<o:p></o:p>La famiglia Brighenti &egrave; una di quelle legate al calcio come solo una volta succedeva. C&rsquo;&egrave; stato un tempo in cui non era cos&igrave; raro imbattersi in alcune famiglie che vantavano, tra fratelli, padri e parenti pi&ugrave; o meno stretti, un buon numero di calciatori. I <a href="https://www.guerinsportivo.it/news/il-cuoio/portieri-nostalgia/2022/05/17-5393064/la_sfida_dei_fratelli_sentimenti_quando_cochi_segno_ad_arnaldo">Sentimenti</a> sono uno degli esempi pi&ugrave; lampanti: tra gli anni &rsquo;40 e &rsquo;50 sono stati ben 7 a calcare i campi italiani: Ennio, Arnaldo, Vittorio, Lucidio, Primo, Lino e Andrea, categoricamente nominati dalla stampa con di fianco la numerazione romana per distinguerli durante le cronache. I Brighenti calciatori non furono cos&igrave; tanti, ma anche Sergio, il minore dei due, veniva appellato Brighenti II, per distinguerlo da suo fratello Renato, grandissimo bomber del Modena. <o:p></o:p> <h2>Gli inizi e gli scudetti vinti<o:p></o:p></h2> Anche la carriera calcistica di Sergio inizia con la maglia dei Canarini, con cui debutta nel 1950 nella serie cadetta. Brighenti II &egrave; un ottimo centravanti, ha un bel rapporto con il gol ma partecipa moltissimo anche alla manovra di squadra, venendo spesso a prendersi il pallone fuori dall&rsquo;area. <o:p></o:p> In Serie B fa cos&igrave; bene da attirare l&rsquo;attenzione di Alfredo Foni, il neo tecnico dell&rsquo;Inter che lo vuole assolutamente con s&eacute;. L&rsquo;approdo di Brighenti e Foni sulla sponda nerazzurra di Milano &egrave; quasi miracoloso: la Benamata vince due campionati consecutivi, cosa mai riuscita nella sua storia; tra l&rsquo;altro la vittoria mancava alla squadra milanese da prima della guerra. Sergio Brighenti in quelle due stagioni d&agrave; un buon contributo segnando diversi gol, nonostante non riuscisse a trovare molto spazio nell&rsquo;affollato reparto offensivo nerazzurro che vantava campioni del calibro di Nyers, Lorenzi e Armano. <o:p></o:p> <h2>Gli anni d'oro con Padova e Sampdoria<o:p></o:p></h2> Nel 1955 si trasferisce alla Triestina dove rimane due anni prima di intraprendere una delle sue avventure pi&ugrave; fortunate: incrocia sul suo cammino Nereo Rocco, allora sulla panchina del Padova. Brighenti &egrave; il centravanti perfetto per la filosofia del tecnico friulano: nei tre anni in cui veste la maglia biancoscudata segna ben cinquanta reti, contribuendo in maniera decisiva agli ottimi piazzamenti finali in classifica. Negli anni padovani arriva anche la chiamata della Nazionale, con tanto di esordio con gol a <a href="https://www.guerinsportivo.it/news/il-cuoio/2021/04/28-4171908/wembley_il_tempio_del_calcio_compie_98_anni">Wembley, tempio del football d&rsquo;Oltremanica</a> e non solo.<o:p></o:p> Sembra essere come il vino Sergio Brighenti, che migliora invecchiando e, diventato ormai quasi un barricato, &egrave; pronto alla soglia dei trent&rsquo;anni a vincere il trofeo pi&ugrave; prestigioso per un centravanti italiano. Nella stagione 1960/61 passa alla Samp e segna 27 reti in campionato, laureandosi capocannoniere e raggiungendo un record ancora oggi imbattuto in casa blucerchiata. Nel 1963 torna nella sua Modena dove la sua carriera da calciatore si avvia verso il termine, che arriva nel &rsquo;65, dopo una breve parentesi con il Toro. Brighenti II non dir&agrave; ovviamente addio al calcio, continuer&agrave; come allenatore durante tutti gli anni &rsquo;70 tra Parma, Varese, Seregno e Lecco, prima di diventare il vice del commissario tecnico Vicini dal 1986 al 1991.

        La famiglia Brighenti &egrave; una di quelle legate al calcio come solo una volta succedeva. C&rsquo;&egrave; stato un tempo in cui non era cos&igrave; raro imbattersi in alcune famiglie che vantavano, tra fratelli, padri e parenti pi&ugrave; o meno stretti, un buon numero di calciatori. I Sentimenti sono uno degli esempi pi&ugrave; lampanti: tra gli anni &rsquo;40 e &rsquo;50 sono stati ben 7 a calcare i campi italiani: Ennio, Arnaldo, Vittorio, Lucidio, Primo, Lino e Andrea, categoricamente nominati dalla stampa con di fianco la numerazione romana per distinguerli durante le cronache. I Brighenti calciatori non furono cos&igrave; tanti, ma anche Sergio, il minore dei due, veniva appellato Brighenti II, per distinguerlo da suo fratello Renato, grandissimo bomber del Modena.  Gli inizi e gli scudetti vinti Anche la carriera calcistica di Sergio inizia con la maglia dei Canarini, con cui debutta nel 1950 nella serie cadetta. Brighenti II &egrave; un ottimo centravanti, ha un bel rapporto con il gol ma partecipa moltissimo anche alla manovra di squadra, venendo spesso a prendersi il pallone fuori dall&rsquo;area.  In Serie B fa cos&igrave; bene da attirare l&rsquo;attenzione di Alfredo Foni, il neo tecnico dell&rsquo;Inter che lo vuole assolutamente con s&eacute;. L&rsquo;approdo di Brighenti e Foni sulla sponda nerazzurra di Milano &egrave; quasi miracoloso: la Benamata vince due campionati consecutivi, cosa mai riuscita nella sua storia; tra l&rsquo;altro la vittoria mancava alla squadra milanese da prima della guerra. Sergio Brighenti in quelle due stagioni d&agrave; un buon contributo segnando diversi gol, nonostante non riuscisse a trovare molto spazio nell&rsquo;affollato reparto offensivo nerazzurro che vantava campioni del calibro di Nyers, Lorenzi e Armano.  Gli anni d'oro con Padova e Sampdoria Nel 1955 si trasferisce alla Triestina dove rimane due anni prima di intraprendere una delle sue avventure pi&ugrave; fortunate: incrocia sul suo cammino Nereo Rocco, allora sulla panchina del Padova. Brighenti &egrave; il centravanti perfetto per la filosofia del tecnico friulano: nei tre anni in cui veste la maglia biancoscudata segna ben cinquanta reti, contribuendo in maniera decisiva agli ottimi piazzamenti finali in classifica. Negli anni padovani arriva anche la chiamata della Nazionale, con tanto di esordio con gol a Wembley, tempio del football d&rsquo;Oltremanica e non solo.  Sembra essere come il vino Sergio Brighenti, che migliora invecchiando e, diventato ormai quasi un barricato, &egrave; pronto alla soglia dei trent&rsquo;anni a vincere il trofeo pi&ugrave; prestigioso per un centravanti italiano. Nella stagione 1960/61 passa alla Samp e segna 27 reti in campionato, laureandosi capocannoniere e raggiungendo un record ancora oggi imbattuto in casa blucerchiata. Nel 1963 torna nella sua Modena dove la sua carriera da calciatore si avvia verso il termine, che arriva nel &rsquo;65, dopo una breve parentesi con il Toro. Brighenti II non dir&agrave; ovviamente addio al calcio, continuer&agrave; come allenatore durante tutti gli anni &rsquo;70 tra Parma, Varese, Seregno e Lecco, prima di diventare il vice del commissario tecnico Vicini dal 1986 al 1991.        

Fratello di Renato, altro grande bomber, segn&ograve; tanto ovunque: dal Modena, passando per Inter, Triestina e Padova, fino alla Sampdoria, dove si laure&ograve; capocannoniere nel 1961. A Milano vinse anche due scudetti

La giostra del gol di Sergio Brighenti

Uno che nel grande calcio c&rsquo;&egrave; stato e anche bene. Negli anni d&rsquo;oro in cui le squadre italiane dominavano in Europa, Paolo Stringara macinava chilometri a centrocampo: bandiera del Bologna (ancora oggi adorato dai tifosi) e gregario di lusso nell&rsquo;Inter del Trap vincitrice della Coppa Uefa 1991 nella finale tutta italiana contro la Roma. Senza dimenticare l&rsquo;esperienza a Siena che lo ha consacrato: &ldquo;A Siena sono diventato uomo. Sono arrivato l&igrave; a 18 anni e a 20 mi sono sposato. Ho vinto due campionati e la citt&agrave; &egrave; diventata la mia casa: anche quando giocavo a Bologna tornavo a Siena. &Egrave; stata una tappa fondamentale, non solo per la carriera da calciatore, ma per la mia vita in generale&rdquo;. Una carriera ad alti livelli che ha rischiato seriamente di non iniziare proprio, messa a repentaglio nel settore giovanile nerazzurro, dove Paolo arriv&ograve; nel 1978: &ldquo;Feci un campionato con gli allievi, ma poi l&rsquo;Inter (proprietaria del mio cartellino) non mi ritenne all&rsquo;altezza e mi risped&igrave; a casa, tenendomici per un anno intero. A quel punto pretesi che mi trovassero una squadra in Toscana: li provocai dicendo che altrimenti avrei smesso di giocare. Mi proposero la Cerretese o il Siena in C2, ovviamente optai per la seconda. Quando poi a 27 anni l&rsquo;Inter mi ricompr&ograve; dal Bologna pagandomi quasi 2 miliardi, alla prima intervista mi tolsi subito il sassolino dalla scarpa. Mi sembrava anche giusto, in fondo quell&rsquo;esclusione mi aveva dato la forza per dimostrare a tutti che si stavano sbagliando. Mi sono preso una grandissima rivincita&rdquo;. Da quella nidiata di allievi nerazzurri sono arrivati in Serie A, oltre a Stringara, Giuseppe Bergomi e Marco Pecoraro, mentre Roberto Fontanini e Mauro Marmaglio si sono fermati in Serie B: &ldquo;Lo &lsquo;Zio&rsquo; Bergomi ha bruciato le tappe vincendo il Mondiale da titolare appena due anni dopo. Si vedeva che era gi&agrave; fatto, gi&agrave; adulto. Noi eravamo ancora ragazzini, lui aveva gi&agrave; i baffi, per quello lo chiamavamo lo Zio. Fin da piccolo si capiva che fosse di un&rsquo;altra categoria&rdquo;. A Siena inizia l&rsquo;avventura tra i professionisti: &ldquo;Sono molto grato a Costanzo Balleri: avrei dovuto giocare con la Juniores, mi port&ograve; subito in prima squadra e mi fece esordire. Con Guido Mammi, invece, ho vinto il mio primo campionato. Ma l&rsquo;allenatore al quale devo davvero tantissimo &egrave; Ferruccio Mazzola: mi &egrave; stato molto vicino ed &egrave; risultato fondamentale per il mio trasferimento al Bologna. Era il socio in affari di Nello Governato (allora dirigente sportivo del Bologna, ndi.). Fu lui a caldeggiare prepotentemente il mio acquisto a Nello. Sono orgoglioso che, col senn&ograve; di poi, abbia avuto ragione&rdquo;. La stagione 1985-86, chiusa con un quarto posto nel girone B della C1, &egrave; l&rsquo;ultima passata in Toscana: Stringara approda a Bologna. La mediana che si forma in quell&rsquo;estate farebbe invidia a tante squadre della Serie A odierna: Marocchi-Pecci-Stringara. Invece all&rsquo;epoca giocavano in Serie B. A dire il vero l&rsquo;esperienza rossobl&ugrave; non inizia benissimo: &ldquo;Eraldo Pecci arriv&ograve; a Bologna dal Napoli un paio di mesi dopo di me. Durante la prima partita che giocammo insieme, dopo aver sbagliato un paio di palloni sentii una voce: &lsquo;Oh, guarda che noi siamo quelli con la maglia rossobl&ugrave;&rsquo;. Era Pecci da dietro. Questa cosa mi ha segnato, la ricordo come fosse ieri, forse fu la chiave giusta per farmi rendere di pi&ugrave;: con la sua ironia riusc&igrave; a spronarmi&rdquo;. Negli anni passati a Bologna il centrocampista toscano si toglie tante soddisfazioni vivendo la sua completa evoluzione tattica: &ldquo;Inizialmente giocavo da mezzala, mi piaceva inserirmi: io e Marocchi ci muovevamo ai lati di Pecci. Ero un giocatore un po&rsquo; &lsquo;anarchico&rsquo;, poi col passare del tempo, acquisendo tante nozioni, con le responsabilit&agrave; che aumentano, cambiai anche il mio modo di giocare&rdquo;. Tutto questo anche grazie alla vicinanza di un centrocampista straordinario d&rsquo;altri tempi, Eraldo Pecci: &ldquo;Mi ha aiutato tantissimo: giocare con lui &egrave; stato straordinario&rdquo;. La seconda stagione &egrave; quella della svolta: grazie a un attacco super &ndash; migliore del torneo per distacco con 62 reti segnate &ndash; il Bologna vince il campionato e torna in Serie A. Protagonista il capocannoniere Lorenzo Marronaro (21 gol), con il quale Paolo Stringara si sente quotidianamente ancora oggi. Il timoniere del Bologna &egrave; invece Luigi Maifredi: &ldquo;Il suo modo di giocare a zona m&rsquo;incuriosiva tantissimo, per me era una situazione totalmente nuova. Fu molto affascinante, un po&rsquo; come tornare a scuola&rdquo;. &Egrave; lo stesso Maifredi con l&rsquo;addio di Pecci a spostarlo davanti alla difesa nel 1989: &ldquo;Presi l&rsquo;eredit&agrave; di Eraldo, con Ivano Bonetti e Massimo Bonini che agivano da mezze ali&rdquo;. Da Pecci eredita anche la fascia di capitano: &ldquo;Gi&agrave; indossare la maglia del Bologna &egrave; di per s&eacute; una cosa unica, essere stato addirittura il capitano di una squadra cos&igrave; gloriosa &egrave; una sensazione che mi godo ancora oggi. Aver avuto la possibilit&agrave; di capitanare un gruppo composto da gente come Cabrini, <a href="https://www.guerinsportivo.it/news/il-cuoio/l-intervista/2021/11/25-4964011/bruno_giordano_racconta_il_suo_maradona_dentro_e_fuori_il_campo">Giordano</a> e Bonini continua a rendermi orgoglioso&rdquo;. Con Stringara a Bologna giocava anche Fabio Poli, seconda punta sfortunata di quegli anni, ricordato soprattutto per aver segnato il gol che salv&ograve; la Lazio dalla C negli spareggi di Napoli del 1987: "Premettendo che ho giocato con tantissimi campioni inarrivabili (Matthaus, Bergomi, Brehme ecc&hellip;), se ti dovessi dire il giocatore pi&ugrave; forte con cui abbia avuto a che fare ti direi Fabio Poli del Bologna. Maifredi ci puntava tantissimo, era uno spettacolo vederlo giocare. Purtroppo &egrave; stato sfortunatissimo, si &egrave; rotto il crociato e da l&igrave; non &egrave; pi&ugrave; tornato quello di prima, martoriato dagli infortuni e dalle operazioni subite, contando anche l&rsquo;ernia del disco pi&ugrave; di 10 in carriera. Dentro a quel gruppo di fenomeni ci metto anche Fabio Poli, per me era eccezionale&rdquo;. Ci stupisce anche quando ci parla della sua &ldquo;bestia nera&rdquo;: &ldquo;Un certo Gabriele Baldassarri della Civitanovese: per 90 minuti non l&rsquo;ho mai preso, mi ha fatto impazzire. Mi ha messo in difficolt&agrave; come nessuno, una sensazione che non ho provato nemmeno quando mi sono trovato ad affrontare campionissimi come Maradona o Zico. Se penso a Baldassarri mi gira ancora la testa&rdquo;. Come detto, nell&rsquo;estate del Mundial approda alla corte di Giovanni Trapattoni: &ldquo;La mia Inter era una squadra molto muscolare, poi ovviamente non mancava la qualit&agrave;: avevamo 8 nazionali tra i titolari. Un Pallone d&rsquo;Oro come Matthaus insieme ai connazionali Klinsmann e Brehme: tre tedeschi campioni del mondo. Oltre ai 5 italiani (Ferri, Zenga, Bergomi, Serena e Berti). Con Paganin, Pizzi, Fontolan e Battistini ci giocavamo gli altri posti. Nonostante la rottura del menisco proprio contro il Bologna a inizio campionato e il seguente strappo muscolare &ndash; infortuni che mi tennero lontano dai campi per due mesi &ndash;, giocai comunque 22 partite di campionato e qualche match di Coppa Uefa&rdquo;. Una stagione pi&ugrave; che positiva che vede l&rsquo;Inter tornare a trionfare in Europa a distanza di 36 anni: &ldquo;Vinsi a Milano quella Coppa Uefa per la quale mi ero qualificato nella stagione precedente a Bologna. Un grandissimo rammarico resta la finale di ritorno. Stavamo perdendo 1-0 all&rsquo;Olimpico con la Roma, il Trap mi fece scaldare dall&rsquo;inizio alla fine del secondo tempo senza per&ograve; farmi mai entrare. Mi sarebbe piaciuto tantissimo poter giocare anche solo 5 minuti di quella storica gara&rdquo;. Un allenatore unico come Giovanni Trapattoni seppe farsi perdonare pochi giorni dopo, con un trucco del mestiere, un divertente aneddoto rivelato dall&rsquo;ex centrocampista toscano: &ldquo;Era l&rsquo;ultimo allenamento stagionale. Finita la doccia mi rivestii, misi la mano in tasca e sentii qualcosa. Era un bigliettino con su scritto &lsquo;Ti ringrazio per tutto quello che hai fatto per me, mi dispiace per l&rsquo;infortunio che ti ha un pochino limitato, ma soprattutto sono molto dispiaciuto per la finale, quando ti ho fatto scaldare senza farti entrare. Grazie mille (Giovanni Trapattoni)&rsquo;. Questa cosa ovviamente non l&rsquo;ha fatta solo con me, avr&agrave; messo un bigliettino personalizzato anche nella tasca degli altri. Ma da una persona che ha vinto tutto non ti aspetti un gesto cos&igrave; umile: andare a chiedere al magazziniere dove si spoglia un calciatore piuttosto che un altro&hellip; Per me questa &egrave; una cosa da gigante&rdquo;. Dopo l&rsquo;Inter, l&rsquo;Avellino, un breve ritorno a Bologna e l&rsquo;esperienza ad Aosta (dove nel 1995-96 ritrova il suo vecchio maestro Ferruccio Mazzola), appende gli scarpini al chiodo nel 1996 con la stagione all&rsquo;Iperzola, quando da giocatore-allenatore porta per la prima volta la squadra tra i professionisti. Lunghissima sar&agrave; anche la carriera in panchina di Paolo Stringara. Inizia a Livorno &ndash; dove conquista la promozione in C1 e il seguente record di 9 vittorie di fila iniziali in campionato &ndash; e prosegue in piazze importanti come Pistoia, Perugia, Lucca, Taranto e Foggia. Proprio con i Satanelli una delle partite pi&ugrave; pazze della sua intera carriera: &ldquo;Andammo a Benevento per giocare una gara sentitissima. A pochi minuti dalla fine del primo tempo ci trovammo in 9 e senza mister (l&rsquo;arbitro aveva cacciato anche me). Dopo aver resistito in 9 contro 11 per pi&ugrave; di un&rsquo;ora, vincemmo 0-1 con gol vittoria segnato all&rsquo;85esimo da Agodirin. Ricordo che a fine primo tempo gli addetti non mi volevano far rientrare negli spogliatoi, neanche per recuperare il portafogli. Seguire il secondo tempo dalla tribuna sarebbe stato complicato, allora andai nel nostro settore: mi misi sotto insieme ai miei collaboratori. C&rsquo;erano 800 tifosi foggiani, ed erano pure un po&rsquo; incazzati, pronti ormai inevitabilmente a perdere. Dopo il fischio finale mi portarono in trionfo, fu una cosa eccezionale: veramente da brividi. Questa partita a Foggia &egrave; leggendaria: non so quante squadre nella storia del calcio siano state capaci di un&rsquo;impresa simile&rdquo;. Attualmente collabora con il suo vecchio compagno Jurgen Klinsmann: &ldquo;Ho lavorato con lui con la nazionale americana e all&rsquo;Herta Berlino. Stiamo aspettando qualcosa dall&rsquo;estero, magari una nazionale, vediamo&rdquo;. Nel frattempo si tiene in forma e continua a giocare a calcio con costanza, coinvolto anche nelle iniziative tra vecchie glorie: &ldquo;Un paio di volte mi ha chiamato il Bologna Legend per giocare amichevoli con altri ex calciatori. Abbiamo giocato al Dall&rsquo;Ara contro il Real Madrid Legend in occasione dei 110 anni del club. Nel Real c&rsquo;erano Seedorf e Roberto Carlos, ex giocatori importanti&hellip; abbiamo perso 4-2, per&ograve; mi sono tolto lo sfizio di segnare su rigore. Spesso andiamo a giocare in giro per i paesini con i veterani, organizza Franco Colomba. Anche con l&rsquo;Inter sono andato a fare una partita, a Tolentino, perch&eacute; Suning aveva donato delle tribune per il &lsquo;Centro sportivo Gattari&rsquo;. C&rsquo;erano vecchie glorie niente male: Zanetti, Materazzi, Toldo; e anche due miei ex compagni di squadra come Alessandro Bianchi e Beppe Baresi. Sto bene fisicamente, non voglio smettere: ancora oggi giocare a pallone mi piace tantissimo&rdquo;.

        Uno che nel grande calcio c&rsquo;&egrave; stato e anche bene. Negli anni d&rsquo;oro in cui le squadre italiane dominavano in Europa, Paolo Stringara macinava chilometri a centrocampo: bandiera del Bologna (ancora oggi adorato dai tifosi) e gregario di lusso nell&rsquo;Inter del Trap vincitrice della Coppa Uefa 1991 nella finale tutta italiana contro la Roma. Senza dimenticare l&rsquo;esperienza a Siena che lo ha consacrato: &ldquo;A Siena sono diventato uomo. Sono arrivato l&igrave; a 18 anni e a 20 mi sono sposato. Ho vinto due campionati e la citt&agrave; &egrave; diventata la mia casa: anche quando giocavo a Bologna tornavo a Siena. &Egrave; stata una tappa fondamentale, non solo per la carriera da calciatore, ma per la mia vita in generale&rdquo;. Una carriera ad alti livelli che ha rischiato seriamente di non iniziare proprio, messa a repentaglio nel settore giovanile nerazzurro, dove Paolo arriv&ograve; nel 1978: &ldquo;Feci un campionato con gli allievi, ma poi l&rsquo;Inter (proprietaria del mio cartellino) non mi ritenne all&rsquo;altezza e mi risped&igrave; a casa, tenendomici per un anno intero. A quel punto pretesi che mi trovassero una squadra in Toscana: li provocai dicendo che altrimenti avrei smesso di giocare. Mi proposero la Cerretese o il Siena in C2, ovviamente optai per la seconda. Quando poi a 27 anni l&rsquo;Inter mi ricompr&ograve; dal Bologna pagandomi quasi 2 miliardi, alla prima intervista mi tolsi subito il sassolino dalla scarpa. Mi sembrava anche giusto, in fondo quell&rsquo;esclusione mi aveva dato la forza per dimostrare a tutti che si stavano sbagliando. Mi sono preso una grandissima rivincita&rdquo;.  Da quella nidiata di allievi nerazzurri sono arrivati in Serie A, oltre a Stringara, Giuseppe Bergomi e Marco Pecoraro, mentre Roberto Fontanini e Mauro Marmaglio si sono fermati in Serie B: &ldquo;Lo &lsquo;Zio&rsquo; Bergomi ha bruciato le tappe vincendo il Mondiale da titolare appena due anni dopo. Si vedeva che era gi&agrave; fatto, gi&agrave; adulto. Noi eravamo ancora ragazzini, lui aveva gi&agrave; i baffi, per quello lo chiamavamo lo Zio. Fin da piccolo si capiva che fosse di un&rsquo;altra categoria&rdquo;. A Siena inizia l&rsquo;avventura tra i professionisti: &ldquo;Sono molto grato a Costanzo Balleri: avrei dovuto giocare con la Juniores, mi port&ograve; subito in prima squadra e mi fece esordire. Con Guido Mammi, invece, ho vinto il mio primo campionato. Ma l&rsquo;allenatore al quale devo davvero tantissimo &egrave; Ferruccio Mazzola: mi &egrave; stato molto vicino ed &egrave; risultato fondamentale per il mio trasferimento al Bologna. Era il socio in affari di Nello Governato (allora dirigente sportivo del Bologna, ndi.). Fu lui a caldeggiare prepotentemente il mio acquisto a Nello. Sono orgoglioso che, col senn&ograve; di poi, abbia avuto ragione&rdquo;.  La stagione 1985-86, chiusa con un quarto posto nel girone B della C1, &egrave; l&rsquo;ultima passata in Toscana: Stringara approda a Bologna. La mediana che si forma in quell&rsquo;estate farebbe invidia a tante squadre della Serie A odierna: Marocchi-Pecci-Stringara. Invece all&rsquo;epoca giocavano in Serie B. A dire il vero l&rsquo;esperienza rossobl&ugrave; non inizia benissimo: &ldquo;Eraldo Pecci arriv&ograve; a Bologna dal Napoli un paio di mesi dopo di me. Durante la prima partita che giocammo insieme, dopo aver sbagliato un paio di palloni sentii una voce: &lsquo;Oh, guarda che noi siamo quelli con la maglia rossobl&ugrave;&rsquo;. Era Pecci da dietro. Questa cosa mi ha segnato, la ricordo come fosse ieri, forse fu la chiave giusta per farmi rendere di pi&ugrave;: con la sua ironia riusc&igrave; a spronarmi&rdquo;. Negli anni passati a Bologna il centrocampista toscano si toglie tante soddisfazioni vivendo la sua completa evoluzione tattica: &ldquo;Inizialmente giocavo da mezzala, mi piaceva inserirmi: io e Marocchi ci muovevamo ai lati di Pecci. Ero un giocatore un po&rsquo; &lsquo;anarchico&rsquo;, poi col passare del tempo, acquisendo tante nozioni, con le responsabilit&agrave; che aumentano, cambiai anche il mio modo di giocare&rdquo;. Tutto questo anche grazie alla vicinanza di un centrocampista straordinario d&rsquo;altri tempi, Eraldo Pecci: &ldquo;Mi ha aiutato tantissimo: giocare con lui &egrave; stato straordinario&rdquo;.  La seconda stagione &egrave; quella della svolta: grazie a un attacco super &ndash; migliore del torneo per distacco con 62 reti segnate &ndash; il Bologna vince il campionato e torna in Serie A. Protagonista il capocannoniere Lorenzo Marronaro (21 gol), con il quale Paolo Stringara si sente quotidianamente ancora oggi. Il timoniere del Bologna &egrave; invece Luigi Maifredi: &ldquo;Il suo modo di giocare a zona m&rsquo;incuriosiva tantissimo, per me era una situazione totalmente nuova. Fu molto affascinante, un po&rsquo; come tornare a scuola&rdquo;. &Egrave; lo stesso Maifredi con l&rsquo;addio di Pecci a spostarlo davanti alla difesa nel 1989: &ldquo;Presi l&rsquo;eredit&agrave; di Eraldo, con Ivano Bonetti e Massimo Bonini che agivano da mezze ali&rdquo;. Da Pecci eredita anche la fascia di capitano: &ldquo;Gi&agrave; indossare la maglia del Bologna &egrave; di per s&eacute; una cosa unica, essere stato addirittura il capitano di una squadra cos&igrave; gloriosa &egrave; una sensazione che mi godo ancora oggi. Aver avuto la possibilit&agrave; di capitanare un gruppo composto da gente come Cabrini, Giordano e Bonini continua a rendermi orgoglioso&rdquo;.  Con Stringara a Bologna giocava anche Fabio Poli, seconda punta sfortunata di quegli anni, ricordato soprattutto per aver segnato il gol che salv&ograve; la Lazio dalla C negli spareggi di Napoli del 1987: "Premettendo che ho giocato con tantissimi campioni inarrivabili (Matthaus, Bergomi, Brehme ecc&hellip;), se ti dovessi dire il giocatore pi&ugrave; forte con cui abbia avuto a che fare ti direi Fabio Poli del Bologna. Maifredi ci puntava tantissimo, era uno spettacolo vederlo giocare. Purtroppo &egrave; stato sfortunatissimo, si &egrave; rotto il crociato e da l&igrave; non &egrave; pi&ugrave; tornato quello di prima, martoriato dagli infortuni e dalle operazioni subite, contando anche l&rsquo;ernia del disco pi&ugrave; di 10 in carriera. Dentro a quel gruppo di fenomeni ci metto anche Fabio Poli, per me era eccezionale&rdquo;. Ci stupisce anche quando ci parla della sua &ldquo;bestia nera&rdquo;: &ldquo;Un certo Gabriele Baldassarri della Civitanovese: per 90 minuti non l&rsquo;ho mai preso, mi ha fatto impazzire. Mi ha messo in difficolt&agrave; come nessuno, una sensazione che non ho provato nemmeno quando mi sono trovato ad affrontare campionissimi come Maradona o Zico. Se penso a Baldassarri mi gira ancora la testa&rdquo;.  Come detto, nell&rsquo;estate del Mundial approda alla corte di Giovanni Trapattoni: &ldquo;La mia Inter era una squadra molto muscolare, poi ovviamente non mancava la qualit&agrave;: avevamo 8 nazionali tra i titolari. Un Pallone d&rsquo;Oro come Matthaus insieme ai connazionali Klinsmann e Brehme: tre tedeschi campioni del mondo. Oltre ai 5 italiani (Ferri, Zenga, Bergomi, Serena e Berti). Con Paganin, Pizzi, Fontolan e Battistini ci giocavamo gli altri posti. Nonostante la rottura del menisco proprio contro il Bologna a inizio campionato e il seguente strappo muscolare &ndash; infortuni che mi tennero lontano dai campi per due mesi &ndash;, giocai comunque 22 partite di campionato e qualche match di Coppa Uefa&rdquo;. Una stagione pi&ugrave; che positiva che vede l&rsquo;Inter tornare a trionfare in Europa a distanza di 36 anni: &ldquo;Vinsi a Milano quella Coppa Uefa per la quale mi ero qualificato nella stagione precedente a Bologna. Un grandissimo rammarico resta la finale di ritorno. Stavamo perdendo 1-0 all&rsquo;Olimpico con la Roma, il Trap mi fece scaldare dall&rsquo;inizio alla fine del secondo tempo senza per&ograve; farmi mai entrare. Mi sarebbe piaciuto tantissimo poter giocare anche solo 5 minuti di quella storica gara&rdquo;. Un allenatore unico come Giovanni Trapattoni seppe farsi perdonare pochi giorni dopo, con un trucco del mestiere, un divertente aneddoto rivelato dall&rsquo;ex centrocampista toscano: &ldquo;Era l&rsquo;ultimo allenamento stagionale. Finita la doccia mi rivestii, misi la mano in tasca e sentii qualcosa. Era un bigliettino con su scritto &lsquo;Ti ringrazio per tutto quello che hai fatto per me, mi dispiace per l&rsquo;infortunio che ti ha un pochino limitato, ma soprattutto sono molto dispiaciuto per la finale, quando ti ho fatto scaldare senza farti entrare. Grazie mille (Giovanni Trapattoni)&rsquo;. Questa cosa ovviamente non l&rsquo;ha fatta solo con me, avr&agrave; messo un bigliettino personalizzato anche nella tasca degli altri. Ma da una persona che ha vinto tutto non ti aspetti un gesto cos&igrave; umile: andare a chiedere al magazziniere dove si spoglia un calciatore piuttosto che un altro&hellip; Per me questa &egrave; una cosa da gigante&rdquo;.  Dopo l&rsquo;Inter, l&rsquo;Avellino, un breve ritorno a Bologna e l&rsquo;esperienza ad Aosta (dove nel 1995-96 ritrova il suo vecchio maestro Ferruccio Mazzola), appende gli scarpini al chiodo nel 1996 con la stagione all&rsquo;Iperzola, quando da giocatore-allenatore porta per la prima volta la squadra tra i professionisti. Lunghissima sar&agrave; anche la carriera in panchina di Paolo Stringara. Inizia a Livorno &ndash; dove conquista la promozione in C1 e il seguente record di 9 vittorie di fila iniziali in campionato &ndash; e prosegue in piazze importanti come Pistoia, Perugia, Lucca, Taranto e Foggia. Proprio con i Satanelli una delle partite pi&ugrave; pazze della sua intera carriera: &ldquo;Andammo a Benevento per giocare una gara sentitissima. A pochi minuti dalla fine del primo tempo ci trovammo in 9 e senza mister (l&rsquo;arbitro aveva cacciato anche me). Dopo aver resistito in 9 contro 11 per pi&ugrave; di un&rsquo;ora, vincemmo 0-1 con gol vittoria segnato all&rsquo;85esimo da Agodirin. Ricordo che a fine primo tempo gli addetti non mi volevano far rientrare negli spogliatoi, neanche per recuperare il portafogli. Seguire il secondo tempo dalla tribuna sarebbe stato complicato, allora andai nel nostro settore: mi misi sotto insieme ai miei collaboratori. C&rsquo;erano 800 tifosi foggiani, ed erano pure un po&rsquo; incazzati, pronti ormai inevitabilmente a perdere. Dopo il fischio finale mi portarono in trionfo, fu una cosa eccezionale: veramente da brividi. Questa partita a Foggia &egrave; leggendaria: non so quante squadre nella storia del calcio siano state capaci di un&rsquo;impresa simile&rdquo;.  Attualmente collabora con il suo vecchio compagno Jurgen Klinsmann: &ldquo;Ho lavorato con lui con la nazionale americana e all&rsquo;Herta Berlino. Stiamo aspettando qualcosa dall&rsquo;estero, magari una nazionale, vediamo&rdquo;. Nel frattempo si tiene in forma e continua a giocare a calcio con costanza, coinvolto anche nelle iniziative tra vecchie glorie: &ldquo;Un paio di volte mi ha chiamato il Bologna Legend per giocare amichevoli con altri ex calciatori. Abbiamo giocato al Dall&rsquo;Ara contro il Real Madrid Legend in occasione dei 110 anni del club. Nel Real c&rsquo;erano Seedorf e Roberto Carlos, ex giocatori importanti&hellip; abbiamo perso 4-2, per&ograve; mi sono tolto lo sfizio di segnare su rigore. Spesso andiamo a giocare in giro per i paesini con i veterani, organizza Franco Colomba. Anche con l&rsquo;Inter sono andato a fare una partita, a Tolentino, perch&eacute; Suning aveva donato delle tribune per il &lsquo;Centro sportivo Gattari&rsquo;. C&rsquo;erano vecchie glorie niente male: Zanetti, Materazzi, Toldo; e anche due miei ex compagni di squadra come Alessandro Bianchi e Beppe Baresi. Sto bene fisicamente, non voglio smettere: ancora oggi giocare a pallone mi piace tantissimo&rdquo;.        

Nato il 22 settembre del 1962, in occasione dei suoi 60 anni l'ex centrocampista toscano ha aperto l'album dei ricordi: "Che emozione la fascia da capitano. Inizialmente i nerazzurri mi scartarono"

Paolo Stringara: "Bologna il mio orgoglio. All'Inter mi presi la rivincita"

Il suo nome appartiene alla storia. Non solo del calcio italiano, anche di quello mondiale. Gi&agrave;, perch&eacute; la notte dell&rsquo;11 luglio 1982 era tra i ragazzi forsennati di gioia che correvano per il Santiago Bernabeu di Madrid a celebrare <a href="https://www.guerinsportivo.it/news/il-cuoio/accadde-oggi/2022/06/29-5522242/spagna_82_l_italia_rinasce_con_l_argentina_e_aspetta_il_brasile">la vittoria pi&ugrave; bella mai ottenuta dalla Nazionale italiana</a>. Fulvio Collovati, classe 1957, proprio quell&rsquo;estate in cui raggiungeva l&rsquo;apice della carriera, era protagonista di uno dei trasferimenti pi&ugrave; discussi di un calciomercato che non faceva ancora girare soldi e calciatori con la fluidit&agrave; di oggi: passava dal Milan, squadra nella quale era cresciuto, di cui era tifoso e che era appena retrocesso in Serie B, all&rsquo;Inter. Una scelta non indolore, che pag&ograve; con molte critiche, che gli permise di conoscere dall&rsquo;interno la realt&agrave; di quelli che per anni erano stati i suoi avversari pi&ugrave; diretti. Chi meglio di lui, quindi, per parlare di Milan, Inter e del Derby della Madonnina? Fulvio, nel 1982 il Milan retrocesse e tu fosti costretto a lasciarlo perch&eacute; Bearzot ti disse che giocando in B avresti perso la Nazionale. Dovevi cambiare squadra. Ma perch&eacute; proprio l&rsquo;Inter, tu che dei rossoneri eri una bandiera? &ldquo;Il messaggio era chiaro. Avevo gi&agrave; fatto un anno nel quale giocavo il sabato con l&rsquo;Italia e la domenica in B col Milan. Ma un&rsquo;altra stagione cos&igrave;, ammesso e non concesso che la squadra fosse subito risalita in Serie A, avrebbe comportato il rischio di perdere l&rsquo;azzurro. Fu una scelta che condivisi con la mia famiglia e la Nazionale. Perch&eacute; proprio l&rsquo;Inter? Fu la societ&agrave; che mi cerc&ograve; con pi&ugrave; insistenza. Oggi i giocatori fanno valere la loro volont&agrave; ma all&rsquo;epoca era molto diverso. Mi avevano cercato anche la Fiorentina e la Juventus ma l&rsquo;Inter fu quella che mi volle con pi&ugrave; determinazione. Del resto all&rsquo;epoca decidevano le societ&agrave; e l&rsquo;Inter era una squadra di prestigio. Andai senza pormi grossi problemi&rdquo;. A Baresi non venne fatto lo stesso discorso? &ldquo;Questo non lo so. E&rsquo; vero, anche Baresi era nel giro della Nazionale ma finch&eacute; ci fu Bearzot il titolare era Scirea&rdquo;. Come venisti accolto dall&rsquo;ambiente nerazzurro? &ldquo;Dalla tifoseria molto bene, non ci fu assolutamente scetticismo. Forse anche perch&eacute; gi&agrave; allora in casa Inter c&rsquo;era molta pi&ugrave; rivalit&agrave; con la Juventus che col Milan. In squadra, poi, avevo sei compagni di Nazionale che giocavano con me: i vari Oriali, Altobelli, Bergomi mi aiutarono ad integrarmi. Dall&rsquo;altra parte non fu cos&igrave;: lasciando il Milan fui considerato ingiustamente un traditore, nonostante avessi fatto anche la Serie B coi rossoneri&rdquo;. Tu sei entrato nelle giovanili del Milan molto presto. In quegli anni credevi di riuscire ad arrivare in Serie A?? &ldquo;A tredici anni sei spensierato, nel Milan ogni anno ti ponevi l&rsquo;obiettivo di essere confermato. Questo, ovviamente, significava fare tutti i passaggi: allievi, juniores, primavera. Insomma, non pensi subito di diventare un giocatore. Anche perch&eacute; non &egrave; cos&igrave; scontato: devi avere le qualit&agrave;, il DNA, la voglia di allenarti e fare sacrifici. Io li ho fatti, in qualche maniera ho perso un po&rsquo; la mia adolescenza. Allenarsi col Milan non &egrave; come allenarsi con la squadretta sotto casa, devi farlo quasi tutti i giorni. E poi c&rsquo;era la scuola. Di conseguenza io non uscivo la sera coi miei amici&rdquo;. Quali erano le tue caratteristiche tecniche? "Ero un difensore moderno gi&agrave; cinquanta anni fa, non lo dico con presunzione. Oggi si parla molto dei difensori che devono costruire dal basso, avere i piedi buoni, impostare pi&ugrave; che marcare. Io avevo la predisposizione per la costruzione perch&eacute; da ragazzino avevo giocato anche mezzala. Liedholm nel 1977 mi mise mediano per marcare Antognoni. Poi, non essendo velocissimo, sono andato a fare prima il terzino e poi lo stopper. Per&ograve; non mi scottava il pallone tra i piedi, anche se ovviamente non ero un fuoriclasse. Per cui cercavo di giocare con intelligenza, cercando di capire i tempi di gioco e andare sull&rsquo;anticipo&rdquo;. Oggi c&rsquo;&egrave; un difensore nel quale, almeno in parte, ti rivedi? &ldquo;Ti dico di no. Ma nello stesso modo in cui non c&rsquo;&egrave; un giocatore simile a Scirea. Oggi i difensori non sanno marcare bene perch&eacute; non gli viene insegnato, non gli spiegano la postura nell&rsquo;affrontare l&rsquo;avversario. Oggi c&rsquo;&egrave; il difensore veloce ma meno tecnico, oppure quello che, appunto, non sa marcare bene. Era un calcio diverso, non si pu&ograve; fare un paragone". Torniamo ai tuoi primi anni da professionista. Albertosi, Collovati, Maldera; De Vecchi, Bet, Baresi&hellip; quasi una litania sacra per i tifosi rossoneri. Che ricordi hai di quella formazione che cominciava cos&igrave;? &ldquo;Era una squadra che con me, Baresi e Maldera aveva una difesa giovanissima aiutata da due giocatori esperti come Bet e Albertosi. Un Milan che non aveva la punta da venti reti ma che mandava in gol tutti gli altri giocatori. Era una squadra che, al netto di Rivera, che per&ograve; era sul viale del tramonto, non possedeva campionissimi. Per&ograve; aveva un gioco di squadra che ci fece vincere lo scudetto&rdquo;. 6 novembre 1983, il tuo primo derby da ex fin&igrave; 2-0 per l&rsquo;Inter e tu segnasti la prima rete. Te lo ricordi? &ldquo;Certo che me lo ricordo! Fu un gol in mischia: alcuni dettero la rete a Serena perch&eacute; lui disse che il gol era suo ma la realt&agrave; era diversa, fui io a segnare&rdquo;. I milanisti come ti accolsero? &ldquo;Puoi immaginarti. Ci furono degli striscioni per i quali mia moglie pianse. Purtroppo gli imbecilli e i deficienti sono sempre dietro l&rsquo;angolo: fui riempito di insulti dall&rsquo;inizio alla fine della partita. Per&ograve; mi tolsi la soddisfazione di vincere il derby&rdquo;. In quei frangenti non ci si riesce a isolare dal contesto, a lasciar correre? &ldquo;Non &egrave; possibile fregarsene degli insulti, per&ograve; alla fine prevale il fatto che tu sei un professionista e devi giocare&rdquo;. Nei derby giocati con l&rsquo;Inter, qualche ex compagno ti ha mai rinfacciato in campo la tua provenienza? &ldquo;No, assolutamente nessuno. Anche perch&eacute; il Milan era molto cambiato da quando io me n&rsquo;ero andato, i giocatori erano diversi&rdquo;. Cosa ti viene in mente se ti parlo di Mark Hateley? &ldquo;Un avversario leale che mi ha fatto un gran gol, che &egrave; diventato un manifesto della rabbia dei milanisti nei miei confronti. Una rete meravigliosa che pu&ograve; succedere di prendere quando giochi centinaia di partite in Serie A. Era un&rsquo;azione in cui noi stavamo uscendo, poi sulla sinistra perdemmo palla, Virdis la prese e io corsi all&rsquo;indietro mentre lui and&ograve; proprio incontro saltando cinquanta centimetri pi&ugrave; di me. Con Mark, poi, siamo diventati amici. Gli dico sempre che fece un gran gol". Il derby che ricordi con pi&ugrave; piacere disputato col Milan e quello con l&rsquo;Inter. &ldquo;Con l&rsquo;Inter quello di cui abbiamo parlato prima, nel quale feci gol e mi presi gli insulti. Col Milan uno in cui vincemmo con un gol di Maldera. In quell&rsquo;occasione Liedholm tenne fuori Rivera. Ricordo che giocammo molto bene (12 novembre 1978, Milan-Inter 1-0, ndr)" E i due pi&ugrave; brutti? "Col Milan ci fu un derby che perdemmo 2-0, segn&ograve; Beccalossi su un cross da calcio d&rsquo;angolo (28 ottobre 1979, Inter-Milan 2-0, ndr). Con l&rsquo;Inter quello del gol di Hateley&rdquo;. In cosa sono diversi i tifosi di Inter e Milan? &ldquo;Considera che anche quando eravamo in B, col Milan c&rsquo;erano sempre ottantamila persone allo stadio. Il tifoso interista, quando la squadra perde, &egrave; un po&rsquo; pi&ugrave; critico". Oltre che a Milano tu hai giocato il derby a Roma e a Genova. Cosa ha di unico la stracittadina milanese? &ldquo;Adesso non ti saprei dire perch&eacute; &egrave; cambiato tutto. Ma ai miei tempi San Siro era davvero la Scala del calcio. Ti mettevi in testa che era come andare a teatro: non potevi fallire. Se sbagliavi eri marchiato per tutta la vita. Oggi c&rsquo;&egrave; pi&ugrave; pazienza nell&rsquo;aspettare i giocatori. All&rsquo;epoca non ti veniva dato tempo: bastava fallire due partite e ti trovavi a giocare in una provinciale. Era questa la differenza che c&rsquo;era giocando nell&rsquo;Inter e nel Milan". C&rsquo;&egrave; qualche aneddoto di campo che ti &egrave; capitato in un derby e che vuoi raccontare? &ldquo;Quel derby vinto con gol di Maldera io marcavo Altobelli. Gli feci un falletto e lui da dietro mi dette una manata. Io esagerai un pochino per quella reazione, tanto che l&rsquo;arbitro Michelotti lo espulse. Quando diventammo compagni all&rsquo;Inter mi ricord&ograve; quell&rsquo;episodio: 'Non t&rsquo;ho neanche toccato, hai fatto una scena' mi diceva. Me l&rsquo;ha sempre rinfacciato! A volte in campo si diventa anche un po&rsquo; attori. Un altro aneddoto &egrave; legato al derby di ritorno sempre di quell&rsquo;anno, che pareggiammo 2-2 negli ultimi minuti dopo che eravamo sotto 2-0, al quale io non partecipai. Il motivo? All&rsquo;epoca facevo il militare, mi allenavo alla Cecchignola e il mercoled&igrave; facevamo delle partite. Bene, ricordo che prima di quel derby di ritorno giocammo contro il Colleferro su un campo in terra battuta: mi procurai una distorsione al ginocchio che mi tenne fuori un mese. Ero proprio demoralizzato&rdquo;.

        Il suo nome appartiene alla storia. Non solo del calcio italiano, anche di quello mondiale. Gi&agrave;, perch&eacute; la notte dell&rsquo;11 luglio 1982 era tra i ragazzi forsennati di gioia che correvano per il Santiago Bernabeu di Madrid a celebrare la vittoria pi&ugrave; bella mai ottenuta dalla Nazionale italiana. Fulvio Collovati, classe 1957, proprio quell&rsquo;estate in cui raggiungeva l&rsquo;apice della carriera, era protagonista di uno dei trasferimenti pi&ugrave; discussi di un calciomercato che non faceva ancora girare soldi e calciatori con la fluidit&agrave; di oggi: passava dal Milan, squadra nella quale era cresciuto, di cui era tifoso e che era appena retrocesso in Serie B, all&rsquo;Inter. Una scelta non indolore, che pag&ograve; con molte critiche, che gli permise di conoscere dall&rsquo;interno la realt&agrave; di quelli che per anni erano stati i suoi avversari pi&ugrave; diretti. Chi meglio di lui, quindi, per parlare di Milan, Inter e del Derby della Madonnina? Fulvio, nel 1982 il Milan retrocesse e tu fosti costretto a lasciarlo perch&eacute; Bearzot ti disse che giocando in B avresti perso la Nazionale. Dovevi cambiare squadra. Ma perch&eacute; proprio l&rsquo;Inter, tu che dei rossoneri eri una bandiera? &ldquo;Il messaggio era chiaro. Avevo gi&agrave; fatto un anno nel quale giocavo il sabato con l&rsquo;Italia e la domenica in B col Milan. Ma un&rsquo;altra stagione cos&igrave;, ammesso e non concesso che la squadra fosse subito risalita in Serie A, avrebbe comportato il rischio di perdere l&rsquo;azzurro. Fu una scelta che condivisi con la mia famiglia e la Nazionale. Perch&eacute; proprio l&rsquo;Inter? Fu la societ&agrave; che mi cerc&ograve; con pi&ugrave; insistenza. Oggi i giocatori fanno valere la loro volont&agrave; ma all&rsquo;epoca era molto diverso. Mi avevano cercato anche la Fiorentina e la Juventus ma l&rsquo;Inter fu quella che mi volle con pi&ugrave; determinazione. Del resto all&rsquo;epoca decidevano le societ&agrave; e l&rsquo;Inter era una squadra di prestigio. Andai senza pormi grossi problemi&rdquo;.  A Baresi non venne fatto lo stesso discorso? &ldquo;Questo non lo so. E&rsquo; vero, anche Baresi era nel giro della Nazionale ma finch&eacute; ci fu Bearzot il titolare era Scirea&rdquo;. Come venisti accolto dall&rsquo;ambiente nerazzurro? &ldquo;Dalla tifoseria molto bene, non ci fu assolutamente scetticismo. Forse anche perch&eacute; gi&agrave; allora in casa Inter c&rsquo;era molta pi&ugrave; rivalit&agrave; con la Juventus che col Milan. In squadra, poi, avevo sei compagni di Nazionale che giocavano con me: i vari Oriali, Altobelli, Bergomi mi aiutarono ad integrarmi. Dall&rsquo;altra parte non fu cos&igrave;: lasciando il Milan fui considerato ingiustamente un traditore, nonostante avessi fatto anche la Serie B coi rossoneri&rdquo;.  Tu sei entrato nelle giovanili del Milan molto presto. In quegli anni credevi di riuscire ad arrivare in Serie A?? &ldquo;A tredici anni sei spensierato, nel Milan ogni anno ti ponevi l&rsquo;obiettivo di essere confermato. Questo, ovviamente, significava fare tutti i passaggi: allievi, juniores, primavera. Insomma, non pensi subito di diventare un giocatore. Anche perch&eacute; non &egrave; cos&igrave; scontato: devi avere le qualit&agrave;, il DNA, la voglia di allenarti e fare sacrifici. Io li ho fatti, in qualche maniera ho perso un po&rsquo; la mia adolescenza. Allenarsi col Milan non &egrave; come allenarsi con la squadretta sotto casa, devi farlo quasi tutti i giorni. E poi c&rsquo;era la scuola. Di conseguenza io non uscivo la sera coi miei amici&rdquo;.  Quali erano le tue caratteristiche tecniche? "Ero un difensore moderno gi&agrave; cinquanta anni fa, non lo dico con presunzione. Oggi si parla molto dei difensori che devono costruire dal basso, avere i piedi buoni, impostare pi&ugrave; che marcare. Io avevo la predisposizione per la costruzione perch&eacute; da ragazzino avevo giocato anche mezzala. Liedholm nel 1977 mi mise mediano per marcare Antognoni. Poi, non essendo velocissimo, sono andato a fare prima il terzino e poi lo stopper. Per&ograve; non mi scottava il pallone tra i piedi, anche se ovviamente non ero un fuoriclasse. Per cui cercavo di giocare con intelligenza, cercando di capire i tempi di gioco e andare sull&rsquo;anticipo&rdquo;. Oggi c&rsquo;&egrave; un difensore nel quale, almeno in parte, ti rivedi? &ldquo;Ti dico di no. Ma nello stesso modo in cui non c&rsquo;&egrave; un giocatore simile a Scirea. Oggi i difensori non sanno marcare bene perch&eacute; non gli viene insegnato, non gli spiegano la postura nell&rsquo;affrontare l&rsquo;avversario. Oggi c&rsquo;&egrave; il difensore veloce ma meno tecnico, oppure quello che, appunto, non sa marcare bene. Era un calcio diverso, non si pu&ograve; fare un paragone". Torniamo ai tuoi primi anni da professionista. Albertosi, Collovati, Maldera; De Vecchi, Bet, Baresi&hellip; quasi una litania sacra per i tifosi rossoneri. Che ricordi hai di quella formazione che cominciava cos&igrave;? &ldquo;Era una squadra che con me, Baresi e Maldera aveva una difesa giovanissima aiutata da due giocatori esperti come Bet e Albertosi. Un Milan che non aveva la punta da venti reti ma che mandava in gol tutti gli altri giocatori. Era una squadra che, al netto di Rivera, che per&ograve; era sul viale del tramonto, non possedeva campionissimi. Per&ograve; aveva un gioco di squadra che ci fece vincere lo scudetto&rdquo;.  6 novembre 1983, il tuo primo derby da ex fin&igrave; 2-0 per l&rsquo;Inter e tu segnasti la prima rete. Te lo ricordi? &ldquo;Certo che me lo ricordo! Fu un gol in mischia: alcuni dettero la rete a Serena perch&eacute; lui disse che il gol era suo ma la realt&agrave; era diversa, fui io a segnare&rdquo;.  I milanisti come ti accolsero? &ldquo;Puoi immaginarti. Ci furono degli striscioni per i quali mia moglie pianse. Purtroppo gli imbecilli e i deficienti sono sempre dietro l&rsquo;angolo: fui riempito di insulti dall&rsquo;inizio alla fine della partita. Per&ograve; mi tolsi la soddisfazione di vincere il derby&rdquo;. In quei frangenti non ci si riesce a isolare dal contesto, a lasciar correre? &ldquo;Non &egrave; possibile fregarsene degli insulti, per&ograve; alla fine prevale il fatto che tu sei un professionista e devi giocare&rdquo;. Nei derby giocati con l&rsquo;Inter, qualche ex compagno ti ha mai rinfacciato in campo la tua provenienza? &ldquo;No, assolutamente nessuno. Anche perch&eacute; il Milan era molto cambiato da quando io me n&rsquo;ero andato, i giocatori erano diversi&rdquo;. Cosa ti viene in mente se ti parlo di Mark Hateley? &ldquo;Un avversario leale che mi ha fatto un gran gol, che &egrave; diventato un manifesto della rabbia dei milanisti nei miei confronti. Una rete meravigliosa che pu&ograve; succedere di prendere quando giochi centinaia di partite in Serie A. Era un&rsquo;azione in cui noi stavamo uscendo, poi sulla sinistra perdemmo palla, Virdis la prese e io corsi all&rsquo;indietro mentre lui and&ograve; proprio incontro saltando cinquanta centimetri pi&ugrave; di me. Con Mark, poi, siamo diventati amici. Gli dico sempre che fece un gran gol".  Il derby che ricordi con pi&ugrave; piacere disputato col Milan e quello con l&rsquo;Inter. &ldquo;Con l&rsquo;Inter quello di cui abbiamo parlato prima, nel quale feci gol e mi presi gli insulti. Col Milan uno in cui vincemmo con un gol di Maldera. In quell&rsquo;occasione Liedholm tenne fuori Rivera. Ricordo che giocammo molto bene (12 novembre 1978, Milan-Inter 1-0, ndr)" E i due pi&ugrave; brutti? "Col Milan ci fu un derby che perdemmo 2-0, segn&ograve; Beccalossi su un cross da calcio d&rsquo;angolo (28 ottobre 1979, Inter-Milan 2-0, ndr). Con l&rsquo;Inter quello del gol di Hateley&rdquo;. In cosa sono diversi i tifosi di Inter e Milan? &ldquo;Considera che anche quando eravamo in B, col Milan c&rsquo;erano sempre ottantamila persone allo stadio. Il tifoso interista, quando la squadra perde, &egrave; un po&rsquo; pi&ugrave; critico".  Oltre che a Milano tu hai giocato il derby a Roma e a Genova. Cosa ha di unico la stracittadina milanese? &ldquo;Adesso non ti saprei dire perch&eacute; &egrave; cambiato tutto. Ma ai miei tempi San Siro era davvero la Scala del calcio. Ti mettevi in testa che era come andare a teatro: non potevi fallire. Se sbagliavi eri marchiato per tutta la vita. Oggi c&rsquo;&egrave; pi&ugrave; pazienza nell&rsquo;aspettare i giocatori. All&rsquo;epoca non ti veniva dato tempo: bastava fallire due partite e ti trovavi a giocare in una provinciale. Era questa la differenza che c&rsquo;era giocando nell&rsquo;Inter e nel Milan". C&rsquo;&egrave; qualche aneddoto di campo che ti &egrave; capitato in un derby e che vuoi raccontare? &ldquo;Quel derby vinto con gol di Maldera io marcavo Altobelli. Gli feci un falletto e lui da dietro mi dette una manata. Io esagerai un pochino per quella reazione, tanto che l&rsquo;arbitro Michelotti lo espulse. Quando diventammo compagni all&rsquo;Inter mi ricord&ograve; quell&rsquo;episodio: 'Non t&rsquo;ho neanche toccato, hai fatto una scena' mi diceva. Me l&rsquo;ha sempre rinfacciato! A volte in campo si diventa anche un po&rsquo; attori. Un altro aneddoto &egrave; legato al derby di ritorno sempre di quell&rsquo;anno, che pareggiammo 2-2 negli ultimi minuti dopo che eravamo sotto 2-0, al quale io non partecipai. Il motivo? All&rsquo;epoca facevo il militare, mi allenavo alla Cecchignola e il mercoled&igrave; facevamo delle partite. Bene, ricordo che prima di quel derby di ritorno giocammo contro il Colleferro su un campo in terra battuta: mi procurai una distorsione al ginocchio che mi tenne fuori un mese. Ero proprio demoralizzato&rdquo;.        

Nel 1982, anno in cui vinse il Mondiale, il difensore cambi&ograve; sponda del Naviglio suscitando polemiche. In questa intervista racconta le sue esperienze milanesi rivelando anche aneddoti inediti

Milan-Inter, i derby di Fulvio Collovati:”Se sbagliavi eri marchiato a vita”

Due artisti del pallone che fu; geni che udite udite, non hanno mai vestito la maglia della Nazionale: Vincenzo D&rsquo;Amico ed Evaristo Beccalossi. Sono i fantasisti di due scudetti operai: D&rsquo;Amico con la Lazio del &rsquo;74 timonata da <a href="https://www.guerinsportivo.it/news/il-cuoio/2021/06/07-4341756/7_giugno_71_cambia_la_storia_della_lazio_inizia_l_era_di_maestrelli">Tommaso Maestrelli</a>, venuto dal nulla e accolto con scetticismo, in grado di tramutare i &ldquo;clan&rdquo; interni dello spogliatoio in un gruppo vincente; Beccalossi con l&rsquo;Inter nel 1980, guidata dal Sergente di ferro Eugenio Bersellini, capace di surclassare una Juve pi&ugrave; attrezzata e in procinto di fare man bassa di trofei in Italia e in Europa negli anni a venire. <h2>D&rsquo;Amico</h2> &Egrave; ancora un teenager Vincenzino quando Maestrelli lo lancia nel &rsquo;72: debutta non ancora 18enne all&rsquo;Olimpico contro il Modena, schierato in attacco al fianco di <a href="https://www.guerinsportivo.it/news/il-cuoio/ultimo-dribbling/2022/01/24-5097371/giorgio_chinaglia_il_grido_di_battaglia_biancoceleste">Chinaglia</a> e Massa. &Egrave; proprio l&rsquo;addio di Peppiniello &ndash; trasferitosi all&rsquo;Inter &ndash; a lasciargli il posto in squadra. Vincenzino per&ograve; &egrave; sfortunato: si rompe il ginocchio ed &egrave; costretto a saltare l&rsquo;intero campionato alle porte. Sarebbe stato il suo primo in Serie A. Si rifar&agrave; diventando il Golden Boy del primo scudetto. Equilibratore di fantasia nel tridente di Maestrelli; lasciato fuori dalle faide interne al gruppo &ndash; sotto l&rsquo;ala protettiva del capitano Pino Wilson, delegato di controllarlo anche a tavola &ndash;, il ragazzino venuto da Latina scoppia in lacrime quando segna la prima rete in Serie A (su assist di tacco di <a href="https://www.guerinsportivo.it/news/il-cuoio/ultimo-dribbling/2022/04/01-5268168/giorgio_chinaglia_i_m_football_crazy">Chinaglia</a>) e ritrova il gol nel giorno pi&ugrave; importante, quello del derby di ritorno, pareggiando la sfida che Long John infiamma indicando la Sud. Una stracittadina passata alla storia che proietta la Lazio a +4 sulla Juve avvicinandola al tricolore. Uno scudetto che arriver&agrave; un mese e mezzo pi&ugrave; tardi, del quale Vincenzo D&rsquo;Amico rimarr&agrave; per sempre &ldquo;faccia pulita&rdquo; in mezzo ai volti dei vari bad boys che giocavano nella turbolenta Roma degli anni &rsquo;70. <h2>Beccalossi</h2> Gli stessi anni in cui emerge calcisticamente il classe &rsquo;56 (due primavere in meno di D&rsquo;Amico) Evaristo Beccalossi. Un trequartista geniale che sboccia nel torneo 1976, nella sua Brescia in Serie B. L&rsquo;Inter lo acquista solo nel &rsquo;78, un anno dopo aver prelevato, sempre dalle Rondinelle, il suo grande amico <a href="https://www.guerinsportivo.it/news/il-cuoio/l-intervista/2021/06/16-4377782/spillo_altobelli_ricorda_il_suo_italia-svizzera_del_1986_e_non_solo">Spillo Altobelli</a>. A Milano Beccalossi diventer&agrave; un&rsquo;icona: un po&rsquo; per il modo di giocare, un po&rsquo; per il modo di essere. "Non ero un guerriero, mi allenavo poco, accendevo spesso e volentieri una Marlborina. Bersellini tent&ograve; di raddrizzarmi, ma fu tutto inutile". Il Becca &egrave; cos&igrave;, prendere o lasciare. E per i tifosi Bauscia i trucchi mostrati in campo hanno sempre prevalso sulla discontinuit&agrave; emersa nella carriera del fantasista bresciano. Genio e sregolatezza, come quando nel 1979-80 stende il Milan con una doppietta di destro: delizioso il primo tocco al volo; facile facile il secondo. &Egrave; quella la prestazione che ispira la celeberrima frase &ldquo;Sono Evaristo, scusate se insisto&rdquo;: "Merito del mio grande amico Beppe Viola. Dopo quel derby uscendo dallo stadio sent&igrave; un tifoso che diceva quella frase. La ripet&eacute; in televisione e da allora...". <h2>Rigori e bandiere</h2> Evaristo insiste anche il 15 settembre &rsquo;82, Coppa Coppe, Inter-Slovan Bratislava: "Ero il primo rigorista, arrivo l&igrave; e sbaglio. Pazienza, succede. Dopodich&eacute;, secondo rigore. La regola era ferrea: se il rigorista principale sbaglia, tocca al secondo. Mi giro e vedo il secondo rigorista che corricchia all&rsquo;indietro verso centrocampo e capisco l&rsquo;antifona". Due rigori sbagliati resi ancora pi&ugrave; popolari a teatro dal comico Paolo Rossi, che li inser&igrave; nel suo show, prima di &ldquo;cantarne le gesta&rdquo; anche nella trasmissione &ldquo;Su la testa&rdquo;, andata in onda su Rai 3 nel &rsquo;92. Come il Becca &ndash; che in carriera ne ha comunque realizzati 17 sbagliandone solo 3 &ndash; anche D&rsquo;Amico si presentava spesso dagli 11 metri (14 segnati, 3 falliti). Si prendeva le responsabilit&agrave; Vincenzino: ceduto controvoglia al Toro e tornato in fretta e furia per mantenere a galla una Lazio vicina al baratro, orfana di Giordano, Wilson e Manfredonia. La sua fiamma biancoceleste in campo resta accesa fino al 1986, quando lascer&agrave;, forse tramandando qualcosa ai ragazzi che scriveranno l&rsquo;impresa del -9. Come dicevamo, una carriera ad alti livelli senza Nazionale. Rimpianto per D&rsquo;Amico, che da giovane ha vestito l&rsquo;azzurro dell&rsquo;Italia B, dell&rsquo;U-18, dell&rsquo;U-23 e di quella militare. Ancora pi&ugrave; grande il rammarico per Evaristo, che negli anni &rsquo;80 &egrave; addirittura salito di livello, sfiorando la finale di Coppa Campioni 1981, giocando un campionato 1981- 82 da urlo e agitando proteste popolari quando <a href="https://www.guerinsportivo.it/news/il-cuoio/accadde-oggi/2022/06/13-5476834/spagna_82_premesse_di_un_mondiale_che_restera_indimenticabile">Bearzot lo escluse dal Mundial</a>. Beccalossi rappresenta una delle ultime maglie di lana nerazzurre con su cucito il numero 10, quasi un&rsquo;icona pop; D&rsquo;Amico con quella faccia d&rsquo;angelo non poteva finire all&rsquo;inferno, cos&igrave; come la sua amata Lazio alla quale ha dedicato una vita. Regista offensivo, mancino, dribblomane &ndash; o Driblossi, come lo chiamava Brera &ndash; e meno faticatore Beccalossi; destro, schierato prevalentemente in fascia, terribile nello stretto e abile crossatore D&rsquo;Amico. Diversi in campo e fuori, entrambi romantici interpreti del calcio che fu.

        Due artisti del pallone che fu; geni che udite udite, non hanno mai vestito la maglia della Nazionale: Vincenzo D&rsquo;Amico ed Evaristo Beccalossi. Sono i fantasisti di due scudetti operai: D&rsquo;Amico con la Lazio del &rsquo;74 timonata da Tommaso Maestrelli, venuto dal nulla e accolto con scetticismo, in grado di tramutare i &ldquo;clan&rdquo; interni dello spogliatoio in un gruppo vincente; Beccalossi con l&rsquo;Inter nel 1980, guidata dal Sergente di ferro Eugenio Bersellini, capace di surclassare una Juve pi&ugrave; attrezzata e in procinto di fare man bassa di trofei in Italia e in Europa negli anni a venire.  D&rsquo;Amico &Egrave; ancora un teenager Vincenzino quando Maestrelli lo lancia nel &rsquo;72: debutta non ancora 18enne all&rsquo;Olimpico contro il Modena, schierato in attacco al fianco di Chinaglia e Massa. &Egrave; proprio l&rsquo;addio di Peppiniello &ndash; trasferitosi all&rsquo;Inter &ndash; a lasciargli il posto in squadra. Vincenzino per&ograve; &egrave; sfortunato: si rompe il ginocchio ed &egrave; costretto a saltare l&rsquo;intero campionato alle porte. Sarebbe stato il suo primo in Serie A. Si rifar&agrave; diventando il Golden Boy del primo scudetto. Equilibratore di fantasia nel tridente di Maestrelli; lasciato fuori dalle faide interne al gruppo &ndash; sotto l&rsquo;ala protettiva del capitano Pino Wilson, delegato di controllarlo anche a tavola &ndash;, il ragazzino venuto da Latina scoppia in lacrime quando segna la prima rete in Serie A (su assist di tacco di Chinaglia) e ritrova il gol nel giorno pi&ugrave; importante, quello del derby di ritorno, pareggiando la sfida che Long John infiamma indicando la Sud. Una stracittadina passata alla storia che proietta la Lazio a +4 sulla Juve avvicinandola al tricolore. Uno scudetto che arriver&agrave; un mese e mezzo pi&ugrave; tardi, del quale Vincenzo D&rsquo;Amico rimarr&agrave; per sempre &ldquo;faccia pulita&rdquo; in mezzo ai volti dei vari bad boys che giocavano nella turbolenta Roma degli anni &rsquo;70.  Beccalossi Gli stessi anni in cui emerge calcisticamente il classe &rsquo;56 (due primavere in meno di D&rsquo;Amico) Evaristo Beccalossi. Un trequartista geniale che sboccia nel torneo 1976, nella sua Brescia in Serie B. L&rsquo;Inter lo acquista solo nel &rsquo;78, un anno dopo aver prelevato, sempre dalle Rondinelle, il suo grande amico Spillo Altobelli. A Milano Beccalossi diventer&agrave; un&rsquo;icona: un po&rsquo; per il modo di giocare, un po&rsquo; per il modo di essere. "Non ero un guerriero, mi allenavo poco, accendevo spesso e volentieri una Marlborina. Bersellini tent&ograve; di raddrizzarmi, ma fu tutto inutile". Il Becca &egrave; cos&igrave;, prendere o lasciare. E per i tifosi Bauscia i trucchi mostrati in campo hanno sempre prevalso sulla discontinuit&agrave; emersa nella carriera del fantasista bresciano. Genio e sregolatezza, come quando nel 1979-80 stende il Milan con una doppietta di destro: delizioso il primo tocco al volo; facile facile il secondo. &Egrave; quella la prestazione che ispira la celeberrima frase &ldquo;Sono Evaristo, scusate se insisto&rdquo;: "Merito del mio grande amico Beppe Viola. Dopo quel derby uscendo dallo stadio sent&igrave; un tifoso che diceva quella frase. La ripet&eacute; in televisione e da allora...".  Rigori e bandiere Evaristo insiste anche il 15 settembre &rsquo;82, Coppa Coppe, Inter-Slovan Bratislava: "Ero il primo rigorista, arrivo l&igrave; e sbaglio. Pazienza, succede. Dopodich&eacute;, secondo rigore. La regola era ferrea: se il rigorista principale sbaglia, tocca al secondo. Mi giro e vedo il secondo rigorista che corricchia all&rsquo;indietro verso centrocampo e capisco l&rsquo;antifona". Due rigori sbagliati resi ancora pi&ugrave; popolari a teatro dal comico Paolo Rossi, che li inser&igrave; nel suo show, prima di &ldquo;cantarne le gesta&rdquo; anche nella trasmissione &ldquo;Su la testa&rdquo;, andata in onda su Rai 3 nel &rsquo;92. Come il Becca &ndash; che in carriera ne ha comunque realizzati 17 sbagliandone solo 3 &ndash; anche D&rsquo;Amico si presentava spesso dagli 11 metri (14 segnati, 3 falliti). Si prendeva le responsabilit&agrave; Vincenzino: ceduto controvoglia al Toro e tornato in fretta e furia per mantenere a galla una Lazio vicina al baratro, orfana di Giordano, Wilson e Manfredonia. La sua fiamma biancoceleste in campo resta accesa fino al 1986, quando lascer&agrave;, forse tramandando qualcosa ai ragazzi che scriveranno l&rsquo;impresa del -9. Come dicevamo, una carriera ad alti livelli senza Nazionale. Rimpianto per D&rsquo;Amico, che da giovane ha vestito l&rsquo;azzurro dell&rsquo;Italia B, dell&rsquo;U-18, dell&rsquo;U-23 e di quella militare. Ancora pi&ugrave; grande il rammarico per Evaristo, che negli anni &rsquo;80 &egrave; addirittura salito di livello, sfiorando la finale di Coppa Campioni 1981, giocando un campionato 1981- 82 da urlo e agitando proteste popolari quando Bearzot lo escluse dal Mundial. Beccalossi rappresenta una delle ultime maglie di lana nerazzurre con su cucito il numero 10, quasi un&rsquo;icona pop; D&rsquo;Amico con quella faccia d&rsquo;angelo non poteva finire all&rsquo;inferno, cos&igrave; come la sua amata Lazio alla quale ha dedicato una vita. Regista offensivo, mancino, dribblomane &ndash; o Driblossi, come lo chiamava Brera &ndash; e meno faticatore Beccalossi; destro, schierato prevalentemente in fascia, terribile nello stretto e abile crossatore D&rsquo;Amico. Diversi in campo e fuori, entrambi romantici interpreti del calcio che fu.        

Vincenzino ed Evaristo, calciatori fantastici, adorati dai loro tifosi, non sono per&ograve; mai riusciti a giocare con la maglia della Nazionale italiana

Lazio-Inter: gli anni d'oro di D'Amico e Beccalossi

Si dice che il viso sia il primo biglietto da visita di una persona. Nel suo, a spiccare erano gli occhi chiarissimi, di una dolcezza difficile da quantificare. Si muovevano all&rsquo;unisono con la sua voce, di un tono caldo e affettuoso. Una voce che oggi si pu&ograve; ancora sentire. S&igrave;, si pu&ograve; ancora ascoltare Giacinto Facchetti &ldquo;parlare piano, anche adesso, adesso che &egrave; lontano&rdquo;, come cantava Gaetano Curreri. Facchetti, figlio di una generazione cresciuta nell&rsquo;immediato dopoguerra, che ha imparato a rimboccarsi le maniche e a ripartire con umilt&agrave; e sacrificio. Proprio le doti che Giacinto metteva in campo, e che lo hanno fatto diventare Facchetti.&nbsp; <h2>Due vizi: fare gol e correre</h2> Per lui un numero. Il 3. E due colori. Il nero e l&rsquo;azzurro. Inter e nazionale italiana. Ci vuole arrivare al grande calcio, il piccolo Giacinto, sin da quando da bambino gioca all&rsquo;oratorio della sua Treviglio. Con i dilettanti della Trevigliese &egrave; schierato attaccante, ma lui sosteneva che no, non era vero, solo una leggenda, era gi&agrave; un difensore, ma amava spingersi in avanti. &Egrave; un vizio che non perder&agrave; mai. Fare gol e correre. Quanto correva, Giacinto. Pap&agrave; Felice e mamma Elvira avevano messo su un tale marcantonio, con quelle gambe lunghe. Nel &rsquo;58 corre gli 80 metri in 9&rsquo;&rsquo; ai campionati provinciali studenteschi. I dirigenti della Federatletica provano a convincerlo a lasciare il calcio. "Vieni da noi, Giacinto, diventa un corridore. Basta il calcio. Hai pure fatto il provino con il Milan e ti hanno bocciato". Macch&eacute;. Di l&igrave; a due mesi lo nota Giuseppe Meazza, che lo porta all&rsquo;Inter. E il provino &egrave; superato. <h2>Il debutto di &ldquo;Cipe&rdquo;</h2> "Come ti chiami? Da domani ti alleni con noi". &Egrave; Helenio Herrera a rivolgersi cos&igrave; al giovanissimo Facchetti. &Egrave; il marzo 1961, il tecnico franco-argentino voluto fortemente dal presidente Angelo Moratti nota da subito qualcosa in lui. A maggio il debutto assoluto in prima squadra nella semifinale di Coppa delle Fiere con il Birmingham, diciotto giorni dopo, il 21 maggio, la prima in campionato, in una vittoria all&rsquo;Olimpico contro la Roma. Herrera, un po&rsquo; apposta un po&rsquo; per sbaglio, lo chiama Cipelletti, e &ldquo;Cipe&rdquo; &egrave; il soprannome che nessuno gli toglier&agrave; pi&ugrave;. Il Mago sa che Facchetti &egrave; un difensore atipico per l&rsquo;epoca: le sue lunghe leve gli permettono di sprintare in avanti con naturalezza, e il gol per lui non &egrave; un&rsquo;eventualit&agrave;, ma una probabilit&agrave;. L&rsquo;allenatore non sopprime la sua indole. La esalta. Lo schiera terzino, ma &egrave; l&rsquo;ala aggiunta dell&rsquo;attacco di un&rsquo;Inter che da anonima sta per diventare Grande. <h2>La filastrocca della Grande Inter</h2> Il 3 con la maglia nerazzurra riesce a schiacciare la pressione di San Siro cos&igrave; come l&rsquo;Inter schiaccia qualsiasi avversario in Italia, in Europa, nel mondo. &Egrave; l&rsquo;Inter della filastrocca Sarti, Burgnich, Facchetti, che conoscono a memoria anche i tifosi delle altre squadre. Che vince scudetti e coppe internazionali. Il giovane Giacinto che giocava all&rsquo;oratorio di Treviglio &egrave; diventato Facchetti. Corre, segna (tanto), vince. Anche il contorno &egrave; dei migliori. Nel &rsquo;65 solo Eusebio gli vieta di alzare al cielo il Pallone d&rsquo;Oro, e due anni dopo sposa l&rsquo;amata Giovanna. Manca poco alla conquista di un trofeo anche con la Nazionale. <h2>Facchetti e la Nazionale italiana</h2> Perch&eacute; se sei leader dello spogliatoio della pi&ugrave; forte squadra italiana, lo sei anche della nazionale. Condottiero e capitano. Un rapporto tormentato con il ct Fabbri non gli permette di giocare un buon Mondiale nel 1966, il primo di tre. Nel torneo inglese, contro l&rsquo;Urss, uno scatenato Igor Cislenko lo fa impazzire su quella fascia, uno dei pochissimi ad averlo messo veramente in difficolt&agrave;. Insomma, quel russo con la maglia numero 7 sulla destra fa quello che vuole e segna pure il gol decisivo per la vittoria dei sovietici. Ci sono tutti gli ingredienti per far s&igrave; che tra i due nasca l&rsquo;odio. Diventeranno amici per la pelle. Ogni anno infatti Facchetti prender&agrave; un aereo per Mosca e lo andr&agrave; a trovare. Non pu&ograve; per&ograve; fare a meno di notare che il buon vecchio Igor ha sempre una bottiglia di vodka in mano. Non gli dir&agrave; mai niente. A cosa servirebbe? La voglia di condividere &egrave; pi&ugrave; importante. Gli rimarr&agrave; legato, a Cislenko, fino al 1994, quando una cirrosi epatica se lo porter&agrave; via. &Egrave; questo, Facchetti. &Egrave; il capitano che agli Europei del &rsquo;68 vince il famoso sorteggio della monetina che elimina l&rsquo;Urss e che dopo la vittoria contro la Jugoslavia alza al cielo il primo trofeo continentale degli Azzurri. Porta la fascia al braccio anche a Messico &rsquo;70, ed &egrave; il primo ad andare in camera del milanista Lodetti, avversario di tanti derby, quando il ct Valcareggi lo rispedisce in Italia per far posto a un attaccante in pi&ugrave; in rosa. Non gli dice niente, sa che non serve. Come per Cislenko. Ci sono momenti in cui le parole contano, se poche ma efficaci. "Giovanni, per qualsiasi cosa, io sono qui". <h2>La parte buona del calcio</h2> Ed &egrave; sempre l&igrave;, sulla fascia sinistra, fino al 1978, l&rsquo;anno del ritiro. Rimarr&agrave; sempre legato al mondo Inter, da dirigente fino a presidente, portavoce dei colori nerazzurri, testimone di un modo di vivere il calcio tutto suo. Onesto, leale, corretto. Rispettato da tutti per la sua rettitudine morale, per la capacit&agrave; di trasmettere i princ&igrave;pi giusti a chi gli stava attorno. Una persona perbene, in un mondo in cui spesso l&rsquo;essere buoni viene confuso con l&rsquo;ingenuit&agrave;. <h2>L&rsquo;omaggio di Cambiasso nella notte di Madrid</h2> Quando il 4 settembre 2006 decide di assentarsi definitivamente dal nostro mondo, la notizia scuote l&rsquo;universo del calcio. Cinque giorni dopo, l&rsquo;Inter debutta in campionato al Franchi di Firenze. Javier Zanetti indossa una fascia particolare: &ldquo;Tu sei tutto quello che un uomo dovrebbe essere&rdquo;. Ma a prendersi la scena &egrave; Esteban Cambiasso, autore di una doppietta. &Egrave; uno dei grandi protagonisti di un&rsquo;Inter nuova, bella e Grande come quella di Herrera e Facchetti. Che raggiunge la sua vetta pi&ugrave; alta la sera del 22 maggio 2010. A fine partita, &egrave; proprio Cambiasso a togliersi la sua 19 e a infilarsi una casacca nerazzurra degli anni Sessanta. Ha il 3 stampato dietro. Giacinto &egrave; presente nella notte di Madrid. Si pu&ograve; ancora sentire la sua voce.

        Si dice che il viso sia il primo biglietto da visita di una persona. Nel suo, a spiccare erano gli occhi chiarissimi, di una dolcezza difficile da quantificare. Si muovevano all&rsquo;unisono con la sua voce, di un tono caldo e affettuoso. Una voce che oggi si pu&ograve; ancora sentire. S&igrave;, si pu&ograve; ancora ascoltare Giacinto Facchetti &ldquo;parlare piano, anche adesso, adesso che &egrave; lontano&rdquo;, come cantava Gaetano Curreri. Facchetti, figlio di una generazione cresciuta nell&rsquo;immediato dopoguerra, che ha imparato a rimboccarsi le maniche e a ripartire con umilt&agrave; e sacrificio. Proprio le doti che Giacinto metteva in campo, e che lo hanno fatto diventare Facchetti.&nbsp;  Due vizi: fare gol e correre Per lui un numero. Il 3. E due colori. Il nero e l&rsquo;azzurro. Inter e nazionale italiana. Ci vuole arrivare al grande calcio, il piccolo Giacinto, sin da quando da bambino gioca all&rsquo;oratorio della sua Treviglio. Con i dilettanti della Trevigliese &egrave; schierato attaccante, ma lui sosteneva che no, non era vero, solo una leggenda, era gi&agrave; un difensore, ma amava spingersi in avanti. &Egrave; un vizio che non perder&agrave; mai. Fare gol e correre. Quanto correva, Giacinto. Pap&agrave; Felice e mamma Elvira avevano messo su un tale marcantonio, con quelle gambe lunghe. Nel &rsquo;58 corre gli 80 metri in 9&rsquo;&rsquo; ai campionati provinciali studenteschi. I dirigenti della Federatletica provano a convincerlo a lasciare il calcio. "Vieni da noi, Giacinto, diventa un corridore. Basta il calcio. Hai pure fatto il provino con il Milan e ti hanno bocciato". Macch&eacute;. Di l&igrave; a due mesi lo nota Giuseppe Meazza, che lo porta all&rsquo;Inter. E il provino &egrave; superato. Il debutto di &ldquo;Cipe&rdquo; "Come ti chiami? Da domani ti alleni con noi". &Egrave; Helenio Herrera a rivolgersi cos&igrave; al giovanissimo Facchetti. &Egrave; il marzo 1961, il tecnico franco-argentino voluto fortemente dal presidente Angelo Moratti nota da subito qualcosa in lui. A maggio il debutto assoluto in prima squadra nella semifinale di Coppa delle Fiere con il Birmingham, diciotto giorni dopo, il 21 maggio, la prima in campionato, in una vittoria all&rsquo;Olimpico contro la Roma. Herrera, un po&rsquo; apposta un po&rsquo; per sbaglio, lo chiama Cipelletti, e &ldquo;Cipe&rdquo; &egrave; il soprannome che nessuno gli toglier&agrave; pi&ugrave;. Il Mago sa che Facchetti &egrave; un difensore atipico per l&rsquo;epoca: le sue lunghe leve gli permettono di sprintare in avanti con naturalezza, e il gol per lui non &egrave; un&rsquo;eventualit&agrave;, ma una probabilit&agrave;. L&rsquo;allenatore non sopprime la sua indole. La esalta. Lo schiera terzino, ma &egrave; l&rsquo;ala aggiunta dell&rsquo;attacco di un&rsquo;Inter che da anonima sta per diventare Grande.  La filastrocca della Grande Inter Il 3 con la maglia nerazzurra riesce a schiacciare la pressione di San Siro cos&igrave; come l&rsquo;Inter schiaccia qualsiasi avversario in Italia, in Europa, nel mondo. &Egrave; l&rsquo;Inter della filastrocca Sarti, Burgnich, Facchetti, che conoscono a memoria anche i tifosi delle altre squadre. Che vince scudetti e coppe internazionali. Il giovane Giacinto che giocava all&rsquo;oratorio di Treviglio &egrave; diventato Facchetti. Corre, segna (tanto), vince. Anche il contorno &egrave; dei migliori. Nel &rsquo;65 solo Eusebio gli vieta di alzare al cielo il Pallone d&rsquo;Oro, e due anni dopo sposa l&rsquo;amata Giovanna. Manca poco alla conquista di un trofeo anche con la Nazionale.  Facchetti e la Nazionale italiana Perch&eacute; se sei leader dello spogliatoio della pi&ugrave; forte squadra italiana, lo sei anche della nazionale. Condottiero e capitano. Un rapporto tormentato con il ct Fabbri non gli permette di giocare un buon Mondiale nel 1966, il primo di tre. Nel torneo inglese, contro l&rsquo;Urss, uno scatenato Igor Cislenko lo fa impazzire su quella fascia, uno dei pochissimi ad averlo messo veramente in difficolt&agrave;. Insomma, quel russo con la maglia numero 7 sulla destra fa quello che vuole e segna pure il gol decisivo per la vittoria dei sovietici. Ci sono tutti gli ingredienti per far s&igrave; che tra i due nasca l&rsquo;odio. Diventeranno amici per la pelle. Ogni anno infatti Facchetti prender&agrave; un aereo per Mosca e lo andr&agrave; a trovare. Non pu&ograve; per&ograve; fare a meno di notare che il buon vecchio Igor ha sempre una bottiglia di vodka in mano. Non gli dir&agrave; mai niente. A cosa servirebbe? La voglia di condividere &egrave; pi&ugrave; importante. Gli rimarr&agrave; legato, a Cislenko, fino al 1994, quando una cirrosi epatica se lo porter&agrave; via. &Egrave; questo, Facchetti. &Egrave; il capitano che agli Europei del &rsquo;68 vince il famoso sorteggio della monetina che elimina l&rsquo;Urss e che dopo la vittoria contro la Jugoslavia alza al cielo il primo trofeo continentale degli Azzurri. Porta la fascia al braccio anche a Messico &rsquo;70, ed &egrave; il primo ad andare in camera del milanista Lodetti, avversario di tanti derby, quando il ct Valcareggi lo rispedisce in Italia per far posto a un attaccante in pi&ugrave; in rosa. Non gli dice niente, sa che non serve. Come per Cislenko. Ci sono momenti in cui le parole contano, se poche ma efficaci. "Giovanni, per qualsiasi cosa, io sono qui".  La parte buona del calcio Ed &egrave; sempre l&igrave;, sulla fascia sinistra, fino al 1978, l&rsquo;anno del ritiro. Rimarr&agrave; sempre legato al mondo Inter, da dirigente fino a presidente, portavoce dei colori nerazzurri, testimone di un modo di vivere il calcio tutto suo. Onesto, leale, corretto. Rispettato da tutti per la sua rettitudine morale, per la capacit&agrave; di trasmettere i princ&igrave;pi giusti a chi gli stava attorno. Una persona perbene, in un mondo in cui spesso l&rsquo;essere buoni viene confuso con l&rsquo;ingenuit&agrave;. L&rsquo;omaggio di Cambiasso nella notte di Madrid Quando il 4 settembre 2006 decide di assentarsi definitivamente dal nostro mondo, la notizia scuote l&rsquo;universo del calcio. Cinque giorni dopo, l&rsquo;Inter debutta in campionato al Franchi di Firenze. Javier Zanetti indossa una fascia particolare: &ldquo;Tu sei tutto quello che un uomo dovrebbe essere&rdquo;. Ma a prendersi la scena &egrave; Esteban Cambiasso, autore di una doppietta. &Egrave; uno dei grandi protagonisti di un&rsquo;Inter nuova, bella e Grande come quella di Herrera e Facchetti. Che raggiunge la sua vetta pi&ugrave; alta la sera del 22 maggio 2010. A fine partita, &egrave; proprio Cambiasso a togliersi la sua 19 e a infilarsi una casacca nerazzurra degli anni Sessanta. Ha il 3 stampato dietro. Giacinto &egrave; presente nella notte di Madrid. Si pu&ograve; ancora sentire la sua voce.        

Una vita per l&rsquo;Inter, quella del terzino con il numero 3, protagonista anche in Nazionale. Ha rappresentato, in campo e da dirigente, la parte pulita di questo sport

Giacinto Facchetti: il bello del calcio

Anche l&rsquo;edizione della Coppa Italia 1964-65 ha visto nel suo atto finale sfidarsi Juve e Inter. Non &egrave; la prima volta che un Derby d&rsquo;Italia assegna la coppa nazionale: qualche anno prima infatti, nel 1959, Inter e Juve si incontrarono e a sfangarla furono sempre i bianconeri.&nbsp;&Egrave; il 29 agosto del 1965. L&rsquo;Italia sportiva a dire il vero &egrave; concentrata su un altro evento: la disastrosa caduta a Robbiano dei nostri migliori ciclisti, nella penultima gara di preparazione per i mondiali. Gimondi, Taccone e Adorni ne escono infortunati, gettando nello sconforto milioni di appassionati in un tempo in cui il ciclismo era il primo, autentico sport nazionale, in grado di oscurare anche gli accadimenti calcistici. <o:p></o:p> <h2>Heriberto contro Helenio<o:p></o:p></h2> La partita viene giocata a Roma, in uno Stadio Olimpico dove accorrono circa 50.000 spettatori, per lo pi&ugrave; tifosi del sud Italia, nonostante qualche polemica dell&rsquo;ultima ora da parte dei due club, che avrebbero senza dubbio preferito una location pi&ugrave; vicina. La sfida sulle panchine vede confrontarsi i due omonimi Herrera che non potrebbero venire da momenti pi&ugrave; diversi. Helenio, tecnico dell&rsquo;Inter, nell&rsquo;ultima stagione ha trionfato in tutte le competizioni che ha disputato: campionato, Coppa dei Campioni e Coppa Intercontinentale; la Coppa Italia sarebbe la ciliegina sulla torta che anticiperebbe quel record arrivato solamente nel 2010. Heriberto dall&rsquo;altra parte, tecnico che godeva di una certa antipatia da parte dell&rsquo;ambiente e della stampa, sino a quel momento poteva fregiarsi di ben pochi meriti, anzi. &Egrave; proprio l&rsquo;inflessibile e rigido allenatore paraguaiano che rompe con l&rsquo;istrionico Sivori, allontanando il Cabez&oacute;n dalla Juventus e facendolo accasare a Napoli, lasciando interdetti tutti i tifosi juventini. La vittoria della Coppa servirebbe a entrambi, a Heriberto per far ricredere chi lo considera un visionario, e a Helenio per far tacere tutte quelle polemiche nate dopo la disastrosa amichevole di Barcellona della settimana precedente, dove l&rsquo;Inter &egrave; uscita sconfitta in malo modo. <o:p></o:p> <h2>La vittoria di Menichelli, romano e bianconero<o:p></o:p></h2> La Grande Inter, forse appagata dalle numerose vittorie, scende in campo senza il piglio delle grandi occasioni, lasciando ai bianconeri il pallino del gioco, soprattutto a centrocampo. La Juventus dal canto suo, orfana di Sivori, fa del gioco corale il suo punto di forza, non fa spiccare nessuna individualit&agrave; e i suoi attaccanti, lenti e lontani dalla manovra, ne sono l&rsquo;esempio pi&ugrave; lampante. Il vantaggio degli uomini di Heriberto viene infatti dal centrocampo: Del Sol imbuca Menichelli ma la palla &egrave; lunga e finisce tranquillamente tra le braccia di Sarti che, sfortunatamente, urta Bedin e perde la sfera. &Egrave; proprio l&rsquo;ala bianconera a gettarsi per prima sul pallone e a insaccarlo in rete, tutto questo al 15esimo minuto del primo tempo. Menichelli segna dunque nel suo vecchio stadio, lui romano, che all&rsquo;Olimpico ha tirato i primi calci al pallone da professionista alla fine degli anni &rsquo;50. L&rsquo;Inter, sfilacciata e mai davvero in partita, non riesce a impensierire i bianconeri, forti di una difesa rocciosa formata da Castano, Bercellino e Salvadore. L&rsquo;uomo pi&ugrave; ispirato della formazione juventina &egrave; senza dubbio <a href="https://www.guerinsportivo.it/news/il-cuoio/ultimo-dribbling/2022/03/16-5221891/luis_del_sol_il_primo_spagnolo_nella_storia_della_juve">Del Sol</a>, che ben coadiuvato da Cinesinho rappresenta una vera e propria spina nel fianco della difesa nerazzurra. Perlomeno fin quando al 30&rsquo; della ripresa non pensa bene di dar vita a un vero e proprio duello rusticano con Burgnich: i due vengono alle mani, vola qualche cazzotto e finiscono sotto la doccia prima del tempo. L&rsquo;ultimo quarto d&rsquo;ora vede un&rsquo;Inter pi&ugrave; aggressiva, ringalluzzita dall&rsquo;espulsione dello spagnolo, che si fa vedere con pericolosit&agrave; dalle parti di Anzolin. Alla fine l&rsquo;estremo difensore bianconero verr&agrave; salvato dal palo, che lo assiste su una conclusione di Jair che sembrava destinata a finire in rete. La partita termina cos&igrave; sull&rsquo;1-0. Il trofeo, il quinto della storia bianconera, finisce tra le grinfie di Heriberto Herrera, che si prende la sua prima, piccola rivincita su tutti i diffidenti oltre che sui suoi detrattori. <o:p></o:p>

        Anche l&rsquo;edizione della Coppa Italia 1964-65 ha visto nel suo atto finale sfidarsi Juve e Inter. Non &egrave; la prima volta che un Derby d&rsquo;Italia assegna la coppa nazionale: qualche anno prima infatti, nel 1959, Inter e Juve si incontrarono e a sfangarla furono sempre i bianconeri.&nbsp;&Egrave; il 29 agosto del 1965. L&rsquo;Italia sportiva a dire il vero &egrave; concentrata su un altro evento: la disastrosa caduta a Robbiano dei nostri migliori ciclisti, nella penultima gara di preparazione per i mondiali. Gimondi, Taccone e Adorni ne escono infortunati, gettando nello sconforto milioni di appassionati in un tempo in cui il ciclismo era il primo, autentico sport nazionale, in grado di oscurare anche gli accadimenti calcistici.  Heriberto contro Helenio La partita viene giocata a Roma, in uno Stadio Olimpico dove accorrono circa 50.000 spettatori, per lo pi&ugrave; tifosi del sud Italia, nonostante qualche polemica dell&rsquo;ultima ora da parte dei due club, che avrebbero senza dubbio preferito una location pi&ugrave; vicina. La sfida sulle panchine vede confrontarsi i due omonimi Herrera che non potrebbero venire da momenti pi&ugrave; diversi. Helenio, tecnico dell&rsquo;Inter, nell&rsquo;ultima stagione ha trionfato in tutte le competizioni che ha disputato: campionato, Coppa dei Campioni e Coppa Intercontinentale; la Coppa Italia sarebbe la ciliegina sulla torta che anticiperebbe quel record arrivato solamente nel 2010. Heriberto dall&rsquo;altra parte, tecnico che godeva di una certa antipatia da parte dell&rsquo;ambiente e della stampa, sino a quel momento poteva fregiarsi di ben pochi meriti, anzi. &Egrave; proprio l&rsquo;inflessibile e rigido allenatore paraguaiano che rompe con l&rsquo;istrionico Sivori, allontanando il Cabez&oacute;n dalla Juventus e facendolo accasare a Napoli, lasciando interdetti tutti i tifosi juventini. La vittoria della Coppa servirebbe a entrambi, a Heriberto per far ricredere chi lo considera un visionario, e a Helenio per far tacere tutte quelle polemiche nate dopo la disastrosa amichevole di Barcellona della settimana precedente, dove l&rsquo;Inter &egrave; uscita sconfitta in malo modo.  La vittoria di Menichelli, romano e bianconero La Grande Inter, forse appagata dalle numerose vittorie, scende in campo senza il piglio delle grandi occasioni, lasciando ai bianconeri il pallino del gioco, soprattutto a centrocampo. La Juventus dal canto suo, orfana di Sivori, fa del gioco corale il suo punto di forza, non fa spiccare nessuna individualit&agrave; e i suoi attaccanti, lenti e lontani dalla manovra, ne sono l&rsquo;esempio pi&ugrave; lampante. Il vantaggio degli uomini di Heriberto viene infatti dal centrocampo: Del Sol imbuca Menichelli ma la palla &egrave; lunga e finisce tranquillamente tra le braccia di Sarti che, sfortunatamente, urta Bedin e perde la sfera. &Egrave; proprio l&rsquo;ala bianconera a gettarsi per prima sul pallone e a insaccarlo in rete, tutto questo al 15esimo minuto del primo tempo. Menichelli segna dunque nel suo vecchio stadio, lui romano, che all&rsquo;Olimpico ha tirato i primi calci al pallone da professionista alla fine degli anni &rsquo;50. L&rsquo;Inter, sfilacciata e mai davvero in partita, non riesce a impensierire i bianconeri, forti di una difesa rocciosa formata da Castano, Bercellino e Salvadore. L&rsquo;uomo pi&ugrave; ispirato della formazione juventina &egrave; senza dubbio Del Sol, che ben coadiuvato da Cinesinho rappresenta una vera e propria spina nel fianco della difesa nerazzurra. Perlomeno fin quando al 30&rsquo; della ripresa non pensa bene di dar vita a un vero e proprio duello rusticano con Burgnich: i due vengono alle mani, vola qualche cazzotto e finiscono sotto la doccia prima del tempo. L&rsquo;ultimo quarto d&rsquo;ora vede un&rsquo;Inter pi&ugrave; aggressiva, ringalluzzita dall&rsquo;espulsione dello spagnolo, che si fa vedere con pericolosit&agrave; dalle parti di Anzolin. Alla fine l&rsquo;estremo difensore bianconero verr&agrave; salvato dal palo, che lo assiste su una conclusione di Jair che sembrava destinata a finire in rete. La partita termina cos&igrave; sull&rsquo;1-0. Il trofeo, il quinto della storia bianconera, finisce tra le grinfie di Heriberto Herrera, che si prende la sua prima, piccola rivincita su tutti i diffidenti oltre che sui suoi detrattori.        

La squadra del Mago venne sconfitta dai bianconeri grazie a un gol di Giampaolo Menichelli in uno Stadio Olimpico gremito

Juve-Inter, nel 1965 la Coppa Italia la vinse Heriberto Herrera

Tramite il canale Instagram de &ldquo;Il cuoio&rdquo;, Gianluca Pagliuca ci ha concesso in diretta un&rsquo;intervista esclusiva (<a href="https://www.instagram.com/tv/CcxccLiDFEs/?utm_source=ig_web_copy_link">puoi guardarla integralmente cliccando qui</a>). Una chiacchierata che, partendo dal recupero della gara Bologna&ndash;Inter, ha toccato due tappe fondamentali della sua carriera. &ldquo;Il gatto di Casalecchio&rdquo; ha vestito 234 volte la casacca dell&rsquo;Inter e 270 quella del Bologna. In entrambe le esperienze ha indossato la fascia di capitano. Prima dell&rsquo;inizio della chiacchierata Gianluca ha voluto recapitare un augurio di pronta guarigione a Stefano Tacconi e a Sinisa Mihajlovic. L&rsquo;Inter con una vittoria sul Bologna potrebbe tornare in testa alla classifica. Credi che sia la favorita nello sprint finale? &ldquo;&Egrave; un campionato avvincente e si decider&agrave; tutto nelle battute finali, &egrave; ovvio che se l&rsquo;Inter vincer&agrave; nel recupero, avr&agrave; il destino nelle sue mani&rdquo;. Un Bologna che, invece, proprio da quando Sinisa &egrave; nuovamente alle prese con la sua malattia, sembra rigenerato. In generale ti aspettavi di pi&ugrave; dal loro campionato? &ldquo;Penso che il Bologna possa avere un finale di campionato in crescendo, questo lo potrebbe portare a terminare nella parte sinistra della classifica&rdquo;. Riuscir&agrave; il Bologna, nel giro di qualche anno, a riconquistare un posto in Europa, da dove manca da troppo tempo? &ldquo;Bologna &egrave; una piazza importante, con una societ&agrave; seria alle spalle, con qualche innesto di valore nei prossimi anni potr&agrave; lottare sempre dietro ai top club&rdquo;. Veniamo un po&rsquo;a te adesso. &Egrave; vero che sei approdato a Bologna grazie ad una segnalazione del grande Pietro Battara? &ldquo;Battara &egrave; stata la prima persona che ha creduto nelle mie capacit&agrave;. Dopo Bologna, &egrave; stato fondamentale anche alla Sampdoria&rdquo;. Dopo i favolosi anni nella squadra blucerchiata, nel 1994 arrivi all&rsquo;Inter&hellip; Il tuo primo pensiero quando mettesti piedi e mani ad Appiano? &ldquo;Da Genova non me ne andai volentieri, ma con la societ&agrave; del presidente Moratti &egrave; stato come trovare una seconda famiglia&rdquo;. All&rsquo;Inter hai vinto solo una Coppa Uefa, quanti rimpianti hai per non aver raccolto pi&ugrave; trofei in una squadra di grandissimi giocatori? &ldquo;I primi due anni non avevamo una squadra attrezzata per competere ai massimi livelli. Quando &egrave; arrivato Ronaldo &ldquo;il Fenomeno&rdquo; ci sono state circostanze che tutti conosciamo, che non ci hanno permesso di conquistare il Tricolore&rdquo;. Tornando a quella Coppa. Hai alzato quel trofeo da capitano. &Egrave; stata l&rsquo;emozione pi&ugrave; grande che hai provato da calciatore? &ldquo;L&rsquo;emozione pi&ugrave; grande &egrave; stata sicuramente lo scudetto con la Sampdoria, ma alzare un trofeo da capitano, &egrave; comunque qualcosa che ti rimane per sempre&rdquo;. Con l&rsquo;entrata in scena di mister Lippi, arriva Angelo Peruzzi e tu sei costretto a fare le valigie. Sei ancora al &ldquo;top&rdquo; in quel momento, ma decidi di tornare a casa, a Bologna. Scelta tua? &ldquo;C&rsquo;erano molte squadre che mi volevano, soprattutto all&rsquo;estero (Real Madrid, Deportivo de La Coru&ntilde;a, Aston Villa&hellip;), ma ho voluto fortemente tornare dove tutto era cominciato&rdquo;. Primo anno di Bologna e subito 559 minuti di imbattibilit&agrave;. Hai voluto dimostrare che Pagliuca non era per niente bollito? &ldquo;Essere profeta in patria non &egrave; mai facile e quindi dovevo impegnarmi ancora di pi&ugrave; rispetto agli anni precedenti e i risultati mi hanno dato ragione&rdquo;. Nella stagione 2003-04 hai raggiunto le 500 partite in A. Per quanto riguarda i numeri uno, in quel momento, dietro solo a Zoff e Albertosi, che sensazione hai provato? &ldquo;Una delle emozioni pi&ugrave; forti della mia carriera, peccato essermi poi fermato a 592 (+4 spareggi di Serie A ndr.)e non aver toccato le 600&hellip;.&rdquo;. In quella stagione, il tuo rendimento &egrave; salito nuovamente di livello, merito dell&rsquo;arrivo di Carletto Mazzone? &ldquo;Carlo insieme a Vujadin Boskov e Gigi Simoni, &egrave; stato un maestro di vita, oltre che un allenatore. Li ringrazier&ograve; sempre per i loro insegnamenti e anche per i &ldquo;cazziatoni&rdquo; (scoppia in una grande risata ndr.)&rdquo;. Il 2004-05 fu un anno maledetto. Prima parte di stagione da zona Uefa, poi un improvviso calo, che vi port&ograve; a disputare lo spareggio per non retrocedere contro il Parma, ahim&egrave; perso. Tra l&rsquo;altro tu ricevesti il Guerin d&rsquo;oro (secondo nella carriera dopo quello della stagione 1996-97), che ricordi hai di quell&rsquo;amarissima stagione? &ldquo;Ancora oggi non mi so dare una spiegazione. Abbiamo chiuso il campionato a 42 punti, mica pochi, eppure nel girone di ritorno, tutte le squadre che erano dietro di noi si sono messe a correre, ed &egrave; finita come non avrebbe dovuto&rdquo;. Dopo un anno di B, il primo e unico della tua carriera, lasciasti Bologna. Anche qui decisione tua, oppure della societ&agrave;? &ldquo;Io avrei chiuso la carriera a Bologna e infatti prima di accettare l&rsquo;Ascoli ci ho pensato molto, ma la societ&agrave; aveva deciso di prendere Francesco Antonioli, evento che, non ti nego, &nbsp;&egrave; stato duro da digerire&rdquo;. Gianluca sei stato, come sempre, gentilissimo, ma prima di lasciarti, non posso non chiederti una previsione sulla gara di mercoled&igrave;? &ldquo;Non faccio previsioni, per&ograve; ti dico che vorrei che l&rsquo;Inter vincesse lo scudetto e il Bologna chiudesse nella parte sinistra della classifica. Cos&igrave; non faccio torto a nessuno&rdquo;. &nbsp; &nbsp; &nbsp; &nbsp; &nbsp;

        Tramite il canale Instagram de &ldquo;Il cuoio&rdquo;, Gianluca Pagliuca ci ha concesso in diretta un&rsquo;intervista esclusiva (puoi guardarla integralmente cliccando qui). Una chiacchierata che, partendo dal recupero della gara Bologna&ndash;Inter, ha toccato due tappe fondamentali della sua carriera. &ldquo;Il gatto di Casalecchio&rdquo; ha vestito 234 volte la casacca dell&rsquo;Inter e 270 quella del Bologna. In entrambe le esperienze ha indossato la fascia di capitano. Prima dell&rsquo;inizio della chiacchierata Gianluca ha voluto recapitare un augurio di pronta guarigione a Stefano Tacconi e a Sinisa Mihajlovic. L&rsquo;Inter con una vittoria sul Bologna potrebbe tornare in testa alla classifica. Credi che sia la favorita nello sprint finale? &ldquo;&Egrave; un campionato avvincente e si decider&agrave; tutto nelle battute finali, &egrave; ovvio che se l&rsquo;Inter vincer&agrave; nel recupero, avr&agrave; il destino nelle sue mani&rdquo;. Un Bologna che, invece, proprio da quando Sinisa &egrave; nuovamente alle prese con la sua malattia, sembra rigenerato. In generale ti aspettavi di pi&ugrave; dal loro campionato? &ldquo;Penso che il Bologna possa avere un finale di campionato in crescendo, questo lo potrebbe portare a terminare nella parte sinistra della classifica&rdquo;. Riuscir&agrave; il Bologna, nel giro di qualche anno, a riconquistare un posto in Europa, da dove manca da troppo tempo? &ldquo;Bologna &egrave; una piazza importante, con una societ&agrave; seria alle spalle, con qualche innesto di valore nei prossimi anni potr&agrave; lottare sempre dietro ai top club&rdquo;. Veniamo un po&rsquo;a te adesso. &Egrave; vero che sei approdato a Bologna grazie ad una segnalazione del grande Pietro Battara? &ldquo;Battara &egrave; stata la prima persona che ha creduto nelle mie capacit&agrave;. Dopo Bologna, &egrave; stato fondamentale anche alla Sampdoria&rdquo;. Dopo i favolosi anni nella squadra blucerchiata, nel 1994 arrivi all&rsquo;Inter&hellip; Il tuo primo pensiero quando mettesti piedi e mani ad Appiano? &ldquo;Da Genova non me ne andai volentieri, ma con la societ&agrave; del presidente Moratti &egrave; stato come trovare una seconda famiglia&rdquo;. All&rsquo;Inter hai vinto solo una Coppa Uefa, quanti rimpianti hai per non aver raccolto pi&ugrave; trofei in una squadra di grandissimi giocatori? &ldquo;I primi due anni non avevamo una squadra attrezzata per competere ai massimi livelli. Quando &egrave; arrivato Ronaldo &ldquo;il Fenomeno&rdquo; ci sono state circostanze che tutti conosciamo, che non ci hanno permesso di conquistare il Tricolore&rdquo;. Tornando a quella Coppa. Hai alzato quel trofeo da capitano. &Egrave; stata l&rsquo;emozione pi&ugrave; grande che hai provato da calciatore? &ldquo;L&rsquo;emozione pi&ugrave; grande &egrave; stata sicuramente lo scudetto con la Sampdoria, ma alzare un trofeo da capitano, &egrave; comunque qualcosa che ti rimane per sempre&rdquo;.  Con l&rsquo;entrata in scena di mister Lippi, arriva Angelo Peruzzi e tu sei costretto a fare le valigie. Sei ancora al &ldquo;top&rdquo; in quel momento, ma decidi di tornare a casa, a Bologna. Scelta tua? &ldquo;C&rsquo;erano molte squadre che mi volevano, soprattutto all&rsquo;estero (Real Madrid, Deportivo de La Coru&ntilde;a, Aston Villa&hellip;), ma ho voluto fortemente tornare dove tutto era cominciato&rdquo;. Primo anno di Bologna e subito 559 minuti di imbattibilit&agrave;. Hai voluto dimostrare che Pagliuca non era per niente bollito? &ldquo;Essere profeta in patria non &egrave; mai facile e quindi dovevo impegnarmi ancora di pi&ugrave; rispetto agli anni precedenti e i risultati mi hanno dato ragione&rdquo;. Nella stagione 2003-04 hai raggiunto le 500 partite in A. Per quanto riguarda i numeri uno, in quel momento, dietro solo a Zoff e Albertosi, che sensazione hai provato? &ldquo;Una delle emozioni pi&ugrave; forti della mia carriera, peccato essermi poi fermato a 592 (+4 spareggi di Serie A ndr.)e non aver toccato le 600&hellip;.&rdquo;. In quella stagione, il tuo rendimento &egrave; salito nuovamente di livello, merito dell&rsquo;arrivo di Carletto Mazzone? &ldquo;Carlo insieme a Vujadin Boskov e Gigi Simoni, &egrave; stato un maestro di vita, oltre che un allenatore. Li ringrazier&ograve; sempre per i loro insegnamenti e anche per i &ldquo;cazziatoni&rdquo; (scoppia in una grande risata ndr.)&rdquo;. Il 2004-05 fu un anno maledetto. Prima parte di stagione da zona Uefa, poi un improvviso calo, che vi port&ograve; a disputare lo spareggio per non retrocedere contro il Parma, ahim&egrave; perso. Tra l&rsquo;altro tu ricevesti il Guerin d&rsquo;oro (secondo nella carriera dopo quello della stagione 1996-97), che ricordi hai di quell&rsquo;amarissima stagione? &ldquo;Ancora oggi non mi so dare una spiegazione. Abbiamo chiuso il campionato a 42 punti, mica pochi, eppure nel girone di ritorno, tutte le squadre che erano dietro di noi si sono messe a correre, ed &egrave; finita come non avrebbe dovuto&rdquo;.  Dopo un anno di B, il primo e unico della tua carriera, lasciasti Bologna. Anche qui decisione tua, oppure della societ&agrave;? &ldquo;Io avrei chiuso la carriera a Bologna e infatti prima di accettare l&rsquo;Ascoli ci ho pensato molto, ma la societ&agrave; aveva deciso di prendere Francesco Antonioli, evento che, non ti nego, &nbsp;&egrave; stato duro da digerire&rdquo;. Gianluca sei stato, come sempre, gentilissimo, ma prima di lasciarti, non posso non chiederti una previsione sulla gara di mercoled&igrave;? &ldquo;Non faccio previsioni, per&ograve; ti dico che vorrei che l&rsquo;Inter vincesse lo scudetto e il Bologna chiudesse nella parte sinistra della classifica. Cos&igrave; non faccio torto a nessuno&rdquo;. &nbsp; &nbsp; &nbsp; &nbsp; &nbsp;       

L'ex numero 1 della Nazionale ci ha concesso una lunga intervista in diretta sul nostro profilo Instagram: "Da Genova non me ne andai volentieri, ma in nerazzurro &egrave; stato come trovare una seconda famiglia"

Bologna-Inter: i ricordi del doppio ex Gianluca Pagliuca

Quella porzione di campo, anzi: di territorio; da proteggere cercando di ragionare sempre di corsa, ben sapendo che sarai sempre ritenuto al massimo un geometra, anche quando hai pensieri da architetto. Il mediano non viene mai considerato a prescindere dalla sua dose di fatica, come se tutto il resto fosse accessorio; &egrave; per questo che soltanto un po&rsquo; di anni dopo si &egrave; soliti osservare che: &ldquo;Per&ograve; aveva anche i piedi buoni...&rdquo; di chi ha vissuto in quella porzione d&rsquo;erba tra la lunetta dell&rsquo;area e il cerchio di centrocampo, sempre soggetta all&rsquo;esproprio da parte di chi confida nell&rsquo;acido lattico che rallenta le gambe, che appanna i riflessi. Il mediano pu&ograve; entrare solo come un imbucato nella sala degli specchi degli highlights; non viene mai esposto nella vetrina lussuosa delle fasi salienti; se aspira a tanto gli tocca fare (anche) gol, raddoppiando le zolle della sua sofferenza. <h2>I grandi mediani di Inter e Roma</h2> I tifosi dell&rsquo;Inter e della Roma custodiscono una storia di grandi faticatori di centrocampo, sovente sottovalutati proprio perch&eacute; identificati soltanto all&rsquo;esposizione bidimensionale dell&rsquo;equilibrio tattico e dei cosiddetti compiti di copertura. Canta Luciano Ligabue che quando ti va bene &ldquo;...vinci casomai i Mondiali...&rdquo;, come &egrave; successo a Gabriele Oriali, Leleoriali per ogni fischio d&rsquo;inizio che Eupalla mandasse in terra: uno di quei nomi e cognomi che vanno pronunciati per esteso senza soluzione di continuit&agrave;, come Brunoconti e Gigirriva. Pi&ugrave; che un ex, ormai un luogo dell&rsquo;anima per la mitologia interista: cinque anni nelle giovanili, dal 1966 al 1971; tredici poi in prima squadra, dove aveva nel frattempo esordito, fino al 1983. Dateci un euro per ogni pallone recuperato, per ogni anticipo, per ogni contrasto vinto e andiamo di corsa a ordinare la Porsche. E quelle 43 reti distribuite nel corso delle sue 392 presenze complessive le ha comunque segnate lui, non un suo omonimo. Campione del mondo in Spagna nel 1982, come vuole l&rsquo;eccezione messa in musica da &ldquo;Liga&rdquo;. Quante volte i suoi parastinchi avranno fatto scintille sfregandosi contro quelli di Carlo Ancelotti? Uno della Bassa, Carletto, venuto alla luce a Reggiolo, in Via Vallicella, nel giugno del 1959, quando i bambini ancora si facevano nascere in casa. Figlio di mezzadri, guardava col naso all&rsquo;ins&ugrave; il padrone che veniva a spartire il raccolto e le bestie, tracciando una riga sul grano e scegliendo per s&eacute; le pollastre pi&ugrave; pasciute. La vita era gi&agrave; allora, dunque, come una diga di met&agrave; campo: occorrevano sopportazione, buon senso, fatica e grande attenzione per tenerle testa. Dino Viola lo port&ograve; a Roma, prelevandolo dal Parma, nell&rsquo;estate del 1979, per la cifra di 750 milioni di Lire. Secondo Nils Liedholm proprio l&rsquo;utilizzo da mediano ne esaltava appieno le doti. Fino al 1987, alla Roma ha dato un contributo di lucido agonismo, di geometrie nitide anche quando infuriava la battaglia, di gol dalla media e lunga distanza. Parlare di lui in maglia giallorossa, prima della cessione al Milan, vuol dire raccontare di un Tricolore, di quattro Coppe Italia, di entrambe le ginocchia devolute alla causa. Perch&eacute; &egrave; questione di spigoli, spesso, la vita del mediano, cos&igrave; come spigoloso era il profilo del lodigiano Gianpiero Marini, interista come (e negli stessi anni di) Oriali, pi&ugrave; ruvido nei piedi e molto meno biondo nella chioma rispetto al compagno, ma sempre strategico nella corsa, per quanto non certo aggraziata, tanto da meritarsi da <a href="https://www.guerinsportivo.it/news/il-cuoio/2019/09/07-2360648/cosa_rimane_di_gianni_brera">Gianni Brera</a> il soprannome di &ldquo;Pinna d&rsquo;oro&rdquo;. All&rsquo;Inter dal 1975 al 1986, anche lui si fregia del titolo mondiale, avendo disseminato le sue presenze in Nazionale dal 1980 al 1983. Pu&ograve; anche capitare che al mediano, vista la propensione naturale alla corsa incessante, venga proposto di ricoprire altri ruoli, occupando porzioni di campo diverse, proprio in ragione di quel moto perpetuo. &Egrave; per questo che quando arriv&ograve; a Roma nell&rsquo;estate del 1975 Loris Boni, bresciano di Remedello, si sent&igrave; proporre da Nils Liedholm di provare a ricoprire il ruolo di tornante. Proveniva da quattro stagioni pi&ugrave; che positive con la maglia della Sampdoria e la societ&agrave; giallorossa lo acquist&ograve; per 800 milioni di Lire. A Genova si era messo in luce come inesauribile cursore di centrocampo, votato indifferentemente tanto ad accompagnare la spinta quanto al ripiegamento subitaneo nelle fasi di contenimento. L&rsquo;utilizzo da tornante non d&agrave; i frutti sperati e Liedholm lo riporta l&igrave;, l&igrave; nel mezzo per continuare con la citazione dotta; i suoi anni in maglia giallorossa, fino al 1979, potremmo dire che sono contraddistinti da un costante rendimento senza picchi, connotato anche da una vena realizzativa inesistente, poich&eacute; in 80 presenze in Serie A da romanista non mette a segno nemmeno una rete. Si ricorda invece un suo gol nell&rsquo;edizione 1975- 76 della Coppa Uefa, contro gli svedesi dell&rsquo;Osters IF. E son cambiate le epoche, le mode, con l&rsquo;andare degli anni e delle evoluzioni del gioco, ma i mediani non hanno mai conosciuto una fatica diversa da quella di sempre, come hanno dimostrato nei decenni successivi il romanista Damiano Tommasi, l&rsquo;interista Beno&icirc;t Cauet e tutti quelli che l&igrave; nel mezzo hanno fatto legna a beneficio dei loro compagni.

        Quella porzione di campo, anzi: di territorio; da proteggere cercando di ragionare sempre di corsa, ben sapendo che sarai sempre ritenuto al massimo un geometra, anche quando hai pensieri da architetto. Il mediano non viene mai considerato a prescindere dalla sua dose di fatica, come se tutto il resto fosse accessorio; &egrave; per questo che soltanto un po&rsquo; di anni dopo si &egrave; soliti osservare che: &ldquo;Per&ograve; aveva anche i piedi buoni...&rdquo; di chi ha vissuto in quella porzione d&rsquo;erba tra la lunetta dell&rsquo;area e il cerchio di centrocampo, sempre soggetta all&rsquo;esproprio da parte di chi confida nell&rsquo;acido lattico che rallenta le gambe, che appanna i riflessi. Il mediano pu&ograve; entrare solo come un imbucato nella sala degli specchi degli highlights; non viene mai esposto nella vetrina lussuosa delle fasi salienti; se aspira a tanto gli tocca fare (anche) gol, raddoppiando le zolle della sua sofferenza. I grandi mediani di Inter e Roma I tifosi dell&rsquo;Inter e della Roma custodiscono una storia di grandi faticatori di centrocampo, sovente sottovalutati proprio perch&eacute; identificati soltanto all&rsquo;esposizione bidimensionale dell&rsquo;equilibrio tattico e dei cosiddetti compiti di copertura. Canta Luciano Ligabue che quando ti va bene &ldquo;...vinci casomai i Mondiali...&rdquo;, come &egrave; successo a Gabriele Oriali, Leleoriali per ogni fischio d&rsquo;inizio che Eupalla mandasse in terra: uno di quei nomi e cognomi che vanno pronunciati per esteso senza soluzione di continuit&agrave;, come Brunoconti e Gigirriva. Pi&ugrave; che un ex, ormai un luogo dell&rsquo;anima per la mitologia interista: cinque anni nelle giovanili, dal 1966 al 1971; tredici poi in prima squadra, dove aveva nel frattempo esordito, fino al 1983. Dateci un euro per ogni pallone recuperato, per ogni anticipo, per ogni contrasto vinto e andiamo di corsa a ordinare la Porsche. E quelle 43 reti distribuite nel corso delle sue 392 presenze complessive le ha comunque segnate lui, non un suo omonimo. Campione del mondo in Spagna nel 1982, come vuole l&rsquo;eccezione messa in musica da &ldquo;Liga&rdquo;. Quante volte i suoi parastinchi avranno fatto scintille sfregandosi contro quelli di Carlo Ancelotti? Uno della Bassa, Carletto, venuto alla luce a Reggiolo, in Via Vallicella, nel giugno del 1959, quando i bambini ancora si facevano nascere in casa. Figlio di mezzadri, guardava col naso all&rsquo;ins&ugrave; il padrone che veniva a spartire il raccolto e le bestie, tracciando una riga sul grano e scegliendo per s&eacute; le pollastre pi&ugrave; pasciute. La vita era gi&agrave; allora, dunque, come una diga di met&agrave; campo: occorrevano sopportazione, buon senso, fatica e grande attenzione per tenerle testa. Dino Viola lo port&ograve; a Roma, prelevandolo dal Parma, nell&rsquo;estate del 1979, per la cifra di 750 milioni di Lire. Secondo Nils Liedholm proprio l&rsquo;utilizzo da mediano ne esaltava appieno le doti. Fino al 1987, alla Roma ha dato un contributo di lucido agonismo, di geometrie nitide anche quando infuriava la battaglia, di gol dalla media e lunga distanza. Parlare di lui in maglia giallorossa, prima della cessione al Milan, vuol dire raccontare di un Tricolore, di quattro Coppe Italia, di entrambe le ginocchia devolute alla causa. Perch&eacute; &egrave; questione di spigoli, spesso, la vita del mediano, cos&igrave; come spigoloso era il profilo del lodigiano Gianpiero Marini, interista come (e negli stessi anni di) Oriali, pi&ugrave; ruvido nei piedi e molto meno biondo nella chioma rispetto al compagno, ma sempre strategico nella corsa, per quanto non certo aggraziata, tanto da meritarsi da Gianni Brera il soprannome di &ldquo;Pinna d&rsquo;oro&rdquo;. All&rsquo;Inter dal 1975 al 1986, anche lui si fregia del titolo mondiale, avendo disseminato le sue presenze in Nazionale dal 1980 al 1983. Pu&ograve; anche capitare che al mediano, vista la propensione naturale alla corsa incessante, venga proposto di ricoprire altri ruoli, occupando porzioni di campo diverse, proprio in ragione di quel moto perpetuo. &Egrave; per questo che quando arriv&ograve; a Roma nell&rsquo;estate del 1975 Loris Boni, bresciano di Remedello, si sent&igrave; proporre da Nils Liedholm di provare a ricoprire il ruolo di tornante. Proveniva da quattro stagioni pi&ugrave; che positive con la maglia della Sampdoria e la societ&agrave; giallorossa lo acquist&ograve; per 800 milioni di Lire. A Genova si era messo in luce come inesauribile cursore di centrocampo, votato indifferentemente tanto ad accompagnare la spinta quanto al ripiegamento subitaneo nelle fasi di contenimento. L&rsquo;utilizzo da tornante non d&agrave; i frutti sperati e Liedholm lo riporta l&igrave;, l&igrave; nel mezzo per continuare con la citazione dotta; i suoi anni in maglia giallorossa, fino al 1979, potremmo dire che sono contraddistinti da un costante rendimento senza picchi, connotato anche da una vena realizzativa inesistente, poich&eacute; in 80 presenze in Serie A da romanista non mette a segno nemmeno una rete. Si ricorda invece un suo gol nell&rsquo;edizione 1975- 76 della Coppa Uefa, contro gli svedesi dell&rsquo;Osters IF. E son cambiate le epoche, le mode, con l&rsquo;andare degli anni e delle evoluzioni del gioco, ma i mediani non hanno mai conosciuto una fatica diversa da quella di sempre, come hanno dimostrato nei decenni successivi il romanista Damiano Tommasi, l&rsquo;interista Beno&icirc;t Cauet e tutti quelli che l&igrave; nel mezzo hanno fatto legna a beneficio dei loro compagni.       

Come cantava Ligabue, tante carriere spese "a recuperar palloni".&nbsp;Nell&rsquo;album dei ricordi delle due tifoserie, l'elogio per chi vive il calcio sudando a centrocampo

Una vita da mediano nelle mille sfide tra Inter e Roma

Il campionato 1971-72 si sta avviando verso la conclusione. Il 23 aprile al Comunale di Torino va in scena uno dei Derby d&rsquo;Italia pi&ugrave; importanti degli ultimi anni. La Juventus non sta vivendo un momento felicissimo: solo poche settimane prima <a href="https://www.guerinsportivo.it/news/il-cuoio/accadde-oggi/2022/03/26-5252079/26_marzo_1972_torino-juve_quel_gol_di_agroppi_che_decise_il_derby">ha perso in rimonta la stracittadina contro il Toro</a> di <a href="https://www.guerinsportivo.it/news/il-cuoio/ultimo-dribbling/2022/03/23-5243308/gustavo_giagnoni_l_allenatore_col_colbacco_che_stese_causio">Giagnoni</a>, e si ritrova a dover riconquistare il terreno perso nelle ultime uscite. Sono proprio i granata, oltre al Milan e al Cagliari, a lottare per la vetta del campionato insieme ai bianconeri, regalando a tifosi e appassionati uno dei finali di stagione pi&ugrave; avvincenti della storia della Serie A. <o:p></o:p> <h2>Troppa Juve per l&rsquo;Inter<o:p></o:p></h2> L&rsquo;importanza della partita &egrave; evidente: la Juventus pu&ograve; approfittare dello scontro diretto di San Siro tra Milan e Torino, e cos&igrave; fa. L&rsquo;Inter da parte sua arriva fresca neo finalista di Coppa dei Campioni, traguardo che &egrave; costato per&ograve; a Mazzola e compagni un grande dispendio di energie nei 120 minuti di Glasgow. La pesantezza delle gambe degli interisti si va a scontrare con tutta l&rsquo;energia e la freschezza dei bianconeri. In campo non c&rsquo;&egrave; davvero quasi mai partita: Marchetti, Spinosi, Cuccureddu e <a href="https://www.guerinsportivo.it/news/il-cuoio/2021/06/18-4382868/i_75_anni_di_fabio_capello_grande_in_campo_e_in_panchina">Capello</a> si mangiano letteralmente gli avversari, non dando tregua a Bedin, Jair e Bertini, permettendo a Haller di spaziare sulla trequarti. Unica nota positiva in casa Inter &egrave; l&rsquo;ottima prova del giovane Oriali, che pu&ograve; fare per&ograve; ben poco. I bianconeri possono contare come sempre sulla prestazione maiuscola di <a href="https://www.guerinsportivo.it/news/il-cuoio/happyfootball/2021/07/05-4460511/beppe_furino_l_eccelso_gregario_della_juventus">Furino</a>, che fa venire il mal di testa a Corso in entrambe le fasi di gioco. Nonostante la prova di forza di quasi tutta la formazione della Juventus, l&rsquo;attenzione e la gloria vengono inevitabilmente calamitate da Franco Causio. Il Barone ruba la scena a tutti gi&agrave; all&rsquo;ottavo minuto, quando insacca di testa un ottimo cross di Haller e fa esplodere il Comunale. Pochi minuti dopo arriva l&rsquo;unico squillo interista della gara con Mazzola che da trenta metri lascia partire un gran destro che scheggia la traversa. I nerazzurri di l&igrave; a poco soccomberanno allo stupendo raddoppio di Causio: &egrave; ancora il tedesco Haller a servire il Barone che questa volta infila Vieri con un perfetto destro al volo. Il secondo tempo vede qualche guizzo da una parte e dall&rsquo;altra, prima del terzo gol di Causio, forse il pi&ugrave; bello della partita: il Barone si avventa su un pallone a mezz&rsquo;aria al limite dell&rsquo;area, lo sposta sul destro e lascia partire un diagonale perfetto che fa 3-0. L&rsquo;ala destra bianconera firma cos&igrave; la tripletta personale, regalando a <a href="https://www.guerinsportivo.it/news/il-cuoio/2021/05/15-4242926/vycpalek_il_talento_che_strego_palermo_e_vinse_con_la_juve">Vycpalek</a> e alla Juventus la vetta della classifica, vetta che manterr&agrave; fino al termine del campionato, scucendo dalle maglie nerazzurre <a href="https://www.guerinsportivo.it/news/il-cuoio/2021/05/02-4188106/inter_50_anni_dall_undicesimo_scudetto">lo scudetto che l'Inter aveva vinto l'anno prima</a>.<o:p></o:p> <h2>Niente pallone per Causio<o:p></o:p></h2> Al termine del match Causio si rende protagonista di un altro bellissimo gesto, che questa volta non ha niente a che fare con il rettangolo verde. Haller lo avvicina nel tunnel, gli spiega che un suo giovanissimo fan, che ha perso la madre pochi giorni prima, vorrebbe il pallone della tripletta. Il Barone dall&rsquo;alto del suo cuore d&rsquo;oro non ci pensa due volte, si priva del prezioso trofeo personale, regalando un ricordo e un cimelio davvero impagabile al giovane tifoso. <o:p></o:p> <h2>Juve-Inter 3-0 del 23 aprile 1972: il tabellino<o:p></o:p></h2> JUVENTUS: Piloni, Spinosi, Marchetti, Furino, Morini, Salvadore, Causio, Cuccureddu (28&rsquo; st Savoldi), Anastasi, Capello, Haller. A DISP.: Carmigiani. ALL.: Vycpalek.<o:p></o:p> INTER: Vieri, Oriali, Facchetti, Bedin, Giubertoni, Burgnich, Jair (21&rsquo; st Fabbian), Bertini, Pellizzaro, Mazzola, Corso. A DISP.: Bordon. ALL.: Invernizzi.<o:p></o:p> ARBITRO: Pieroni (Roma). MARCATORE: 8&rsquo;, 27&rsquo; e 40&rsquo; st Causio. <o:p>&nbsp;</o:p>

        Il campionato 1971-72 si sta avviando verso la conclusione. Il 23 aprile al Comunale di Torino va in scena uno dei Derby d&rsquo;Italia pi&ugrave; importanti degli ultimi anni. La Juventus non sta vivendo un momento felicissimo: solo poche settimane prima ha perso in rimonta la stracittadina contro il Toro di Giagnoni, e si ritrova a dover riconquistare il terreno perso nelle ultime uscite. Sono proprio i granata, oltre al Milan e al Cagliari, a lottare per la vetta del campionato insieme ai bianconeri, regalando a tifosi e appassionati uno dei finali di stagione pi&ugrave; avvincenti della storia della Serie A.  Troppa Juve per l&rsquo;Inter L&rsquo;importanza della partita &egrave; evidente: la Juventus pu&ograve; approfittare dello scontro diretto di San Siro tra Milan e Torino, e cos&igrave; fa. L&rsquo;Inter da parte sua arriva fresca neo finalista di Coppa dei Campioni, traguardo che &egrave; costato per&ograve; a Mazzola e compagni un grande dispendio di energie nei 120 minuti di Glasgow. La pesantezza delle gambe degli interisti si va a scontrare con tutta l&rsquo;energia e la freschezza dei bianconeri. In campo non c&rsquo;&egrave; davvero quasi mai partita: Marchetti, Spinosi, Cuccureddu e Capello si mangiano letteralmente gli avversari, non dando tregua a Bedin, Jair e Bertini, permettendo a Haller di spaziare sulla trequarti. Unica nota positiva in casa Inter &egrave; l&rsquo;ottima prova del giovane Oriali, che pu&ograve; fare per&ograve; ben poco. I bianconeri possono contare come sempre sulla prestazione maiuscola di Furino, che fa venire il mal di testa a Corso in entrambe le fasi di gioco. Nonostante la prova di forza di quasi tutta la formazione della Juventus, l&rsquo;attenzione e la gloria vengono inevitabilmente calamitate da Franco Causio. Il Barone ruba la scena a tutti gi&agrave; all&rsquo;ottavo minuto, quando insacca di testa un ottimo cross di Haller e fa esplodere il Comunale. Pochi minuti dopo arriva l&rsquo;unico squillo interista della gara con Mazzola che da trenta metri lascia partire un gran destro che scheggia la traversa. I nerazzurri di l&igrave; a poco soccomberanno allo stupendo raddoppio di Causio: &egrave; ancora il tedesco Haller a servire il Barone che questa volta infila Vieri con un perfetto destro al volo. Il secondo tempo vede qualche guizzo da una parte e dall&rsquo;altra, prima del terzo gol di Causio, forse il pi&ugrave; bello della partita: il Barone si avventa su un pallone a mezz&rsquo;aria al limite dell&rsquo;area, lo sposta sul destro e lascia partire un diagonale perfetto che fa 3-0. L&rsquo;ala destra bianconera firma cos&igrave; la tripletta personale, regalando a Vycpalek e alla Juventus la vetta della classifica, vetta che manterr&agrave; fino al termine del campionato, scucendo dalle maglie nerazzurre lo scudetto che l'Inter aveva vinto l'anno prima. Niente pallone per Causio Al termine del match Causio si rende protagonista di un altro bellissimo gesto, che questa volta non ha niente a che fare con il rettangolo verde. Haller lo avvicina nel tunnel, gli spiega che un suo giovanissimo fan, che ha perso la madre pochi giorni prima, vorrebbe il pallone della tripletta. Il Barone dall&rsquo;alto del suo cuore d&rsquo;oro non ci pensa due volte, si priva del prezioso trofeo personale, regalando un ricordo e un cimelio davvero impagabile al giovane tifoso.  Juve-Inter 3-0 del 23 aprile 1972: il tabellino JUVENTUS: Piloni, Spinosi, Marchetti, Furino, Morini, Salvadore, Causio, Cuccureddu (28&rsquo; st Savoldi), Anastasi, Capello, Haller. A DISP.: Carmigiani. ALL.: Vycpalek. INTER: Vieri, Oriali, Facchetti, Bedin, Giubertoni, Burgnich, Jair (21&rsquo; st Fabbian), Bertini, Pellizzaro, Mazzola, Corso. A DISP.: Bordon. ALL.: Invernizzi. ARBITRO: Pieroni (Roma). MARCATORE: 8&rsquo;, 27&rsquo; e 40&rsquo; st Causio. &nbsp;       

Il Barone fu il vero mattatore di uno dei Derby d&rsquo;Italia pi&ugrave; importanti di sempre, che spian&ograve; la strada ai bianconeri verso il quattordicesimo scudetto della loro storia

23 aprile 1972: Juve-Inter e quella tripletta di Causio

Ieri &ldquo;Il cuoio&rdquo;&nbsp;ha presenziato all&rsquo;evento &ndash; organizzato dal Museo della Sampdoria (a Samp City) &ndash; intitolato ai grandi numeri uno del passato blucerchiato. Hanno partecipato tra gli altri: Ivano Bordon, Christian Puggioni, Fabrizio Casazza, la famiglia Battara (Daniele, Massimo e Pietro), Emil Audero e Guido Bistazzoni. In collegamento &egrave; intervenuto anche Gianluca Pagliuca. A margine dell&rsquo;evento abbiamo avuto il piacere di scambiare&nbsp;quattro chiacchiere con il mitico Ivano Bordon. L&rsquo;intervista &egrave; stata trasmessa in diretta sul canale Instagram de "Il cuoio" (<a href="https://www.instagram.com/tv/CcDkLrmDlL7/?utm_source=ig_web_copy_link">visibile cliccando qui</a>). Bordon &egrave; stato il numero 1 blucerchiato dal 1983 al 1986, giunto a Genova dopo aver contribuito a scrivere la storia dell&rsquo;Inter. Ciao Ivano. Sei stato il primo portiere a vincere un trofeo in maglia doriana (Coppa Italia 1985) che ricordi hai? &ldquo;Mi &egrave; rimasto molto nel cuore, come d&rsquo;altronde tutti i tre anni che sono stato qui. I tifosi della Samp hanno grande affetto verso di me e io provo lo stesso sentimento.&rdquo; Tu, Scanziani&hellip; avete dato l&rsquo;impulso per far s&igrave; che la Sampdoria aprisse il suo <a href="https://www.guerinsportivo.it/news/il-cuoio/2021/05/19-4256789/sampdoria_30_anni_fa_il_primo_storico_scudetto">ciclo storico</a>? &ldquo;Sicuramente il presidente Mantovani sapeva il fatto suo e piano piano ha costruito la squadra che da l&igrave; a poco avrebbe dominato in Italia e in Europa&rdquo;. Che ricordi hai del tuo esordio a San Siro contro la tua Inter? &ldquo;&Egrave; stata una strana e bella coincidenza esordire con la maglia della Samp a Milano. Abbiamo vinto, ed &egrave; stata un&rsquo;emozione stupenda&rdquo;. All&rsquo;Inter hai vinto 2 scudetti e 2 Coppe Italia, ma la partita per cui sarai per sempre ricordato &egrave; quella contro il Borussia M&ouml;nchengladbach nella Coppa Campioni 1971-72, <a href="https://www.guerinsportivo.it/news/il-cuoio/2021/03/30-4071215/la_partita_della_lattina_borussia_mo_nchengladbach-inter">dopo la vicenda della lattina</a>&hellip; Che ricordi hai di quella notte? &ldquo;Il titolare era Lido Vieri, ma come tutta la squadra incapp&ograve; in una serata storta all&rsquo;andata nella famosa partita del 7-1. Da quel momento subentrai io ed &egrave; una partita che n&eacute; io, n&eacute; i tifosi dell&rsquo;Inter dimenticheremo mai&rdquo;. A proposito di Lido Vieri. Vengono sempre citati grandi numeri 1 italiani, ma lui &egrave; sempre un po&rsquo; in disparte. Il tuo giudizio su di lui? &ldquo;Con Lido siamo grandi amici e per me &egrave; stato un maestro. All&rsquo;epoca Vieri rientrava nel novero dei migliori estremi italiani, insieme a <a href="https://www.guerinsportivo.it/news/il-cuoio/l-intervista/2022/02/28-5180610/dino_zoff_80_anni_e_non_sentirli_l_intervista_al_mito">Zoff</a>, Albertosi, Castellini&rdquo;. Una curiosit&agrave; che riguarda il tuo arrivo all&rsquo;Inter. All&rsquo;allora dirigente Allodi dicesti che eri juventino. Verit&agrave; o bugia? &ldquo;Avevo 14 anni e volevo stare con la mia famiglia. Pensa che nel provino ho preso qualche goal apposta, ma alla fine era troppo ghiotta l&rsquo;occasione e l&rsquo;ho presa al volo&rdquo;. <a href="https://www.guerinsportivo.it/video/il-cuoio/2021/04/13-4112374/ivano_bordon_da_marghera_alla_cima_del_mondo">Torniamo a Marghera</a>, dove sei nato. Si pu&ograve; dire che Ivano Bordon sia nato portiere? &ldquo;Fin da subito sono stato in porta, anche nei tornei estivi, all&rsquo;oratorio con gli amici. S&igrave;, sono nato portiere&rdquo;. Altra curiosit&agrave; riguardo il fatto che nella Miranese (societ&agrave; in cui militavi nelle giovanili) incontrasti Armando Buffon, cugino del pap&agrave; di Gigi. Poi hai allenato proprio Gianluigi nella Juve e in Nazionale. Ne avete mai parlato? &ldquo;La famiglia Buffon ha avuto grandi portieri e a volte quando parlavo con Gigi mi confondevo anche con i nomi (e scoppia in una grande risata ndr)&rdquo;. Capitolo Nazionale. Sei stato il terzo in Argentina nel &rsquo;78, il secondo a Spagna &rsquo;82. Pensavi di fare il titolare a Messico &rsquo;86? &ldquo;Mi &egrave; dispiaciuto il modo con cui lo sono venuto a sapere. Ero in macchina e ho sentito le convocazioni per radio. La mia pi&ugrave; grossa soddisfazione &egrave; stata per&ograve;, quando il povero Enzo Bearzot (a cui devo il mio esordio in azzurro) nella partita di addio di Antonio Cabrini mi chiese scusa per non avermelo detto di presenza&rdquo;. Si pu&ograve; dire che Adriano Bardin - preparatore dei portieri che hai avuto a Brescia &ndash; ti abbia influenzato nella scelta di aver fatto quel ruolo? &ldquo;Sicuramente Adriano e Lido Vieri sono stati i miei pi&ugrave; grandi maestri&rdquo;. Nella Juventus di Lippi hai allenato Angelo Peruzzi. Credi che senza infortuni sarebbe stato uno dei pi&ugrave; grandi di sempre? &ldquo;Dei portieri che ho allenato Peruzzi e Buffon sono stati i pi&ugrave; bravi e sono contento di avergli dato qualcosa di mio&rdquo;. Ultima curiosit&agrave;. Il rigore parato da Buffon a Seedorf nella famosa finale di Manchester contro il Milan, &egrave; un po&rsquo; merito tuo, vero? &ldquo;Conoscevo Clarence avendocelo avuto all&rsquo;Inter e prima della finale ho ricordato a Buffon dove calciasse principalmente. Lui &egrave; stato bravo a seguire il mio consiglio e poi con le sue doti naturali, ha respinto il tiro&rdquo;.

        Ieri &ldquo;Il cuoio&rdquo;&nbsp;ha presenziato all&rsquo;evento &ndash; organizzato dal Museo della Sampdoria (a Samp City) &ndash; intitolato ai grandi numeri uno del passato blucerchiato. Hanno partecipato tra gli altri: Ivano Bordon, Christian Puggioni, Fabrizio Casazza, la famiglia Battara (Daniele, Massimo e Pietro), Emil Audero e Guido Bistazzoni. In collegamento &egrave; intervenuto anche Gianluca Pagliuca. A margine dell&rsquo;evento abbiamo avuto il piacere di scambiare&nbsp;quattro chiacchiere con il mitico Ivano Bordon. L&rsquo;intervista &egrave; stata trasmessa in diretta sul canale Instagram de "Il cuoio" (visibile cliccando qui). Bordon &egrave; stato il numero 1 blucerchiato dal 1983 al 1986, giunto a Genova dopo aver contribuito a scrivere la storia dell&rsquo;Inter. Ciao Ivano. Sei stato il primo portiere a vincere un trofeo in maglia doriana (Coppa Italia 1985) che ricordi hai? &ldquo;Mi &egrave; rimasto molto nel cuore, come d&rsquo;altronde tutti i tre anni che sono stato qui. I tifosi della Samp hanno grande affetto verso di me e io provo lo stesso sentimento.&rdquo; Tu, Scanziani&hellip; avete dato l&rsquo;impulso per far s&igrave; che la Sampdoria aprisse il suo ciclo storico? &ldquo;Sicuramente il presidente Mantovani sapeva il fatto suo e piano piano ha costruito la squadra che da l&igrave; a poco avrebbe dominato in Italia e in Europa&rdquo;. Che ricordi hai del tuo esordio a San Siro contro la tua Inter? &ldquo;&Egrave; stata una strana e bella coincidenza esordire con la maglia della Samp a Milano. Abbiamo vinto, ed &egrave; stata un&rsquo;emozione stupenda&rdquo;. All&rsquo;Inter hai vinto 2 scudetti e 2 Coppe Italia, ma la partita per cui sarai per sempre ricordato &egrave; quella contro il Borussia M&ouml;nchengladbach nella Coppa Campioni 1971-72, dopo la vicenda della lattina&hellip; Che ricordi hai di quella notte? &ldquo;Il titolare era Lido Vieri, ma come tutta la squadra incapp&ograve; in una serata storta all&rsquo;andata nella famosa partita del 7-1. Da quel momento subentrai io ed &egrave; una partita che n&eacute; io, n&eacute; i tifosi dell&rsquo;Inter dimenticheremo mai&rdquo;.  A proposito di Lido Vieri. Vengono sempre citati grandi numeri 1 italiani, ma lui &egrave; sempre un po&rsquo; in disparte. Il tuo giudizio su di lui? &ldquo;Con Lido siamo grandi amici e per me &egrave; stato un maestro. All&rsquo;epoca Vieri rientrava nel novero dei migliori estremi italiani, insieme a Zoff, Albertosi, Castellini&rdquo;. Una curiosit&agrave; che riguarda il tuo arrivo all&rsquo;Inter. All&rsquo;allora dirigente Allodi dicesti che eri juventino. Verit&agrave; o bugia? &ldquo;Avevo 14 anni e volevo stare con la mia famiglia. Pensa che nel provino ho preso qualche goal apposta, ma alla fine era troppo ghiotta l&rsquo;occasione e l&rsquo;ho presa al volo&rdquo;. Torniamo a Marghera, dove sei nato. Si pu&ograve; dire che Ivano Bordon sia nato portiere? &ldquo;Fin da subito sono stato in porta, anche nei tornei estivi, all&rsquo;oratorio con gli amici. S&igrave;, sono nato portiere&rdquo;. Altra curiosit&agrave; riguardo il fatto che nella Miranese (societ&agrave; in cui militavi nelle giovanili) incontrasti Armando Buffon, cugino del pap&agrave; di Gigi. Poi hai allenato proprio Gianluigi nella Juve e in Nazionale. Ne avete mai parlato? &ldquo;La famiglia Buffon ha avuto grandi portieri e a volte quando parlavo con Gigi mi confondevo anche con i nomi (e scoppia in una grande risata ndr)&rdquo;. Capitolo Nazionale. Sei stato il terzo in Argentina nel &rsquo;78, il secondo a Spagna &rsquo;82. Pensavi di fare il titolare a Messico &rsquo;86? &ldquo;Mi &egrave; dispiaciuto il modo con cui lo sono venuto a sapere. Ero in macchina e ho sentito le convocazioni per radio. La mia pi&ugrave; grossa soddisfazione &egrave; stata per&ograve;, quando il povero Enzo Bearzot (a cui devo il mio esordio in azzurro) nella partita di addio di Antonio Cabrini mi chiese scusa per non avermelo detto di presenza&rdquo;. Si pu&ograve; dire che Adriano Bardin - preparatore dei portieri che hai avuto a Brescia &ndash; ti abbia influenzato nella scelta di aver fatto quel ruolo? &ldquo;Sicuramente Adriano e Lido Vieri sono stati i miei pi&ugrave; grandi maestri&rdquo;. Nella Juventus di Lippi hai allenato Angelo Peruzzi. Credi che senza infortuni sarebbe stato uno dei pi&ugrave; grandi di sempre? &ldquo;Dei portieri che ho allenato Peruzzi e Buffon sono stati i pi&ugrave; bravi e sono contento di avergli dato qualcosa di mio&rdquo;. Ultima curiosit&agrave;. Il rigore parato da Buffon a Seedorf nella famosa finale di Manchester contro il Milan, &egrave; un po&rsquo; merito tuo, vero? &ldquo;Conoscevo Clarence avendocelo avuto all&rsquo;Inter e prima della finale ho ricordato a Buffon dove calciasse principalmente. Lui &egrave; stato bravo a seguire il mio consiglio e poi con le sue doti naturali, ha respinto il tiro&rdquo;.        

A margine dell'evento organizzato dal Museo del club blucerchiato, l'ex numero 1 doriano ci ha concesso un'intervista in diretta Instagram in cui ha ripercorso la sua carriera

Ivano Bordon esclusivo da Samp City: “La Sampdoria per me è una famiglia”

&Egrave; il 7 aprile del 2002. Il campionato sta pian piano volgendo al termine, entrando nella sua fase pi&ugrave; delicata: al vertice della classifica sgomitano Inter, Roma e Juventus, appollaiate a pochissimi punti di distanza l&rsquo;una dall&rsquo;altra. Allo Stadio Giuseppe Meazza in San Siro i nerazzurri ospitano l&rsquo;Atalanta, per quella che sar&agrave; una partita davvero amara. L&rsquo;incontro &egrave; il 100esimo della storia tra la Dea e la Benamata, con l&rsquo;Inter a caccia di un successo per continuare a marciare verso lo scudetto. Gli uomini di Hector Cuper, pi&ugrave; che favoriti sulla carta, sperano di portare a casa i tre punti in questo soleggiato pomeriggio d&rsquo;inizio primavera. A calcio per&ograve;, come molti sanno, non si gioca &ldquo;sulla carta&rdquo;. <o:p></o:p> <h2>Atalanta avanti con Sala nella prima frazione<o:p></o:p></h2> Sospinti dal pubblico di casa i nerazzurri sono padroni del gioco: in pi&ugrave; di un&rsquo;occasione si presentano dalle parti di Taibi, ma senza successo. La spinta offensiva di Vieri e Recoba, felicemente assistiti da un Seedorf in grande forma, meriterebbe sicuramente maggior successo, ma proprio nel pieno del forcing nerazzurro arriva la rete dei bergamaschi, come canta appunto l&rsquo;interista Max Pezzali &ldquo;loro stanno chiusi ma/ Alla prima opportunit&agrave;/Salgon subito e la buttan dentro a noi/La buttan dentro a noi&rdquo;. &Egrave; a pochi minuti dalla fine della prima frazione che Luigi Sala, durante una quasi inspiegabile sortita offensiva, incorna un cross da destra, cogliendo <a href="https://www.guerinsportivo.it/news/il-cuoio/happyfootball/2021/12/02-4983503/toldo_il_portierone_di_fiorentina_e_inter_insuperabile_a_euro_2000">Toldo</a> impreparato e portando in vantaggio i suoi.<o:p>&nbsp;</o:p> <h2>L&rsquo;illusione interista con Vieri e la sconfitta<o:p></o:p></h2> La risposta nerazzurra non si fa attendere pi&ugrave; di tanto. L&rsquo;Inter rientra in campo affamata, ben conscia dell&rsquo;importanza della sfida e riacciuffa subito il pareggio: nella stessa porta dove aveva segnato Sala, a due minuti dall&rsquo;inizio della ripresa ci pensa Vieri a mettere alle spalle di Taibi con un bellissimo colpo di testa, servito egregiamente dal cross di Materazzi. Da l&igrave; in avanti Zanetti e compagni ricominciano secondo lo spartito del primo tempo, mancando clamorosamente il raddoppio in un paio di occasioni, una proprio con Bobo Vieri che, arrivato in precario equilibrio sul pallone, manca il tap-in vincente a due passi dalla linea dopo una parata di Taibi. Poco prima del ventesimo per&ograve; la difesa interista si fa cogliere impreparata oltre che posizionata malissimo: Doni pesca Comandini solissimo in area, Toldo fa quel che pu&ograve; deviando la sfera su cui si getta Berretta in posizione regolare e mette il suo nome sul tabellino. Per San Siro &egrave; una doccia gelida. Il forcing finale dell&rsquo;Inter si infrange su un Taibi superlativo: ci provano Recoba, Cordoba e Bobo Vieri in pi&ugrave; di un&rsquo;occasione trovando sempre la risposta del portierone bergamasco. Non ci sar&agrave; nulla da fare, l&rsquo;Inter uscir&agrave; sconfitta da San Siro. Quel pomeriggio milanese, legato al pareggio della 32esima giornata contro il Chievo, faranno da preambolo a una delle tragedie sportive pi&ugrave; cocenti della storia nerazzurra: la sconfitta del 5 maggio all&rsquo;Olimpico contro la Lazio che regaler&agrave; lo scudetto ai rivali di sempre juventini. <o:p></o:p> <h2>Inter-Atalanta 1-2 del 7 aprile 2002: il tabellino </h2> INTER (4-4-2):Toldo; Cordoba, Materazzi, Simic (38&rsquo;st Guly), J. Zanetti; Di Biagio, C. Zanetti, Dalmat (22&rsquo;st&nbsp;Conceicao), Seedorf (31&rsquo;st Kallon); Vieri, Recoba. A disp.:&nbsp;Fontana, Ronaldo, Okan Buruk e Ventola. All.:&nbsp;Cuper. <o:p></o:p> ATALANTA (5-3-2):Taibi; M. Paganin (29&rsquo;st Natali), Carrera, Sala, Zauri, Zenoni; Berretta, Dabo, Doni (44&rsquo;st Bellini); F. Rossini, Comandini (39&rsquo;st C. Colombo).&nbsp;A disp.:&nbsp;Calderoni, Pinardi, Orlandini e Falsini. All.: Vavassori.<o:p></o:p> ARBITRO: Paparesta (Bari).&nbsp;MARCATORI: 43&rsquo; Sala (A),&nbsp;2&rsquo;&nbsp;stVieri (I),18&rsquo;&nbsp;st Berretta (A).

        &Egrave; il 7 aprile del 2002. Il campionato sta pian piano volgendo al termine, entrando nella sua fase pi&ugrave; delicata: al vertice della classifica sgomitano Inter, Roma e Juventus, appollaiate a pochissimi punti di distanza l&rsquo;una dall&rsquo;altra. Allo Stadio Giuseppe Meazza in San Siro i nerazzurri ospitano l&rsquo;Atalanta, per quella che sar&agrave; una partita davvero amara. L&rsquo;incontro &egrave; il 100esimo della storia tra la Dea e la Benamata, con l&rsquo;Inter a caccia di un successo per continuare a marciare verso lo scudetto. Gli uomini di Hector Cuper, pi&ugrave; che favoriti sulla carta, sperano di portare a casa i tre punti in questo soleggiato pomeriggio d&rsquo;inizio primavera. A calcio per&ograve;, come molti sanno, non si gioca &ldquo;sulla carta&rdquo;.  Atalanta avanti con Sala nella prima frazione Sospinti dal pubblico di casa i nerazzurri sono padroni del gioco: in pi&ugrave; di un&rsquo;occasione si presentano dalle parti di Taibi, ma senza successo. La spinta offensiva di Vieri e Recoba, felicemente assistiti da un Seedorf in grande forma, meriterebbe sicuramente maggior successo, ma proprio nel pieno del forcing nerazzurro arriva la rete dei bergamaschi, come canta appunto l&rsquo;interista Max Pezzali &ldquo;loro stanno chiusi ma/ Alla prima opportunit&agrave;/Salgon subito e la buttan dentro a noi/La buttan dentro a noi&rdquo;. &Egrave; a pochi minuti dalla fine della prima frazione che Luigi Sala, durante una quasi inspiegabile sortita offensiva, incorna un cross da destra, cogliendo Toldo impreparato e portando in vantaggio i suoi.&nbsp; L&rsquo;illusione interista con Vieri e la sconfitta La risposta nerazzurra non si fa attendere pi&ugrave; di tanto. L&rsquo;Inter rientra in campo affamata, ben conscia dell&rsquo;importanza della sfida e riacciuffa subito il pareggio: nella stessa porta dove aveva segnato Sala, a due minuti dall&rsquo;inizio della ripresa ci pensa Vieri a mettere alle spalle di Taibi con un bellissimo colpo di testa, servito egregiamente dal cross di Materazzi. Da l&igrave; in avanti Zanetti e compagni ricominciano secondo lo spartito del primo tempo, mancando clamorosamente il raddoppio in un paio di occasioni, una proprio con Bobo Vieri che, arrivato in precario equilibrio sul pallone, manca il tap-in vincente a due passi dalla linea dopo una parata di Taibi. Poco prima del ventesimo per&ograve; la difesa interista si fa cogliere impreparata oltre che posizionata malissimo: Doni pesca Comandini solissimo in area, Toldo fa quel che pu&ograve; deviando la sfera su cui si getta Berretta in posizione regolare e mette il suo nome sul tabellino. Per San Siro &egrave; una doccia gelida. Il forcing finale dell&rsquo;Inter si infrange su un Taibi superlativo: ci provano Recoba, Cordoba e Bobo Vieri in pi&ugrave; di un&rsquo;occasione trovando sempre la risposta del portierone bergamasco. Non ci sar&agrave; nulla da fare, l&rsquo;Inter uscir&agrave; sconfitta da San Siro. Quel pomeriggio milanese, legato al pareggio della 32esima giornata contro il Chievo, faranno da preambolo a una delle tragedie sportive pi&ugrave; cocenti della storia nerazzurra: la sconfitta del 5 maggio all&rsquo;Olimpico contro la Lazio che regaler&agrave; lo scudetto ai rivali di sempre juventini.  Inter-Atalanta 1-2 del 7 aprile 2002: il tabellino  INTER (4-4-2):Toldo; Cordoba, Materazzi, Simic (38&rsquo;st Guly), J. Zanetti; Di Biagio, C. Zanetti, Dalmat (22&rsquo;st&nbsp;Conceicao), Seedorf (31&rsquo;st Kallon); Vieri, Recoba. A disp.:&nbsp;Fontana, Ronaldo, Okan Buruk e Ventola.All.:&nbsp;Cuper.  ATALANTA (5-3-2):Taibi; M. Paganin (29&rsquo;st Natali), Carrera, Sala, Zauri, Zenoni; Berretta, Dabo, Doni (44&rsquo;st Bellini); F. Rossini, Comandini (39&rsquo;st C. Colombo).&nbsp;A disp.:&nbsp;Calderoni, Pinardi, Orlandini e Falsini. All.: Vavassori. ARBITRO: Paparesta (Bari).&nbsp;MARCATORI: 43&rsquo; Sala (A),&nbsp;2&rsquo;&nbsp;stVieri (I),18&rsquo;&nbsp;st Berretta (A).        

La Dea espugna il Meazza, gli uomini di Cuper vedono avvicinarsi Roma e Juve in classifica. Il dramma sportivo interista culminer&agrave; nel fatidico 5 maggio dell&rsquo;Olimpico contro la Lazio

7 aprile 2002: Atalanta corsara a San Siro, frenata la corsa scudetto dell'Inter

Archiviata la brutta batosta di Firenze, con i granata sconfitti per 4-1, il Torino torna a sognare lo scudetto. Una partita bellissima, giocata a viso aperto da entrambe le squadre, decisa dagli episodi e ricca di polemiche. Torino-Inter del 29 gennaio 1984 &egrave; anche la sfida degli incroci in panchina: i padroni di casa sono guidati da Eugenio Bersellini, artefice del tricolore interista arrivato nel 1980; dall&rsquo;altra parte c&rsquo;&egrave; invece <a href="https://www.guerinsportivo.it/news/il-cuoio/2019/07/10-2255636/l_intervista_impossibile_gigi_radice">Gigi Radice, il Sergente di Ferro dell&rsquo;ultimo Torino scudettato (1976)</a>. Prima del fischio d&rsquo;inizio il Toro si trova al secondo posto in classifica, a -3 dalla Juve; mentre l&rsquo;Inter insegue tre punti pi&ugrave; gi&ugrave;, condividendo la sesta piazza con i cugini milanisti. <h2>Inter-Torino del 29 gennaio 1984</h2> Un Comunale gremito accoglie le due squadre, che si danno battaglia fin dai primi minuti. Una gara maschia, forse anche troppo, che alla fine conter&agrave; ben sette ammoniti (3 tra i granata, 4 tra i nerazzurri). La prima occasione &egrave; per gli ospiti sugli sviluppi di un corner: sul colpo di testa di Bini serve il miracolo di Terraneo. Al 13&rsquo; l&rsquo;Inter passa in vantaggio: Beppe Baresi mette al centro dalla sinistra e Collovati insacca di testa. Per il difensore campione del mondo &egrave; la prima rete in campionato. La reazione granata &egrave; immediata, affidata a uno dei pi&ugrave; vivaci in campo: Patricio Hernandez. L&rsquo;argentino raccoglie una respinta al limite dell&rsquo;area e si avventura in un dribbling pretenzioso in mezzo alle tante maglie nerazzurre. Qui finisce a terra, con l&rsquo;arbitro Paparesta che indica il dischetto. All&rsquo;improvviso si scatena il caos, con i giocatori dell&rsquo;Inter a fare capannello intorno al direttore di gara, contrariati dalla decisione. &ldquo;Ho sfiorato Hernandez, appena appena, sulla coscia, ma piano, con la punta del piede. Si &egrave; buttato, una decisione incredibile&rdquo;.&nbsp;Queste le parole a fine gara dell&rsquo;autore del fallo Bergomi, che come tutti i suoi compagni non ci sta. Perfino Radice avr&agrave; da ridire: &ldquo;Non faccio mai polemiche, ma Hernandez ha fatto scena: il primo rigore &egrave; inventato&rdquo;. Dagli undici metri, freddo come al solito, va lo stesso argentino, che tra le polemiche trasforma. Il Toro prende coraggio e continua ad attaccare. Prima Zenga &egrave; miracoloso su Dossena, ma al 33esimo non pu&ograve; nulla sul colpo di testa di Schachner per il 2-1. L&rsquo;ultima emozione del primo tempo la regala <a href="https://www.guerinsportivo.it/news/il-cuoio/2021/06/16-4377782/spillo_altobelli_ricorda_il_suo_italia-svizzera_del_1986_e_non_solo">Spillo Altobelli</a>, vicino al gol in rovesciata: Terraneo &egrave; attento. <h2>Nella ripresa altri due rigori: la differenza la fa Hernandez</h2> La ripresa si apre nel segno del <a href="https://www.guerinsportivo.it/news/il-cuoio/2021/03/30-4071197/roma-inter_il_doppio_ex_collovati_stupendi_i_miei_anni_nella_capitale_">migliore in campo tra gli ospiti, Fulvio Collovati</a>, che dopo uno slalom degno del miglior Tomba, anticipa il portiere granata in uscita e guadagna rigore. Dagli undici metri va Altobelli, ma il suo tiro colpisce in pieno il palo, a conferma del periodo no attraversato dal centravanti nerazzurro, che aveva sbagliato un rigore anche nella sfida giocata a Milano l&rsquo;anno prima. A fine gara verr&agrave; ampiamente criticato dai tifosi, forse un po&rsquo; troppo severi nei confronti di un idolo come Spillo. Tra l&rsquo;altro, sull&rsquo;azione del penalty si verifica l&rsquo;ennesimo episodio da moviola: Bagni raccoglie la sfera respinta dal palo e viene atterrato in area da Galbiati. Questa volta per l&rsquo;arbitro non c&rsquo;&egrave; nulla. Con l&rsquo;Inter sbilanciata in avanti, la partita si chiude al minuto 84 grazie al micidiale contropiede di Walter Schachner. L&rsquo;austriaco, lanciato da Dossena &ndash; che gi&agrave; gli aveva regalato l&rsquo;assist per il 2-1 &ndash;, aziona il turbo e punta la porta. Ferri rinviene ma non pu&ograve; far altro che stenderlo a pochi passi da Zenga: ancora rigore, il terzo della giornata, ancora impeccabile dagli 11 metri Patricio Hernandez. Questa volta nell&rsquo;altro angolo, con Zenga che intuisce ma non basta. L&rsquo;argentino parler&agrave; degli episodi da moviola e sveler&agrave; un aneddoto da calcio d&rsquo;altri tempi: &ldquo;I rigori c&rsquo;erano tutti e due. Nel primo caso un avversario mi ha agganciato il ginocchio, per questo sono finito a terra. Quando ho battuto il secondo mi sono fermato un attimo perch&eacute; c&rsquo;era una piccola buca sul terreno, l&rsquo;aveva fatta Baresi, il numero 6, ma io me ne sono accorto&rdquo;. Finisce 3-1 per il Torino di Bersellini che si rilancia in classifica. Curioso che, dopo l&rsquo;andata terminata 0-0, la sfida tra nerazzurri e granata ripeta per il secondo anno consecutivo gli stessi punteggi, anche se a campi invertiti: l&rsquo;anno prima i granata avevano vinto 3-1 a San Siro e pareggiato 0-0 in casa. <h2>Il tabellino: Torino-Inter 3-1 del 29 gennaio 1984</h2> TORINO: Terraneo, Corradini (43 st&rsquo; G.Ferri), Beruatto, Zaccarelli, Danova, Galbiati, Schachner, Caso, Selvaggi (40&rsquo; st Pileggi), Dossena, Hernandez. A DISP.: Copparoni, Benedetti, Comi. ALL.: Bersellini. INTER: Zenga, R.Ferri, Bergomi, Bini, Collovati, Baresi, Muller, Bagni, Altobelli (19&rsquo; st Beccalossi), Sabato, Serena. A DISP.: Recchi, Marini, Muraro, Pasinato. ALL.: Radice. ARBITRO: Paparesta (Bari). MARCATORI: 13&rsquo; Collovati (I), 15&rsquo; (rig) e 39&rsquo; st (rig.) Hernandez (T), 33&rsquo; Schachner (T). &nbsp; &nbsp;

        Archiviata la brutta batosta di Firenze, con i granata sconfitti per 4-1, il Torino torna a sognare lo scudetto. Una partita bellissima, giocata a viso aperto da entrambe le squadre, decisa dagli episodi e ricca di polemiche. Torino-Inter del 29 gennaio 1984 &egrave; anche la sfida degli incroci in panchina: i padroni di casa sono guidati da Eugenio Bersellini, artefice del tricolore interista arrivato nel 1980; dall&rsquo;altra parte c&rsquo;&egrave; invece Gigi Radice, il Sergente di Ferro dell&rsquo;ultimo Torino scudettato (1976). Prima del fischio d&rsquo;inizio il Toro si trova al secondo posto in classifica, a -3 dalla Juve; mentre l&rsquo;Inter insegue tre punti pi&ugrave; gi&ugrave;, condividendo la sesta piazza con i cugini milanisti. Inter-Torino del 29 gennaio 1984 Un Comunale gremito accoglie le due squadre, che si danno battaglia fin dai primi minuti. Una gara maschia, forse anche troppo, che alla fine conter&agrave; ben sette ammoniti (3 tra i granata, 4 tra i nerazzurri). La prima occasione &egrave; per gli ospiti sugli sviluppi di un corner: sul colpo di testa di Bini serve il miracolo di Terraneo. Al 13&rsquo; l&rsquo;Inter passa in vantaggio: Beppe Baresi mette al centro dalla sinistra e Collovati insacca di testa. Per il difensore campione del mondo &egrave; la prima rete in campionato. La reazione granata &egrave; immediata, affidata a uno dei pi&ugrave; vivaci in campo: Patricio Hernandez. L&rsquo;argentino raccoglie una respinta al limite dell&rsquo;area e si avventura in un dribbling pretenzioso in mezzo alle tante maglie nerazzurre. Qui finisce a terra, con l&rsquo;arbitro Paparesta che indica il dischetto. All&rsquo;improvviso si scatena il caos, con i giocatori dell&rsquo;Inter a fare capannello intorno al direttore di gara, contrariati dalla decisione. &ldquo;Ho sfiorato Hernandez, appena appena, sulla coscia, ma piano, con la punta del piede. Si &egrave; buttato, una decisione incredibile&rdquo;.&nbsp;Queste le parole a fine gara dell&rsquo;autore del fallo Bergomi, che come tutti i suoi compagni non ci sta. Perfino Radice avr&agrave; da ridire: &ldquo;Non faccio mai polemiche, ma Hernandez ha fatto scena: il primo rigore &egrave; inventato&rdquo;. Dagli undici metri, freddo come al solito, va lo stesso argentino, che tra le polemiche trasforma. Il Toro prende coraggio e continua ad attaccare. Prima Zenga &egrave; miracoloso su Dossena, ma al 33esimo non pu&ograve; nulla sul colpo di testa di Schachner per il 2-1. L&rsquo;ultima emozione del primo tempo la regala Spillo Altobelli, vicino al gol in rovesciata: Terraneo &egrave; attento.  Nella ripresa altri due rigori: la differenza la fa Hernandez La ripresa si apre nel segno del migliore in campo tra gli ospiti, Fulvio Collovati, che dopo uno slalom degno del miglior Tomba, anticipa il portiere granata in uscita e guadagna rigore. Dagli undici metri va Altobelli, ma il suo tiro colpisce in pieno il palo, a conferma del periodo no attraversato dal centravanti nerazzurro, che aveva sbagliato un rigore anche nella sfida giocata a Milano l&rsquo;anno prima. A fine gara verr&agrave; ampiamente criticato dai tifosi, forse un po&rsquo; troppo severi nei confronti di un idolo come Spillo. Tra l&rsquo;altro, sull&rsquo;azione del penalty si verifica l&rsquo;ennesimo episodio da moviola: Bagni raccoglie la sfera respinta dal palo e viene atterrato in area da Galbiati. Questa volta per l&rsquo;arbitro non c&rsquo;&egrave; nulla. Con l&rsquo;Inter sbilanciata in avanti, la partita si chiude al minuto 84 grazie al micidiale contropiede di Walter Schachner. L&rsquo;austriaco, lanciato da Dossena &ndash; che gi&agrave; gli aveva regalato l&rsquo;assist per il 2-1 &ndash;, aziona il turbo e punta la porta. Ferri rinviene ma non pu&ograve; far altro che stenderlo a pochi passi da Zenga: ancora rigore, il terzo della giornata, ancora impeccabile dagli 11 metri Patricio Hernandez. Questa volta nell&rsquo;altro angolo, con Zenga che intuisce ma non basta. L&rsquo;argentino parler&agrave; degli episodi da moviola e sveler&agrave; un aneddoto da calcio d&rsquo;altri tempi: &ldquo;I rigori c&rsquo;erano tutti e due. Nel primo caso un avversario mi ha agganciato il ginocchio, per questo sono finito a terra. Quando ho battuto il secondo mi sono fermato un attimo perch&eacute; c&rsquo;era una piccola buca sul terreno, l&rsquo;aveva fatta Baresi, il numero 6, ma io me ne sono accorto&rdquo;. Finisce 3-1 per il Torino di Bersellini che si rilancia in classifica. Curioso che, dopo l&rsquo;andata terminata 0-0, la sfida tra nerazzurri e granata ripeta per il secondo anno consecutivo gli stessi punteggi, anche se a campi invertiti: l&rsquo;anno prima i granata avevano vinto 3-1 a San Siro e pareggiato 0-0 in casa. Il tabellino: Torino-Inter 3-1 del 29 gennaio 1984 TORINO: Terraneo, Corradini (43 st&rsquo; G.Ferri), Beruatto, Zaccarelli, Danova, Galbiati, Schachner, Caso, Selvaggi (40&rsquo; st Pileggi), Dossena, Hernandez. A DISP.: Copparoni, Benedetti, Comi. ALL.: Bersellini. INTER: Zenga, R.Ferri, Bergomi, Bini, Collovati, Baresi, Muller, Bagni, Altobelli (19&rsquo; st Beccalossi), Sabato, Serena. A DISP.: Recchi, Marini, Muraro, Pasinato. ALL.: Radice. ARBITRO: Paparesta (Bari). MARCATORI: 13&rsquo; Collovati (I), 15&rsquo; (rig) e 39&rsquo; st (rig.) Hernandez (T), 33&rsquo; Schachner (T). &nbsp; &nbsp;       

Nel 1984 al Comunale una sfida ricca di emozioni, decisa, tra le polemiche, dai penalty. Quel giorno grandi ex in panchina: Bersellini allenava i granata, Radice i nerazzurri

Torino-Inter, nella partita dei rigori Hernandez la spunta su Altobelli

&ldquo;Perch&egrave; perch&eacute; la domenica mi lasci sempre sola, per andare a vedere la partita di pallone&hellip;&rdquo; cantava Rita Pavone nel lontano 1963, rafforzando quel clich&eacute; un po&rsquo; latino (ma non necessariamente) del rapporto un tantino morboso dell&rsquo;uomo con il calcio, che lo porta a trascurare affetti e impegni per &ldquo;la partita di pallone&rdquo;. Ma non &egrave; sempre cos&igrave;. La storia del football &egrave; costellata qua e l&agrave; di figure femminili che non solo l&rsquo;hanno vissuta, ma che l&rsquo;hanno addirittura influenzata. Una di queste, e molti di voi la ricorderanno, &egrave; senza dubbio Claire Ince, moglie del centrocampista Paul, che ne condizion&ograve; con le sue bizze tutta la carriera. <o:p></o:p><o:p>&nbsp;</o:p> <h2>Il mastino di Ilford<o:p></o:p></h2> Paul Ince nasce nel nord est di Londra il 21 ottobre del 1967 e per motivi prettamente geografici non pu&ograve; che iniziare a giocare a calcio nel West Ham United. Con gli Hammers fa tutta la trafila delle giovanili prima di esordire nella First Division, dimostrando le sue grandissime doti di incontrista. Ince &egrave; un vero e proprio mastino del centrocampo, grintoso e attento in fase di non possesso ed essenziale in fase di possesso. Non disdegna gli inserimenti offensivi, caratteristica che gli permette un certo feeling anche con il gol. Dopo 3 stagioni nel club di Stratford viene prelevato dal Manchester United, a cui legher&agrave; per sempre il suo nome. Alla corte di Sir Alex diventa uno dei giocatori migliori del campionato facendo incetta di trofei oltre ad iniziare a vestire la maglia dei Tre Leoni con continuit&agrave;. Nel corso degli anni diventer&agrave; il primo calciatore di colore ad indossare la fascia di capitano della nazionale. Intanto la relazione con Claire si fa sempre pi&ugrave; seria, i due si sposano, nel 1992 nasce il primogenito Tom e la signora, in un&rsquo;Inghilterra ancora priva di Spice Girls e Spice Boys, si prende lo scettro di First Lady del calcio inglese. <o:p></o:p> <h2>L&rsquo;Inter, i capricci di Claire ed il Liverpool<o:p></o:p></h2> Nell&rsquo;estate del 1995 il neo presidente dell&rsquo;Inter Massimo Moratti lo vuole a tutti i costi a Milano, intavolando una delle trattative pi&ugrave; bizzarre della storia del calcio. Per quanto riguarda l&rsquo;accordo con il Manchester United e con il calciatore non ci sarebbero problemi, il generoso patron nerazzurro &egrave; pronto a sborsare 17 miliardi di lire per il cartellino e ad elargirne circa due all&rsquo;anno al ragazzo. Il problema &egrave; la signora Ince, che quello scettro di Firs Lady delle wags inglesi non lo vuole proprio mollare e come dir&agrave; con parole squisitamente sue &ldquo;mi spiace, sotto un certo livello non scendo&rdquo;. Il passaggio di Paul a Milano diventa un caso, il calciatore temporeggia e nel frattempo parte la caccia alla dimora perfetta per Mrs Ince. Le fanno visionare una decina di lussuose ed esclusive ville sul Lago di Como, ma niente. Moratti le regala personalmente un anello di diamanti, deciso fino in fondo a portare il mastino di Ilford in nerazzurro. Claire non gradisce affatto la destinazione italiana, il pargolo Tom &egrave; piccolo e non vuole farlo crescere lontano dall&rsquo;Inghilterra. Alla fine si accontenter&agrave; della villa che era stata di Jonk, vista lago a Carate Urio, facendo spallucce come se le avessero proposto un alloggio popolare. Decisivo molto probabilmente &egrave; l&rsquo;intervento dei Red Devils, che a fronte di veder sfumare un affare da 17 miliardi intimano a Paul e signora di finire la commedia. Alla fine Ince arriva in nerazzurro e ci passa due anni fantastici: &egrave; l&rsquo;idolo di San Siro che intona spesso il celebre coro &ldquo;c&rsquo;mon Paul Ince, c&rsquo;mon&rdquo;. L&rsquo;idillio purtroppo &egrave; destinato a terminare, udite udite, proprio per le ulteriori bizze di Claire. Due anni nella location da sogno del Lago di Como l&rsquo;hanno visibilmente provata, sogna ancora i rossi palazzi di Stockport e quel cielo grigio che mai e poi mai avrebbe voluto abbandonare.&nbsp;Anni dopo Paul dir&agrave;: &ldquo;Gli anni pi&ugrave; belli della carriera. Non me ne sarei mai andato, l&rsquo;ho fatto solo per ragioni familiari. E ancora oggi me ne dispiaccio. Ricordo il gol in rovesciata a Cagliari, il cuore d&rsquo;oro di Moratti che mi avrebbe tenuto a qualunque costo e il rapporto con i compagni: Paganin quasi un fratello, poi Winter e ovviamente Zanetti. Siamo arrivati insieme e lui &egrave; ancora l&igrave;! Ma a mancarmi &egrave; soprattutto il sentimento con i tifosi: dopo un derby vinto andavo in giro per la citt&agrave; e mi sentivo un re!&rdquo;.&nbsp;<o:p></o:p>Messo alle strette dalla moglie, Ince torna in Inghilterra, questa volta al Liverpool. Ad Anfield Road trascorre due stagioni prima di trasferirsi al Middlesbrough e poi al Wolverhampton dove passa quattro stagioni. Una volta ritiratosi inizia la carrierada allenatore, che fatica a decollare. Intanto il primogenito Tom cresce in Inghilterra e diventa anch&rsquo;egli calciatore professionista. Chiss&agrave;, magari alla fine aveva ragione Claire.

        &ldquo;Perch&egrave; perch&eacute; la domenica mi lasci sempre sola, per andare a vedere la partita di pallone&hellip;&rdquo; cantava Rita Pavone nel lontano 1963, rafforzando quel clich&eacute; un po&rsquo; latino (ma non necessariamente) del rapporto un tantino morboso dell&rsquo;uomo con il calcio, che lo porta a trascurare affetti e impegni per &ldquo;la partita di pallone&rdquo;. Ma non &egrave; sempre cos&igrave;. La storia del football &egrave; costellata qua e l&agrave; di figure femminili che non solo l&rsquo;hanno vissuta, ma che l&rsquo;hanno addirittura influenzata. Una di queste, e molti di voi la ricorderanno, &egrave; senza dubbio Claire Ince, moglie del centrocampista Paul, che ne condizion&ograve; con le sue bizze tutta la carriera. &nbsp; Il mastino di Ilford Paul Ince nasce nel nord est di Londra il 21 ottobre del 1967 e per motivi prettamente geografici non pu&ograve; che iniziare a giocare a calcio nel West Ham United. Con gli Hammers fa tutta la trafila delle giovanili prima di esordire nella First Division, dimostrando le sue grandissime doti di incontrista. Ince &egrave; un vero e proprio mastino del centrocampo, grintoso e attento in fase di non possesso ed essenziale in fase di possesso. Non disdegna gli inserimenti offensivi, caratteristica che gli permette un certo feeling anche con il gol. Dopo 3 stagioni nel club di Stratford viene prelevato dal Manchester United, a cui legher&agrave; per sempre il suo nome. Alla corte di Sir Alex diventa uno dei giocatori migliori del campionato facendo incetta di trofei oltre ad iniziare a vestire la maglia dei Tre Leoni con continuit&agrave;. Nel corso degli anni diventer&agrave; il primo calciatore di colore ad indossare la fascia di capitano della nazionale. Intanto la relazione con Claire si fa sempre pi&ugrave; seria, i due si sposano, nel 1992 nasce il primogenito Tom e la signora, in un&rsquo;Inghilterra ancora priva di Spice Girls e Spice Boys, si prende lo scettro di First Lady del calcio inglese.  L&rsquo;Inter, i capricci di Claire ed il Liverpool Nell&rsquo;estate del 1995 il neo presidente dell&rsquo;Inter Massimo Moratti lo vuole a tutti i costi a Milano, intavolando una delle trattative pi&ugrave; bizzarre della storia del calcio. Per quanto riguarda l&rsquo;accordo con il Manchester United e con il calciatore non ci sarebbero problemi, il generoso patron nerazzurro &egrave; pronto a sborsare 17 miliardi di lire per il cartellino e ad elargirne circa due all&rsquo;anno al ragazzo. Il problema &egrave; la signora Ince, che quello scettro di Firs Lady delle wags inglesi non lo vuole proprio mollare e come dir&agrave; con parole squisitamente sue &ldquo;mi spiace, sotto un certo livello non scendo&rdquo;. Il passaggio di Paul a Milano diventa un caso, il calciatore temporeggia e nel frattempo parte la caccia alla dimora perfetta per Mrs Ince. Le fanno visionare una decina di lussuose ed esclusive ville sul Lago di Como, ma niente. Moratti le regala personalmente un anello di diamanti, deciso fino in fondo a portare il mastino di Ilford in nerazzurro. Claire non gradisce affatto la destinazione italiana, il pargolo Tom &egrave; piccolo e non vuole farlo crescere lontano dall&rsquo;Inghilterra. Alla fine si accontenter&agrave; della villa che era stata di Jonk, vista lago a Carate Urio, facendo spallucce come se le avessero proposto un alloggio popolare. Decisivo molto probabilmente &egrave; l&rsquo;intervento dei Red Devils, che a fronte di veder sfumare un affare da 17 miliardi intimano a Paul e signora di finire la commedia. Alla fine Ince arriva in nerazzurro e ci passa due anni fantastici: &egrave; l&rsquo;idolo di San Siro che intona spesso il celebre coro &ldquo;c&rsquo;mon Paul Ince, c&rsquo;mon&rdquo;. L&rsquo;idillio purtroppo &egrave; destinato a terminare, udite udite, proprio per le ulteriori bizze di Claire. Due anni nella location da sogno del Lago di Como l&rsquo;hanno visibilmente provata, sogna ancora i rossi palazzi di Stockport e quel cielo grigio che mai e poi mai avrebbe voluto abbandonare.&nbsp;Anni dopo Paul dir&agrave;: &ldquo;Gli anni pi&ugrave; belli della carriera. Non me ne sarei mai andato, l&rsquo;ho fatto solo per ragioni familiari. E ancora oggi me ne dispiaccio. Ricordo il gol in rovesciata a Cagliari, il cuore d&rsquo;oro di Moratti che mi avrebbe tenuto a qualunque costo e il rapporto con i compagni: Paganin quasi un fratello, poi Winter e ovviamente Zanetti. Siamo arrivati insieme e lui &egrave; ancora l&igrave;! Ma a mancarmi &egrave; soprattutto il sentimento con i tifosi: dopo un derby vinto andavo in giro per la citt&agrave; e mi sentivo un re!&rdquo;.&nbsp;Messo alle strette dalla moglie, Ince torna in Inghilterra, questa volta al Liverpool. Ad Anfield Road trascorre due stagioni prima di trasferirsi al Middlesbrough e poi al Wolverhampton dove passa quattro stagioni. Una volta ritiratosi inizia la carrierada allenatore, che fatica a decollare. Intanto il primogenito Tom cresce in Inghilterra e diventa anch&rsquo;egli calciatore professionista. Chiss&agrave;, magari alla fine aveva ragione Claire.       

Cresciuto nel West Ham, maturato al Manchester United, passato per San Siro e Anfield, il calciatore inglese &egrave; rimasto celebre anche per le scelte condizionate dai motivi familiari

Liverpool-Inter, il doppio ex Paul Ince tra il centrocampo e la moglie Claire

14 agosto 2001. Mentre milioni di persone si preparano a festeggiare la notte di Ferragosto, a Madrid si gioca il Trofeo Santiago Bernabeu. A 5&rsquo; dalla fine Bobo Vieri esce dal campo per fare spazio a un giovane brasiliano arrivato all&rsquo;Inter dal Flamengo pochi giorni prima. Quel ragazzo con il numero 14 sulle spalle &egrave; Adriano Leite Ribeiro. A Pipoca, come veniva soprannominato dagli amici da bambino per via della madre che un giorno interruppe una partita per comunicargli che i pop corn erano pronti, bastano appena 8 minuti per scrivere la prima pagina di un lungo romanzo che lo porter&agrave; a diventare uno dei centravanti pi&ugrave; forti degli anni a venire. Allo scadere c&rsquo;&egrave; una punizione dal limite e sul punto di battuta ci sono gi&agrave; Seedorf e Materazzi. Adriano si avvicina e inizia a discutere con l&rsquo;olandese. Scelta fatta, tira il ragazzino. Quello che succede pochi secondi dopo &egrave; storia: sinistro micidiale, Hierro, ultimo in barriera, si scansa per non essere decapitato, Casillas allunga il braccio ma non ci arriva, la palla scheggia la parte bassa della traversa e finisce sotto il sette. Adriano corre in panchina per raccogliere l&rsquo;abbraccio dei compagni, increduli per quanto accaduto e testimoni di un gol storico. I tifosi interisti si stropicciano gli occhi e nell&rsquo;attesa di vedere all&rsquo;opera la coppia Ronaldo-Vieri, con il brasiliano alle prese con alcuni guai fisici, si godono questo ragazzino arrivato quasi dalla fine del mondo. <h2>Le esperienze con Fiorentina e Parma e il ritorno all&rsquo;Inter</h2> Per essere certi che quella non sia stata solo una magia da notte di mezza estate, l&rsquo;Inter deve attendere poco pi&ugrave; di un mese, il 16 settembre. Mentre il mondo &egrave; ancora scosso dall&rsquo;attentato alle Torri Gemelle, Adriano si ripete al Meazza e decide, ancora una volta nel finale, la sfida contro il Venezia: colpo di testa su corner di Seedorf e fendente da posizione defilata dopo la corta respinta di Generoso Rossi. &Egrave; il gol del 2-1 che manda San Siro in delirio. Una rete che, per&ograve;, non gli garantisce il posto da titolare. Gioca solo spezzoni di partite, pertanto a gennaio viene mandato in prestito alla Fiorentina per trovare continuit&agrave;. Sei gol in 15 presenze non bastano per evitare la retrocessione dei Viola, in piena procedura fallimentare e gi&agrave; privi di Toldo, Rui Costa e Batistuta. Nell&rsquo;estate del 2002, mentre i nerazzurri si leccano le ferite per lo scudetto perso all&rsquo;ultima giornata e accolgono Hernan Crespo, Adriano passa in compropriet&agrave; al Parma per 12,8 milioni di euro. Ai ducali instaura subito un ottimo rapporto con mister Prandelli e con Mutu forma la coppia pi&ugrave; prolifica del campionato. Quel ragazzo &egrave; diventato un uomo e un calciatore formidabile, cos&igrave; l&rsquo;Inter nel gennaio 2004 lo richiama a casa e sborsa 15 milioni di euro per l&rsquo;altra met&agrave; del suo cartellino. Dinamite, il suo nuovo nomignolo, riprende da dove aveva lasciato: doppietta a Generoso Rossi, il portiere di quell&rsquo;Inter-Venezia, nel poker dei nerazzurri sul Siena. Pochi giorni dopo altri due gol alla Juve in Coppa Italia. &Egrave; un momento magico per lui. Regala i preliminari di Champions League alla Beneamata con un finale di campionato super e vince la Coppa America trascinando il Brasile di Parreira che, nonostante il necessario ricambio dopo il successo iridato del 2002, trionfa grazie a un Adriano che si trasforma cos&igrave; da Dinamite a Imperatore. <h2>La morte del padre e il lento declino</h2> Sembra andare tutto alla grande, ma mentre con l&rsquo;Inter si dirige verso Bari per il Trofeo Birra Moretti arriva una chiamata dal Brasile: pap&agrave; Almir &egrave; morto. &Egrave; l&rsquo;inizio della fine. Il giocatore riesce a suonare gli ultimi colpi e con tre gol tra andata e ritorno contro il Basilea porta i nerazzurri in Champions. Tripletta al Porto negli ottavi di ritorno, ma il sogno europeo della formazione di Roberto Mancini si infrange contro il Milan ai quarti. In campionato, intanto, colpisce una traversa record contro il Palermo, con il pallone che viaggia a 140 km/h, segna una doppietta da urlo contro l&rsquo;Udinese e chiude con 16 reti in 30 presenze. Ma sono solo gli ultimi bagliori di luce nella notte che avanza, estemporanee di felicit&agrave; durante una lunga depressione. Adriano appare intrappolato nel proprio corpo, sembra un&rsquo;auto potentissima ma fuori controllo. La morte del padre lo ha cambiato da dentro, non &egrave; pi&ugrave; lo stesso uomo, non &egrave; pi&ugrave; lo stesso calciatore. Arrivano i primi trofei nerazzurri, ma la pazienza di Mancini &egrave; finita, cos&igrave; il brasiliano a gennaio 2008 passa al San Paolo. Si rilancia e chiude l&rsquo;esperienza con 17 reti in 28 presenze. In estate rientra a Milano e con lo sbarco di Mourinho alla Pinetina cresce la speranza di ritrovare il vero Adriano. Lo Special One punta su di lui e l&rsquo;Imperatore risponde presente, o almeno ci prova. Il gol in Champions League contro il Panathinaikos gli permette di superare Sandro Mazzola e diventare il miglior realizzatore interista nella manifestazione continentale con 18 centri. Adriano sta meglio e viene convocato dal Ct del Brasile Dunga per le qualificazioni al Mondiale 2010. Contro Ecuador e Per&ugrave; non gioca per infortunio e quando l&rsquo;aereo con Julio Cesar e i milanisti rientra nel capoluogo lombardo Adriano non c&rsquo;&egrave;. Neppure il suo agente, Gilmar Rinaldi, sa dove si trovi. &Egrave; lo stesso Imperatore a farsi vivo qualche giorno dopo per annunciare di voler ripartire dal Brasile, dal Flamengo. <h2>Il successo con il Flamengo e il flop alla Roma</h2> Tra alti e bassi, tra un allenamento saltato e una magia in campo, chiude la stagione con 19 reti e vince, stavolta da protagonista, il titolo nel Brasileirao con i rossoneri. Sembra un nuovo inizio ma, come insegna la sua carriera, il passaggio dall&rsquo;euforia alla depressione &egrave; brevissimo. Per rilanciarsi in Italia sceglie la Roma e promette di essere un uomo e un calciatore nuovo. I giallorossi lo presentano al Flaminio con tanto di sciarpa &ldquo;Mo&rsquo; te gonfio&rdquo;. Ha qualche chilo di troppo, ma cosa sar&agrave; mai? Pochi allenamenti e andr&agrave; via. Invece non sar&agrave; cos&igrave;: con i capitolini mette assieme appena otto presenze e non riesce mai a timbrare il cartellino. Stavolta &egrave; davvero finita. Dal Corinthians torna al Flamengo, poi passa all&rsquo;Atletico Paranaense dopo essere stato rifiutato da Palmeiras e Internacional, prima di chiude la carriera da calciatore nel giugno 2016 con il Miami United, all&rsquo;et&agrave; di 34 anni. Oggi Adriano, come dichiarato in una recente intervista a Tuttosport, ha un sogno nel cassetto: vedere suo figlio Adriano Carvalho Ribeiro, attualmente al Gremio, con la maglia dell&rsquo;Inter. Quella societ&agrave; che lo accolse a braccia aperte e con la quale quel 14 agosto 2001 inizi&ograve; una lunga storia d&rsquo;amore.

        14 agosto 2001. Mentre milioni di persone si preparano a festeggiare la notte di Ferragosto, a Madrid si gioca il Trofeo Santiago Bernabeu. A 5&rsquo; dalla fine Bobo Vieri esce dal campo per fare spazio a un giovane brasiliano arrivato all&rsquo;Inter dal Flamengo pochi giorni prima. Quel ragazzo con il numero 14 sulle spalle &egrave; Adriano Leite Ribeiro. A Pipoca, come veniva soprannominato dagli amici da bambino per via della madre che un giorno interruppe una partita per comunicargli che i pop corn erano pronti, bastano appena 8 minuti per scrivere la prima pagina di un lungo romanzo che lo porter&agrave; a diventare uno dei centravanti pi&ugrave; forti degli anni a venire. Allo scadere c&rsquo;&egrave; una punizione dal limite e sul punto di battuta ci sono gi&agrave; Seedorf e Materazzi. Adriano si avvicina e inizia a discutere con l&rsquo;olandese. Scelta fatta, tira il ragazzino. Quello che succede pochi secondi dopo &egrave; storia: sinistro micidiale, Hierro, ultimo in barriera, si scansa per non essere decapitato, Casillas allunga il braccio ma non ci arriva, la palla scheggia la parte bassa della traversa e finisce sotto il sette. Adriano corre in panchina per raccogliere l&rsquo;abbraccio dei compagni, increduli per quanto accaduto e testimoni di un gol storico. I tifosi interisti si stropicciano gli occhi e nell&rsquo;attesa di vedere all&rsquo;opera la coppia Ronaldo-Vieri, con il brasiliano alle prese con alcuni guai fisici, si godono questo ragazzino arrivato quasi dalla fine del mondo. Le esperienze con Fiorentina e Parma e il ritorno all&rsquo;Inter Per essere certi che quella non sia stata solo una magia da notte di mezza estate, l&rsquo;Inter deve attendere poco pi&ugrave; di un mese, il 16 settembre. Mentre il mondo &egrave; ancora scosso dall&rsquo;attentato alle Torri Gemelle, Adriano si ripete al Meazza e decide, ancora una volta nel finale, la sfida contro il Venezia: colpo di testa su corner di Seedorf e fendente da posizione defilata dopo la corta respinta di Generoso Rossi. &Egrave; il gol del 2-1 che manda San Siro in delirio. Una rete che, per&ograve;, non gli garantisce il posto da titolare. Gioca solo spezzoni di partite, pertanto a gennaio viene mandato in prestito alla Fiorentina per trovare continuit&agrave;. Sei gol in 15 presenze non bastano per evitare la retrocessione dei Viola, in piena procedura fallimentare e gi&agrave; privi di Toldo, Rui Costa e Batistuta. Nell&rsquo;estate del 2002, mentre i nerazzurri si leccano le ferite per lo scudetto perso all&rsquo;ultima giornata e accolgono Hernan Crespo, Adriano passa in compropriet&agrave; al Parma per 12,8 milioni di euro. Ai ducali instaura subito un ottimo rapporto con mister Prandelli e con Mutu forma la coppia pi&ugrave; prolifica del campionato. Quel ragazzo &egrave; diventato un uomo e un calciatore formidabile, cos&igrave; l&rsquo;Inter nel gennaio 2004 lo richiama a casa e sborsa 15 milioni di euro per l&rsquo;altra met&agrave; del suo cartellino. Dinamite, il suo nuovo nomignolo, riprende da dove aveva lasciato: doppietta a Generoso Rossi, il portiere di quell&rsquo;Inter-Venezia, nel poker dei nerazzurri sul Siena. Pochi giorni dopo altri due gol alla Juve in Coppa Italia. &Egrave; un momento magico per lui. Regala i preliminari di Champions League alla Beneamata con un finale di campionato super e vince la Coppa America trascinando il Brasile di Parreira che, nonostante il necessario ricambio dopo il successo iridato del 2002, trionfa grazie a un Adriano che si trasforma cos&igrave; da Dinamite a Imperatore.  La morte del padre e il lento declino Sembra andare tutto alla grande, ma mentre con l&rsquo;Inter si dirige verso Bari per il Trofeo Birra Moretti arriva una chiamata dal Brasile: pap&agrave; Almir &egrave; morto. &Egrave; l&rsquo;inizio della fine. Il giocatore riesce a suonare gli ultimi colpi e con tre gol tra andata e ritorno contro il Basilea porta i nerazzurri in Champions. Tripletta al Porto negli ottavi di ritorno, ma il sogno europeo della formazione di Roberto Mancini si infrange contro il Milan ai quarti. In campionato, intanto, colpisce una traversa record contro il Palermo, con il pallone che viaggia a 140 km/h, segna una doppietta da urlo contro l&rsquo;Udinese e chiude con 16 reti in 30 presenze. Ma sono solo gli ultimi bagliori di luce nella notte che avanza, estemporanee di felicit&agrave; durante una lunga depressione. Adriano appare intrappolato nel proprio corpo, sembra un&rsquo;auto potentissima ma fuori controllo. La morte del padre lo ha cambiato da dentro, non &egrave; pi&ugrave; lo stesso uomo, non &egrave; pi&ugrave; lo stesso calciatore. Arrivano i primi trofei nerazzurri, ma la pazienza di Mancini &egrave; finita, cos&igrave; il brasiliano a gennaio 2008 passa al San Paolo. Si rilancia e chiude l&rsquo;esperienza con 17 reti in 28 presenze. In estate rientra a Milano e con lo sbarco di Mourinho alla Pinetina cresce la speranza di ritrovare il vero Adriano. Lo Special One punta su di lui e l&rsquo;Imperatore risponde presente, o almeno ci prova. Il gol in Champions League contro il Panathinaikos gli permette di superare Sandro Mazzola e diventare il miglior realizzatore interista nella manifestazione continentale con 18 centri. Adriano sta meglio e viene convocato dal Ct del Brasile Dunga per le qualificazioni al Mondiale 2010. Contro Ecuador e Per&ugrave; non gioca per infortunio e quando l&rsquo;aereo con Julio Cesar e i milanisti rientra nel capoluogo lombardo Adriano non c&rsquo;&egrave;. Neppure il suo agente, Gilmar Rinaldi, sa dove si trovi. &Egrave; lo stesso Imperatore a farsi vivo qualche giorno dopo per annunciare di voler ripartire dal Brasile, dal Flamengo.  Il successo con il Flamengo e il flop alla Roma Tra alti e bassi, tra un allenamento saltato e una magia in campo, chiude la stagione con 19 reti e vince, stavolta da protagonista, il titolo nel Brasileirao con i rossoneri. Sembra un nuovo inizio ma, come insegna la sua carriera, il passaggio dall&rsquo;euforia alla depressione &egrave; brevissimo. Per rilanciarsi in Italia sceglie la Roma e promette di essere un uomo e un calciatore nuovo. I giallorossi lo presentano al Flaminio con tanto di sciarpa &ldquo;Mo&rsquo; te gonfio&rdquo;. Ha qualche chilo di troppo, ma cosa sar&agrave; mai? Pochi allenamenti e andr&agrave; via. Invece non sar&agrave; cos&igrave;: con i capitolini mette assieme appena otto presenze e non riesce mai a timbrare il cartellino. Stavolta &egrave; davvero finita. Dal Corinthians torna al Flamengo, poi passa all&rsquo;Atletico Paranaense dopo essere stato rifiutato da Palmeiras e Internacional, prima di chiude la carriera da calciatore nel giugno 2016 con il Miami United, all&rsquo;et&agrave; di 34 anni. Oggi Adriano, come dichiarato in una recente intervista a Tuttosport, ha un sogno nel cassetto: vedere suo figlio Adriano Carvalho Ribeiro, attualmente al Gremio, con la maglia dell&rsquo;Inter. Quella societ&agrave; che lo accolse a braccia aperte e con la quale quel 14 agosto 2001 inizi&ograve; una lunga storia d&rsquo;amore.       

La carriera dell&rsquo;Imperatore tra successi e cadute. Esploso con l&rsquo;Inter, alla Roma cerc&ograve; il riscatto ma fu un clamoroso flop

Adriano, dalla “bomba” al Real Madrid all’oblio

Pensi a Inter-Liverpool e alla Champions League e subito la memoria viaggia nel tempo, tornando fino al 1965, quando and&ograve; in scena uno dei confronti pi&ugrave; epici disputati nella massima competizione europea da una squadra italiana.&nbsp;Era la Coppa dei Campioni 1964-65, quella che chiamava i nerazzurri a una complicatissima conferma, in seguito allo storico primo titolo conquistato nell&rsquo;edizione precedente.&nbsp; <h2>Il cammino dell&rsquo;Inter di Herrera e la sconfitta di Liverpool&nbsp;</h2> La Grande Inter di Helenio Herrera approda in semifinale dopo aver fatto fuori Dinamo Bucarest e Rangers. L&rsquo;ultimo ostacolo prima della finalissima &ndash; in programma proprio a San Siro il 27 maggio &ndash; &egrave; il Liverpool di Bill Shankly. La gara d&rsquo;andata si gioca in Inghilterra ed &egrave; totale appannaggio dei Reds, che rispediscono i nerazzurri in Italia con tre pallini sul groppone e una flebile speranza di qualificazione riposta nell&rsquo;unico gol segnato da Mazzola: a San Siro servir&agrave; un miracolo per ribaltare la situazione. <h2>Inter-Liverpool del 12 maggio 1965</h2> Una settimana pi&ugrave; tardi, il 12 maggio 1965, Milano ribolle d&rsquo;attesa per la gara di ritorno. San Siro viene popolato da 76.611 spettatori per un incasso da 160.021.000 di lire: &egrave; record assoluto. La gente nerazzurra accoglie in campo i propri beniamini incitandoli come non mai. L&rsquo;impresa &egrave; molto difficile ma non impossibile: al Mago serve un 3-0 per qualificarsi direttamente, mentre basta una vittoria con due gol di scarto per giocare l&rsquo;eventuale spareggio, che si disputerebbe a Bruxelles il seguente 20 maggio. Sarti; Burgnich, Facchetti; Bedin, Guarneri, Picchi; Jair, Mazzola, Peir&ograve;, Suarez, Corso. Questo l&rsquo;11 della filastrocca scelto da Herrera per rimontare gli inglesi. Capitan Picchi guida i suoi in un&rsquo;atmosfera unica, che si trasforma in bolgia dopo soli 10 minuti di gioco. All&rsquo;8&rsquo; Mariolino Corso si guadagna una punizione dal vertice destro dell&rsquo;area di rigore. &Egrave; lo stesso numero 11 a prendersi carico della battuta e scavalcare la barriera con la sua classica esecuzione a &ldquo;foglia morta&rdquo;, battendo imparabilmente Lawrence. L&rsquo;Inter si riporta cos&igrave; in fretta e furia a centrocampo, senza distrarsi troppo nell&rsquo;esultare, perch&eacute; serve un&rsquo;altra rete per pareggiare il conto. <h2>La prodezza d&rsquo;astuzia di Peir&ograve;</h2> Un minuto pi&ugrave; tardi, su un lancio di Corso per Peir&ograve;, si assiste a un gol storico, rimasto nella memoria di migliaia di appassionati. Il portiere avversario blocca il pallone intercettando il lancio di Mariolino. Apprestandosi al rinvio, fa rimbalzare la sfera a terra un paio di volte. Quando questo sta per essere effettuato, Joquian Peir&ograve; si fionda sulla sfera, la scippa al portiere inglese e la deposita in rete. Tra le inutili proteste dei giocatori del Liverpool &egrave; 2-0 per i nerazzurri. &ldquo;Quel gol? No, non potrei mai dimenticarlo. Ho scordato alcuni particolari, ad esempio non avrei mai detto di essere stato io a lanciare l&rsquo;azione, ma quel che fece Peir&ograve; lo ricordo benissimo, anche perch&eacute; non era un&rsquo;azione abituale per lui. Anzi, non ricordo un suo gol simile neppure in allenamento. Quella prodezza fu importantissima, perch&eacute; ci consent&igrave; di fare una partita attenta, senza scoprirci molto. Dopo meno di dieci minuti infatti eravamo 2 a 0 e ci mancava soltanto un gol&rdquo;. Parole di Sandro Mazzola, che ricorda cos&igrave; la prodezza d&rsquo;astuzia del compagno. Una prodezza alla quale neanche il pi&ugrave; ottimista tra i tifosi nerazzurri avrebbe sperato di assistere dopo soli 10 minuti di gioco: una rete fondamentale che ristabilisce la parit&agrave; con ancora tutta la partita da giocare. <h2>Il gol della remuntada nel segno di Facchetti</h2> Il doppio vantaggio placa la foga nerazzurra, con la squadra che smette di attaccare. &ldquo;Nell&rsquo;intervallo li ho caricati, spiegando loro che per accedere alla finale era indispensabile tornare all&rsquo;attacco&rdquo;, dir&agrave; Herrera a fine gara. Il messaggio viene immediatamente recepito dai suoi ragazzi, che al 17&rsquo; della ripresa portano definitivamente l&rsquo;ago della bilancia dalla loro parte. &Egrave; Giacinto Facchetti, in una delle sue abituali discese offensive, a segnare il gol che scrive la storia. Il leggendario numero 3 nerazzurro buca per la terza volta Lawrence al termine di una magnifica azione corale, grazie a un micidiale destro che si insacca in rete. &Egrave; l&rsquo;apoteosi che porter&agrave; a una lunga festa nella notte milanese. La metropoli verr&agrave; messa sottosopra dai tifosi deliranti di gioia. Le bandiere nerazzurre sventolanti dai caroselli formati da macchine e camion coloreranno la notte milanese, gli inni di gloria sveglieranno tutta la citt&agrave;. Con una remuntada sensazionale l&rsquo;epilogo &egrave; stato scritto: l&rsquo;Inter &egrave; in finale di Coppa dei Campioni per il secondo anno consecutivo, il resto &egrave; storia. &nbsp; &nbsp; &nbsp; &nbsp;

        Pensi a Inter-Liverpool e alla Champions League e subito la memoria viaggia nel tempo, tornando fino al 1965, quando and&ograve; in scena uno dei confronti pi&ugrave; epici disputati nella massima competizione europea da una squadra italiana.&nbsp;Era la Coppa dei Campioni 1964-65, quella che chiamava i nerazzurri a una complicatissima conferma, in seguito allo storico primo titolo conquistato nell&rsquo;edizione precedente.&nbsp; Il cammino dell&rsquo;Inter di Herrera e la sconfitta di Liverpool&nbsp; La Grande Inter di Helenio Herrera approda in semifinale dopo aver fatto fuori Dinamo Bucarest e Rangers. L&rsquo;ultimo ostacolo prima della finalissima &ndash; in programma proprio a San Siro il 27 maggio &ndash; &egrave; il Liverpool di Bill Shankly. La gara d&rsquo;andata si gioca in Inghilterra ed &egrave; totale appannaggio dei Reds, che rispediscono i nerazzurri in Italia con tre pallini sul groppone e una flebile speranza di qualificazione riposta nell&rsquo;unico gol segnato da Mazzola: a San Siro servir&agrave; un miracolo per ribaltare la situazione. Inter-Liverpool del 12 maggio 1965 Una settimana pi&ugrave; tardi, il 12 maggio 1965, Milano ribolle d&rsquo;attesa per la gara di ritorno. San Siro viene popolato da 76.611 spettatori per un incasso da 160.021.000 di lire: &egrave; record assoluto. La gente nerazzurra accoglie in campo i propri beniamini incitandoli come non mai. L&rsquo;impresa &egrave; molto difficile ma non impossibile: al Mago serve un 3-0 per qualificarsi direttamente, mentre basta una vittoria con due gol di scarto per giocare l&rsquo;eventuale spareggio, che si disputerebbe a Bruxelles il seguente 20 maggio. Sarti; Burgnich, Facchetti; Bedin, Guarneri, Picchi; Jair, Mazzola, Peir&ograve;, Suarez, Corso. Questo l&rsquo;11 della filastrocca scelto da Herrera per rimontare gli inglesi. Capitan Picchi guida i suoi in un&rsquo;atmosfera unica, che si trasforma in bolgia dopo soli 10 minuti di gioco. All&rsquo;8&rsquo; Mariolino Corso si guadagna una punizione dal vertice destro dell&rsquo;area di rigore. &Egrave; lo stesso numero 11 a prendersi carico della battuta e scavalcare la barriera con la sua classica esecuzione a &ldquo;foglia morta&rdquo;, battendo imparabilmente Lawrence. L&rsquo;Inter si riporta cos&igrave; in fretta e furia a centrocampo, senza distrarsi troppo nell&rsquo;esultare, perch&eacute; serve un&rsquo;altra rete per pareggiare il conto. La prodezza d&rsquo;astuzia di Peir&ograve; Un minuto pi&ugrave; tardi, su un lancio di Corso per Peir&ograve;, si assiste a un gol storico, rimasto nella memoria di migliaia di appassionati. Il portiere avversario blocca il pallone intercettando il lancio di Mariolino. Apprestandosi al rinvio, fa rimbalzare la sfera a terra un paio di volte. Quando questo sta per essere effettuato, Joquian Peir&ograve; si fionda sulla sfera, la scippa al portiere inglese e la deposita in rete. Tra le inutili proteste dei giocatori del Liverpool &egrave; 2-0 per i nerazzurri. &ldquo;Quel gol? No, non potrei mai dimenticarlo. Ho scordato alcuni particolari, ad esempio non avrei mai detto di essere stato io a lanciare l&rsquo;azione, ma quel che fece Peir&ograve; lo ricordo benissimo, anche perch&eacute; non era un&rsquo;azione abituale per lui. Anzi, non ricordo un suo gol simile neppure in allenamento. Quella prodezza fu importantissima, perch&eacute; ci consent&igrave; di fare una partita attenta, senza scoprirci molto. Dopo meno di dieci minuti infatti eravamo 2 a 0 e ci mancava soltanto un gol&rdquo;. Parole di Sandro Mazzola, che ricorda cos&igrave; la prodezza d&rsquo;astuzia del compagno. Una prodezza alla quale neanche il pi&ugrave; ottimista tra i tifosi nerazzurri avrebbe sperato di assistere dopo soli 10 minuti di gioco: una rete fondamentale che ristabilisce la parit&agrave; con ancora tutta la partita da giocare. Il gol della remuntada nel segno di Facchetti Il doppio vantaggio placa la foga nerazzurra, con la squadra che smette di attaccare. &ldquo;Nell&rsquo;intervallo li ho caricati, spiegando loro che per accedere alla finale era indispensabile tornare all&rsquo;attacco&rdquo;, dir&agrave; Herrera a fine gara. Il messaggio viene immediatamente recepito dai suoi ragazzi, che al 17&rsquo; della ripresa portano definitivamente l&rsquo;ago della bilancia dalla loro parte. &Egrave; Giacinto Facchetti, in una delle sue abituali discese offensive, a segnare il gol che scrive la storia. Il leggendario numero 3 nerazzurro buca per la terza volta Lawrence al termine di una magnifica azione corale, grazie a un micidiale destro che si insacca in rete. &Egrave; l&rsquo;apoteosi che porter&agrave; a una lunga festa nella notte milanese. La metropoli verr&agrave; messa sottosopra dai tifosi deliranti di gioia. Le bandiere nerazzurre sventolanti dai caroselli formati da macchine e camion coloreranno la notte milanese, gli inni di gloria sveglieranno tutta la citt&agrave;. Con una remuntada sensazionale l&rsquo;epilogo &egrave; stato scritto: l&rsquo;Inter &egrave; in finale di Coppa dei Campioni per il secondo anno consecutivo, il resto &egrave; storia. &nbsp; &nbsp; &nbsp; &nbsp;       

La squadra allenata da Helenio Herrera fu protagonista di una splendida rimonta contro i Reds prima di alzare il trofeo nella finale contro il Benfica

Inter-Liverpool: la remuntada nerazzurra nella Coppa Campioni 1964-65

Ramon Diaz si &egrave; fatto conoscere da tutto il mondo giocando al fianco di un giovanissimo Maradona, in coppia con il quale ha trascinato la selezione argentina alla conquista del Mondiale Under 20 nel 1979. Scuola River, vivr&agrave; in Europa gli anni pi&ugrave; importanti della sua carriera, abbracciando quasi interamente i mitici anni &rsquo;80 della Serie A. In Italia inizi&ograve; con il Napoli e chiuse con l&rsquo;Inter, due esperienze lontane, non solo nel tempo, ma soprattutto dal punto di vista delle prestazioni. <h2>Caratteristiche tecniche</h2> Diaz nasce come centravanti puro, un numero 9 che ha dovuto sopperire al fisico non erculeo con la grande tecnica e, soprattutto, con la devastante velocit&agrave;. Mancino naturale, spesso prendeva palla e partiva da lontano puntando la porta a testa bassa, dimostrandosi un fenomenale contropiedista. Con la sua rapidit&agrave; saltava gli avversari come birilli per poi scegliere tra la conclusione o l&rsquo;assistenza per i compagni. Nonostante i suoi 171 cm le squadre spesso si affidavano a lui nella costruzione del gioco, visti i suoi piedi raffinati che lo rendevano anche un elegante centravanti di manovra. Era anche uno specialista sui calci di punizione. <h2>La deludente esperienza a Napoli</h2> Il presidente Ferlaino lo sceglie per guidare l&rsquo;attacco azzurro nel 1982, secondo straniero in rosa dopo l&rsquo;olandese Ruud Krol, giunto sotto l&rsquo;ombra del Vesuvio due anni prima con la riapertura delle frontiere. Un carattere da sudamericano atipico quello di Diaz, che cozza un pochino con l&rsquo;atmosfera che si respira a Napoli. &Egrave; nato a La Rioja, una citt&agrave; che si trova ai piedi delle Ande, vicino al confine con il Cile, anche se per motivi calcistici si &egrave; poi trasferito a Buenos Aires, dove col River ha vinto gi&agrave; due campionati. La sua mentalit&agrave; &egrave; chiusa e riservata, forse anche per questo in una citt&agrave; come Napoli non riuscir&agrave; a ripagare le aspettative. C&rsquo;&egrave; una testimonianza di Giuseppe Bruscolotti che lo descrive come un corpo estraneo rispetto al gruppo di quella stagione conclusa con un anonimo decimo posto. &ldquo;Palo &lsquo;e fierro&rdquo; lo accusava di non sudare per la maglia e prov&ograve; addirittura a &ldquo;scuoterlo&rdquo; con le maniere forti. A Napoli lo ribattezzarono &ldquo;puntero triste&rdquo; e Diaz salut&ograve; tutti gi&agrave; al termine della prima stagione con un gretto bottino: due gol in Coppa Uefa, tre in campionato e tre in Coppa Italia. <h2>Le positive annate all'Avellino e alla Fiorentina</h2> Con l&rsquo;obiettivo di rilanciarsi visse un&rsquo;esperienza totalmente diversa proprio a pochi chilometri da Napoli. Fu infatti l&rsquo;Avellino a ingaggiarlo. La voglia di rivalsa era tanta, sapeva di dover presto cancellare le delusioni azzurre. In Irpinia si mise tutto alle spalle, prendendo parte a tre campionati indimenticabili coronati da altrettante salvezze. Per i tifosi biancoverdi divenne presto un idolo, gi&agrave; nella partita d&rsquo;esordio in campionato, il celebre Avellino-Milan 4-0, quando subentrato sul 3-0 al 79&rsquo; mise a sedere Tassotti regalando a Franco Colomba l&rsquo;assist per il poker. Da ricordare il pi&ugrave; classico dei gol dell&rsquo;ex, una micidiale punizione che decise il derby contro il Napoli giocato al Partenio. &ldquo;El Pelado&rdquo;, come lo chiamavano in Argentina, &egrave; l&rsquo;unico calciatore della storia dell&rsquo;Avellino ad aver concluso un campionato di A in doppia cifra. Le 10 reti segnate nel 1985-86 lo portano a Firenze, con il conte Pontello che sborsa 10 miliardi per gli Irpini e 700 milioni l&rsquo;anno per il calciatore. Due stagioni positive condite da 22 reti totali lo accompagnano all&rsquo;Inter, dove vivr&agrave; la sua pi&ugrave; importante esperienza italiana. <h2>Lo scudetto dei record con Trapattoni all'Inter</h2> Viene scelto dai nerazzurri dopo la rinuncia all&rsquo;ingaggio di Rabah Madjer, un acquisto che sembrava fatto e che salt&ograve; per via delle condizioni fisiche che alla fine non convinsero i dirigenti meneghini. A Milano forma il micidiale tandem offensivo con Aldo Serena, una coppia complementare come poche che si rivela fondamentale per la conquista dello storico scudetto dei record (34 gol in due). Trapattoni non rinuncia mai al &ldquo;Pelado&rdquo;, schierandolo pi&ugrave; di tutti in campionato (33 presenze al pari del portiere Zenga). Diaz lo ripaga con 12 reti prima di salutare tutti, sostituito come terzo straniero in rosa dal tedesco Klinsmann. Lasciato il Belpaese gioca due stagioni al Monaco in coppia con un giovane George Weah, prima di tornare al River e di chiudere l&rsquo;avventura da calciatore in Giappone con gli Yokohama Marinos. <h2>In Nazionale una storia finita troppo presto</h2> Sbocciato giovanissimo in patria, insieme a Maradona &egrave; il trascinatore assoluto dell&rsquo;Argentina che trionfa nel Mondiale U20 del 1979. Una tripletta nel girone, una nei quarti; un sigillo in semifinale e uno in finale: con otto centri in sei gare &egrave; il capocannoniere della competizione. In patria sono sicuri: sono nate due stelle.?&ldquo;El Flaco&rdquo; Menotti non perde tempo, aggregando subito?Diaz alla Nazionale maggiore. Debutta nel settembre successivo in amichevole contro la Germania e da l&igrave; diventa titolare fisso fino al 1982, anno del Mundial. Segna 10 reti in 24 presenze di cui una proprio in Spagna, bellissima ma inutile nella sconfitta del Sarri&agrave; contro il Brasile. Incredibilmente &egrave; proprio quello l&rsquo;ultimo acuto del &ldquo;Pelado&rdquo; in Nazionale, a soli 23 anni, con tutta la carriera davanti. Il tandem che sembrava dover rappresentare il futuro del calcio argentino non si vedr&agrave; pi&ugrave;, in quanto proprio Diego da l&igrave; in poi vorr&agrave; gestire il flusso delle convocazioni, spalleggiato dal nuovo ct Bilardo. Dopo aver duettato divinamente, quel feeling tra Maradona e Diaz s&rsquo;incrina nel Mondiale spagnolo. A rimetterci, ovviamente, sar&agrave; il?&ldquo;puntero triste&rdquo;. &nbsp; &nbsp; &nbsp; &nbsp;

        Ramon Diaz si &egrave; fatto conoscere da tutto il mondo giocando al fianco di un giovanissimo Maradona, in coppia con il quale ha trascinato la selezione argentina alla conquista del Mondiale Under 20 nel 1979. Scuola River, vivr&agrave; in Europa gli anni pi&ugrave; importanti della sua carriera, abbracciando quasi interamente i mitici anni &rsquo;80 della Serie A. In Italia inizi&ograve; con il Napoli e chiuse con l&rsquo;Inter, due esperienze lontane, non solo nel tempo, ma soprattutto dal punto di vista delle prestazioni. Caratteristiche tecniche Diaz nasce come centravanti puro, un numero 9 che ha dovuto sopperire al fisico non erculeo con la grande tecnica e, soprattutto, con la devastante velocit&agrave;. Mancino naturale, spesso prendeva palla e partiva da lontano puntando la porta a testa bassa, dimostrandosi un fenomenale contropiedista. Con la sua rapidit&agrave; saltava gli avversari come birilli per poi scegliere tra la conclusione o l&rsquo;assistenza per i compagni. Nonostante i suoi 171 cm le squadre spesso si affidavano a lui nella costruzione del gioco, visti i suoi piedi raffinati che lo rendevano anche un elegante centravanti di manovra. Era anche uno specialista sui calci di punizione. La deludente esperienza a Napoli Il presidente Ferlaino lo sceglie per guidare l&rsquo;attacco azzurro nel 1982, secondo straniero in rosa dopo l&rsquo;olandese Ruud Krol, giunto sotto l&rsquo;ombra del Vesuvio due anni prima con la riapertura delle frontiere. Un carattere da sudamericano atipico quello di Diaz, che cozza un pochino con l&rsquo;atmosfera che si respira a Napoli. &Egrave; nato a La Rioja, una citt&agrave; che si trova ai piedi delle Ande, vicino al confine con il Cile, anche se per motivi calcistici si &egrave; poi trasferito a Buenos Aires, dove col River ha vinto gi&agrave; due campionati. La sua mentalit&agrave; &egrave; chiusa e riservata, forse anche per questo in una citt&agrave; come Napoli non riuscir&agrave; a ripagare le aspettative. C&rsquo;&egrave; una testimonianza di Giuseppe Bruscolotti che lo descrive come un corpo estraneo rispetto al gruppo di quella stagione conclusa con un anonimo decimo posto. &ldquo;Palo &lsquo;e fierro&rdquo; lo accusava di non sudare per la maglia e prov&ograve; addirittura a &ldquo;scuoterlo&rdquo; con le maniere forti. A Napoli lo ribattezzarono &ldquo;puntero triste&rdquo; e Diaz salut&ograve; tutti gi&agrave; al termine della prima stagione con un gretto bottino: due gol in Coppa Uefa, tre in campionato e tre in Coppa Italia. Le positive annate all'Avellino e alla Fiorentina Con l&rsquo;obiettivo di rilanciarsi visse un&rsquo;esperienza totalmente diversa proprio a pochi chilometri da Napoli. Fu infatti l&rsquo;Avellino a ingaggiarlo. La voglia di rivalsa era tanta, sapeva di dover presto cancellare le delusioni azzurre. In Irpinia si mise tutto alle spalle, prendendo parte a tre campionati indimenticabili coronati da altrettante salvezze. Per i tifosi biancoverdi divenne presto un idolo, gi&agrave; nella partita d&rsquo;esordio in campionato, il celebre Avellino-Milan 4-0, quando subentrato sul 3-0 al 79&rsquo; mise a sedere Tassotti regalando a Franco Colomba l&rsquo;assist per il poker. Da ricordare il pi&ugrave; classico dei gol dell&rsquo;ex, una micidiale punizione che decise il derby contro il Napoli giocato al Partenio. &ldquo;El Pelado&rdquo;, come lo chiamavano in Argentina, &egrave; l&rsquo;unico calciatore della storia dell&rsquo;Avellino ad aver concluso un campionato di A in doppia cifra. Le 10 reti segnate nel 1985-86 lo portano a Firenze, con il conte Pontello che sborsa 10 miliardi per gli Irpini e 700 milioni l&rsquo;anno per il calciatore. Due stagioni positive condite da 22 reti totali lo accompagnano all&rsquo;Inter, dove vivr&agrave; la sua pi&ugrave; importante esperienza italiana. Lo scudetto dei record con Trapattoni all'Inter Viene scelto dai nerazzurri dopo la rinuncia all&rsquo;ingaggio di Rabah Madjer, un acquisto che sembrava fatto e che salt&ograve; per via delle condizioni fisiche che alla fine non convinsero i dirigenti meneghini. A Milano forma il micidiale tandem offensivo con Aldo Serena, una coppia complementare come poche che si rivela fondamentale per la conquista dello storico scudetto dei record (34 gol in due). Trapattoni non rinuncia mai al &ldquo;Pelado&rdquo;, schierandolo pi&ugrave; di tutti in campionato (33 presenze al pari del portiere Zenga). Diaz lo ripaga con 12 reti prima di salutare tutti, sostituito come terzo straniero in rosa dal tedesco Klinsmann. Lasciato il Belpaese gioca due stagioni al Monaco in coppia con un giovane George Weah, prima di tornare al River e di chiudere l&rsquo;avventura da calciatore in Giappone con gli Yokohama Marinos. In Nazionale una storia finita troppo presto Sbocciato giovanissimo in patria, insieme a Maradona &egrave; il trascinatore assoluto dell&rsquo;Argentina che trionfa nel Mondiale U20 del 1979. Una tripletta nel girone, una nei quarti; un sigillo in semifinale e uno in finale: con otto centri in sei gare &egrave; il capocannoniere della competizione. In patria sono sicuri: sono nate due stelle.?&ldquo;El Flaco&rdquo; Menotti non perde tempo, aggregando subito?Diaz alla Nazionale maggiore. Debutta nel settembre successivo in amichevole contro la Germania e da l&igrave; diventa titolare fisso fino al 1982, anno del Mundial. Segna 10 reti in 24 presenze di cui una proprio in Spagna, bellissima ma inutile nella sconfitta del Sarri&agrave; contro il Brasile. Incredibilmente &egrave; proprio quello l&rsquo;ultimo acuto del &ldquo;Pelado&rdquo; in Nazionale, a soli 23 anni, con tutta la carriera davanti. Il tandem che sembrava dover rappresentare il futuro del calcio argentino non si vedr&agrave; pi&ugrave;, in quanto proprio Diego da l&igrave; in poi vorr&agrave; gestire il flusso delle convocazioni, spalleggiato dal nuovo ct Bilardo. Dopo aver duettato divinamente, quel feeling tra Maradona e Diaz s&rsquo;incrina nel Mondiale spagnolo. A rimetterci, ovviamente, sar&agrave; il?&ldquo;puntero triste&rdquo;. &nbsp; &nbsp; &nbsp; &nbsp;       

Portato in Italia da Ferlaino nel 1982, durante la sua esperienza in Serie A gioc&ograve; anche con la Fiorentina. Con Aldo Serena form&ograve; il tandem d'attacco dello scudetto dei record nerazzurro

Ramon Diaz: "puntero triste" a Napoli, idolo all'Avellino e all'Inter

Da Vieri, Crespo e Favalli a Hernanes e Candreva, passando per i pi&ugrave; recenti De Vrij e Correa: &egrave; davvero sterminata la lista dei calciatori che sono passati dalla Lazio all&rsquo;Inter. Nel novero dei giocatori che hanno percorso la A1 Roma-Milano, per&ograve;, un nome spicca su tutti: Dejan Stankovic. Il centrocampista serbo, portato in Italia dalla Lazio nell&rsquo;estate del 1998, venne prelevato dai biancocelesti dopo l'ampio dossier raccolto dall&rsquo;uomo mercato di fiducia Vincenzo Proietti Farinelli. La societ&agrave; di Cragnotti vers&ograve; 24 miliardi di lire nelle casse della Stella Rossa e Deki sbarc&ograve; in Italia. Il calciatore dimostr&ograve; subito di che pasta era fatto e bagn&ograve; il debutto in Serie A segnando al Piacenza. Ben presto divenne una pedina fondamentale prima per Eriksson e poi per Zoff, Zaccheroni e Mancini. Stankovic rappresentava un fiore all&rsquo;occhiello della Lazio pi&ugrave; bella e vincente di sempre. Nei suoi anni nella Capitale riusc&igrave; a mettere in bacheca uno scudetto, una Coppa Italia, due Supercoppe italiane, una Coppa delle Coppe e una Supercoppa Uefa. <h2>Il passaggio all&rsquo;Inter e i dettagli dell&rsquo;accordo</h2> Nel calciomercato invernale del 2004, per&ograve;, con la societ&agrave; in piena emergenza, la sua esperienza laziale giunse al capolinea e il passaggio nella Milano nerazzurra divenne realt&agrave;. A dire il vero si tratt&ograve; di una trattativa complessa, aperta a ogni soluzione. Il 30 gennaio 2004, infatti, il Corriere dello Sport-Stadio in prima pagina parlava di un possibile rinnovo con la Lazio. Qualche ora dopo, per&ograve;, le parti avevano trovato un accordo: 4 milioni di euro ai biancocelesti e la compropriet&agrave; di Pandev da luglio. Una trattativa chiusa al fotofinish, con i dirigenti delle due societ&agrave; che depositarono in Lega il contratto appena 8 minuti prima delle 13, orario di chiusura del mercato di riparazione. Sciolte le ultime difficolt&agrave;, legate alla richiesta da parte dell'Inter di avere come contropartita un'opzione sulla cessione del difensore olandese Jaap Stam a fine stagione, il calciatore fu presentato alla stampa dall&rsquo;allora dg Massimo Moratti e dal presidente Giacinto Facchetti. Nel primo pomeriggio del 31 gennaio, il Drago &ndash; come venne soprannominato all&rsquo;Inter - posava davanti ai giornalisti e ai fotografi con la maglia nerazzurra numero 11. "Finalmente qui &ndash; esord&igrave;-, non c'&egrave; altro da aggiungere. &Egrave; stata dura, avevo una grandissima voglia di arrivare all'Inter e adesso devo dire un grazie alla Lazio che mi ha fatto diventare un giocatore e un uomo&rdquo;. Il passaggio di Stankovic dalla Lazio ai Bauscia si rivel&ograve; immediatamente un affare azzeccato per i nerazzurri, tanto da essere inserito dal sito ufficiale della Uefa tra le operazioni migliori della storia del calciomercato invernale. Dall&rsquo;altro lato, la Lazio risparmi&ograve; 1,8 milioni lordi per l&rsquo;ingaggio che il serbo avrebbe dovuto percepire dal primo febbraio a fine giugno, Dopo anni meravigliosi, Dejan fece anche un ultimo regalo all&rsquo;ormai ex squadra: firm&ograve; la proroga al piano Baraldi e, accettando la conversione di cinque mesi di stipendi arretrati in azioni per un controvalore di circa due milioni di euro, partecip&ograve; anche lui all&rsquo;aumento di capitale della Lazio, potendosi cos&igrave; considerare un calciatore-azionista. <h2>Stankovic e l&rsquo;epopea in nerazzurro: dai trionfi con Mancini al Triplete con Mourinho&ensp;</h2> Nonostante le pressioni di Mancini, che chiese alla Lazio di convincere Stankovic a tutti i costi, il centrocampista era dunque un nuovo calciatore dell&rsquo;Inter. In realt&agrave; quello tra Deki e l&rsquo;attuale Ct dell&rsquo;Italia non fu un addio, ma semplicemente un arrivederci. Appena sei mesi dopo, infatti, il Mancio divenne il nuovo allenatore nerazzurro, portando la squadra a vincere tre scudetti, due Coppe Italia e due Supercoppe italiane nel giro di quattro anni. La storia di Stankovic e della societ&agrave; meneghina, per&ograve;, cambi&ograve; nell&rsquo;estate del 2008, quando ad Appiano Gentile sbarc&ograve; un certo Jos&eacute; Mourinho. Con lo Special One in panchina l&rsquo;Inter divenne una potenza, non solo nazionale ma mondiale. Il Genio di Setubal convinse i propri giocatori che conquistare l&rsquo;Europa non fosse pi&ugrave; una Mission Impossible. Al primo anno arrivarono Supercoppa italiana e scudetto, la stagione seguente, quella 2009-10, la gloria eterna. L&rsquo;Inter di Dejan Stankovic, tra i pupilli del portoghese, conquist&ograve; il Triplete (Scudetto, Coppa Italia e Champions League). Il serbo rester&agrave; ai nerazzurri altri tre anni chiudendo a Milano la sua carriera da calciatore. Nella lettera di commiato scritta ai tifosi della Beneamata il 6 luglio 2013, il Drago salutava cos&igrave;: &ldquo;Sono stati i dieci anni pi&ugrave; importanti della mia vita. Anni in cui sono cresciuto prima come uomo e poi, con mio grandissimo piacere, come calciatore. Voglio dirvi che rimarrete nel mio cuore per sempre. Ho avuto l'onore di indossare questi colori che rimarranno per sempre sulla mia pelle, non li potr&ograve; mai cancellare, nessuno potr&agrave; mai cancellarli. Con tutto il mio amore. Dejan Stankovic&rdquo;. Un affetto e un amore ricambiato dai tifosi dell&rsquo;Inter che, nel 2019, lo hanno inserito nella Hall of Fame nella categoria &ldquo;Centrocampisti&rdquo;. &nbsp;

        Da Vieri, Crespo e Favalli a Hernanes e Candreva, passando per i pi&ugrave; recenti De Vrij e Correa: &egrave; davvero sterminata la lista dei calciatori che sono passati dalla Lazio all&rsquo;Inter. Nel novero dei giocatori che hanno percorso la A1 Roma-Milano, per&ograve;, un nome spicca su tutti: Dejan Stankovic. Il centrocampista serbo, portato in Italia dalla Lazio nell&rsquo;estate del 1998, venne prelevato dai biancocelesti dopo l'ampio dossier raccolto dall&rsquo;uomo mercato di fiducia Vincenzo Proietti Farinelli. La societ&agrave; di Cragnotti vers&ograve; 24 miliardi di lire nelle casse della Stella Rossa e Deki sbarc&ograve; in Italia. Il calciatore dimostr&ograve; subito di che pasta era fatto e bagn&ograve; il debutto in Serie A segnando al Piacenza. Ben presto divenne una pedina fondamentale prima per Eriksson e poi per Zoff, Zaccheroni e Mancini. Stankovic rappresentava un fiore all&rsquo;occhiello della Lazio pi&ugrave; bella e vincente di sempre. Nei suoi anni nella Capitale riusc&igrave; a mettere in bacheca uno scudetto, una Coppa Italia, due Supercoppe italiane, una Coppa delle Coppe e una Supercoppa Uefa. Il passaggio all&rsquo;Inter e i dettagli dell&rsquo;accordo Nel calciomercato invernale del 2004, per&ograve;, con la societ&agrave; in piena emergenza, la sua esperienza laziale giunse al capolinea e il passaggio nella Milano nerazzurra divenne realt&agrave;. A dire il vero si tratt&ograve; di una trattativa complessa, aperta a ogni soluzione. Il 30 gennaio 2004, infatti, il Corriere dello Sport-Stadio in prima pagina parlava di un possibile rinnovo con la Lazio. Qualche ora dopo, per&ograve;, le parti avevano trovato un accordo: 4 milioni di euro ai biancocelesti e la compropriet&agrave; di Pandev da luglio. Una trattativa chiusa al fotofinish, con i dirigenti delle due societ&agrave; che depositarono in Lega il contratto appena 8 minuti prima delle 13, orario di chiusura del mercato di riparazione. Sciolte le ultime difficolt&agrave;, legate alla richiesta da parte dell'Inter di avere come contropartita un'opzione sulla cessione del difensore olandese Jaap Stam a fine stagione, il calciatore fu presentato alla stampa dall&rsquo;allora dg Massimo Moratti e dal presidente Giacinto Facchetti. Nel primo pomeriggio del 31 gennaio, il Drago &ndash; come venne soprannominato all&rsquo;Inter - posava davanti ai giornalisti e ai fotografi con la maglia nerazzurra numero 11. "Finalmente qui &ndash; esord&igrave;-, non c'&egrave; altro da aggiungere. &Egrave; stata dura, avevo una grandissima voglia di arrivare all'Inter e adesso devo dire un grazie alla Lazio che mi ha fatto diventare un giocatore e un uomo&rdquo;. Il passaggio di Stankovic dalla Lazio ai Bauscia si rivel&ograve; immediatamente un affare azzeccato per i nerazzurri, tanto da essere inserito dal sito ufficiale della Uefa tra le operazioni migliori della storia del calciomercato invernale. Dall&rsquo;altro lato, la Lazio risparmi&ograve; 1,8 milioni lordi per l&rsquo;ingaggio che il serbo avrebbe dovuto percepire dal primo febbraio a fine giugno, Dopo anni meravigliosi, Dejan fece anche un ultimo regalo all&rsquo;ormai ex squadra: firm&ograve; la proroga al piano Baraldi e, accettando la conversione di cinque mesi di stipendi arretrati in azioni per un controvalore di circa due milioni di euro, partecip&ograve; anche lui all&rsquo;aumento di capitale della Lazio, potendosi cos&igrave; considerare un calciatore-azionista. Stankovic e l&rsquo;epopea in nerazzurro: dai trionfi con Mancini al Triplete con Mourinho&ensp; Nonostante le pressioni di Mancini, che chiese alla Lazio di convincere Stankovic a tutti i costi, il centrocampista era dunque un nuovo calciatore dell&rsquo;Inter. In realt&agrave; quello tra Deki e l&rsquo;attuale Ct dell&rsquo;Italia non fu un addio, ma semplicemente un arrivederci. Appena sei mesi dopo, infatti, il Mancio divenne il nuovo allenatore nerazzurro, portando la squadra a vincere tre scudetti, due Coppe Italia e due Supercoppe italiane nel giro di quattro anni. La storia di Stankovic e della societ&agrave; meneghina, per&ograve;, cambi&ograve; nell&rsquo;estate del 2008, quando ad Appiano Gentile sbarc&ograve; un certo Jos&eacute; Mourinho. Con lo Special One in panchina l&rsquo;Inter divenne una potenza, non solo nazionale ma mondiale. Il Genio di Setubal convinse i propri giocatori che conquistare l&rsquo;Europa non fosse pi&ugrave; una Mission Impossible. Al primo anno arrivarono Supercoppa italiana e scudetto, la stagione seguente, quella 2009-10, la gloria eterna. L&rsquo;Inter di Dejan Stankovic, tra i pupilli del portoghese, conquist&ograve; il Triplete (Scudetto, Coppa Italia e Champions League). Il serbo rester&agrave; ai nerazzurri altri tre anni chiudendo a Milano la sua carriera da calciatore. Nella lettera di commiato scritta ai tifosi della Beneamata il 6 luglio 2013, il Drago salutava cos&igrave;: &ldquo;Sono stati i dieci anni pi&ugrave; importanti della mia vita. Anni in cui sono cresciuto prima come uomo e poi, con mio grandissimo piacere, come calciatore. Voglio dirvi che rimarrete nel mio cuore per sempre. Ho avuto l'onore di indossare questi colori che rimarranno per sempre sulla mia pelle, non li potr&ograve; mai cancellare, nessuno potr&agrave; mai cancellarli. Con tutto il mio amore. Dejan Stankovic&rdquo;. Un affetto e un amore ricambiato dai tifosi dell&rsquo;Inter che, nel 2019, lo hanno inserito nella Hall of Fame nella categoria &ldquo;Centrocampisti&rdquo;. &nbsp;       

Il centrocampista serbo si trasfer&igrave; dalla Capitale ai nerazzurri nel calciomercato invernale del 2004: a Cragnotti 4 milioni di euro pi&ugrave; la compropriet&agrave; di Pandev

Stankovic e il clamoroso passaggio dalla Lazio all’Inter al “fotofinish”

Helenio Herrera approda sulla sponda nerazzurra di Milano nell&rsquo;estate del 1960. Angelo Moratti, rimasto fortemente colpito dall&rsquo;allenatore dopo averlo incontrato in Coppa delle Fiere, lo vuole assolutamente sulla panchina dell&rsquo;Inter, e cos&igrave; fa. Una delle storie pi&ugrave; celebri del pallone nostrano, quella del lungo e felice matrimonio tra il Mago e la Beneamata, inizia il 25 settembre del 1960, sul campo dell&rsquo;Atalanta.<o:p></o:p><o:p>&nbsp;</o:p> <h2>La prima uscita trionfale del Mago<o:p></o:p></h2> Utilizzando una perifrasi proveniente dal mondo del cinema, vittima ormai di una certa inflazione in casi come questo, potremmo dire &ldquo;buona la prima&rdquo; per Herrera. E a buon diritto, visto che la sua Inter ne rifila ben 5 alla malcapitata Atalanta. Bisogna dire ad onor del vero, che i padroni di casa arrivano all&rsquo;inizio del campionato non in ottima forma: gi&agrave; orfani di Favini, Boccardi e Longoni, dopo appena 7 minuti di gioco si trovano a fare i conti con il forfait di Maschio, faro del reparto offensivo, per un problema muscolare alla coscia sinistra. Senza il suo giocatore di maggior estro, i bergamaschi si ritrovano in grande difficolt&agrave;, facendo enorme fatica a sviluppare azioni pericolose in avanti. I nerazzurri dall&rsquo;altra parte sono invece in stato di grazia: la mano del Mago si vede sin da subito. Dopo appena 20 minuti infatti Firmani la sblocca portando avanti gli ospiti, prima di suggellare il vantaggio appena 20 minuti dopo, con la sua seconda rete. Gli orobici non riescono a tenere e vanno sotto di tre gol poco prima dell&rsquo;intervallo, questa volta colpiti dalla freccia di Angelillo. <o:p></o:p> <h2>La tripletta di Firmani e il gol della bandiera<o:p></o:p></h2> La ripresa diventa una formalit&agrave;, anche se i nerazzurri inizialmente non si fermano: appena tornati in campo Firmani sigla la tripletta personale e qualche minuto dopo Corso segna il 5-0. A questo punto Herrera lascia tirare i remi in barca ai suoi, dopo aver largamente acquisito il risultato. L&rsquo;attenzione cala inevitabilmente e al 24&rsquo; c&rsquo;&egrave; anche spazio per il pi&ugrave; classico dei gol della bandiera per gli orobici, segnato da Magistrelli, unico spunto positivo nella tremenda giornata atalantina. <o:p></o:p>

        Helenio Herrera approda sulla sponda nerazzurra di Milano nell&rsquo;estate del 1960. Angelo Moratti, rimasto fortemente colpito dall&rsquo;allenatore dopo averlo incontrato in Coppa delle Fiere, lo vuole assolutamente sulla panchina dell&rsquo;Inter, e cos&igrave; fa. Una delle storie pi&ugrave; celebri del pallone nostrano, quella del lungo e felice matrimonio tra il Mago e la Beneamata, inizia il 25 settembre del 1960, sul campo dell&rsquo;Atalanta.&nbsp; La prima uscita trionfale del Mago Utilizzando una perifrasi proveniente dal mondo del cinema, vittima ormai di una certa inflazione in casi come questo, potremmo dire &ldquo;buona la prima&rdquo; per Herrera. E a buon diritto, visto che la sua Inter ne rifila ben 5 alla malcapitata Atalanta. Bisogna dire ad onor del vero, che i padroni di casa arrivano all&rsquo;inizio del campionato non in ottima forma: gi&agrave; orfani di Favini, Boccardi e Longoni, dopo appena 7 minuti di gioco si trovano a fare i conti con il forfait di Maschio, faro del reparto offensivo, per un problema muscolare alla coscia sinistra. Senza il suo giocatore di maggior estro, i bergamaschi si ritrovano in grande difficolt&agrave;, facendo enorme fatica a sviluppare azioni pericolose in avanti. I nerazzurri dall&rsquo;altra parte sono invece in stato di grazia: la mano del Mago si vede sin da subito. Dopo appena 20 minuti infatti Firmani la sblocca portando avanti gli ospiti, prima di suggellare il vantaggio appena 20 minuti dopo, con la sua seconda rete. Gli orobici non riescono a tenere e vanno sotto di tre gol poco prima dell&rsquo;intervallo, questa volta colpiti dalla freccia di Angelillo.  La tripletta di Firmani e il gol della bandiera La ripresa diventa una formalit&agrave;, anche se i nerazzurri inizialmente non si fermano: appena tornati in campo Firmani sigla la tripletta personale e qualche minuto dopo Corso segna il 5-0. A questo punto Herrera lascia tirare i remi in barca ai suoi, dopo aver largamente acquisito il risultato. L&rsquo;attenzione cala inevitabilmente e al 24&rsquo; c&rsquo;&egrave; anche spazio per il pi&ugrave; classico dei gol della bandiera per gli orobici, segnato da Magistrelli, unico spunto positivo nella tremenda giornata atalantina.        

L&rsquo;esordio trionfale del leggendario tecnico argentino sulla panchina nerazzurra fu proprio a Bergamo contro gli orobici il 25 settembre 1960

Atalanta-Inter, la prima del Mago Herrera in Serie A finì 1-5

La sfida pi&ugrave; giocata della storia del calcio nostrano, la classica per eccellenza: il derby d&rsquo;Italia tra Inter e Juventus. Quantomeno curioso il fatto che nella miriade di sfide le due squadre si siano affrontate una sola volta nella Supercoppa Italiana. Nelle 33 precedenti edizioni del torneo che vede affrontarsi la vincente del campionato e quella della Coppa Italia, nelle quali i bianconeri primeggiano nell&rsquo;albo d&rsquo;oro con 9 successi e i nerazzurri si trovano al terzo posto al pari della Lazio con 5, l&rsquo;unico precedente &egrave; andato in scena nel 2005, quando la Juve vincitrice dello scudetto &ndash; in seguito revocato &ndash; sfidava l&rsquo;Inter detentrice della Coppa Italia.&nbsp; <h2>La finale di Supercoppa Italiana 2005&nbsp;</h2> &Egrave; il 20 agosto 2005 quando per la quarta (e ultima) volta lo Stadio Delle Alpi di Torino ospita la finale della Supercoppa Italiana. Il campionato &egrave; alle porte, manca una settimana, ma Juventus e Inter gi&agrave; si giocano il primo grande trofeo stagionale. Sono due squadre zeppe di campioni. L&rsquo;allenatore bianconero Fabio Capello opta per un 4-4-2: manca il portiere titolare Buffon, infortunatosi in uno scontro con il milanista Kaka durante il Trofeo Berlusconi &ndash; a seguito dell&rsquo;incidente il Milan ha &ldquo;risarcito&rdquo; i bianconeri con il prestito di Abbiati, che per&ograve; si accomoda in panchina &ndash; cos&igrave;, davanti alla linea difensiva composta da Zebina, Kovac, Cannavaro e Zambrotta, il portiere &egrave; Chimenti; a centrocampo la diga composta da Emerson e Viera, con Camoranesi e Nedved sulle fasce; davanti Trezeguet fa coppia con Ibrahimovic, preferito a Del Piero. Risponde il tecnico nerazzurro Roberto Mancini schierandosi a specchio: Toldo tra i pali; Zanetti, Cordoba, Materazzi e Favalli in difesa; Veron e Cambiasso a centrocampo, Stankovic e Ze Maria sulle corsie; l&rsquo;attacco &egrave; affidato alla coppia Martins-Adriano. <h2>La partita decisa ai supplementari da Veron</h2> Nella prima fase di gara le due squadre non trovano sbocchi offensivi affidandosi soprattutto alle conclusioni dalla distanza. Il primo vero pericolo &egrave; per la porta juventina, con Zebina che deve ringraziare Zambrotta, autore di un grande salvataggio sul tentativo di autogol del francese. Al 43&rsquo; gol annullato ingiustamente alla Juve per un fuorigioco di Trezeguet, mentre a inizio ripresa Ibra va vicinissimo al bersaglio grosso con una fucilata che lambisce il palo. Al 57&rsquo; ancora Juve pericolosa con il colpo di testa di Vieira che colpisce in pieno il palo alla sinistra di Toldo. Per un avvio di ripresa molto pi&ugrave; avvincente rispetto al primo tempo, risponde l&rsquo;Inter con Adriano che si fa neutralizzare la conclusione da Chimenti. Entrano Samuel e Pizarro &ndash; nuovo acquisto di Moratti &ndash; al posto di Materazzi e Ze Maria tra i nerazzurri, Del Piero rileva Camoranesi tra i bianconeri. Proprio sui piedi del 10 juventino capita la grande chance, malamente sprecata da Pinturicchio. I 90 minuti si chiudono a reti bianche, protraendo cos&igrave; la gara ai tempi supplementari. Al 95&rsquo; il gol che decide la partita. Pizarro lancia in profondit&agrave; Adriano, l&rsquo;attaccante difende palla sulla linea di fondo, si gira e vede l&rsquo;inserimento di Veron. L&rsquo;argentino riceve e di prima intenzione buca Chimenti sul primo palo. L&rsquo;Inter vince cos&igrave; la seconda Supercoppa della sua storia, battendo per la prima volta la Juve in una finale in seguito alle sconfitte in Coppa Italia datate 1959 e 1965.

        La sfida pi&ugrave; giocata della storia del calcio nostrano, la classica per eccellenza: il derby d&rsquo;Italia tra Inter e Juventus. Quantomeno curioso il fatto che nella miriade di sfide le due squadre si siano affrontate una sola volta nella Supercoppa Italiana. Nelle 33 precedenti edizioni del torneo che vede affrontarsi la vincente del campionato e quella della Coppa Italia, nelle quali i bianconeri primeggiano nell&rsquo;albo d&rsquo;oro con 9 successi e i nerazzurri si trovano al terzo posto al pari della Lazio con 5, l&rsquo;unico precedente &egrave; andato in scena nel 2005, quando la Juve vincitrice dello scudetto &ndash; in seguito revocato &ndash; sfidava l&rsquo;Inter detentrice della Coppa Italia.&nbsp; La finale di Supercoppa Italiana 2005&nbsp; &Egrave; il 20 agosto 2005 quando per la quarta (e ultima) volta lo Stadio Delle Alpi di Torino ospita la finale della Supercoppa Italiana. Il campionato &egrave; alle porte, manca una settimana, ma Juventus e Inter gi&agrave; si giocano il primo grande trofeo stagionale. Sono due squadre zeppe di campioni. L&rsquo;allenatore bianconero Fabio Capello opta per un 4-4-2: manca il portiere titolare Buffon, infortunatosi in uno scontro con il milanista Kaka durante il Trofeo Berlusconi &ndash; a seguito dell&rsquo;incidente il Milan ha &ldquo;risarcito&rdquo; i bianconeri con il prestito di Abbiati, che per&ograve; si accomoda in panchina &ndash; cos&igrave;, davanti alla linea difensiva composta da Zebina, Kovac, Cannavaro e Zambrotta, il portiere &egrave; Chimenti; a centrocampo la diga composta da Emerson e Viera, con Camoranesi e Nedved sulle fasce; davanti Trezeguet fa coppia con Ibrahimovic, preferito a Del Piero. Risponde il tecnico nerazzurro Roberto Mancini schierandosi a specchio: Toldo tra i pali; Zanetti, Cordoba, Materazzi e Favalli in difesa; Veron e Cambiasso a centrocampo, Stankovic e Ze Maria sulle corsie; l&rsquo;attacco &egrave; affidato alla coppia Martins-Adriano. La partita decisa ai supplementari da Veron Nella prima fase di gara le due squadre non trovano sbocchi offensivi affidandosi soprattutto alle conclusioni dalla distanza. Il primo vero pericolo &egrave; per la porta juventina, con Zebina che deve ringraziare Zambrotta, autore di un grande salvataggio sul tentativo di autogol del francese. Al 43&rsquo; gol annullato ingiustamente alla Juve per un fuorigioco di Trezeguet, mentre a inizio ripresa Ibra va vicinissimo al bersaglio grosso con una fucilata che lambisce il palo. Al 57&rsquo; ancora Juve pericolosa con il colpo di testa di Vieira che colpisce in pieno il palo alla sinistra di Toldo. Per un avvio di ripresa molto pi&ugrave; avvincente rispetto al primo tempo, risponde l&rsquo;Inter con Adriano che si fa neutralizzare la conclusione da Chimenti. Entrano Samuel e Pizarro &ndash; nuovo acquisto di Moratti &ndash; al posto di Materazzi e Ze Maria tra i nerazzurri, Del Piero rileva Camoranesi tra i bianconeri. Proprio sui piedi del 10 juventino capita la grande chance, malamente sprecata da Pinturicchio. I 90 minuti si chiudono a reti bianche, protraendo cos&igrave; la gara ai tempi supplementari. Al 95&rsquo; il gol che decide la partita. Pizarro lancia in profondit&agrave; Adriano, l&rsquo;attaccante difende palla sulla linea di fondo, si gira e vede l&rsquo;inserimento di Veron. L&rsquo;argentino riceve e di prima intenzione buca Chimenti sul primo palo. L&rsquo;Inter vince cos&igrave; la seconda Supercoppa della sua storia, battendo per la prima volta la Juve in una finale in seguito alle sconfitte in Coppa Italia datate 1959 e 1965.       

Nell&rsquo;edizione del 2005 i nerazzurri sconfissero i bianconeri grazie a una rete segnata da Veron nei tempi supplementari

Inter-Juventus, l’unico precedente in finale di Supercoppa Italiana

Durante la sua lunga vita Peppino Prisco &egrave; stato tre cose pi&ugrave; di ogni altra: un grande alpino, un grande avvocato e un grande interista. Anzi, secondo molti &ldquo;grande interista&rdquo; &egrave; un appellativo che gli sta davvero stretto: Prisco &egrave; il massimo esponente dell&rsquo;interismo, un uomo estremamente colto, tagliente, irriverente nei confronti degli avversari che nel corso degli anni ha manifestato ampiamente la sua smisurata passione nei confronti dei colori nerazzurri, non disdegnando lo sfott&ograve; ai danni soprattutto di Milan e Juventus, arricchendolo sempre con un caratteristico e mai celato senso di superiorit&agrave;. <h2>L&rsquo;infanzia, l&rsquo;amore per l&rsquo;Inter e la guerra</h2> &ldquo;Sono diventato appassionato di calcio e tifoso dell'Inter in una lontana domenica del 1929. Avevo poco pi&ugrave; di sette anni e la sera, come tutte le domeniche, vennero a casa nostra gli zii Pasquale e Antonietta Bussola. Lo Zio Pasquale, avvocato come mio padre, era socio vitalizio dell'Inter e, avendo l'Inter battuto quel pomeriggio il Milan sul campo di via Goldoni, arriv&ograve; a casa nostra con un vassoio di paste Alemagna comprate nel negozio di via Orefici, dicendo che non si poteva non festeggiare una vittoria cos&igrave; importante. Ci furono dei brindisi ai quali partecipai, ma quando chiesi qualche notizia sul Milan mi fu risposto che era meglio non parlare di certa gente non degna della nostra attenzione. Capii insomma che i milanisti erano degli esseri incolpevoli ma decisamente di altra categoria, diciamo pure di serie B rispetto agli altri cittadini&rdquo;. &Egrave; cos&igrave; che Prisco racconta il suo primo ricordo nerazzurro, legandolo indissolubilmente alla rivalit&agrave; cittadina. Interista sin da giovanissimo, trovava sempre il modo di andare a vedere anche gli allenamenti invece di stare sui libri: &ldquo;Quando nel &rsquo;39 scoprimmo che avremmo ottenuto la promozione politica alla maturit&agrave;, andavamo quasi sempre&rdquo;. Arruolatosi tra gli alpini appena 18enne, partecipa alla Campagna di Russia guadagnandosi una medaglia d&rsquo;argento al valor militare. <h2>La vita divisa tra il club nerazzurro e il tribunale</h2> Nel 1944 si laurea in giurisprudenza, nel 1946 diventa avvocato. Penalista tra i pi&ugrave; conosciuti del capoluogo lombardo, vero e proprio Principe del Foro, diventer&agrave; Presidente dell&rsquo;Ordine degli Avvocati di Milano, carica che conserver&agrave; per lunghissimo tempo. Contemporaneamente inizia anche il cursus honorum all&rsquo;interno della societ&agrave; interista che lo porter&agrave; ad essere investito della vicepresidenza nel luglio del 1963. Durante la sua dirigenza la squadra vince praticamente tutto: sei scudetti, due Coppe dei Campioni, due Coppe Intercontinentali, tre Coppe UEFA, due Coppe Italia e una Supercoppa italiana. Da avvocato segue personalmente la vicenda della partita della lattina contro il Moenchengladbach, ottenendo l&rsquo;annullamento della gara e la ripetizione.&nbsp;Gran conoscitore di calcio, aveva una predilezione per due giocatori su tutti, che considerava fuori categoria: Giuseppe Meazza e Ronaldo il fenomeno. Spentosi all&rsquo;et&agrave; di 80 anni nel 2001, una volta disse con la sua solita tagliente ironia: &ldquo;Prima di morire mi faccio la tessera del Milan, cos&igrave; sparisce uno di loro&rdquo;. Chiss&agrave; se l&rsquo;ha fatto davvero.&nbsp;

        Durante la sua lunga vita Peppino Prisco &egrave; stato tre cose pi&ugrave; di ogni altra: un grande alpino, un grande avvocato e un grande interista. Anzi, secondo molti &ldquo;grande interista&rdquo; &egrave; un appellativo che gli sta davvero stretto: Prisco &egrave; il massimo esponente dell&rsquo;interismo, un uomo estremamente colto, tagliente, irriverente nei confronti degli avversari che nel corso degli anni ha manifestato ampiamente la sua smisurata passione nei confronti dei colori nerazzurri, non disdegnando lo sfott&ograve; ai danni soprattutto di Milan e Juventus, arricchendolo sempre con un caratteristico e mai celato senso di superiorit&agrave;. L&rsquo;infanzia, l&rsquo;amore per l&rsquo;Inter e la guerra &ldquo;Sono diventato appassionato di calcio e tifoso dell'Inter in una lontana domenica del 1929. Avevo poco pi&ugrave; di sette anni e la sera, come tutte le domeniche, vennero a casa nostra gli zii Pasquale e Antonietta Bussola. Lo Zio Pasquale, avvocato come mio padre, era socio vitalizio dell'Inter e, avendo l'Inter battuto quel pomeriggio il Milan sul campo di via Goldoni, arriv&ograve; a casa nostra con un vassoio di paste Alemagna comprate nel negozio di via Orefici, dicendo che non si poteva non festeggiare una vittoria cos&igrave; importante. Ci furono dei brindisi ai quali partecipai, ma quando chiesi qualche notizia sul Milan mi fu risposto che era meglio non parlare di certa gente non degna della nostra attenzione. Capii insomma che i milanisti erano degli esseri incolpevoli ma decisamente di altra categoria, diciamo pure di serie B rispetto agli altri cittadini&rdquo;. &Egrave; cos&igrave; che Prisco racconta il suo primo ricordo nerazzurro, legandolo indissolubilmente alla rivalit&agrave; cittadina. Interista sin da giovanissimo, trovava sempre il modo di andare a vedere anche gli allenamenti invece di stare sui libri: &ldquo;Quando nel &rsquo;39 scoprimmo che avremmo ottenuto la promozione politica alla maturit&agrave;, andavamo quasi sempre&rdquo;. Arruolatosi tra gli alpini appena 18enne, partecipa alla Campagna di Russia guadagnandosi una medaglia d&rsquo;argento al valor militare. La vita divisa tra il club nerazzurro e il tribunale Nel 1944 si laurea in giurisprudenza, nel 1946 diventa avvocato. Penalista tra i pi&ugrave; conosciuti del capoluogo lombardo, vero e proprio Principe del Foro, diventer&agrave; Presidente dell&rsquo;Ordine degli Avvocati di Milano, carica che conserver&agrave; per lunghissimo tempo. Contemporaneamente inizia anche il cursus honorum all&rsquo;interno della societ&agrave; interista che lo porter&agrave; ad essere investito della vicepresidenza nel luglio del 1963. Durante la sua dirigenza la squadra vince praticamente tutto: sei scudetti, due Coppe dei Campioni, due Coppe Intercontinentali, tre Coppe UEFA, due Coppe Italia e una Supercoppa italiana. Da avvocato segue personalmente la vicenda della partita della lattina contro il Moenchengladbach, ottenendo l&rsquo;annullamento della gara e la ripetizione.&nbsp;Gran conoscitore di calcio, aveva una predilezione per due giocatori su tutti, che considerava fuori categoria: Giuseppe Meazza e Ronaldo il fenomeno. Spentosi all&rsquo;et&agrave; di 80 anni nel 2001, una volta disse con la sua solita tagliente ironia: &ldquo;Prima di morire mi faccio la tessera del Milan, cos&igrave; sparisce uno di loro&rdquo;. Chiss&agrave; se l&rsquo;ha fatto davvero.&nbsp;       

Nato a Milano il 10 dicembre del 1921, ha rappresentato il tifoso nerazzurro per eccellenza; celebri le sue battute pungenti ai danni di milanisti e juventini

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