diventando l'azzurro pi&ugrave; prolifico nella storia della coppa assieme a Paolo Rossi e Roberto Baggio. L'impatto &egrave; fulminante, all'esordio a Francia '98 segna al Cile, al Camerun (doppietta), all'Austria e alla Norvegia; l'Italia si ferma ai quarti, ma Vieri &egrave; devastante. Quattro anni dopo in Corea del Sud e Giappone buca l'Ecuador (due volte), la Croazia e i padroni di casa sudcoreani nella maledetta partita poi persa 2-1 agli ottavi di finale. Amarezze, insomma, a cui si aggiunger&agrave; un ultimo troncone di carriera un po' anonimo. Dopo l'Inter passa un semestre al Milan, poi va al Monaco, all'Atalanta e alla Fiorentina. Oggi Vieri &egrave; il "volto" del suo canale tv online, la "BoboTv", dove gioca a fare l'opinionista con Nicola Ventola, Antonio Cassano e Daniele Adani. Cinquant'anni molto ben portati, lui che ha sempre dato l'impressione di essere un eterno giovane, scanzonato e divertito.       

L'attaccante nato "casualmente" a Bologna, per via di suo pap&agrave; che giocava l&igrave;, &egrave; stato uno dei centravanti pi&ugrave; forti del pianeta a cavallo dei due millenni. Per sei stagioni all'Inter, in Nazionale ha segnato 9 gol in due Mondiali

Christian Vieri, è sempre Bobo show

        Nato per essere un leader, Daniel Passarella; l'unico calciatore argentino capace di vincere due volte il Mondiale, nel 1978 e nel 1986, anche se nella seconda occasione da co-protagonista, mentre nella prima da capitano. "El Caudillo", il condottiero, oggi 25 maggio compie 70 anni. Passarella, libero moderno Daniel Passarella nasce a Chacabuco, un paesucolo disperso nel sud dell'Argentina. Ha origini italiane, come tanti laggi&ugrave;; nel suo caso di Moliterno, in Basilicata. Famiglia umile, pochi fronzoli, un inizio come calciatore da esterno offensivo: &egrave; piccolo di statura, ma ha una leadership clamorosa, tanto che se c'&egrave; da sfidare gente pi&ugrave; grande lui non si tira mai indietro, e soprattutto non esistono amichevoli, ogni partita pu&ograve; essere questione di vita o di morte. Una volta rischia di lasciarci la pelle per davvero, mamma e pap&agrave; devono portarlo di corsa in ospedale. Mai stato tenero, Daniel, diventato mancino dopo essersi rotto la gamba destra in un incidente d'auto con il nonno. La squadra dove esplode &egrave; il Sarmiento, in terza serie, dove lo reimpostano terzino sinistro: faccia da indio, con lui gli attaccanti girano alla larga. L'allenatore Raul Hernandez ha un amico importante, &egrave; Omar Sivori, che lo segnala subito al River Plate. Siamo nel 1974, l'inizio della leggenda di Passarella come uno dei pi&ugrave; forti liberi di tutti i tempi; s&igrave;, perch&eacute; da terzino sinistro l'ennesimo e definitivo cambio di ruolo lo porta a comandare la difesa dei Millionarios e di l&igrave; a poco, dal 1976, anche dell'Argentina. Ha una peculiarit&agrave;, Daniel, che lo distingue dagli altri colleghi a parte la grinta e il carisma, ed &egrave; la facilit&agrave; con cui trova la porta, spesso con calci di punizione chirurgici ma in generale dimostrando un tocco di palla inusuale per un difensore. Diventer&agrave;, in quel ruolo, il secondo pi&ugrave; prolifico nella storia dietro all'inarrivabile Ronald Koeman: 184 gol in 612 partite ufficiale, nazionale compresa. &nbsp; Passarella e il Mondiale del 1978 Detto che Passarella col River Plate vincer&agrave; sette titoli nazionali, il suo capolavoro &egrave; senza dubbio la Coppa del Mondo del 1978, conquistata con l'Argentina. Si tratta del primo mondiale che entra nella bacheca dell'Albiceleste e arriva in casa in un momento delicato dal punto di vista politico, con la dittatura militare e gli oppositori politici che scompaiono nel nulla. La squadra in campo &egrave; favorita pi&ugrave; per inerzia che per valori reali, perde con l'Italia e per arrivare in finale ha bisogno della "marmelada peruana", del 6-0 al Per&ugrave; che ha in porta Ramon Quiroga, nato in Argentina. L'ultimo ostacolo &egrave; l'Olanda che &egrave; senza Crujiff, ma trascina la partita ai supplementari, dove Kempes &egrave; decisivo nel 3-1 definitivo. A sollevare la coppa del mondo per primo &egrave; Passarella, che assieme a Olgu&igrave;n, Galvan e Tarantini forma una retroguardia davvero di "bastardi senza gloria". Otto anni dopo Passarella sar&agrave; nella rosa dell'Argentina campione del mondo, ma senza giocare mai, si dice anche per alcuni dissapori con Diego Armando Maradona, ufficialmente per problemi fisici. In mezzo ha partecipato a Spagna '82, segnando pure due gol di cui uno all'Italia, nella prima partita del girone di qualificazione alle semifinali. Soprattutto, ha deciso di compiere il grande salto, dal Sudamerica alla Serie A, firmando per la Fiorentina. Dal 1982 al 1986 per quattro stagioni veste il viola, senza l'esuberanza dei tempi del River o della nazionale, ma mantenendo intatta la sua leadership. Riesce anche a battere un record per quanto riguarda il numero di gol segnati da un difensore in un campionato a 16 squadre: 11 reti per lui nella stagione 1985-86. Nelle successive due stagioni gioca per l'Inter, sempre da libero, senza per&ograve; riuscire a conquistare nessun titolo.  Allenatore in campo, Passarella lo diventer&agrave; anche per davvero, in panchina. Nel 1998 guida l'Argentina fino ai quarti di finale, dove viene beffato dall'Olanda all'ultimo minuto. In Italia torner&agrave; da tecnico del Parma, dove inaneller&agrave; un record difficilmente battibile di 5 sconfitte in 5 partite prima di essere esonerato nel dicembre 2001.&nbsp;Rimasto sempre legatissimo al River Plate, ne diventer&agrave; anche il presidente. Amato oppure odiato, senza vie di mezzo, come tutti i grandi leader.&nbsp; &nbsp;       

Vera e propria leggenda della Seleccion e del River Plate, in Italia ha vestito le maglie di Inter e Fiorentina

Daniel Passarella, El Gran Capitan del Mondiale 1978

        Salvatore Bagni &egrave; stato un perno del centrocampo del Napoli che vinse nel 1987 il primo scudetto della sua storia. Prima dell&rsquo;esperienza in azzurro aveva anche disputato tre stagioni con l&rsquo;Inter. In questa intervista da doppio ex, col consueto tono appassionato, estrae dall&rsquo;album dei ricordi tante istantanee piene di colori che il tempo non ha cancellato.  Salvatore, prima di giocare con Inter e Napoli tu fosti un baluardo del Perugia dei miracoli 1978-79. Ci vuoi raccontare qual era il segreto di quella squadra?&laquo;Erano i tre che non giocavano: il grande Ilario Castagner, che purtroppo &egrave; venuto a mancare da poco, D&rsquo;Attoma e Ramaccioni. Tre persone che, con pochi mezzi, riuscivano a convergere sulle stesse idee. Quel Perugia si fondava su un concetto: prendere giocatori che erano o giovani di prospettiva o delusi dagli anni precedenti, che potevano ritrovarsi in un gruppo affiatato in una citt&agrave; meravigliosa e piena di entusiasmo. Perugia all&rsquo;epoca ti dava tanto affetto, la gente ti faceva sentire uno di loro. Eravamo cos&igrave; in sintonia che praticamente vivevamo coi tifosi&raquo;.  Ricordo che in un&rsquo;intervista di quel periodo dichiarasti di usare solo tre maglioni e due paia di jeans: era vero?&laquo;Ne avevo anche meno! Quando conobbi mia moglie ricordo che avevo una maglietta orrenda! Del resto venivo da una famiglia dove lavorava solo mio padre, eravamo quattro figli e a volte si faceva fatica ad arrivare a sera. Ma non importava, stavamo comunque bene. Pensa che io frequento ancora i miei amici di sessant&rsquo;anni fa: per farti capire quanto eravamo contenti pur non avendo niente. Ci ritroviamo ancora oggi tutte le domeniche a vedere la Correggese: mangiamo insieme e poi vediamo la partita. Non ci siamo mai staccati. Loro hanno fatto gli operai, quello che avrei fatto anche io: &egrave; una cosa unica e magnifica, siamo sempre disponibili l&rsquo;uno per l&rsquo;altro. La gente ci invidia per questo&raquo;. Come avvenne il tuo passaggio all&rsquo;Inter?&laquo;Nell&rsquo;80-81 retrocedemmo: a quel punto era inevitabile che cambiassi squadra. Io speravo di guadagnare qualcosa col trasferimento ma non avevo capito niente&hellip;&raquo;. Nei tre anni in nerazzurro ti allenarono Bersellini, Marchesi e Radice: chi di loro seppe valorizzarti meglio?&laquo;Intanto fammi dire che erano tre persone straordinarie. Rino lo sento ancora oggi: persona di altri tempi a cui devo una riconoscenza eterna. Tranquillo, sereno, sapeva come farti star bene. Bersellini mi sopport&ograve; i primi mesi che arrivai all&rsquo;Inter: avevo mia figlia ancora piccola e dormivo poco. Finito l&rsquo;allenamento rimanevamo io, lui e Onesti a esercitarci su cross e tiri in porta: un&rsquo;ora tutti i giorni. Sono cose che ti rimangono dentro: era una persona con grandi valori, di un&rsquo;umanit&agrave; esagerata. Lui ha sempre creduto in me: lo ripagai nella seconda parte del campionato. Nell&rsquo;anno con Radice giocavamo con due centrocampisti centrali e due fantasisti sulle fasce, M&uuml;ller e Beccalossi: un 4-2-4 inusuale&raquo;. Qual era il tuo rapporto con calciatori poco inclini al sacrificio come M&uuml;ller e Beccalossi?&laquo;Con Beck non ho mai avuto problemi. Hansi qualche volta in allenamento lo beccavo: lui aveva il suo modo di giocare elegante, bello da vedere. Era l&rsquo;unico giocatore al mondo che si faceva la doccia tra il primo e il secondo tempo! Comunque avevamo un ottimo rapporto, ci frequentavamo anche con le famiglie. Una persona buona, mi ha chiamato anche per la partita dei suoi cinquant&rsquo;anni a Stoccarda. Un tedesco atipico, non potevi non volergli bene&raquo;.  Come avvenne la tua trasformazione da ala destra a mediano?&laquo;Fu un&rsquo;idea che venne a Marchesi una mattina in ritiro in Trentino. Non so cosa avesse in testa, ma mi cambi&ograve; la vita spostandomi a fare il centrocampista centrale. Riusc&igrave; a intravedere qualcosa che aveva intuito solo lui. Ebbe un&rsquo;idea strepitosa. Fu per merito suo che andai al Napoli&raquo;. Quando arrivasti a Napoli ti pass&ograve; per la mente che un giorno avresti potuto vincere il campionato?&laquo;Era impossibile! Arrivai insieme a Diego, che fece una scelta difficilissima: lasciare a ventitr&eacute; anni e mezzo il Barcellona per andare in una squadra che lottava per non retrocedere. Anche per me non fu semplice, visto che venivo dall&rsquo;Inter. Ma una volta presa una decisione non si guarda indietro&raquo;. Togliamo Diego: con quali compagni ti trovavi pi&ugrave; in sintonia nel Napoli di allora?&laquo;Con tutti, non ce n&rsquo;era uno diverso dall&rsquo;altro. Fuori dal campo non frequentavo nessuno, anche perch&eacute; io la sera andavo a letto presto. Ci vediamo di pi&ugrave; adesso&raquo;. I tuoi compagni di reparto erano De Napoli e Romano: ci spieghi Bianchi cosa si aspettava da ciascuno di voi?&laquo;Romano fu la ciliegina sulla torta: giocava davanti alla difesa e mi salv&ograve;, perch&eacute; prima del suo arrivo ero io che occupavo quella posizione. Io e Nando facevamo le mezze ali. Lo prendevamo in giro, gli dicevamo che quando arriv&ograve; a Napoli non lo conosceva nessuno e poi vinse tutto. Era vero ma Francesco per noi fu determinante per le sue qualit&agrave; tecniche: con lui che dettava i tempi abbiamo cominciato a spiccare il volo. Era una sorta di Lobotka!&raquo;. La gioia che regalaste voi ai napoletani &egrave; come quella che stanno assaporando oggi? O aveva tonalit&agrave; differenti?&laquo;Erano anni diversi, felici. Anni in cui il miglior giocatore al mondo era arrivato a Napoli: una cosa impensabile da qui ai prossimi duemila anni non solo per la citt&agrave; ma per l&rsquo;Italia. Lui dava entusiasmo, gioia, carisma, carica. C&rsquo;era l&rsquo;eccitazione della prima volta, inaspettata. Solo Diego aveva detto che avremmo vinto lo scudetto ma forse non ci credeva nemmeno lui. Portammo qualcosa di assolutamente nuovo&raquo;.  Ci racconti un aneddoto che non &egrave; conosciuto di quella grande squadra?&laquo;Ce l&rsquo;avrei una cosa ma &egrave; tra ma me, Giordano e il mister. Non lo posso raccontare&raquo;.  Hai qualche rammarico legato all&rsquo;esperienza partenopea? &laquo;L&rsquo;unico &egrave; il modo in cui sono andato via. Nel trambusto che ci fu alla fine del campionato perso (1987-88, nda) si sa che quella sera all&rsquo;hotel Paradiso tutti firmarono liberamente quel comunicato contro l&rsquo;allenatore. Di notte la societ&agrave; lavor&ograve; sui giocatori pi&ugrave; debolini e alla fine quattro si tirarono indietro senza avvertire. Fu come se ci avessero accoltellato, una delusione esagerata. Dico la verit&agrave;: l&igrave; mi incazzai abbastanza. La societ&agrave; ci convoc&ograve; in sede per ascoltarci: io, Garella, Giordano e Ferrario per ultimi. All&rsquo;ingresso in piazza dei Martiri non c&rsquo;era nessuno, quando uscimmo dopo un&rsquo;ora c&rsquo;erano cinquemila persone che inveivano. Era tutto preparato, uno squallore unico. Ma a Napoli oggi mi amano ancora&raquo;.       

All&rsquo;Inter conobbe Rino Marchesi che lo spost&ograve; dall&rsquo;ala in mezzo al campo. Fu proprio il tecnico lombardo a convincerlo poi a indossare la maglia azzurra.

Bagni: “Il primo scudetto col Napoli? Inimmaginabile

        Quattro stagioni e mezza con la maglia della Lazio, iniziate tra mille difficolt&agrave;, proseguite con una crescita esponenziale e concluse con la vittoria di una Coppa Italia e la fascia di capitano. Poi il passaggio all&rsquo;Inter, vivendo una storia simile: problemi fisici e di ambientamento che ne hanno limitato l&rsquo;esplosione, i prestiti, il ritorno alla base e la capacit&agrave; di mettersi in evidenza, recitando un ruolo fondamentale nella vittoria di uno scudetto. Cesar Aparecido Rodrigues (ribattezzato Cesaretto nella Capitale) ha lasciato il segno con le maglie di Lazio e Inter. Arriv&ograve; in Italia l&rsquo;estate del 2001, fortemente voluto da Sergio Cragnotti. &ldquo;Il presidente viveva dal luned&igrave; al venerd&igrave; in Brasile, poi tornava a Roma. Era in contatto con diversi osservatori, anche se poi preferiva spesso acquistare i calciatori argentini. Venni proposto alla Lazio e dopo esser stato visto dal direttore sportivo Nello Governato, fui acquistato&rdquo;. L&rsquo;inizio non fu facile, vero?  &ldquo;I metodi di allenamento europei erano completamente diversi rispetto a quelli a cui ero abituato. E anche il ritmo di gioco. In Brasile si giocava dinamicamente e con la palla tra i piedi. Il livello tattico non era paragonabile a quello italiano. Anche il ruolo a cui ero abituato, il terzino, era concepito in modo diverso&rdquo;. Le cose cambiarono con Mancini in panchina? &ldquo;Ha avanzato il mio raggio di azione, ha creduto in me. Mi ha dato fiducia e io l&rsquo;ho ripagato: ho giocato terzino, esterno di centrocampo e a volte anche attaccante. &Egrave; stato fondamentale per me, sia alla Lazio che all&rsquo;Inter&rdquo;. Il momento pi&ugrave; bello vissuto nella Lazio? &ldquo;I due anni con Roberto Mancini in panchina, che si sono conclusi con la vittoria della Coppa Italia a Torino contro la Juventus e il gol nel derby. Quel giorno affrontammo la Roma con una squadra che era in grandissima difficolt&agrave;. Avevamo cambiato da poco l&rsquo;allenatore, avevamo tantissime assenze. Non so se nella storia dei derby la Lazio si sia mai presentata in quelle condizioni: i problemi societari, la classifica che era pericolante. Vincere quel derby fu fantastico&rdquo;. Quel gol segnato alla Roma &egrave; rimasto nel cuore dei tifosi. &ldquo;Io non mi sono reso subito conto di aver segnato. L&rsquo;ho capito vedendo la curva che impazziva e la rete che si &egrave; gonfiata. Ma l&rsquo;ho capito un secondo dopo. Ancora oggi, quando riguardo quel gol, mi rendo conto della difficolt&agrave; di quel gesto tecnico: calciare la palla in quel modo, tenerla bassa&rdquo;. A gennaio del 2006 il passaggio all&rsquo;Inter. &ldquo;All&rsquo;inizio ho trovato le stesse difficolt&agrave; vissute quando arrivai alla Lazio. Ero reduce da un infortunio fastidioso, lasciai Roma, con un clima piacevole per arrivare a Milano, che era stata colpita dalla nevicata pi&ugrave; intensa degli ultimi anni. Il freddo, la tanta concorrenza: per me non fu facile. Poi per&ograve; mi sono divertito&rdquo;. Appiano Gentile sembrava una piccola Formello? &ldquo;Questo aiut&ograve; il mio inserimento: Mancini, Mihajlovic, Stankovic, Favalli, tutto lo staff sanitario che conoscevo benissimo. L&rsquo;Inter &egrave; sempre stata una squadra che ha legato il suo destino alla Lazio. Molti calciatori che hanno fatto bene a Roma poi sono passati a Milano, senza dimenticare il gemellaggio tra le tifoserie. Inter e Lazio sono le squadre che hanno segnato la mia storia. I biancocelesti mi hanno permesso di arrivare in Italia e hanno creduto in me. Con i nerazzurri ho vinto lo scudetto e ho giocato in un club fortissimo&rdquo;. Il segreto di quella squadra? &ldquo;La mentalit&agrave;. Mancini pretendeva il massimo. In campo e negli allenamenti. Io mi allenavo contro gente come Zanetti, come Mihajlovic, come Ibrahimovic. Quanti ne trovavo pi&ugrave; forti nelle altre squadre? Pochi, ma arrivavo alla partita conscio che, affrontare Cafu o un altro calciatore era esattamente la stessa cosa. L&rsquo;Inter &egrave; cresciuta quando ha iniziato a ragionare cos&igrave;. E la vittoria di Parma, con lo scudetto fu una soddisfazione grandissima&rdquo;.&nbsp;       

Arrivato in Italia sulla sponda biancoceleste del Tevere, &egrave; stato uno dei pupilli di Mancini, che lo ha portato con s&egrave; anche a Milano

Cesar Aparecido Rodrigues: l'esterno brasiliano di Lazio e Inter

        Il sorteggio che ha messo di fronte i campioni d&rsquo;Italia in carica del Milan e quelli in pectore del Napoli per i quarti di finale di Champions League ha riaperto un file archiviato da troppo tempo. La storia dei derby italiani in Europa affonda le sue origini negli anni &rsquo;80 con le prime inedite sfide fratricide, diventate nei magnifici anni &rsquo;90 addirittura una felice ricorrenza, celebrata fino ai primi anni del 2000 nei quali dominavamo il continente calcistico, un attimo prima che si esaurisse il filone d&rsquo;oro della nostra Serie A. Una storia lunga 30 anni che vale la pena ripercorrere riavvolgendo il nastro di queste sfide sempre sentite e particolari: dalle sette finali alle numerosissime semifinali, passando per pronostici rovesciati e sfide al veleno. Primo e ultimo derby italiano nelle coppe Stagione 1985-86, ai nastri di partenza della Coppa dei Campioni la Serie A si presenta con una rarissima combo di squadre, in un torneo aperto solamente alle vincitrici dei rispettivi campionati: c&rsquo;&egrave; il Verona dei miracoli di Osvaldo Bagnoli, fresco di uno scudetto storico, e c&rsquo;&egrave; la Juventus, ammessa di diritto dopo aver vinto tra le lacrime la sua prima coppa dalle grandi orecchie nella tragica notte dell&rsquo;Heysel con il Liverpool. Il primo derby italiano spunta dall&rsquo;urna gi&agrave; al secondo turno, con i bianconeri che eliminano i giallobl&ugrave;. L&rsquo;ultimo derby &egrave; invece datato 2014-15, un ottavo di finale di Europa League in cui la Fiorentina di Montella elimina la Roma di Rudi Garcia. Da Juventus-Fiorentina alla notte di Manchester: le sette finali tutte italiane La prima finale tra due squadre italiane arriva nel 1990 con Juventus e Fiorentina a giocarsi la Coppa Uefa, che prevedeva la finale con la formula dell&rsquo;andata e ritorno. Vinsero i bianconeri tra polemiche e veleni. La seconda arriva gi&agrave; l&rsquo;anno successivo in Supercoppa, se la giocano la Samp di Boskov e il Milan di Sacchi, che alza il trofeo. Nel 1991 sono Inter e Roma a giocarsi la Coppa Uefa, che prende la strada di Milano dopo due combattutissime sfide. Nel 1993 &egrave; il Parma a trionfare in Supercoppa nel doppio confronto con il Milan; Parma che nel 1995 si prende anche la Coppa Uefa battendo la Juventus. Il derby Uefa del &rsquo;98 vinto dall&rsquo;Inter sulla Lazio nella finale di Parigi verr&agrave; ricordato per l&rsquo;indimenticabile doppio passo di Ronaldo il Fenomeno su Marchegiani sotto lo sguardo attonito di Nesta. L&rsquo;ultima finale tra due italiane &egrave; anche la prima e unica in Champions League: nel maggio del 2003 al Teatro dei Sogni di Old Trafford il Milan supera la Juventus ai rigori con l&rsquo;iconico sguardo di Shevchenko prima di calciare il penalty decisivo che passa alla storia. Milan-Inter e i due derby di Champions League Nel racconto dei derby italiani in Europa c&rsquo;&egrave; anche la storia nella storia di Inter e Milan e delle due &ldquo;drammatiche&rdquo; stracittadine di Champions League, disputate fra il 2003 e il 2005, entrambe terminate con i rossoneri in festa e i nerazzurri nello sconforto. Nella prima occasione, Inter eliminata senza perdere, ma dall&rsquo;incredibile regola del gol in trasferta, decretato dal calendario, che lancia il Milan in finale. Due anni dopo &egrave; un quarto di finale di cui andare poco fieri: dopo il successo rossonero nel match d&rsquo;andata, il ritorno sar&agrave; ricordato come il &ldquo;derby della vergogna&rdquo;, con Dida bersagliato dalle torce lanciate dalla curva nerazzurra e l&rsquo;inevitabile sconfitta a tavolino. La notte magica del Napoli Nell&rsquo;unico derby italiano in Europa giocato dal Napoli, c&rsquo;&egrave; una notte magica che ancora fa tremare i polsi ai tifosi partenopei di una certa et&agrave;: &egrave; il 1989 e ai quarti di finale di Coppa Uefa il sorteggio ha detto Juventus. All&rsquo;andata a Torino finisce 2-0 per i bianconeri grazie al gol di Pasquale Bruno e all&rsquo;autorete di Corradini, ma al San Paolo gli azzurri la ribaltano con Maradona e Carnevale che trascinano la sfida ai supplementari e Renica che un attimo prima dei rigori firma il gol qualificazione accendendo Fuorigrotta. Il sogno infranto del Cagliari La Coppa Uefa 1993-94 regala la favola del Cagliari di Bruno Giorgi, che in un doppio derby ai quarti e in semifinale sfida le signore d&rsquo;Italia, fermandosi a un passo dalla clamorosa impresa. Approdati ai quarti di finale, i sardi pescano la Juventus, un sorteggio apparentemente proibitivo ma che alla fine non si rivela tale: Dely Vald&eacute;s punisce i bianconeri nel match di andata, Firicano e Lul&ugrave; Oliveira ribaltano il risultato nel ritorno di Torino e firmano l&rsquo;impresa. &Egrave; semifinale e l&rsquo;urna dice ancora derby, con l&rsquo;Inter di Bergkamp e Jonk. All&rsquo;andata in Sardegna il Cagliari rimonta due volte l&rsquo;Inter prima di far impazzire il Sant&rsquo;Elia con il 3-2 di Pancaro, ma al Meazza si arrende ai nerazzurri, uscendo dal doppio derby con un bilancio di 3 vittorie e una sconfitta. Il derby dimenticato Nel concludere il lungo viaggio attraverso i derby italiani in Europa, riemerge il ricordo di una sfida caduta nel dimenticatoio e che pure fa parte a pieno titolo della storia di queste sfide: la semifinale di Intertoto del 1998 tra il Bologna di Mazzone e la Samp di Spalletti, che vede trionfare gli emiliani, che poi vinceranno anche il trofeo conquistando la qualificazione alla Coppa Uefa.       

Verona-Juventus il primo, Fiorentina-Roma l&rsquo;ultimo: in mezzo sette finali tra Coppa Uefa, Supercoppa e Champions League. Tra i ricordi anche le imprese di Cagliari e Bologna

Milan-Inter, in Europa è più bello: la storia dei derby italiani nelle coppe

        Il 22 aprile 1973 &egrave; la domenica di Pasqua. L&rsquo;Italia si dibatte e discute fra inflazione, crisi energetica e violenza politica mentre il campionato si avvia verso un finale arroventato che avr&agrave; bisogno del fotofinish dell&rsquo;ultima giornata per dare lo scudetto alla Juventus e lasciare un pugno di rammarico a Milan e Lazio. Una domenica di Pasqua nella quale il mistero della resurrezione, il profumo della colomba e le vicende del campionato si mescolano in un m&eacute;lange di emozioni nel quale un calciatore neo maggiorenne trova la sua sorpresa pi&ugrave; gradita: quella dell&rsquo;esordio in Serie A. Agostino Di Bartolomei e l'esordio in Inter-Roma&nbsp; Il sogno che faceva da bambino si materializza in un contesto impegnativo ad elevato coefficiente di difficolt&agrave;: lo stadio &egrave; San Siro, gli avversari gloriosi (Facchetti, Mazzola, Boninsegna, Corso) e lui viene inserito nell&rsquo;undici titolare per sostituire un compagno importante come Ciccio Cordova. Ma Agostino Di Bartolomei &egrave; un ragazzo solido, di quelli che sanno cosa vogliono dalla vita, che sognano per ottenere il meglio, non per mero compiacimento adolescenziale. Quando la maglia giallorossa numero undici (nell&rsquo;occasione bianca) gli cala sulle spalle, lui &egrave; pronto a sostenerla con tutto il peso e la gioia che comporta. Emozioni contrastanti, stomaco in subbuglio: non &egrave; difficile immaginare un po&rsquo; di tremore alle gambe alle 15.30 di quella domenica nel percorrere i pochi metri che portano dagli spogliatoi al terreno di gioco di uno degli stadi pi&ugrave; iconici del mondo. Ma Di Bartolomei sa che i momenti decisivi, quelli che segnano un passaggio importante, danno la sensazione del salto nel vuoto. Vanno accolti e vissuti senza che il timore freni la transizione verso il futuro, quello che Agostino insegue da quando non aveva paura di tirare i calci di rigore all&rsquo;oratorio del San Filippo Neri, dove la sua passione per il calcio aveva cominciato a sostanziarsi.  Milano nel destino di Agostino di Bartolomei Lui, romano di Tor Marancia, forse in quel momento capisce che Milano &egrave; un luogo che segna il suo cammino. Aveva rifiutato le lusinghe del Milan quando, a tredici anni, ne aveva notato le qualit&agrave; e voleva portarlo nel suo settore giovanile. Ora San Siro ne celebra il battesimo da calciatore vero. I rossoneri torneranno nel suo destino l&rsquo;anno dopo, quando da capitano della Primavera li batter&agrave; in finale per vincere il campionato, e nel 1984, quando la sua Roma gli dir&agrave; che le loro strade si devono separare e Agostino seguir&agrave; il mentore Liedholm nella sua ultima esperienza da allenatore a Milano. Le prime volte, a prescindere dall&rsquo;esito, non si possono dimenticare: Inter-Roma ristagna in un asfittico 0-0 ma la partita di Di Bartolomei, guidato da Antonio Trebiciani, il tecnico che lo allena nella Primavera da poco subentrato ad Helenio Herrera sulla panchina della prima squadra, &egrave; positiva. Nel commento al match, La Stampa del 24 aprile 1973 scrive: &ldquo;Il romano diciottenne Di Bartolomei &hellip; ha fatto un positivo esordio in Serie A al posto di Cordova&rdquo; mentre il Corriere della Sera ne rimarca un errore a inizio ripresa, quando &ldquo;Di Bartolomei ha fallito il bersaglio da due passi&rdquo;. Una domenica di Pasqua che per Agostino &egrave; soprattutto un&rsquo;epifania: a San Siro si &egrave; rivelato questo ragazzo dallo sguardo fin troppo serio, difficilmente incline ai sorrisi, gi&agrave; capace di ovviare a qualche limite strutturale (Ago non aveva il dono della velocit&agrave;) con un&rsquo;interpretazione del gioco asciutta, fatta di possesso palla, precisi lanci in verticale e soluzioni dalla distanza che terrorizzano i portieri. Di Bartolomei, anima da capitano Un modo di stare in campo mai finalizzato all&rsquo;autocelebrazione ma funzionale alle esigenze della squadra, lo specchio di un&rsquo;anima che non indulge su se stessa ma si pone al servizio di una collettivit&agrave; di cui sa di far parte e che si sente ispirata a condurre. Nel gioco di Agostino, nella fascia che ne cingeva il braccio c&rsquo;era un io che si faceva noi, una forza silenziosa che si sostanziava nei fatti. Eclatanti e definitivi come le punizioni che calciava, come anche quella che inflisse a s&eacute; e ai suoi cari nel porre fine prematuramente a una vita nella quale prese il sopravvento quel lato oscuro di cui nessuno aveva intuito la profondit&agrave; dolorosa.        

Il capitano della Roma dello scudetto 1982-83 debutt&ograve; in un Inter-Roma del 22 aprile 1973. Per lui fu il primo incontro con una citt&agrave; che aveva nel destino&nbsp;

Di Bartolomei e quell’esordio in Serie A alla Scala del calcio

        Una volta in Serie A di inglesi ne arrivavano meno che adesso. Pochi, ma buonissimi. Come Gerry Hitchens, che in Italia trov&ograve; la sua America calcistica con l'Inter e lasciando eccellenti ricordi anche al Torino, all'Atalanta e al Cagliari. Quarant'anni fa, il 13 aprile 1983, l'attaccante inglese moriva forse come aveva sempre sognato: su un campo da calcio. Gerry Hitchens il minatore Hitchens nasce a Rawnsley, nel 1934, e il suo futuro sembra gi&agrave; segnato: in quella zona, lo Staffordshire, si nasce e si muore in miniera, praticamente. Siamo nel centro dell'Inghilterra e Gerald (vero nome di Gerry) fino quasi a vent'anni non pu&ograve; fare altro che adeguarsi: la mattina l&igrave;, al chiuso, nel pomeriggio in una macelleria come garzone.&nbsp;Gli piace anche giocare a calcio, ci mancherebbe, quella &egrave; la patria del football, ma solo a livelli semi-amatoriali con gli Highley Miners Welfare. "Miners", cio&egrave; "minatori", da l&igrave; non si scappa. Fino a quando durante una partita di un torneo regionale non viene notato dal segretario dei Kidderminster Harriers, che di fatto lo mette sotto contratto negli spogliatoi. Mica male quel ragazzo che segna un mucchio di gol, da qui il salto di categoria, nella Southern Football League: sempre semi-dilettanti, ma un filino meglio come livello.&nbsp; La porta d&rsquo;Italia fu l&rsquo;Inter Non ha nulla del predestinato, Hitchens, coi suoi capelli rosso da "pel di carota", ma continua a segnare valanghe di gol in questa scalata continua che lo porter&agrave; all'Aston Villa passando per il Cardiff City. A questo punto dovrebbe, come quasi tutti i grandi giocatori inglesi dell'epoca, salire ulteriormente di livello, ma in patria. E invece no, Gerry nel 1961 prende un aereo e si imbarca per l'Italia: direzione, Milano sponda Inter. Come spiegher&agrave; tempo dopo: "Sapevo che un calciatore aveva una carriera breve e mi interessava vedere posti diversi dal solito, cos&igrave; scelsi di andarmene dall'Inghilterra. Anche per questione di soldi". A Roma la rivelazione di una macchina da gol Costo dell'operazione: 85mila sterline, una cifra enorme (oltre un milione di lire dell'epoca, quando un caff&eacute; costava 50 lire) che in pochissimi sono disposti a sborsare. Tra questi, il patron dell'Inter, Angelo Moratti, impressionato dai numeri di Hitchens e folgorato dalla sua prestazione in amichevole a Roma contro l'Italia, dove aveva segnato una doppietta nel 3-2 finale a favore dei Tre Leoni. Non essendoci ancora osservatori sparsi in tutto il mondo, naturalmente bisognava arrangiarsi con ci&ograve; che succedeva nelle vicinanze. C'&egrave; da sostituire Angelillo, passato alla Roma, e si opta per questo inglese frizzantino nello stesso periodo in cui curiosamente anche il Milan pesca oltremanica con Jimmy Greaves, che per&ograve; durer&agrave; poco. I due ogni tanto si troveranno assieme per qualche drink, senza essere mai beccati. Gerry con la moglie Meriel sono anche "vittime" dei paparazzi, che con questa coppia cos&igrave; esotica si scatenano, in un'era di Dolce Vita. Da Milano a Torino Se il Milan sul campo toppa con Greaves, l'affare per i nerazzurri &egrave; invece evidente, perch&eacute; Hitchens alla prima stagione in nerazzurro segna 16 gol anche se la squadra sotto la guida di Helenio Herrera si squaglia, dopo un girone d'andata sontuoso. Nell'annata successiva, invece, Hitchens viene ceduto al Torino nel mercato autunnale dopo un gol in 5 partite: l'Inter vincer&agrave; lo scudetto, ma l'inglese osserver&agrave; i festeggiamenti da lontano, anche se pro forma gli viene attribuito quel tricolore. Del resto Gerry da quando in nerazzurro aveva cominciato a trovare spazio un certo Sandro Mazzola si era reso conto che quello riservato a lui stava finendo. Intanto in granata la macchina da gol non si &egrave; fermata. Anzi, in tre anni sono 28 le reti realizzate da Gerry in una squadra ormai abituata a sentir parlare la lingua di Shakespeare grazie a Law e a Baker. Gerry Hitchens, gli ultimi anni e la morte in campo Da l&igrave; le ultime esperienze all'Atalanta e al Cagliari. Meglio a Bergamo che in Sardegna (anche se segna il gol che il 3 marzo 1968 d&agrave; al Cagliari la prima storica vittoria a San Siro contro il Milan), fino al 1969, quando abbandona l'isola per tornare in patria al Worcester City e poi in Galles, al Merthyr Tydfil. Totale in Serie A, 59 gol in 205 presenze. Al momento nessun inglese ha fatto meglio di lui. Una decisione, quella di stabilirsi per quasi un decennio in Italia, che gli era costata la maglia della nazionale, mai pi&ugrave; indossata dopo il Mondiale del 1962, chiuso ai quarti di finale contro il Brasile. Alf Ramsay, il commissario tecnico, era stato categorico in tal senso: l'Inghilterra solo a chi giocava in Inghilterra. In Galles Hitchens ci rimarr&agrave; fino alla morte, avvenuta il 13 aprile del 1983. Infarto, durante una partita di beneficienza. L'ultima sua azione, un colpo di testa sopra la traversa. Due passi, il malore improvviso: quando lo portano all'ospedale di Wrexham il cuore ha gi&agrave; smesso di battere. Lascia cinque figli, di cui due nati in Italia. Non aveva ancora compiuto 49 anni. Morto su un campo da calcio, forse molto meglio che in miniera.       

Un fortissimo attaccante che fu grande con i nerazzurri e che nel Belpaese trov&ograve; gloria. Il 13 aprile 1983 l'improvvisa scomparsa di un giocatore che avrebbe dovuto fare il minatore

Gerry Hitchens: Inter, Torino, Atalanta e Cagliari per l’inglese d'Italia

        &ldquo;Napoli e Inter rappresentano le squadre pi&ugrave; importanti della mia carriera e quelle in cui sono riuscito a emergere. Anni belli, emozionanti e ricchi di passione. Che non dimenticher&ograve; mai&rdquo;. Francesco Colonnese ha vestito la maglia azzurra per due stagioni, sfiorando il trionfo in Coppa Italia. Poi il passaggio all'Inter, squadra con la quale ha vinto una Coppa Uefa ed &egrave; arrivato ad un passo dallo scudetto. &ldquo;A Napoli stavo benissimo. Era stata la prima grande squadra che mi aveva dato fiducia. Ho giocato due stagioni e pensavo di poter rimanere a lungo. Alla fine del secondo anno per&ograve; gli azzurri non mi riscattarono. Fu una grande delusione, ma proprio in quel momento la mia vita calcistica cambi&ograve;. L'Inter si interess&ograve; a me e mi diede l'opportunit&agrave; di andare a vincere trofei e lottare per lo scudetto&rdquo;.  Cosa ricorda dell'esperienza di Napoli?? &ldquo;Due anni bellissimi. Ho sentito cosa vuol dire giocare in una piazza che ti apprezza e con tifosi che ti vogliono bene. Venivo da mesi difficili alla Roma e in Campania ho trovato affetto e un gruppo unico. Il San Paolo ti regalava una carica incredibile. Dal punto di vista calcistico, poi, ho giocato con continuit&agrave;. Peccato solo che l'esperienza si &egrave; chiusa con una grande delusione&rdquo;. Quale?? &ldquo;La sconfitta nella finale di Coppa Italia contro il Vicenza. Io giocai titolare la gara d'andata, che vincemmo 1-0: ricordo che al San Paolo ci saranno stati 80.000 spettatori. Venni ammonito nel finale e fui costretto a saltare la gara di ritorno, che perdemmo. Peccato. Avremmo meritato di portare a casa quel trofeo. Ricordo ancora il cammino che ci port&ograve; fino alla finale&rdquo;.  Che squadra era quel Napoli? &ldquo;Una formazione che non mollava mai e dove c'erano ottimi giocatori. Ricordo con affetto Pino Taglialatela, il nostro capitano e una persona eccezionale. Avevo un ottimo rapporto con lui. Era un punto di riferimento per tutti, un leader e un grandissimo portiere. Ricordo ancora quando par&ograve; il rigore in semifinale con l'Inter a Paganin. Fu lui a portarci in finale. E poi anche Milanese, con il quale ho giocato anche all'Inter, Baldini, Ayala e tutto il gruppo di difensori&rdquo;. A inizio stagione in c'era panchina Gigi Simoni, che poi ritrova anche all'Inter.? &ldquo;Una persona eccezionale. Un uomo fantastico, l&rsquo;allenatore ideale per gestire i campioni. Ha fatto un grande lavoro al Napoli e all'Inter &egrave; stato perfetto. &Egrave; stato il tecnico che mi ha dato per primo fiducia e mi ha permesso di emergere al Napoli. A Milano poi ha fatto un capolavoro. Ha gestito Ronaldo meglio di tutti. Il brasiliano con lui ha fatto la stagione migliore di tutta la sua carriera. Aveva una capacit&agrave; unica di gestire il gruppo e di ottenere il meglio da calciatori di grande personalit&agrave;. Per la mia carriera &egrave; stato fondamentale&rdquo;.  Dall'addio al Napoli all'approdo all'Inter. &ldquo;La testimonianza che da una grande delusione pu&ograve; nascere qualcosa di importante. Ripeto, non volevo lasciare il Napoli, mi trovavo benissimo, ma andare all'Inter ha rappresentato la svolta della mia carriera. Anni bellissimi, con un gruppo unico. Abbiamo vinto la Coppa Uefa, battendo in finale una Lazio fortissima, e abbiamo sfiorato lo scudetto. Che a distanza di anni grida ancora vendetta&rdquo;. Che effetto faceva giocare con tanti campioni?? &ldquo;Era un'Inter stellare. San Siro era sempre pieno: c'era gente come Pagliuca, Bergomi, Zanetti, Zamorano, Moriero e poi Ronaldo&rdquo;. Molti sono convinti che in quel momento fosse imprendibile. &ldquo;Lo era. Giocatore sublime: nella stagione 1997-98 ha fatto cose eccezionali. Poteva segnare da un momento all'altro. Un talento puro e un ragazzo fantastico. La sua grandezza la mostrava nell'umanit&agrave; e nella semplicit&agrave; che mostrava con i tifosi e con i compagni. Ma non era il solo. Quello &egrave; stato il gruppo pi&ugrave; unito che ho mai trovato nella mia carriera da calciatore. Un insieme di ragazzi straordinari. Eravamo una squadra di fratelli. E lo siamo ancora&rdquo;.  Continuate a seguirvi?? &ldquo;Quando venne a mancare Gigi Simoni abbiamo creato una chat, formata da tutto il gruppo del 1997. Sentivamo la voglia di rimanere uniti. Ripeto: eravamo una squadra unica e a distanza di tanti anni il rapporto che ci lega &egrave; ancora solido. L'idea l'abbiamo portata avanti io e Moriero. Ci sentiamo spesso e condividiamo il nostro pensiero sul calcio di oggi. Tutto quello che diciamo e scriviamo resta l&igrave;. E questa &egrave; la dimostrazione di quanto quel gruppo sia forte. E nella chat non ci sono solo giocatori. Ci sono anche dirigenti e tecnici: Luciano Castellini, allenatore dei portieri, Piero Volpi che era il dottore di quella squadra, Bordon. E tanti altri. Ci volevamo bene, ci rispettavamo e sar&agrave; per sempre cos&igrave;&rdquo;.       

I ricordi dell'ex difensore: "Non volevo lasciare l'azzurro, ma andare a Milano &egrave; stata la svolta della mia carriera. Gigi Simoni, il tecnico che mi ha dato per primo fiducia"

Ciccio Colonnese: "Tra Inter e Napoli ho passato gli anni più belli"

        La famiglia Brighenti &egrave; una di quelle legate al calcio come solo una volta succedeva. C&rsquo;&egrave; stato un tempo in cui non era cos&igrave; raro imbattersi in alcune famiglie che vantavano, tra fratelli, padri e parenti pi&ugrave; o meno stretti, un buon numero di calciatori. I Sentimenti sono uno degli esempi pi&ugrave; lampanti: tra gli anni &rsquo;40 e &rsquo;50 sono stati ben 7 a calcare i campi italiani: Ennio, Arnaldo, Vittorio, Lucidio, Primo, Lino e Andrea, categoricamente nominati dalla stampa con di fianco la numerazione romana per distinguerli durante le cronache. I Brighenti calciatori non furono cos&igrave; tanti, ma anche Sergio, il minore dei due, veniva appellato Brighenti II, per distinguerlo da suo fratello Renato, grandissimo bomber del Modena.  Gli inizi e gli scudetti vinti Anche la carriera calcistica di Sergio inizia con la maglia dei Canarini, con cui debutta nel 1950 nella serie cadetta. Brighenti II &egrave; un ottimo centravanti, ha un bel rapporto con il gol ma partecipa moltissimo anche alla manovra di squadra, venendo spesso a prendersi il pallone fuori dall&rsquo;area.  In Serie B fa cos&igrave; bene da attirare l&rsquo;attenzione di Alfredo Foni, il neo tecnico dell&rsquo;Inter che lo vuole assolutamente con s&eacute;. L&rsquo;approdo di Brighenti e Foni sulla sponda nerazzurra di Milano &egrave; quasi miracoloso: la Benamata vince due campionati consecutivi, cosa mai riuscita nella sua storia; tra l&rsquo;altro la vittoria mancava alla squadra milanese da prima della guerra. Sergio Brighenti in quelle due stagioni d&agrave; un buon contributo segnando diversi gol, nonostante non riuscisse a trovare molto spazio nell&rsquo;affollato reparto offensivo nerazzurro che vantava campioni del calibro di Nyers, Lorenzi e Armano.  Gli anni d'oro con Padova e Sampdoria Nel 1955 si trasferisce alla Triestina dove rimane due anni prima di intraprendere una delle sue avventure pi&ugrave; fortunate: incrocia sul suo cammino Nereo Rocco, allora sulla panchina del Padova. Brighenti &egrave; il centravanti perfetto per la filosofia del tecnico friulano: nei tre anni in cui veste la maglia biancoscudata segna ben cinquanta reti, contribuendo in maniera decisiva agli ottimi piazzamenti finali in classifica. Negli anni padovani arriva anche la chiamata della Nazionale, con tanto di esordio con gol a Wembley, tempio del football d&rsquo;Oltremanica e non solo.  Sembra essere come il vino Sergio Brighenti, che migliora invecchiando e, diventato ormai quasi un barricato, &egrave; pronto alla soglia dei trent&rsquo;anni a vincere il trofeo pi&ugrave; prestigioso per un centravanti italiano. Nella stagione 1960/61 passa alla Samp e segna 27 reti in campionato, laureandosi capocannoniere e raggiungendo un record ancora oggi imbattuto in casa blucerchiata. Nel 1963 torna nella sua Modena dove la sua carriera da calciatore si avvia verso il termine, che arriva nel &rsquo;65, dopo una breve parentesi con il Toro. Brighenti II non dir&agrave; ovviamente addio al calcio, continuer&agrave; come allenatore durante tutti gli anni &rsquo;70 tra Parma, Varese, Seregno e Lecco, prima di diventare il vice del commissario tecnico Vicini dal 1986 al 1991.        

Fratello di Renato, altro grande bomber, segn&ograve; tanto ovunque: dal Modena, passando per Inter, Triestina e Padova, fino alla Sampdoria, dove si laure&ograve; capocannoniere nel 1961. A Milano vinse anche due scudetti

La giostra del gol di Sergio Brighenti

        Uno che nel grande calcio c&rsquo;&egrave; stato e anche bene. Negli anni d&rsquo;oro in cui le squadre italiane dominavano in Europa, Paolo Stringara macinava chilometri a centrocampo: bandiera del Bologna (ancora oggi adorato dai tifosi) e gregario di lusso nell&rsquo;Inter del Trap vincitrice della Coppa Uefa 1991 nella finale tutta italiana contro la Roma. Senza dimenticare l&rsquo;esperienza a Siena che lo ha consacrato: &ldquo;A Siena sono diventato uomo. Sono arrivato l&igrave; a 18 anni e a 20 mi sono sposato. Ho vinto due campionati e la citt&agrave; &egrave; diventata la mia casa: anche quando giocavo a Bologna tornavo a Siena. &Egrave; stata una tappa fondamentale, non solo per la carriera da calciatore, ma per la mia vita in generale&rdquo;. Una carriera ad alti livelli che ha rischiato seriamente di non iniziare proprio, messa a repentaglio nel settore giovanile nerazzurro, dove Paolo arriv&ograve; nel 1978: &ldquo;Feci un campionato con gli allievi, ma poi l&rsquo;Inter (proprietaria del mio cartellino) non mi ritenne all&rsquo;altezza e mi risped&igrave; a casa, tenendomici per un anno intero. A quel punto pretesi che mi trovassero una squadra in Toscana: li provocai dicendo che altrimenti avrei smesso di giocare. Mi proposero la Cerretese o il Siena in C2, ovviamente optai per la seconda. Quando poi a 27 anni l&rsquo;Inter mi ricompr&ograve; dal Bologna pagandomi quasi 2 miliardi, alla prima intervista mi tolsi subito il sassolino dalla scarpa. Mi sembrava anche giusto, in fondo quell&rsquo;esclusione mi aveva dato la forza per dimostrare a tutti che si stavano sbagliando. Mi sono preso una grandissima rivincita&rdquo;.  Da quella nidiata di allievi nerazzurri sono arrivati in Serie A, oltre a Stringara, Giuseppe Bergomi e Marco Pecoraro, mentre Roberto Fontanini e Mauro Marmaglio si sono fermati in Serie B: &ldquo;Lo &lsquo;Zio&rsquo; Bergomi ha bruciato le tappe vincendo il Mondiale da titolare appena due anni dopo. Si vedeva che era gi&agrave; fatto, gi&agrave; adulto. Noi eravamo ancora ragazzini, lui aveva gi&agrave; i baffi, per quello lo chiamavamo lo Zio. Fin da piccolo si capiva che fosse di un&rsquo;altra categoria&rdquo;. A Siena inizia l&rsquo;avventura tra i professionisti: &ldquo;Sono molto grato a Costanzo Balleri: avrei dovuto giocare con la Juniores, mi port&ograve; subito in prima squadra e mi fece esordire. Con Guido Mammi, invece, ho vinto il mio primo campionato. Ma l&rsquo;allenatore al quale devo davvero tantissimo &egrave; Ferruccio Mazzola: mi &egrave; stato molto vicino ed &egrave; risultato fondamentale per il mio trasferimento al Bologna. Era il socio in affari di Nello Governato (allora dirigente sportivo del Bologna, ndi.). Fu lui a caldeggiare prepotentemente il mio acquisto a Nello. Sono orgoglioso che, col senn&ograve; di poi, abbia avuto ragione&rdquo;.  La stagione 1985-86, chiusa con un quarto posto nel girone B della C1, &egrave; l&rsquo;ultima passata in Toscana: Stringara approda a Bologna. La mediana che si forma in quell&rsquo;estate farebbe invidia a tante squadre della Serie A odierna: Marocchi-Pecci-Stringara. Invece all&rsquo;epoca giocavano in Serie B. A dire il vero l&rsquo;esperienza rossobl&ugrave; non inizia benissimo: &ldquo;Eraldo Pecci arriv&ograve; a Bologna dal Napoli un paio di mesi dopo di me. Durante la prima partita che giocammo insieme, dopo aver sbagliato un paio di palloni sentii una voce: &lsquo;Oh, guarda che noi siamo quelli con la maglia rossobl&ugrave;&rsquo;. Era Pecci da dietro. Questa cosa mi ha segnato, la ricordo come fosse ieri, forse fu la chiave giusta per farmi rendere di pi&ugrave;: con la sua ironia riusc&igrave; a spronarmi&rdquo;. Negli anni passati a Bologna il centrocampista toscano si toglie tante soddisfazioni vivendo la sua completa evoluzione tattica: &ldquo;Inizialmente giocavo da mezzala, mi piaceva inserirmi: io e Marocchi ci muovevamo ai lati di Pecci. Ero un giocatore un po&rsquo; &lsquo;anarchico&rsquo;, poi col passare del tempo, acquisendo tante nozioni, con le responsabilit&agrave; che aumentano, cambiai anche il mio modo di giocare&rdquo;. Tutto questo anche grazie alla vicinanza di un centrocampista straordinario d&rsquo;altri tempi, Eraldo Pecci: &ldquo;Mi ha aiutato tantissimo: giocare con lui &egrave; stato straordinario&rdquo;.  La seconda stagione &egrave; quella della svolta: grazie a un attacco super &ndash; migliore del torneo per distacco con 62 reti segnate &ndash; il Bologna vince il campionato e torna in Serie A. Protagonista il capocannoniere Lorenzo Marronaro (21 gol), con il quale Paolo Stringara si sente quotidianamente ancora oggi. Il timoniere del Bologna &egrave; invece Luigi Maifredi: &ldquo;Il suo modo di giocare a zona m&rsquo;incuriosiva tantissimo, per me era una situazione totalmente nuova. Fu molto affascinante, un po&rsquo; come tornare a scuola&rdquo;. &Egrave; lo stesso Maifredi con l&rsquo;addio di Pecci a spostarlo davanti alla difesa nel 1989: &ldquo;Presi l&rsquo;eredit&agrave; di Eraldo, con Ivano Bonetti e Massimo Bonini che agivano da mezze ali&rdquo;. Da Pecci eredita anche la fascia di capitano: &ldquo;Gi&agrave; indossare la maglia del Bologna &egrave; di per s&eacute; una cosa unica, essere stato addirittura il capitano di una squadra cos&igrave; gloriosa &egrave; una sensazione che mi godo ancora oggi. Aver avuto la possibilit&agrave; di capitanare un gruppo composto da gente come Cabrini, Giordano e Bonini continua a rendermi orgoglioso&rdquo;.  Con Stringara a Bologna giocava anche Fabio Poli, seconda punta sfortunata di quegli anni, ricordato soprattutto per aver segnato il gol che salv&ograve; la Lazio dalla C negli spareggi di Napoli del 1987: "Premettendo che ho giocato con tantissimi campioni inarrivabili (Matthaus, Bergomi, Brehme ecc&hellip;), se ti dovessi dire il giocatore pi&ugrave; forte con cui abbia avuto a che fare ti direi Fabio Poli del Bologna. Maifredi ci puntava tantissimo, era uno spettacolo vederlo giocare. Purtroppo &egrave; stato sfortunatissimo, si &egrave; rotto il crociato e da l&igrave; non &egrave; pi&ugrave; tornato quello di prima, martoriato dagli infortuni e dalle operazioni subite, contando anche l&rsquo;ernia del disco pi&ugrave; di 10 in carriera. Dentro a quel gruppo di fenomeni ci metto anche Fabio Poli, per me era eccezionale&rdquo;. Ci stupisce anche quando ci parla della sua &ldquo;bestia nera&rdquo;: &ldquo;Un certo Gabriele Baldassarri della Civitanovese: per 90 minuti non l&rsquo;ho mai preso, mi ha fatto impazzire. Mi ha messo in difficolt&agrave; come nessuno, una sensazione che non ho provato nemmeno quando mi sono trovato ad affrontare campionissimi come Maradona o Zico. Se penso a Baldassarri mi gira ancora la testa&rdquo;.  Come detto, nell&rsquo;estate del Mundial approda alla corte di Giovanni Trapattoni: &ldquo;La mia Inter era una squadra molto muscolare, poi ovviamente non mancava la qualit&agrave;: avevamo 8 nazionali tra i titolari. Un Pallone d&rsquo;Oro come Matthaus insieme ai connazionali Klinsmann e Brehme: tre tedeschi campioni del mondo. Oltre ai 5 italiani (Ferri, Zenga, Bergomi, Serena e Berti). Con Paganin, Pizzi, Fontolan e Battistini ci giocavamo gli altri posti. Nonostante la rottura del menisco proprio contro il Bologna a inizio campionato e il seguente strappo muscolare &ndash; infortuni che mi tennero lontano dai campi per due mesi &ndash;, giocai comunque 22 partite di campionato e qualche match di Coppa Uefa&rdquo;. Una stagione pi&ugrave; che positiva che vede l&rsquo;Inter tornare a trionfare in Europa a distanza di 36 anni: &ldquo;Vinsi a Milano quella Coppa Uefa per la quale mi ero qualificato nella stagione precedente a Bologna. Un grandissimo rammarico resta la finale di ritorno. Stavamo perdendo 1-0 all&rsquo;Olimpico con la Roma, il Trap mi fece scaldare dall&rsquo;inizio alla fine del secondo tempo senza per&ograve; farmi mai entrare. Mi sarebbe piaciuto tantissimo poter giocare anche solo 5 minuti di quella storica gara&rdquo;. Un allenatore unico come Giovanni Trapattoni seppe farsi perdonare pochi giorni dopo, con un trucco del mestiere, un divertente aneddoto rivelato dall&rsquo;ex centrocampista toscano: &ldquo;Era l&rsquo;ultimo allenamento stagionale. Finita la doccia mi rivestii, misi la mano in tasca e sentii qualcosa. Era un bigliettino con su scritto &lsquo;Ti ringrazio per tutto quello che hai fatto per me, mi dispiace per l&rsquo;infortunio che ti ha un pochino limitato, ma soprattutto sono molto dispiaciuto per la finale, quando ti ho fatto scaldare senza farti entrare. Grazie mille (Giovanni Trapattoni)&rsquo;. Questa cosa ovviamente non l&rsquo;ha fatta solo con me, avr&agrave; messo un bigliettino personalizzato anche nella tasca degli altri. Ma da una persona che ha vinto tutto non ti aspetti un gesto cos&igrave; umile: andare a chiedere al magazziniere dove si spoglia un calciatore piuttosto che un altro&hellip; Per me questa &egrave; una cosa da gigante&rdquo;.  Dopo l&rsquo;Inter, l&rsquo;Avellino, un breve ritorno a Bologna e l&rsquo;esperienza ad Aosta (dove nel 1995-96 ritrova il suo vecchio maestro Ferruccio Mazzola), appende gli scarpini al chiodo nel 1996 con la stagione all&rsquo;Iperzola, quando da giocatore-allenatore porta per la prima volta la squadra tra i professionisti. Lunghissima sar&agrave; anche la carriera in panchina di Paolo Stringara. Inizia a Livorno &ndash; dove conquista la promozione in C1 e il seguente record di 9 vittorie di fila iniziali in campionato &ndash; e prosegue in piazze importanti come Pistoia, Perugia, Lucca, Taranto e Foggia. Proprio con i Satanelli una delle partite pi&ugrave; pazze della sua intera carriera: &ldquo;Andammo a Benevento per giocare una gara sentitissima. A pochi minuti dalla fine del primo tempo ci trovammo in 9 e senza mister (l&rsquo;arbitro aveva cacciato anche me). Dopo aver resistito in 9 contro 11 per pi&ugrave; di un&rsquo;ora, vincemmo 0-1 con gol vittoria segnato all&rsquo;85esimo da Agodirin. Ricordo che a fine primo tempo gli addetti non mi volevano far rientrare negli spogliatoi, neanche per recuperare il portafogli. Seguire il secondo tempo dalla tribuna sarebbe stato complicato, allora andai nel nostro settore: mi misi sotto insieme ai miei collaboratori. C&rsquo;erano 800 tifosi foggiani, ed erano pure un po&rsquo; incazzati, pronti ormai inevitabilmente a perdere. Dopo il fischio finale mi portarono in trionfo, fu una cosa eccezionale: veramente da brividi. Questa partita a Foggia &egrave; leggendaria: non so quante squadre nella storia del calcio siano state capaci di un&rsquo;impresa simile&rdquo;.  Attualmente collabora con il suo vecchio compagno Jurgen Klinsmann: &ldquo;Ho lavorato con lui con la nazionale americana e all&rsquo;Herta Berlino. Stiamo aspettando qualcosa dall&rsquo;estero, magari una nazionale, vediamo&rdquo;. Nel frattempo si tiene in forma e continua a giocare a calcio con costanza, coinvolto anche nelle iniziative tra vecchie glorie: &ldquo;Un paio di volte mi ha chiamato il Bologna Legend per giocare amichevoli con altri ex calciatori. Abbiamo giocato al Dall&rsquo;Ara contro il Real Madrid Legend in occasione dei 110 anni del club. Nel Real c&rsquo;erano Seedorf e Roberto Carlos, ex giocatori importanti&hellip; abbiamo perso 4-2, per&ograve; mi sono tolto lo sfizio di segnare su rigore. Spesso andiamo a giocare in giro per i paesini con i veterani, organizza Franco Colomba. Anche con l&rsquo;Inter sono andato a fare una partita, a Tolentino, perch&eacute; Suning aveva donato delle tribune per il &lsquo;Centro sportivo Gattari&rsquo;. C&rsquo;erano vecchie glorie niente male: Zanetti, Materazzi, Toldo; e anche due miei ex compagni di squadra come Alessandro Bianchi e Beppe Baresi. Sto bene fisicamente, non voglio smettere: ancora oggi giocare a pallone mi piace tantissimo&rdquo;.        

Nato il 22 settembre del 1962, in occasione dei suoi 60 anni l'ex centrocampista toscano ha aperto l'album dei ricordi: "Che emozione la fascia da capitano. Inizialmente i nerazzurri mi scartarono"

Paolo Stringara: "Bologna il mio orgoglio. All'Inter mi presi la rivincita"

        Il suo nome appartiene alla storia. Non solo del calcio italiano, anche di quello mondiale. Gi&agrave;, perch&eacute; la notte dell&rsquo;11 luglio 1982 era tra i ragazzi forsennati di gioia che correvano per il Santiago Bernabeu di Madrid a celebrare la vittoria pi&ugrave; bella mai ottenuta dalla Nazionale italiana. Fulvio Collovati, classe 1957, proprio quell&rsquo;estate in cui raggiungeva l&rsquo;apice della carriera, era protagonista di uno dei trasferimenti pi&ugrave; discussi di un calciomercato che non faceva ancora girare soldi e calciatori con la fluidit&agrave; di oggi: passava dal Milan, squadra nella quale era cresciuto, di cui era tifoso e che era appena retrocesso in Serie B, all&rsquo;Inter. Una scelta non indolore, che pag&ograve; con molte critiche, che gli permise di conoscere dall&rsquo;interno la realt&agrave; di quelli che per anni erano stati i suoi avversari pi&ugrave; diretti. Chi meglio di lui, quindi, per parlare di Milan, Inter e del Derby della Madonnina? Fulvio, nel 1982 il Milan retrocesse e tu fosti costretto a lasciarlo perch&eacute; Bearzot ti disse che giocando in B avresti perso la Nazionale. Dovevi cambiare squadra. Ma perch&eacute; proprio l&rsquo;Inter, tu che dei rossoneri eri una bandiera? &ldquo;Il messaggio era chiaro. Avevo gi&agrave; fatto un anno nel quale giocavo il sabato con l&rsquo;Italia e la domenica in B col Milan. Ma un&rsquo;altra stagione cos&igrave;, ammesso e non concesso che la squadra fosse subito risalita in Serie A, avrebbe comportato il rischio di perdere l&rsquo;azzurro. Fu una scelta che condivisi con la mia famiglia e la Nazionale. Perch&eacute; proprio l&rsquo;Inter? Fu la societ&agrave; che mi cerc&ograve; con pi&ugrave; insistenza. Oggi i giocatori fanno valere la loro volont&agrave; ma all&rsquo;epoca era molto diverso. Mi avevano cercato anche la Fiorentina e la Juventus ma l&rsquo;Inter fu quella che mi volle con pi&ugrave; determinazione. Del resto all&rsquo;epoca decidevano le societ&agrave; e l&rsquo;Inter era una squadra di prestigio. Andai senza pormi grossi problemi&rdquo;.  A Baresi non venne fatto lo stesso discorso? &ldquo;Questo non lo so. E&rsquo; vero, anche Baresi era nel giro della Nazionale ma finch&eacute; ci fu Bearzot il titolare era Scirea&rdquo;. Come venisti accolto dall&rsquo;ambiente nerazzurro? &ldquo;Dalla tifoseria molto bene, non ci fu assolutamente scetticismo. Forse anche perch&eacute; gi&agrave; allora in casa Inter c&rsquo;era molta pi&ugrave; rivalit&agrave; con la Juventus che col Milan. In squadra, poi, avevo sei compagni di Nazionale che giocavano con me: i vari Oriali, Altobelli, Bergomi mi aiutarono ad integrarmi. Dall&rsquo;altra parte non fu cos&igrave;: lasciando il Milan fui considerato ingiustamente un traditore, nonostante avessi fatto anche la Serie B coi rossoneri&rdquo;.  Tu sei entrato nelle giovanili del Milan molto presto. In quegli anni credevi di riuscire ad arrivare in Serie A?? &ldquo;A tredici anni sei spensierato, nel Milan ogni anno ti ponevi l&rsquo;obiettivo di essere confermato. Questo, ovviamente, significava fare tutti i passaggi: allievi, juniores, primavera. Insomma, non pensi subito di diventare un giocatore. Anche perch&eacute; non &egrave; cos&igrave; scontato: devi avere le qualit&agrave;, il DNA, la voglia di allenarti e fare sacrifici. Io li ho fatti, in qualche maniera ho perso un po&rsquo; la mia adolescenza. Allenarsi col Milan non &egrave; come allenarsi con la squadretta sotto casa, devi farlo quasi tutti i giorni. E poi c&rsquo;era la scuola. Di conseguenza io non uscivo la sera coi miei amici&rdquo;.  Quali erano le tue caratteristiche tecniche? "Ero un difensore moderno gi&agrave; cinquanta anni fa, non lo dico con presunzione. Oggi si parla molto dei difensori che devono costruire dal basso, avere i piedi buoni, impostare pi&ugrave; che marcare. Io avevo la predisposizione per la costruzione perch&eacute; da ragazzino avevo giocato anche mezzala. Liedholm nel 1977 mi mise mediano per marcare Antognoni. Poi, non essendo velocissimo, sono andato a fare prima il terzino e poi lo stopper. Per&ograve; non mi scottava il pallone tra i piedi, anche se ovviamente non ero un fuoriclasse. Per cui cercavo di giocare con intelligenza, cercando di capire i tempi di gioco e andare sull&rsquo;anticipo&rdquo;. Oggi c&rsquo;&egrave; un difensore nel quale, almeno in parte, ti rivedi? &ldquo;Ti dico di no. Ma nello stesso modo in cui non c&rsquo;&egrave; un giocatore simile a Scirea. Oggi i difensori non sanno marcare bene perch&eacute; non gli viene insegnato, non gli spiegano la postura nell&rsquo;affrontare l&rsquo;avversario. Oggi c&rsquo;&egrave; il difensore veloce ma meno tecnico, oppure quello che, appunto, non sa marcare bene. Era un calcio diverso, non si pu&ograve; fare un paragone". Torniamo ai tuoi primi anni da professionista. Albertosi, Collovati, Maldera; De Vecchi, Bet, Baresi&hellip; quasi una litania sacra per i tifosi rossoneri. Che ricordi hai di quella formazione che cominciava cos&igrave;? &ldquo;Era una squadra che con me, Baresi e Maldera aveva una difesa giovanissima aiutata da due giocatori esperti come Bet e Albertosi. Un Milan che non aveva la punta da venti reti ma che mandava in gol tutti gli altri giocatori. Era una squadra che, al netto di Rivera, che per&ograve; era sul viale del tramonto, non possedeva campionissimi. Per&ograve; aveva un gioco di squadra che ci fece vincere lo scudetto&rdquo;.  6 novembre 1983, il tuo primo derby da ex fin&igrave; 2-0 per l&rsquo;Inter e tu segnasti la prima rete. Te lo ricordi? &ldquo;Certo che me lo ricordo! Fu un gol in mischia: alcuni dettero la rete a Serena perch&eacute; lui disse che il gol era suo ma la realt&agrave; era diversa, fui io a segnare&rdquo;.  I milanisti come ti accolsero? &ldquo;Puoi immaginarti. Ci furono degli striscioni per i quali mia moglie pianse. Purtroppo gli imbecilli e i deficienti sono sempre dietro l&rsquo;angolo: fui riempito di insulti dall&rsquo;inizio alla fine della partita. Per&ograve; mi tolsi la soddisfazione di vincere il derby&rdquo;. In quei frangenti non ci si riesce a isolare dal contesto, a lasciar correre? &ldquo;Non &egrave; possibile fregarsene degli insulti, per&ograve; alla fine prevale il fatto che tu sei un professionista e devi giocare&rdquo;. Nei derby giocati con l&rsquo;Inter, qualche ex compagno ti ha mai rinfacciato in campo la tua provenienza? &ldquo;No, assolutamente nessuno. Anche perch&eacute; il Milan era molto cambiato da quando io me n&rsquo;ero andato, i giocatori erano diversi&rdquo;. Cosa ti viene in mente se ti parlo di Mark Hateley? &ldquo;Un avversario leale che mi ha fatto un gran gol, che &egrave; diventato un manifesto della rabbia dei milanisti nei miei confronti. Una rete meravigliosa che pu&ograve; succedere di prendere quando giochi centinaia di partite in Serie A. Era un&rsquo;azione in cui noi stavamo uscendo, poi sulla sinistra perdemmo palla, Virdis la prese e io corsi all&rsquo;indietro mentre lui and&ograve; proprio incontro saltando cinquanta centimetri pi&ugrave; di me. Con Mark, poi, siamo diventati amici. Gli dico sempre che fece un gran gol".  Il derby che ricordi con pi&ugrave; piacere disputato col Milan e quello con l&rsquo;Inter. &ldquo;Con l&rsquo;Inter quello di cui abbiamo parlato prima, nel quale feci gol e mi presi gli insulti. Col Milan uno in cui vincemmo con un gol di Maldera. In quell&rsquo;occasione Liedholm tenne fuori Rivera. Ricordo che giocammo molto bene (12 novembre 1978, Milan-Inter 1-0, ndr)" E i due pi&ugrave; brutti? "Col Milan ci fu un derby che perdemmo 2-0, segn&ograve; Beccalossi su un cross da calcio d&rsquo;angolo (28 ottobre 1979, Inter-Milan 2-0, ndr). Con l&rsquo;Inter quello del gol di Hateley&rdquo;. In cosa sono diversi i tifosi di Inter e Milan? &ldquo;Considera che anche quando eravamo in B, col Milan c&rsquo;erano sempre ottantamila persone allo stadio. Il tifoso interista, quando la squadra perde, &egrave; un po&rsquo; pi&ugrave; critico".  Oltre che a Milano tu hai giocato il derby a Roma e a Genova. Cosa ha di unico la stracittadina milanese? &ldquo;Adesso non ti saprei dire perch&eacute; &egrave; cambiato tutto. Ma ai miei tempi San Siro era davvero la Scala del calcio. Ti mettevi in testa che era come andare a teatro: non potevi fallire. Se sbagliavi eri marchiato per tutta la vita. Oggi c&rsquo;&egrave; pi&ugrave; pazienza nell&rsquo;aspettare i giocatori. All&rsquo;epoca non ti veniva dato tempo: bastava fallire due partite e ti trovavi a giocare in una provinciale. Era questa la differenza che c&rsquo;era giocando nell&rsquo;Inter e nel Milan". C&rsquo;&egrave; qualche aneddoto di campo che ti &egrave; capitato in un derby e che vuoi raccontare? &ldquo;Quel derby vinto con gol di Maldera io marcavo Altobelli. Gli feci un falletto e lui da dietro mi dette una manata. Io esagerai un pochino per quella reazione, tanto che l&rsquo;arbitro Michelotti lo espulse. Quando diventammo compagni all&rsquo;Inter mi ricord&ograve; quell&rsquo;episodio: 'Non t&rsquo;ho neanche toccato, hai fatto una scena' mi diceva. Me l&rsquo;ha sempre rinfacciato! A volte in campo si diventa anche un po&rsquo; attori. Un altro aneddoto &egrave; legato al derby di ritorno sempre di quell&rsquo;anno, che pareggiammo 2-2 negli ultimi minuti dopo che eravamo sotto 2-0, al quale io non partecipai. Il motivo? All&rsquo;epoca facevo il militare, mi allenavo alla Cecchignola e il mercoled&igrave; facevamo delle partite. Bene, ricordo che prima di quel derby di ritorno giocammo contro il Colleferro su un campo in terra battuta: mi procurai una distorsione al ginocchio che mi tenne fuori un mese. Ero proprio demoralizzato&rdquo;.        

Nel 1982, anno in cui vinse il Mondiale, il difensore cambi&ograve; sponda del Naviglio suscitando polemiche. In questa intervista racconta le sue esperienze milanesi rivelando anche aneddoti inediti

Milan-Inter, i derby di Fulvio Collovati:”Se sbagliavi eri marchiato a vita”

        Due artisti del pallone che fu; geni che udite udite, non hanno mai vestito la maglia della Nazionale: Vincenzo D&rsquo;Amico ed Evaristo Beccalossi. Sono i fantasisti di due scudetti operai: D&rsquo;Amico con la Lazio del &rsquo;74 timonata da Tommaso Maestrelli, venuto dal nulla e accolto con scetticismo, in grado di tramutare i &ldquo;clan&rdquo; interni dello spogliatoio in un gruppo vincente; Beccalossi con l&rsquo;Inter nel 1980, guidata dal Sergente di ferro Eugenio Bersellini, capace di surclassare una Juve pi&ugrave; attrezzata e in procinto di fare man bassa di trofei in Italia e in Europa negli anni a venire.  D&rsquo;Amico &Egrave; ancora un teenager Vincenzino quando Maestrelli lo lancia nel &rsquo;72: debutta non ancora 18enne all&rsquo;Olimpico contro il Modena, schierato in attacco al fianco di Chinaglia e Massa. &Egrave; proprio l&rsquo;addio di Peppiniello &ndash; trasferitosi all&rsquo;Inter &ndash; a lasciargli il posto in squadra. Vincenzino per&ograve; &egrave; sfortunato: si rompe il ginocchio ed &egrave; costretto a saltare l&rsquo;intero campionato alle porte. Sarebbe stato il suo primo in Serie A. Si rifar&agrave; diventando il Golden Boy del primo scudetto. Equilibratore di fantasia nel tridente di Maestrelli; lasciato fuori dalle faide interne al gruppo &ndash; sotto l&rsquo;ala protettiva del capitano Pino Wilson, delegato di controllarlo anche a tavola &ndash;, il ragazzino venuto da Latina scoppia in lacrime quando segna la prima rete in Serie A (su assist di tacco di Chinaglia) e ritrova il gol nel giorno pi&ugrave; importante, quello del derby di ritorno, pareggiando la sfida che Long John infiamma indicando la Sud. Una stracittadina passata alla storia che proietta la Lazio a +4 sulla Juve avvicinandola al tricolore. Uno scudetto che arriver&agrave; un mese e mezzo pi&ugrave; tardi, del quale Vincenzo D&rsquo;Amico rimarr&agrave; per sempre &ldquo;faccia pulita&rdquo; in mezzo ai volti dei vari bad boys che giocavano nella turbolenta Roma degli anni &rsquo;70.  Beccalossi Gli stessi anni in cui emerge calcisticamente il classe &rsquo;56 (due primavere in meno di D&rsquo;Amico) Evaristo Beccalossi. Un trequartista geniale che sboccia nel torneo 1976, nella sua Brescia in Serie B. L&rsquo;Inter lo acquista solo nel &rsquo;78, un anno dopo aver prelevato, sempre dalle Rondinelle, il suo grande amico Spillo Altobelli. A Milano Beccalossi diventer&agrave; un&rsquo;icona: un po&rsquo; per il modo di giocare, un po&rsquo; per il modo di essere. "Non ero un guerriero, mi allenavo poco, accendevo spesso e volentieri una Marlborina. Bersellini tent&ograve; di raddrizzarmi, ma fu tutto inutile". Il Becca &egrave; cos&igrave;, prendere o lasciare. E per i tifosi Bauscia i trucchi mostrati in campo hanno sempre prevalso sulla discontinuit&agrave; emersa nella carriera del fantasista bresciano. Genio e sregolatezza, come quando nel 1979-80 stende il Milan con una doppietta di destro: delizioso il primo tocco al volo; facile facile il secondo. &Egrave; quella la prestazione che ispira la celeberrima frase &ldquo;Sono Evaristo, scusate se insisto&rdquo;: "Merito del mio grande amico Beppe Viola. Dopo quel derby uscendo dallo stadio sent&igrave; un tifoso che diceva quella frase. La ripet&eacute; in televisione e da allora...".  Rigori e bandiere Evaristo insiste anche il 15 settembre &rsquo;82, Coppa Coppe, Inter-Slovan Bratislava: "Ero il primo rigorista, arrivo l&igrave; e sbaglio. Pazienza, succede. Dopodich&eacute;, secondo rigore. La regola era ferrea: se il rigorista principale sbaglia, tocca al secondo. Mi giro e vedo il secondo rigorista che corricchia all&rsquo;indietro verso centrocampo e capisco l&rsquo;antifona". Due rigori sbagliati resi ancora pi&ugrave; popolari a teatro dal comico Paolo Rossi, che li inser&igrave; nel suo show, prima di &ldquo;cantarne le gesta&rdquo; anche nella trasmissione &ldquo;Su la testa&rdquo;, andata in onda su Rai 3 nel &rsquo;92. Come il Becca &ndash; che in carriera ne ha comunque realizzati 17 sbagliandone solo 3 &ndash; anche D&rsquo;Amico si presentava spesso dagli 11 metri (14 segnati, 3 falliti). Si prendeva le responsabilit&agrave; Vincenzino: ceduto controvoglia al Toro e tornato in fretta e furia per mantenere a galla una Lazio vicina al baratro, orfana di Giordano, Wilson e Manfredonia. La sua fiamma biancoceleste in campo resta accesa fino al 1986, quando lascer&agrave;, forse tramandando qualcosa ai ragazzi che scriveranno l&rsquo;impresa del -9. Come dicevamo, una carriera ad alti livelli senza Nazionale. Rimpianto per D&rsquo;Amico, che da giovane ha vestito l&rsquo;azzurro dell&rsquo;Italia B, dell&rsquo;U-18, dell&rsquo;U-23 e di quella militare. Ancora pi&ugrave; grande il rammarico per Evaristo, che negli anni &rsquo;80 &egrave; addirittura salito di livello, sfiorando la finale di Coppa Campioni 1981, giocando un campionato 1981- 82 da urlo e agitando proteste popolari quando Bearzot lo escluse dal Mundial. Beccalossi rappresenta una delle ultime maglie di lana nerazzurre con su cucito il numero 10, quasi un&rsquo;icona pop; D&rsquo;Amico con quella faccia d&rsquo;angelo non poteva finire all&rsquo;inferno, cos&igrave; come la sua amata Lazio alla quale ha dedicato una vita. Regista offensivo, mancino, dribblomane &ndash; o Driblossi, come lo chiamava Brera &ndash; e meno faticatore Beccalossi; destro, schierato prevalentemente in fascia, terribile nello stretto e abile crossatore D&rsquo;Amico. Diversi in campo e fuori, entrambi romantici interpreti del calcio che fu.        

Vincenzino ed Evaristo, calciatori fantastici, adorati dai loro tifosi, non sono per&ograve; mai riusciti a giocare con la maglia della Nazionale italiana

Lazio-Inter: gli anni d'oro di D'Amico e Beccalossi

        Si dice che il viso sia il primo biglietto da visita di una persona. Nel suo, a spiccare erano gli occhi chiarissimi, di una dolcezza difficile da quantificare. Si muovevano all&rsquo;unisono con la sua voce, di un tono caldo e affettuoso. Una voce che oggi si pu&ograve; ancora sentire. S&igrave;, si pu&ograve; ancora ascoltare Giacinto Facchetti &ldquo;parlare piano, anche adesso, adesso che &egrave; lontano&rdquo;, come cantava Gaetano Curreri. Facchetti, figlio di una generazione cresciuta nell&rsquo;immediato dopoguerra, che ha imparato a rimboccarsi le maniche e a ripartire con umilt&agrave; e sacrificio. Proprio le doti che Giacinto metteva in campo, e che lo hanno fatto diventare Facchetti.&nbsp;  Due vizi: fare gol e correre Per lui un numero. Il 3. E due colori. Il nero e l&rsquo;azzurro. Inter e nazionale italiana. Ci vuole arrivare al grande calcio, il piccolo Giacinto, sin da quando da bambino gioca all&rsquo;oratorio della sua Treviglio. Con i dilettanti della Trevigliese &egrave; schierato attaccante, ma lui sosteneva che no, non era vero, solo una leggenda, era gi&agrave; un difensore, ma amava spingersi in avanti. &Egrave; un vizio che non perder&agrave; mai. Fare gol e correre. Quanto correva, Giacinto. Pap&agrave; Felice e mamma Elvira avevano messo su un tale marcantonio, con quelle gambe lunghe. Nel &rsquo;58 corre gli 80 metri in 9&rsquo;&rsquo; ai campionati provinciali studenteschi. I dirigenti della Federatletica provano a convincerlo a lasciare il calcio. "Vieni da noi, Giacinto, diventa un corridore. Basta il calcio. Hai pure fatto il provino con il Milan e ti hanno bocciato". Macch&eacute;. Di l&igrave; a due mesi lo nota Giuseppe Meazza, che lo porta all&rsquo;Inter. E il provino &egrave; superato. Il debutto di &ldquo;Cipe&rdquo; "Come ti chiami? Da domani ti alleni con noi". &Egrave; Helenio Herrera a rivolgersi cos&igrave; al giovanissimo Facchetti. &Egrave; il marzo 1961, il tecnico franco-argentino voluto fortemente dal presidente Angelo Moratti nota da subito qualcosa in lui. A maggio il debutto assoluto in prima squadra nella semifinale di Coppa delle Fiere con il Birmingham, diciotto giorni dopo, il 21 maggio, la prima in campionato, in una vittoria all&rsquo;Olimpico contro la Roma. Herrera, un po&rsquo; apposta un po&rsquo; per sbaglio, lo chiama Cipelletti, e &ldquo;Cipe&rdquo; &egrave; il soprannome che nessuno gli toglier&agrave; pi&ugrave;. Il Mago sa che Facchetti &egrave; un difensore atipico per l&rsquo;epoca: le sue lunghe leve gli permettono di sprintare in avanti con naturalezza, e il gol per lui non &egrave; un&rsquo;eventualit&agrave;, ma una probabilit&agrave;. L&rsquo;allenatore non sopprime la sua indole. La esalta. Lo schiera terzino, ma &egrave; l&rsquo;ala aggiunta dell&rsquo;attacco di un&rsquo;Inter che da anonima sta per diventare Grande.  La filastrocca della Grande Inter Il 3 con la maglia nerazzurra riesce a schiacciare la pressione di San Siro cos&igrave; come l&rsquo;Inter schiaccia qualsiasi avversario in Italia, in Europa, nel mondo. &Egrave; l&rsquo;Inter della filastrocca Sarti, Burgnich, Facchetti, che conoscono a memoria anche i tifosi delle altre squadre. Che vince scudetti e coppe internazionali. Il giovane Giacinto che giocava all&rsquo;oratorio di Treviglio &egrave; diventato Facchetti. Corre, segna (tanto), vince. Anche il contorno &egrave; dei migliori. Nel &rsquo;65 solo Eusebio gli vieta di alzare al cielo il Pallone d&rsquo;Oro, e due anni dopo sposa l&rsquo;amata Giovanna. Manca poco alla conquista di un trofeo anche con la Nazionale.  Facchetti e la Nazionale italiana Perch&eacute; se sei leader dello spogliatoio della pi&ugrave; forte squadra italiana, lo sei anche della nazionale. Condottiero e capitano. Un rapporto tormentato con il ct Fabbri non gli permette di giocare un buon Mondiale nel 1966, il primo di tre. Nel torneo inglese, contro l&rsquo;Urss, uno scatenato Igor Cislenko lo fa impazzire su quella fascia, uno dei pochissimi ad averlo messo veramente in difficolt&agrave;. Insomma, quel russo con la maglia numero 7 sulla destra fa quello che vuole e segna pure il gol decisivo per la vittoria dei sovietici. Ci sono tutti gli ingredienti per far s&igrave; che tra i due nasca l&rsquo;odio. Diventeranno amici per la pelle. Ogni anno infatti Facchetti prender&agrave; un aereo per Mosca e lo andr&agrave; a trovare. Non pu&ograve; per&ograve; fare a meno di notare che il buon vecchio Igor ha sempre una bottiglia di vodka in mano. Non gli dir&agrave; mai niente. A cosa servirebbe? La voglia di condividere &egrave; pi&ugrave; importante. Gli rimarr&agrave; legato, a Cislenko, fino al 1994, quando una cirrosi epatica se lo porter&agrave; via. &Egrave; questo, Facchetti. &Egrave; il capitano che agli Europei del &rsquo;68 vince il famoso sorteggio della monetina che elimina l&rsquo;Urss e che dopo la vittoria contro la Jugoslavia alza al cielo il primo trofeo continentale degli Azzurri. Porta la fascia al braccio anche a Messico &rsquo;70, ed &egrave; il primo ad andare in camera del milanista Lodetti, avversario di tanti derby, quando il ct Valcareggi lo rispedisce in Italia per far posto a un attaccante in pi&ugrave; in rosa. Non gli dice niente, sa che non serve. Come per Cislenko. Ci sono momenti in cui le parole contano, se poche ma efficaci. "Giovanni, per qualsiasi cosa, io sono qui".  La parte buona del calcio Ed &egrave; sempre l&igrave;, sulla fascia sinistra, fino al 1978, l&rsquo;anno del ritiro. Rimarr&agrave; sempre legato al mondo Inter, da dirigente fino a presidente, portavoce dei colori nerazzurri, testimone di un modo di vivere il calcio tutto suo. Onesto, leale, corretto. Rispettato da tutti per la sua rettitudine morale, per la capacit&agrave; di trasmettere i princ&igrave;pi giusti a chi gli stava attorno. Una persona perbene, in un mondo in cui spesso l&rsquo;essere buoni viene confuso con l&rsquo;ingenuit&agrave;. L&rsquo;omaggio di Cambiasso nella notte di Madrid Quando il 4 settembre 2006 decide di assentarsi definitivamente dal nostro mondo, la notizia scuote l&rsquo;universo del calcio. Cinque giorni dopo, l&rsquo;Inter debutta in campionato al Franchi di Firenze. Javier Zanetti indossa una fascia particolare: &ldquo;Tu sei tutto quello che un uomo dovrebbe essere&rdquo;. Ma a prendersi la scena &egrave; Esteban Cambiasso, autore di una doppietta. &Egrave; uno dei grandi protagonisti di un&rsquo;Inter nuova, bella e Grande come quella di Herrera e Facchetti. Che raggiunge la sua vetta pi&ugrave; alta la sera del 22 maggio 2010. A fine partita, &egrave; proprio Cambiasso a togliersi la sua 19 e a infilarsi una casacca nerazzurra degli anni Sessanta. Ha il 3 stampato dietro. Giacinto &egrave; presente nella notte di Madrid. Si pu&ograve; ancora sentire la sua voce.        

Una vita per l&rsquo;Inter, quella del terzino con il numero 3, protagonista anche in Nazionale. Ha rappresentato, in campo e da dirigente, la parte pulita di questo sport

Giacinto Facchetti: il bello del calcio

        Anche l&rsquo;edizione della Coppa Italia 1964-65 ha visto nel suo atto finale sfidarsi Juve e Inter. Non &egrave; la prima volta che un Derby d&rsquo;Italia assegna la coppa nazionale: qualche anno prima infatti, nel 1959, Inter e Juve si incontrarono e a sfangarla furono sempre i bianconeri.&nbsp;&Egrave; il 29 agosto del 1965. L&rsquo;Italia sportiva a dire il vero &egrave; concentrata su un altro evento: la disastrosa caduta a Robbiano dei nostri migliori ciclisti, nella penultima gara di preparazione per i mondiali. Gimondi, Taccone e Adorni ne escono infortunati, gettando nello sconforto milioni di appassionati in un tempo in cui il ciclismo era il primo, autentico sport nazionale, in grado di oscurare anche gli accadimenti calcistici.  Heriberto contro Helenio La partita viene giocata a Roma, in uno Stadio Olimpico dove accorrono circa 50.000 spettatori, per lo pi&ugrave; tifosi del sud Italia, nonostante qualche polemica dell&rsquo;ultima ora da parte dei due club, che avrebbero senza dubbio preferito una location pi&ugrave; vicina. La sfida sulle panchine vede confrontarsi i due omonimi Herrera che non potrebbero venire da momenti pi&ugrave; diversi. Helenio, tecnico dell&rsquo;Inter, nell&rsquo;ultima stagione ha trionfato in tutte le competizioni che ha disputato: campionato, Coppa dei Campioni e Coppa Intercontinentale; la Coppa Italia sarebbe la ciliegina sulla torta che anticiperebbe quel record arrivato solamente nel 2010. Heriberto dall&rsquo;altra parte, tecnico che godeva di una certa antipatia da parte dell&rsquo;ambiente e della stampa, sino a quel momento poteva fregiarsi di ben pochi meriti, anzi. &Egrave; proprio l&rsquo;inflessibile e rigido allenatore paraguaiano che rompe con l&rsquo;istrionico Sivori, allontanando il Cabez&oacute;n dalla Juventus e facendolo accasare a Napoli, lasciando interdetti tutti i tifosi juventini. La vittoria della Coppa servirebbe a entrambi, a Heriberto per far ricredere chi lo considera un visionario, e a Helenio per far tacere tutte quelle polemiche nate dopo la disastrosa amichevole di Barcellona della settimana precedente, dove l&rsquo;Inter &egrave; uscita sconfitta in malo modo.  La vittoria di Menichelli, romano e bianconero La Grande Inter, forse appagata dalle numerose vittorie, scende in campo senza il piglio delle grandi occasioni, lasciando ai bianconeri il pallino del gioco, soprattutto a centrocampo. La Juventus dal canto suo, orfana di Sivori, fa del gioco corale il suo punto di forza, non fa spiccare nessuna individualit&agrave; e i suoi attaccanti, lenti e lontani dalla manovra, ne sono l&rsquo;esempio pi&ugrave; lampante. Il vantaggio degli uomini di Heriberto viene infatti dal centrocampo: Del Sol imbuca Menichelli ma la palla &egrave; lunga e finisce tranquillamente tra le braccia di Sarti che, sfortunatamente, urta Bedin e perde la sfera. &Egrave; proprio l&rsquo;ala bianconera a gettarsi per prima sul pallone e a insaccarlo in rete, tutto questo al 15esimo minuto del primo tempo. Menichelli segna dunque nel suo vecchio stadio, lui romano, che all&rsquo;Olimpico ha tirato i primi calci al pallone da professionista alla fine degli anni &rsquo;50. L&rsquo;Inter, sfilacciata e mai davvero in partita, non riesce a impensierire i bianconeri, forti di una difesa rocciosa formata da Castano, Bercellino e Salvadore. L&rsquo;uomo pi&ugrave; ispirato della formazione juventina &egrave; senza dubbio Del Sol, che ben coadiuvato da Cinesinho rappresenta una vera e propria spina nel fianco della difesa nerazzurra. Perlomeno fin quando al 30&rsquo; della ripresa non pensa bene di dar vita a un vero e proprio duello rusticano con Burgnich: i due vengono alle mani, vola qualche cazzotto e finiscono sotto la doccia prima del tempo. L&rsquo;ultimo quarto d&rsquo;ora vede un&rsquo;Inter pi&ugrave; aggressiva, ringalluzzita dall&rsquo;espulsione dello spagnolo, che si fa vedere con pericolosit&agrave; dalle parti di Anzolin. Alla fine l&rsquo;estremo difensore bianconero verr&agrave; salvato dal palo, che lo assiste su una conclusione di Jair che sembrava destinata a finire in rete. La partita termina cos&igrave; sull&rsquo;1-0. Il trofeo, il quinto della storia bianconera, finisce tra le grinfie di Heriberto Herrera, che si prende la sua prima, piccola rivincita su tutti i diffidenti oltre che sui suoi detrattori.        

La squadra del Mago venne sconfitta dai bianconeri grazie a un gol di Giampaolo Menichelli in uno Stadio Olimpico gremito

Juve-Inter, nel 1965 la Coppa Italia la vinse Heriberto Herrera

        Tramite il canale Instagram de &ldquo;Il cuoio&rdquo;, Gianluca Pagliuca ci ha concesso in diretta un&rsquo;intervista esclusiva (puoi guardarla integralmente cliccando qui). Una chiacchierata che, partendo dal recupero della gara Bologna&ndash;Inter, ha toccato due tappe fondamentali della sua carriera. &ldquo;Il gatto di Casalecchio&rdquo; ha vestito 234 volte la casacca dell&rsquo;Inter e 270 quella del Bologna. In entrambe le esperienze ha indossato la fascia di capitano. Prima dell&rsquo;inizio della chiacchierata Gianluca ha voluto recapitare un augurio di pronta guarigione a Stefano Tacconi e a Sinisa Mihajlovic. L&rsquo;Inter con una vittoria sul Bologna potrebbe tornare in testa alla classifica. Credi che sia la favorita nello sprint finale? &ldquo;&Egrave; un campionato avvincente e si decider&agrave; tutto nelle battute finali, &egrave; ovvio che se l&rsquo;Inter vincer&agrave; nel recupero, avr&agrave; il destino nelle sue mani&rdquo;. Un Bologna che, invece, proprio da quando Sinisa &egrave; nuovamente alle prese con la sua malattia, sembra rigenerato. In generale ti aspettavi di pi&ugrave; dal loro campionato? &ldquo;Penso che il Bologna possa avere un finale di campionato in crescendo, questo lo potrebbe portare a terminare nella parte sinistra della classifica&rdquo;. Riuscir&agrave; il Bologna, nel giro di qualche anno, a riconquistare un posto in Europa, da dove manca da troppo tempo? &ldquo;Bologna &egrave; una piazza importante, con una societ&agrave; seria alle spalle, con qualche innesto di valore nei prossimi anni potr&agrave; lottare sempre dietro ai top club&rdquo;. Veniamo un po&rsquo;a te adesso. &Egrave; vero che sei approdato a Bologna grazie ad una segnalazione del grande Pietro Battara? &ldquo;Battara &egrave; stata la prima persona che ha creduto nelle mie capacit&agrave;. Dopo Bologna, &egrave; stato fondamentale anche alla Sampdoria&rdquo;. Dopo i favolosi anni nella squadra blucerchiata, nel 1994 arrivi all&rsquo;Inter&hellip; Il tuo primo pensiero quando mettesti piedi e mani ad Appiano? &ldquo;Da Genova non me ne andai volentieri, ma con la societ&agrave; del presidente Moratti &egrave; stato come trovare una seconda famiglia&rdquo;. All&rsquo;Inter hai vinto solo una Coppa Uefa, quanti rimpianti hai per non aver raccolto pi&ugrave; trofei in una squadra di grandissimi giocatori? &ldquo;I primi due anni non avevamo una squadra attrezzata per competere ai massimi livelli. Quando &egrave; arrivato Ronaldo &ldquo;il Fenomeno&rdquo; ci sono state circostanze che tutti conosciamo, che non ci hanno permesso di conquistare il Tricolore&rdquo;. Tornando a quella Coppa. Hai alzato quel trofeo da capitano. &Egrave; stata l&rsquo;emozione pi&ugrave; grande che hai provato da calciatore? &ldquo;L&rsquo;emozione pi&ugrave; grande &egrave; stata sicuramente lo scudetto con la Sampdoria, ma alzare un trofeo da capitano, &egrave; comunque qualcosa che ti rimane per sempre&rdquo;.  Con l&rsquo;entrata in scena di mister Lippi, arriva Angelo Peruzzi e tu sei costretto a fare le valigie. Sei ancora al &ldquo;top&rdquo; in quel momento, ma decidi di tornare a casa, a Bologna. Scelta tua? &ldquo;C&rsquo;erano molte squadre che mi volevano, soprattutto all&rsquo;estero (Real Madrid, Deportivo de La Coru&ntilde;a, Aston Villa&hellip;), ma ho voluto fortemente tornare dove tutto era cominciato&rdquo;. Primo anno di Bologna e subito 559 minuti di imbattibilit&agrave;. Hai voluto dimostrare che Pagliuca non era per niente bollito? &ldquo;Essere profeta in patria non &egrave; mai facile e quindi dovevo impegnarmi ancora di pi&ugrave; rispetto agli anni precedenti e i risultati mi hanno dato ragione&rdquo;. Nella stagione 2003-04 hai raggiunto le 500 partite in A. Per quanto riguarda i numeri uno, in quel momento, dietro solo a Zoff e Albertosi, che sensazione hai provato? &ldquo;Una delle emozioni pi&ugrave; forti della mia carriera, peccato essermi poi fermato a 592 (+4 spareggi di Serie A ndr.)e non aver toccato le 600&hellip;.&rdquo;. In quella stagione, il tuo rendimento &egrave; salito nuovamente di livello, merito dell&rsquo;arrivo di Carletto Mazzone? &ldquo;Carlo insieme a Vujadin Boskov e Gigi Simoni, &egrave; stato un maestro di vita, oltre che un allenatore. Li ringrazier&ograve; sempre per i loro insegnamenti e anche per i &ldquo;cazziatoni&rdquo; (scoppia in una grande risata ndr.)&rdquo;. Il 2004-05 fu un anno maledetto. Prima parte di stagione da zona Uefa, poi un improvviso calo, che vi port&ograve; a disputare lo spareggio per non retrocedere contro il Parma, ahim&egrave; perso. Tra l&rsquo;altro tu ricevesti il Guerin d&rsquo;oro (secondo nella carriera dopo quello della stagione 1996-97), che ricordi hai di quell&rsquo;amarissima stagione? &ldquo;Ancora oggi non mi so dare una spiegazione. Abbiamo chiuso il campionato a 42 punti, mica pochi, eppure nel girone di ritorno, tutte le squadre che erano dietro di noi si sono messe a correre, ed &egrave; finita come non avrebbe dovuto&rdquo;.  Dopo un anno di B, il primo e unico della tua carriera, lasciasti Bologna. Anche qui decisione tua, oppure della societ&agrave;? &ldquo;Io avrei chiuso la carriera a Bologna e infatti prima di accettare l&rsquo;Ascoli ci ho pensato molto, ma la societ&agrave; aveva deciso di prendere Francesco Antonioli, evento che, non ti nego, &nbsp;&egrave; stato duro da digerire&rdquo;. Gianluca sei stato, come sempre, gentilissimo, ma prima di lasciarti, non posso non chiederti una previsione sulla gara di mercoled&igrave;? &ldquo;Non faccio previsioni, per&ograve; ti dico che vorrei che l&rsquo;Inter vincesse lo scudetto e il Bologna chiudesse nella parte sinistra della classifica. Cos&igrave; non faccio torto a nessuno&rdquo;. &nbsp; &nbsp; &nbsp; &nbsp; &nbsp;       

L'ex numero 1 della Nazionale ci ha concesso una lunga intervista in diretta sul nostro profilo Instagram: "Da Genova non me ne andai volentieri, ma in nerazzurro &egrave; stato come trovare una seconda famiglia"

Bologna-Inter: i ricordi del doppio ex Gianluca Pagliuca

        Quella porzione di campo, anzi: di territorio; da proteggere cercando di ragionare sempre di corsa, ben sapendo che sarai sempre ritenuto al massimo un geometra, anche quando hai pensieri da architetto. Il mediano non viene mai considerato a prescindere dalla sua dose di fatica, come se tutto il resto fosse accessorio; &egrave; per questo che soltanto un po&rsquo; di anni dopo si &egrave; soliti osservare che: &ldquo;Per&ograve; aveva anche i piedi buoni...&rdquo; di chi ha vissuto in quella porzione d&rsquo;erba tra la lunetta dell&rsquo;area e il cerchio di centrocampo, sempre soggetta all&rsquo;esproprio da parte di chi confida nell&rsquo;acido lattico che rallenta le gambe, che appanna i riflessi. Il mediano pu&ograve; entrare solo come un imbucato nella sala degli specchi degli highlights; non viene mai esposto nella vetrina lussuosa delle fasi salienti; se aspira a tanto gli tocca fare (anche) gol, raddoppiando le zolle della sua sofferenza. I grandi mediani di Inter e Roma I tifosi dell&rsquo;Inter e della Roma custodiscono una storia di grandi faticatori di centrocampo, sovente sottovalutati proprio perch&eacute; identificati soltanto all&rsquo;esposizione bidimensionale dell&rsquo;equilibrio tattico e dei cosiddetti compiti di copertura. Canta Luciano Ligabue che quando ti va bene &ldquo;...vinci casomai i Mondiali...&rdquo;, come &egrave; successo a Gabriele Oriali, Leleoriali per ogni fischio d&rsquo;inizio che Eupalla mandasse in terra: uno di quei nomi e cognomi che vanno pronunciati per esteso senza soluzione di continuit&agrave;, come Brunoconti e Gigirriva. Pi&ugrave; che un ex, ormai un luogo dell&rsquo;anima per la mitologia interista: cinque anni nelle giovanili, dal 1966 al 1971; tredici poi in prima squadra, dove aveva nel frattempo esordito, fino al 1983. Dateci un euro per ogni pallone recuperato, per ogni anticipo, per ogni contrasto vinto e andiamo di corsa a ordinare la Porsche. E quelle 43 reti distribuite nel corso delle sue 392 presenze complessive le ha comunque segnate lui, non un suo omonimo. Campione del mondo in Spagna nel 1982, come vuole l&rsquo;eccezione messa in musica da &ldquo;Liga&rdquo;. Quante volte i suoi parastinchi avranno fatto scintille sfregandosi contro quelli di Carlo Ancelotti? Uno della Bassa, Carletto, venuto alla luce a Reggiolo, in Via Vallicella, nel giugno del 1959, quando i bambini ancora si facevano nascere in casa. Figlio di mezzadri, guardava col naso all&rsquo;ins&ugrave; il padrone che veniva a spartire il raccolto e le bestie, tracciando una riga sul grano e scegliendo per s&eacute; le pollastre pi&ugrave; pasciute. La vita era gi&agrave; allora, dunque, come una diga di met&agrave; campo: occorrevano sopportazione, buon senso, fatica e grande attenzione per tenerle testa. Dino Viola lo port&ograve; a Roma, prelevandolo dal Parma, nell&rsquo;estate del 1979, per la cifra di 750 milioni di Lire. Secondo Nils Liedholm proprio l&rsquo;utilizzo da mediano ne esaltava appieno le doti. Fino al 1987, alla Roma ha dato un contributo di lucido agonismo, di geometrie nitide anche quando infuriava la battaglia, di gol dalla media e lunga distanza. Parlare di lui in maglia giallorossa, prima della cessione al Milan, vuol dire raccontare di un Tricolore, di quattro Coppe Italia, di entrambe le ginocchia devolute alla causa. Perch&eacute; &egrave; questione di spigoli, spesso, la vita del mediano, cos&igrave; come spigoloso era il profilo del lodigiano Gianpiero Marini, interista come (e negli stessi anni di) Oriali, pi&ugrave; ruvido nei piedi e molto meno biondo nella chioma rispetto al compagno, ma sempre strategico nella corsa, per quanto non certo aggraziata, tanto da meritarsi da Gianni Brera il soprannome di &ldquo;Pinna d&rsquo;oro&rdquo;. All&rsquo;Inter dal 1975 al 1986, anche lui si fregia del titolo mondiale, avendo disseminato le sue presenze in Nazionale dal 1980 al 1983. Pu&ograve; anche capitare che al mediano, vista la propensione naturale alla corsa incessante, venga proposto di ricoprire altri ruoli, occupando porzioni di campo diverse, proprio in ragione di quel moto perpetuo. &Egrave; per questo che quando arriv&ograve; a Roma nell&rsquo;estate del 1975 Loris Boni, bresciano di Remedello, si sent&igrave; proporre da Nils Liedholm di provare a ricoprire il ruolo di tornante. Proveniva da quattro stagioni pi&ugrave; che positive con la maglia della Sampdoria e la societ&agrave; giallorossa lo acquist&ograve; per 800 milioni di Lire. A Genova si era messo in luce come inesauribile cursore di centrocampo, votato indifferentemente tanto ad accompagnare la spinta quanto al ripiegamento subitaneo nelle fasi di contenimento. L&rsquo;utilizzo da tornante non d&agrave; i frutti sperati e Liedholm lo riporta l&igrave;, l&igrave; nel mezzo per continuare con la citazione dotta; i suoi anni in maglia giallorossa, fino al 1979, potremmo dire che sono contraddistinti da un costante rendimento senza picchi, connotato anche da una vena realizzativa inesistente, poich&eacute; in 80 presenze in Serie A da romanista non mette a segno nemmeno una rete. Si ricorda invece un suo gol nell&rsquo;edizione 1975- 76 della Coppa Uefa, contro gli svedesi dell&rsquo;Osters IF. E son cambiate le epoche, le mode, con l&rsquo;andare degli anni e delle evoluzioni del gioco, ma i mediani non hanno mai conosciuto una fatica diversa da quella di sempre, come hanno dimostrato nei decenni successivi il romanista Damiano Tommasi, l&rsquo;interista Beno&icirc;t Cauet e tutti quelli che l&igrave; nel mezzo hanno fatto legna a beneficio dei loro compagni.       

Come cantava Ligabue, tante carriere spese "a recuperar palloni".&nbsp;Nell&rsquo;album dei ricordi delle due tifoserie, l'elogio per chi vive il calcio sudando a centrocampo

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