        Sembrava essere diventata una di quelle leggi non scritte, perch&eacute; aveva cominciato a stratificarsi con il conforto statistico di una tradizione recente: Roma che passa in vantaggio, poi la Juventus pareggia e rimonta portandosi a casa la partita per due gol a uno. Nella stagione precedente, vale a dire il campionato 1982-83, era finita sempre nella medesima maniera, tanto all&rsquo;andata quanto al ritorno; al vecchio &ldquo;Comunale&rdquo; torinese come allo Stadio Olimpico. &nbsp; Il giorno della rovesciata &nbsp; Quando, il 4 dicembre 1983, la Roma di Nils Liedholm con il Tricolore cucito sul petto fa visita alla Juventus, Di Bartolomei e compagni sono reduci da alcune prestazioni al di sotto del loro valore. In realt&agrave;, il primo tempo che finisce a reti bianche traduce una certa superiorit&agrave; del palleggio romanista e Falc&atilde;o fallisce il vantaggio proprio allo scadere della prima frazione. Nella ripresa, i giallorossi trovano meritatamente il vantaggio con un tracciante rasoterra, millimetrico e millimetrato, sbocciato dal sinistro di Bruno Conti. Immancabile, per&ograve;, arriva la punizione a giro di interno destro di Michel Platini, come da recente, succitata tradizione. Ci&ograve; di cui i romanisti cominciano ad aver paura, visti i precedenti del dell&rsquo;anno prima, puntualmente si materializza, tra l&rsquo;altro con la firma dell&rsquo;ex Mimmo Penzo. Tutto da copione, ancora una volta, tanto che un esercito di titolisti si appresta a far uscire "Non c&rsquo;&egrave; due senza tre". Quando inizia l&rsquo;ultimo giro di lancetta utile, tutti pensano di s&igrave;. Quasi tutti: non lo pensa Nela che lancia lungo, non Bonetti che offre a Chierico una sponda di testa; allora non lo pensa neanche Chierico, che elegantemente controlla in palleggio e poi crossa in mezzo: a quel punto non lo pensa neanche Roberto Pruzzo, spalle alla porta nel cuore dell&rsquo;area bianconera. Il Bomber capovolge se stesso, quando occorre. Alla Roma restava la speranza di un'azione, una sola. Pruzzo vede spiovere il pallone, sa che non avr&agrave; mai il tempo di controllare, girarsi e tentare di battere a rete: ha un cespuglio di maglie juventine attorno. Pu&ograve; fare soltanto una cosa. La fa. La rovesciata &egrave; talmente bella che chi la vede, in campo e fuori, soltanto in un secondo momento capisce che &egrave; anche vera. Tacconi le vola appresso, nell'aria immobile come il respiro di chi stenta a credere, fratturandosi un dito. &Egrave; il novantesimo minuto pi&ugrave; bello di sempre. Qualche secondo dopo il fischio finale di Casarin, Galeazzi lo raggiunge sul terreno di gioco: ancora incredulo e col fiato corto, lui trova le parole solo per dedicare il goal a Carlo Ancelotti, che nel primo tempo aveva visto terminare la sua stagione a causa dell'ennesimo infortunio al ginocchio. Il commento pi&ugrave; esaustivo arriva dallo spogliatoio bianconero, &egrave; una specie di editoriale di Sua Maest&agrave; Platini: &laquo;Risultato giusto, la Juventus la stavo vedendo male dopo il gol di Conti. Il due a due l&rsquo;ha voluto Pruzzo, non &egrave; un jolly, l&rsquo;ha voluto Pruzzo perch&eacute; ha cercato di fare gol per tutta la partita&raquo;.       

Era il 4 dicembre 1983, quando O Rey de Crocefieschi blocc&ograve; sul 2-2 la Juventus di Le Roi&nbsp; Platini&nbsp;

Pruzzo, la rovesciata che fece storia

        Fabio Petruzzi &egrave; stato uno dei protagonisti della Roma degli anni Novanta. Cresciuto nelle giovanili giallorosse, lasci&ograve; la Capitale proprio nella stagione in cui la squadra conquist&ograve; il suo terzo scudetto. Difensore centrale dotato di ottimi fondamentali, era capace di impostare il gioco sia nelle difese con stopper e libero che in quelle schierate in linea, come testimonia l&rsquo;uguale apprezzamento che gli riconobbero allenatori diversi come Mazzone e Zeman. In questa intervista racconta le esperienze vissute in quegli anni proprio partendo dall&rsquo;ultima partita che gioc&ograve; in Coppa Uefa l&rsquo;8 dicembre 1998 a Zurigo. &nbsp; &nbsp; Fabio, quel match contro lo Zurigo in trasferta fin&igrave; 2-2 e qualific&ograve; la Roma ai quarti di finale. Ricordi che clima c&rsquo;era allo stadio?  &laquo;Faceva freddissimo! Mi viene in mente che noi avevamo la maglia nera a maniche lunghe. Ricordo che loro avevano un attaccante molto bravo, Bartlett, che fece una doppietta&raquo;. Lo Zurigo ebbe un rigore a favore causato da un tuo intervento su Di Jorio. Come and&ograve; quell&rsquo;azione? &laquo;Sinceramente mi chiedi troppo, non me lo ricordo! Ho in mente il risultato e il loro attaccante bravo ma del mio rigore niente! Ci sono molte partite delle quali non ricordo nulla. Del resto sono passati tanti anni&hellip;&raquo;. In quella partita Aldair, per l&rsquo;assenza di Cafu, fu costretto a giocare a destra. Come approcciava quel ruolo il brasiliano? &laquo;In quel periodo Aldair gioc&ograve; diverse partite a destra. Si diceva che avendo degli esterni difensivi un po&rsquo; pi&ugrave; puri avremmo potuto prendere meno gol. Non lo so, sicuramente Cafu e Candela erano due fenomeni che spingevano molto e questo a volte poteva portare a rimanere due contro due o uno contro uno. Quanto a Pluto, anche quello non me lo ricordo bene ma non mi sembra che fosse tanto contento di giocare terzino&hellip;&raquo;. Nello spogliatoio chi era il leader di quella squadra?  &laquo;Guarda, innanzitutto c&rsquo;&egrave; da dire che eravamo un grande gruppo fatto di grandi calciatori ma non c&rsquo;era un leader assoluto. Totti eccelleva per le qualit&agrave; tecniche e in campo faceva gi&agrave; la differenza, Di Biagio aveva molta personalit&agrave;, Aldair era un campione del mondo&raquo;.  Per assonanza, dopo Bartlett mi viene da pensare a Bartelt, che era arrivato quell&rsquo;anno a Trigoria: fece qualche giocata incredibile ma alla fine non lasci&ograve; il segno. Mi sai dire che calciatore era? &laquo;Era un giocatore particolare: magari dal punto di vista tecnico non era straordinario ma riusciva a fare delle giocate in mezzo a due-tre avversari clamorose. Era capace di uscire a duecento all&rsquo;ora da situazioni difficili che non ti saresti mai aspettato. Tipo l&rsquo;azione che fece contro la Fiorentina quell&rsquo;anno, che ci permise di ribaltare il risultato&raquo;. Quella sera a Zurigo ricorrevano sedici anni esatti da una partita di Coppa Uefa memorabile: Roma-Colonia 2-0. Hai qualche ricordo particolare di quel match? &laquo;In quella partita io facevo il raccattapalle, ero un ragazzino. Era un&rsquo;emozione unica vedere da vicino i miei campioni, soprattutto Di Bartolomei: per me Agostino &egrave; stato il pi&ugrave; grande di tutti. Ricordo quanto ho esultato al gran gol di Falcao, col tiro dopo lo stop di petto. Peraltro io stavo proprio sotto la Curva Sud quando Paulo corse l&igrave; dopo aver segnato. Venne con tutti i compagni: belle emozioni&raquo;.  Nel 1998-99 la Roma non riusc&igrave; ad andare oltre i quarti di finale, fermata dall&rsquo;Atletico Madrid in una partita in cui l&rsquo;arbitro venne fortemente contestato. Secondo te quella squadra aveva il potenziale per arrivare in finale? &laquo;S&igrave;, quella squadra era forte. Faceva un bel calcio e aveva preso consapevolezza di quello che si doveva fare in campo: andava a giocarsela ovunque. Poi &egrave; vero che rischiavamo anche di perdere con chiunque perch&eacute; potevamo incappare in brutte giornate. Per&ograve; anche quando mancavano giocatori importanti, i compagni che li sostituivano facevano sempre una grande prestazione&raquo;.  Il modo di giocare che aveva quella Roma, che non faceva calcoli e giocava sempre all&rsquo;attacco, era adatto per affrontare le competizioni europee? &laquo;Direi di s&igrave;. Prendi, ad esempio, la partita in trasferta col Leeds (Leeds-Roma 0-0, 3 novembre 1998, ndr): rimanemmo in dieci per l&rsquo;espulsione di Wome ma non subimmo un tiro in porta. Era una squadra che quando doveva stare pi&ugrave; accorta lo sapeva fare&raquo;.  A Zurigo fu la tua ultima partita in Coppa Uefa. Qualche rimpianto? &laquo;No, non ho rimpianti. Io ho indossato la maglia della Roma e ho giocato con grandi calciatori. Da piccolo andavo allo stadio e sentivo l&rsquo;inno di Lando Fiorini, non vedevo l&rsquo;ora di entrare all&rsquo;Olimpico e godere di quelle immagini meravigliose: il prato verde, la Curva Sud. Io ho toccato con un dito tutto questo: cosa posso volere di pi&ugrave;? Solo aver calcato quel manto erboso che vedevo da bambino per me &egrave; stato un sogno. Ho vissuto emozioni che rimarranno sempre dentro di me, come quando passavo sotto quella curva prima di un derby e sentivo il cuore battere a duecento all&rsquo;ora che mi faceva temere di avere un infarto. Certo, mi sarebbe piaciuto vincere qualcosa. Non ho vinto il campionato da calciatore perch&eacute; nel 2001 ero andato via, per&ograve; l&rsquo;ho vinto da tifoso&raquo;.  Come si troverebbe Fabio Petruzzi nella Roma di oggi?  &laquo;Non lo so, oggi il calcio &egrave; cambiato. Gradivo molto giocare a uno, due tocchi, dare palla avanti, forse perch&eacute; fino a diciotto anni ero stato un centrocampista centrale: mi piaceva impostare dal basso. Con Mazzone gi&agrave; facevamo la difesa a tre: io stavo centrale con Aldair e Lanna ai lati. Quindi s&igrave;, penso che mi potrei trovare abbastanza bene con la costruzione del basso che si pratica oggi. Anche se, ti dico la verit&agrave;, per me si eccede con questa impostazione: il rischio che si possa perdere palla &egrave; superiore alla possibilit&agrave; di eludere la pressione. E poi, anche quando ci riesci, non &egrave; detto che arrivi a creare una situazione di gioco pericolosa, perch&eacute; comunque stai a settanta metri dalla porta avversaria. Mentre se perdo palla vicino alla mia porta sicuramente devo subirne una&raquo;.  Come vedi la stagione europea della Roma di Mourinho? Pu&ograve; arrivare a Dublino per riscattare Budapest? &laquo;Ce lo auguriamo anche se quest&rsquo;anno &egrave; un po&rsquo; pi&ugrave; difficile. Intanto c&rsquo;&egrave; il Liverpool. E poi dalla Champions potrebbero scendere un po&rsquo; di &ldquo;carri armati&rdquo;. Gi&agrave; se prendi il girone del Milan, una tra loro, PSG, Borussia o Newcastle scender&agrave; in Europa League. &Egrave; dura ma va detto che Mourinho &egrave; un tecnico da competizione. La Roma &egrave; una squadra che quando va in trasferta non fa giocare l&rsquo;avversario mentre in casa, davanti a 65.000 persone che ti spingono, si trasforma e d&agrave; qualcosa in pi&ugrave;&raquo;. &nbsp; &nbsp;       

Il difensore giallorosso era tra i titolari nella trasferta svizzera del 1998: &laquo;Ricordo il freddo e quel pari che ci qualific&ograve; ai quarti Uefa&raquo;

Petruzzi: "Zurigo, la Roma, la difesa a 3, Mazzone"

        Le figurine della nostra Serie A, quando eravamo ragazzini, avevano i baffi; spesso i basettoni e la chioma ribelle, arruffata, come i protagonisti dei &ldquo;poliziotteschi&rdquo; di Umberto Lenzi. Non sempre, per&ograve;, parlavano in maniera forbita, analitica, come veniva naturale a Paolo Conti, nato funambolo, diventato portiere. Venuto alla luce a Riccione il primo giorno di aprile, ma non era uno scherzo; casomai una canzone di Amedeo Minghi, perch&eacute; era il 1950, con l&rsquo;Italia in ricostruzione e Serenella che avrebbe ascoltato alla radio quella canzone pensata per lei. &nbsp;   La fine del &ldquo;grigio&rdquo; del portiere &nbsp; Una ventina d&rsquo;anni dopo, gracchiando ogni domenica la radio avrebbe iniziato a parlare di lui, minuto per minuto, anche per la ventata di novit&agrave; che il personaggio, divenuto portiere per caso, avrebbe portato nella nostra Serie A: con le sue divise colorate rispetto al grigio usuale, stile Zoff per capirci; con le sue uscite basse e apparentemente avventate, che anticipavano i tempi oltre che gli attaccanti; con l&rsquo;usanza di giocare senza guanti, senza proteggere le manone che erano due morse ma, un po&rsquo; come l&rsquo;olandese Jongbloed, tra i primi a usare i parastinchi, proprio perch&eacute; la proiezione in uscita comportava gli impatti che coinvolgevano gli arti inferiori. &laquo;Dicevano che ero un portiere che comandava la difesa, che uscivo spesso dall&rsquo;area perch&eacute; avevo il fisico, con i piedi, sull&rsquo;avversario&hellip; Ma ero solo un autodidatta: io non avevo fatto il settore giovanile, venivo dalla strada, dai parchi, dalle partite con gli amici. Dovevo solo coprire i miei limiti. E poi fino ai diciotto anni ho giocato solo praticamente da centravanti, mica da portiere&raquo;: troppo vero per non essere pure bello, ci volle l&rsquo;occhio di un dirigente del Riccione durante una partitella. &nbsp;  Gli inizi e l&rsquo;esordio in serie A &nbsp; Dal 1968 al 1970 nella societ&agrave; di casa, poi due anni di Modena, quindi Arezzo nel 1972-73, stagione al termine della quale arriva la chiamata della Roma, che inizia a pensare al futuro dopo Ginulfi. Il 18 novembre del &lsquo;73, mezzo secolo fa, Paolo Conti esordisce tra i pali all&rsquo;Olimpico, dal primo minuto, contro il Verona: comincia un&rsquo;era, per la societ&agrave; giallorossa, con una vittoria per 1-0 firmata da Pierino Prati su rigore. Non impiegheranno troppo tempo, i tifosi della Roma, a individuare il soprannome giusto per quel portiere cos&igrave; na&iuml;f: bocciato in fretta il banale e troppo politicizzato &ldquo;baffone&rdquo;, Paolo Conti diventa &ldquo;tenaglione&rdquo; per via di quelle mani grandi e forti, senza guanti, che in uscita bassa si aprono come ombrelli e che nel campionato 1974-75, quello di un orgoglioso terzo posto, proteggeranno la porta giallorossa al punto tale da renderla la meno perforata della Serie A. &laquo;Tra le tante cose non capivo, prima di venire a Roma, come si potesse impazzire per il calcio, mi sentivo lucido, capite? Ero distaccato, ma non freddo, questo mai. Roma m&rsquo;&egrave; rimasta nel sangue, e io sono rimasto romanista&raquo;. Un breve interregno con Ginulfi, poi l&rsquo;avvio di un voluminoso capitolo di storia della Roma, composto da sette campionati e 206 presenze complessive, con 205 reti incassate, pi&ugrave; la Coppa Italia del 1980, vinta quando l&rsquo;avvicendamento con Franco Tancredi si &egrave; gi&agrave; consumato. &nbsp;   Dopo la Roma &nbsp; Conti lascia la Roma nell&rsquo;estate del 1980, per poi percorrere con estrema rilassatezza e con una serie di stagioni pi&ugrave; che degne il viale del tramonto: Verona in B, vestendo la maglia della societ&agrave; contro la quale aveva esordito in giallorosso; poi due anni di Sampdoria, con tanto di promozione dalla B alla A nella primavera del 1982; la stagione &lsquo;83 - &lsquo;84 a Bari in C1, quindi quattro anni a Firenze, con il ritorno in Serie A come secondo di Giovanni Galli, dal 1984 al 1988. Nel suo palmar&egrave;s personale, anche la maglia azzurra, con sette presenze dal &lsquo;77 al &lsquo;79, pi&ugrave; l&rsquo;esperienza come secondo di Zoff al Mondiale argentino del 1978, dove lui e Jongbloed i guanti li incrociarono per davvero. I guanti no, perch&eacute; entrambi ne facevano a meno.       

Dall&rsquo;esordio in Serie A con la maglia della Roma il 18 novembre 1973 inizi&ograve; la storia di un portiere atipico, senza guanti e sempre in uscita bassa

Paolo Conti, il “baffo” funambolo

        Tonino Tempestilli &egrave; un pezzo di Roma. Prima tifoso, poi giocatore, di seguito allenatore delle giovanili e infine dirigente e team manager. Trent&rsquo;anni in giallorosso. Nella vita spesa da difensore gli si &egrave; appiccicato addosso un soprannome simpatico, &ldquo;Er Cicoria&rdquo;. Questo perch&eacute;, proprio come la pianta selvatica, si faceva trovare in ogni zona del campo a dare una mano. Insomma, era l&rsquo;uomo ovunque. Sempre presente. "Giannini, Conti e Pruzzo si inventarono quel soprannome", ricorda con un sorriso Tempestilli che ha difeso i colori della Roma per sei stagioni (dal 1987 al 1993), durante le quali ha raccolto 162 presenze e 7 reti conquistando tra l&rsquo;altro una Coppa Italia nel 1991. Tante battaglie, tante gioie, ma anche tante delusioni: spicca la finale di Coppa Uefa persa in gara doppia contro l&rsquo;Inter di Trapattoni.&nbsp;  Tempestilli, quando &egrave; diventato tifoso giallorosso?&nbsp; "Da bambino. Bisognava scegliere tra Roma e Lazio e io scelsi la Roma. In citt&agrave; funzionava cos&igrave;, non &egrave; che ti potevi innamorare delle squadre del nord. Adesso sembra che sia un po&rsquo; cambiata questa mentalit&agrave; nelle nuove generazioni".  Banco di Roma, Inter e Como. Poi arriva la grande chiamata&hellip;&nbsp; "Non potevo dire di no alla Roma, anche se mi volevano tante squadre".&nbsp;  Chi si era fatto avanti?&nbsp; "Il Napoli ma anche la Juventus, per&ograve; ripeto: per me era un onore tornare a casa anche se la proposta economica era quella meno allettante. I soldi non sono mai stati una mia priorit&agrave;".&nbsp;  Sei stagioni non sono poche&hellip;&nbsp;&nbsp; "Ho tanti ricordi. E li conservo tutti, belli e meno belli".  L&rsquo;annata migliore?&nbsp; "Sicuramente la prima perch&eacute; arrivammo al terzo posto in campionato".  Il 9 novembre ricorre l&rsquo;anniversario di Roma-Partizan 2-0 in Coppa Uefa. Lei c&rsquo;era.&nbsp; "Una rimonta cercata e voluta che ci permise di accedere agli ottavi di finale. Giocammo bene e non era facile soprattutto dopo quello che era successo all&rsquo;andata, l&igrave; a Belgrado. Era capitato di tutto tra l&rsquo;incendio in tribuna, il 4-2 finale, la polizia e un accendino che colp&igrave; al volto Giannini".&nbsp;&nbsp;  Il Partizan dell&rsquo;epoca e lo Slavia Praga di oggi. Ci sono similitudini?&nbsp; "Il calcio &egrave; cambiato, ma affrontare le squadre dell&rsquo;Est in trasferta non &egrave; mai una passeggiata di salute. Di solito hanno fisico, forza e voglia di non mollare mai. Per superarle ci vogliono testa e corsa".  Nel 1991 si arriva in finale di Coppa Uefa contro l&rsquo;Inter. Fa ancora male?&nbsp;&nbsp; "Un grande rammarico. Perdere una partita del genere davanti ai propri tifosi &egrave; la cosa pi&ugrave; triste. Per certi versi l&rsquo;1-0 dell&rsquo;Olimpico, non utile per ribaltare il 2-0 di Milano, fu vissuto un po&rsquo; come l&rsquo;ultimo atto di Europa League dell&rsquo;anno scorso, contro il Siviglia. La Roma meritava di vincere, meritava un altro epilogo".&nbsp;  Per&ograve; quella cavalcata &egrave; stata incredibile.&nbsp; "Senza dubbio. Fu un crescendo e nessuno si aspettava di vedere la Roma in fondo alla competizione. Il calcio italiano era ben rappresentato".  Gli avversari pi&ugrave; tosti sul cammino?&nbsp; "Sia il Bordeaux che l&rsquo;Anderlecht. Erano due squadre fortissime. Non eravamo favoriti ma riuscimmo a eliminarli e quindi ad aumentare la fiducia in noi stessi, turno dopo turno".  L&rsquo;allenatore che le ha dato di pi&ugrave;?&nbsp; "Da tutti i tecnici ho cercato di prendere il meglio. Quello che mi ha spalmato pi&ugrave; degli altri &egrave; stato Ottavio Bianchi, che ho avuto a Como e anche con la Roma. Aveva un carattere particolare, era burbero, ma di calcio se ne intendeva e pure parecchio. Conosceva tutto di tutti. Era un&rsquo;enciclopedia vivente".  In linea generale in campionato si faticava&hellip;&nbsp; "Dovevamo fare di pi&ugrave;, la squadra a volte non riusciva ad esprimersi ma il supporto del pubblico era sempre unico e speciale".&nbsp; Come se lo spiega?&nbsp; "Erano gli anni di Maradona e Platini e di tantissimi campioni. Il livello in Italia era altissimo. Anche in Europa. C&rsquo;erano, tra gli altri, Van Basten, Careca e Passarella".  L&rsquo;attaccante che soffriva di pi&ugrave; da marcare?&nbsp; "Facile dire Maradona, che era difficile da contenere. Personalmente temevo Laudrup che stava nella Juventus e che poi &egrave; andato al Barcellona. Era veramente un giocatore fantastico".&nbsp; I punti di forza della sua Roma?&nbsp; "I pilastri erano Bruno Conti, Giuseppe Giannini e Rudi V&ouml;ller. Loro erano quelli che facevano la differenza in campo e fuori".&nbsp;  Giuseppe Giannini le ricorda un po&rsquo; Lorenzo Pellegrini?&nbsp; "Sono dei ragazzi stupendi, bravi tecnicamente, che amano a dismisura questi colori. Anche come carattere mi sembrano simili. Giuseppe ha fatto tanto per la Roma ma non &egrave; stato preso in considerazione per lavorarci una volta finita la carriera da calciatore. Questo secondo me &egrave; un gran peccato".&nbsp;  C&rsquo;&egrave; un Tempestilli nella rosa di Mourinho?&nbsp; "Forse Mancini ha qualcosa delle mie caratteristiche, &egrave; determinato e forte. &Egrave; in definitiva un difensore che non ha paura di nessuno. Per&ograve;, per i miei gusti, si lamenta e parla un po&rsquo; troppo con gli arbitri e gli avversari. Io ero diverso da questo punto di vista".&nbsp;  Chi era il Dybala della situazione?&nbsp; "Uguale nessuno. Sforzandomi direi Rudi V&ouml;ller, ma stiamo parlando comunque di due giocatori con una fisicit&agrave; molto diversa. Per&ograve; tutti e due con colpi per risolvere le partite da soli".&nbsp;  I gol in maglia giallorossa ai quali &egrave; pi&ugrave; legato?&nbsp; "Ne dico due, anche se non segnavo tantissimo. Il primo &egrave; quello che ho fatto al Flaminio contro l&rsquo;Inter che ci ha permesso di rimontare la partita: calcio di punizione ribattuto, anticipo un difensore e segno nella porta di Zenga. Una gioia incredibile. Il secondo &egrave; quello in Coppa Italia contro la Juventus. E poi ricordo molti autogol ma &egrave; meglio non soffermarsi su questi (ride, ndc)".&nbsp;&nbsp;  Dopo trent&rsquo;anni il rapporto con la Roma si &egrave; interrotto bruscamente. &Egrave; una storia superata?&nbsp; "No, &egrave; la pi&ugrave; grande delusione. Per la Roma ho lasciato da parte la famiglia. Ho dato tanto e ricevuto tanto. L&rsquo;addio &egrave; stato inaspettato, la cosa che non avrei mai voluto. Solitamente c&rsquo;&egrave; sempre un inizio e una fine. Ma i rapporti possono finire in maniera diversa. Sono stato quasi bannato dalla Roma. Il dispiacere resta enorme. Sai, se uno ha rubato, sta zitto e va via. Io ho sempre lavorato a testa alta per il bene della Roma senza commettere errori come altri".&nbsp;  Dopo una parentesi alla Reggina, ha lavorato per il Velletri. &Egrave; ancora l&igrave;?&nbsp; "Ho dato una mano a degli amici per un breve periodo, la distanza era notevole da dove abito a Roma. &Egrave; stata comunque una bella avventura".       

l difensore ricorda quella sfida con i nerazzurri: "All&rsquo;Olimpico non riuscimmo a ribaltare il 2-0 dell&rsquo;andata. Meritavamo noi ma l&rsquo;1-0 non bast&ograve;"

Tonino Tempestilli: l'amore per la Roma e quella finale contro l'Inter

        Ci sono calciatori che sono entrati nella storia della Roma pur avendo vestito la maglia giallorossa in stagioni caratterizzate da una rosa di livello tecnico non memorabile: &egrave; accaduto perch&eacute; in loro, e in quelle stagioni che hanno disputato con quei colori addosso, i tifosi hanno riconosciuto la filigrana di un impegno e di una dedizione che non sono mai venuti meno, fino all&rsquo;ultima stilla di sudore; fuor di retorica ma dati alla mano, e in questo caso i &ldquo;dati&rdquo; sono rappresentati dall&rsquo;affetto e dalla stima che ancora riscuotono presso i sostenitori ogni volta che da queste parti li si nomina. Anche per questo, da un&rsquo;intervista a tema con Enrico &ldquo;Tarzan&rdquo; Annoni siamo passati a una chiacchierata quasi confidenziale, con ricordi snocciolati uno dopo l&rsquo;altro, sul filo di una memoria rimasta caldissima, a proposito delle sue stagioni romaniste e di un&rsquo;appartenenza a prova di tempo e&hellip; luogo. Enrico, come certamente saprai i tifosi della Roma non ti hanno mai dimenticato e ancora citano il tuo nome, assieme a quello di altri tuoi compagni dell&rsquo;epoca, come sinonimo di agonismo e attaccamento alla maglia, a prescindere da quelli che furono i risultati.&nbsp;  &ldquo;Ma &egrave; il medesimo modo in cui io penso a loro, sempre; mi dispiace soltanto di non poter tornare pi&ugrave; spesso e soprattutto quanto vorrei, perch&eacute; ti assicuro che a Roma torno sempre con il sorriso, anche perch&eacute; ho ancora una casa nella Capitale. Abitando nei dintorni di Como, pur seguendola in ogni modo, &egrave; chiaro che non posso stare vicino come vorrei a una realt&agrave; che &egrave; stata anche la mia, della quale ho fatto parte innamorandomi sempre di pi&ugrave; di ogni componente del mondo romanista. Anzi, fammi anche fare una precisazione&rdquo;.&nbsp; Prego.  &ldquo;La Roma, inteso in questo caso come dirigenza attuale, &egrave; l&rsquo;unica societ&agrave; italiana tra quelle nelle quali ho giocato che ogni settimana si ricorda di me, invitandomi allo stadio; poi lo fa anche il Celtic, dove ho lasciato amici e un altro pezzetto di cuore&rdquo;. Quella tua Roma, in quella sera dove fino a un certo punto tutto sembrava girare alla perfezione, affront&ograve; lo Slavia Praga per la gara di ritorno dei quarti di finale della Coppa Uefa 1995-96, il 19 marzo 1996, con una rimonta che sembr&ograve; essere stata condotta in porto fino al minuto 113 dei supplementari. &nbsp;&ldquo;Eh&hellip; ancora oggi mi brucia, cos&igrave; come a tutti i miei compagni. In campo la nostra convinzione cresceva di minuto in minuto, anche perch&eacute; avevamo preparato con molto rispetto nei confronti dell&rsquo;avversario quella partita; loro all&rsquo;andata ci avevano messo sotto e sapevamo che a noi quella sera sarebbe servita la partita perfetta, cosa che stava accadendo quasi fino alla fine&rdquo;. Che ricordo hai dello Stadio Olimpico di quella sera, per come lo vedresti dal campo?  &nbsp;&ldquo;Semplicemente spettacolare&hellip; sin da quando entrammo in campo sotto una scenografia da brividi che coinvolgeva ogni settore dello stadio. I brividi io stesso li sento anche in questo momento, quando ne stiamo riparlando a tanti anni di distanza&hellip; poi nel corso di quella serata, memorabile quasi fino agli ultimi minuti, ho sentito l&rsquo;incitamento della gente non solo sopra di noi, ma letteralmente accanto; hai presente quando si parla di dodicesimo uomo in campo, a proposito del pubblico di casa? Ecco, ti assicuro che quella sera non fu affatto soltanto un modo di dire. Il nostro dolore, la nostra delusione, furono moltiplicati dal dolore della gente, alla quale era sfuggito un sogno; inoltre, a noi giocatori che avevamo dato tutto ed eravamo davvero stremati, dispiacque moltissimo non essere riusciti a dare una gioia al nostro allenatore, a Carletto Mazzone&rdquo;. Inevitabile parlare di lui ancora una volta. &ldquo;Quando ho saputo che non c&rsquo;era pi&ugrave;, l&rsquo;ho presa malissimo, malissimo. Non che non sapessi che le sue condizioni da un po&rsquo; di tempo erano quelle che erano, ma si tratta di quel tipo di notizie che speri non ti raggiungano mai, di quel tipo di telefonata che non vorresti mai ricevere. Il ricordo che ne ho &egrave; quello di un padre, innanzitutto, poi di un uomo equo e giusto con tutti. A maggior ragione perch&eacute; all&rsquo;inizio con me fu piuttosto freddo, anche comprensibilmente: in una fase di avvicendamenti al vertice della societ&agrave;, alla Roma aspettavano Ciro Ferrara e poi arrivai io, ci sta che gli entusiasmi all&rsquo;inizio si raffreddassero un po&rsquo;. Poi, con l&rsquo;impegno e con la caparbiet&agrave; che non mi sono mai mancati, ho cominciato a entrare nel cuore della gente, e sai perch&eacute;? Perch&eacute; ci sono i bravi architetti, i bravi geometri e poi i bravi muratori. Io, che sapevo di non potermi considerare n&eacute; architetto n&eacute; geometra, ho fatto di tutto perch&eacute; i tifosi della Roma mi considerassero il miglior muratore possibile&rdquo;. Come te lo spieghi che i sostenitori dell&rsquo;epoca ti ricordino ancora con tanto calore?  &ldquo;Perch&eacute; apprezzano i muratori&hellip; scherzi a parte, ma la metafora rende l&rsquo;idea, a un tifo viscerale come quello della Roma devi mostrarti per quello che sei e in nome di quello farti apprezzare; a questa gente che fa sacrifici di ogni tipo non puoi apparire per ci&ograve; che non sei: io con le mie caratteristiche e con i miei limiti ho voluto trasmettere loro un impegno che doveva essere sempre profuso al massimo grado. Poi si vinceva o si perdeva, ma questo &egrave; un altro discorso&rdquo;. Se Vavra, che poi in carriera non segn&ograve; quasi mai pi&ugrave;, con quel tiro ci avesse riprovato altre venti volte?  &ldquo;Probabilmente non avrebbe mai pi&ugrave; fatto gol, ma proprio per questo era destino, con la palla che prese quella traiettoria cos&igrave; arcuata e che pass&ograve; tra le gambe di Marco Lanna in modo da sorprendere poi Giovanni Cervone&rdquo;. &nbsp; Chiudiamo con un saluto ai tifosi della Roma, che sono ancora i tuoi tifosi.&nbsp;  &ldquo;Ho ancora un grande rammarico, per come andai via a met&agrave; stagione 1996-97 per un rapporto mai nato con Carlos Bianchi: non essere andato sotto la Sud a salutare, perch&eacute; me li sarei abbracciati uno per uno. Noleggiare quell&rsquo;aereo da far volteggiare sopra l&rsquo;Olimpico con la scritta attraverso la quale io, Tarzan, li salutavo, era il minimo che potessi fare per un &ldquo;popolo&rdquo; al quale ancora oggi vorrei dire tante cose e al tempo stesso non trovo le parole, anzi me ne vengono soltanto due: vi amo&rdquo;.       

&ldquo;Tarzan&rdquo; ha ricordi indelebili: "Non ho mai dimenticato gli anni in giallorosso, ancora adesso mi vogliono tutti bene"

Enrico Annoni: "La Roma nel mio cuore per sempre"

        Dei francesi che portarono lo scudetto a Roma nel 2001, Vincent Candela &egrave; quello che &egrave; rimasto pi&ugrave; scolpito nella memoria dei tifosi. Rispetto a Jonathan Zebina, l&rsquo;altro transalpino protagonista di quella grande stagione, era pi&ugrave; bravo, pi&ugrave; fedele alla maglia (otto anni nella Capitale contro quattro) e pi&ugrave; immerso nel mood della citt&agrave;. Zebina era un parigino che amava la pittura: forse anche per questo Fabio Capello nutriva per lui una predilezione che a molti appariva quasi inspiegabile. Candela, occitano di B&eacute;darieux, aveva bisogno di minori sofisticazioni per godersi la vita e si adatt&ograve; pi&ugrave; facilmente in un ambiente all&rsquo;atavica ricerca di nuovi gladiatori.  &nbsp;  L&rsquo;arrivo a Roma &nbsp; Lui che, nel sud della Francia, era cresciuto con gli umori del Mediterraneo, non ci mise molto a farsi apprezzare quando, all&rsquo;inizio del 1997, giunse a Roma proveniente dal Guingamp, sessantesimo straniero della storia giallorossa e primo francese. Un trasferimento desiderato con tutte le forze: a ventitr&eacute; anni Vincent si sente pronto a giocare le sue carte nel campionato pi&ugrave; competitivo del mondo e, per non perdere il treno sul quale la Roma gli offre di salire, litiga col suo presidente. Inizialmente il suo arrivo fu oscurato da quello concomitante di Omari Tetradze, terzino destro accompagnato dalla maggior fama acquisita soprattutto grazie alla militanza nella nazionale russa. Gli ci volle un mese, quello trascorso tra l&rsquo;esordio nella partita casalinga col Vicenza del 2 febbraio 1997 e il match disputato all&rsquo;Olimpico contro il Verona del 9 marzo, per rompere gli indugi delle osservazioni titubanti e cominciare a far sognare i tifosi. Fu proprio anche grazie a una sua doppietta, infatti, che i giallorossi batterono gli scaligeri. Candela si guadagn&ograve; i titoli dei giornali del luned&igrave; e la consapevolezza di un pubblico che, da quel giorno in poi, lo amer&agrave; senza riserve. &nbsp;  Da Carlos Bianchi a Capello, passando per Zeman &nbsp; Sopravvissuto con onore alla catastrofica stagione con Carlos Bianchi in panchina, il terzino francese &egrave; titolare indiscusso anche nella Roma di Zeman. Di media statura ma ben strutturato (anche per via del rugby praticato in passato) sostiene gli allenamenti del tecnico anche se, una volta in partita, non ne segue sempre alla perfezione i dettami. Del resto Candela ha piedi raffinati e voglia di divertirsi tipici di un numero dieci pi&ugrave; che di un difensore ed &egrave; poco incline alla disciplina tattica che richiede il boemo. Che, in situazioni di emergenza, gli chiede anche di fare il difensore centrale, ruolo nel quale Vincent si sacrifica senza entusiasmo per mero amor di patria. Per lui, pur se destro naturale, &egrave; la fascia sinistra la tela sulla quale imprimere il suo gioco ideale. Uno spazio nel quale alterna i contrasti al doppio passo, un cross a rientrare e il colpo di tacco. L&rsquo;intesa con Totti &egrave; totale e fluisce in un rapporto che combina naturalmente professionalit&agrave; e amicizia. I loro duetti sulla sinistra, boccate d&rsquo;ossigeno per esteti del calcio, nei momenti d&rsquo;eccesso mandano Zeman in fibrillazione. &Egrave; il prezzo del talento, che alla fine il boemo accetta senza sorridere troppo.E probabilmente &egrave; anche il rapporto non idilliaco con l&rsquo;allenatore a spingere Candela, al termine della stagione 1998-99, ad accettare una proposta dell&rsquo;Inter. I nerazzurri hanno mezzi ed esperienza per vincere il campionato: impossibile dire no. Fin quando a Trigoria arriva Fabio Capello: un nome, un brand che significa successo. Basta una telefonata per far ricredere Vincent, che torna felicemente sui suoi passi a preparare la scalata al paradiso. Che non &egrave; immediata: il primo anno col tecnico del Milan degli Invincibili scivola via insipido nonostante un buon avvio. &Egrave; nell&rsquo;estate del 2000 che Franco Sensi fa gli acquisti giusti, aggiunge campioni a una rosa gi&agrave; talentuosa e Candela si guadagna il lasciapassare per la storia. &nbsp;  Scudetto, Mondiali ed Europei  &nbsp; La sua presenza in campo raggiunge un livello di autorevolezza paradigmatico: &egrave; migliorato nella scelta dei tempi, nel dosare le sortite offensive con i ripieghi sulla linea della difesa a tre. Giocando un po&rsquo; pi&ugrave; lontano da Totti prende maggiori responsabilit&agrave;, diventando una sorta di rifinitore esterno al quale i compagni possono affidarsi quando il capitano &egrave; bloccato nelle gabbie difensive avversarie. La postura col petto in fuori e i capelli lunghi schiacciati dal cerchietto che gli cinge il capo donano al francese un aspetto da personaggio romanzesco. Se sulla destra Cafu spinge cavalcando la fascia con una fisicit&agrave; elastica e fluida, a sinistra Candela alterna spada e fioretto, pause di ritmo e allunghi, ricami e potenza. Nella trasferta di Bari del 20 maggio 2001, il gol di apertura che porta la sua firma rappresenta plasticamente le sue qualit&agrave; di palleggio, forza e precisione. Lo scudetto coi giallorossi, celebrato il mese successivo, &egrave; il momento apicale di una carriera che pure l&rsquo;ha visto contribuire alla conquista di traguardi pi&ugrave; importanti, come la Coppa del Mondo del 1998 e l&rsquo;Europeo 2000. Ma con la sua nazionale Vincent non &egrave; il primattore di Roma: troppo forte la concorrenza nel ruolo di Lizarazu, terzino sinistro del Bayern Monaco, per trovare lo spazio adeguato a sentirsi fondamentale. Anche se, tra il 1996 e il 2002, saranno quaranta le volte che Candela indosser&agrave; la maglia dei Bleus. Ad altissimi livelli la carriera di Vincent non &egrave; longeva. Intorno ai trent&rsquo;anni gli stimoli cominciano a sfumare: Capello, che lo stima molto, prova a scuoterlo senza grossi risultati. Finisce il suo primo matrimonio, il piacere del bere sconfina qualche volta di troppo nel vizio. Anche per Totti, amico fraterno, diventa difficile arginare un momento di difficolt&agrave; che, arrivato in quella fase della vita professionale, incide profondamente sul suo rendimento. Nel gennaio del 2005 lascia i giallorossi per provare un&rsquo;esperienza in Inghilterra col Bolton che dura solo sei mesi. Poi a Udine, Siena e Messina ultima il suo percorso senza ulteriori fiammate. Dopo il ritiro non pu&ograve; che tornare nella Capitale a ricordare con gli amici di oggi, nel suo italiano arroccato tra romanesco e accento francese, le gesta di quella Roma nella quale erano compagni.       

Gioc&ograve; nella Capitale per otto anni. Dopo due stagioni con Zeman, l&rsquo;arrivo di Capello lo port&ograve; alla maturazione e alla vittoria di uno storico scudetto con i giallorossi

Vincent Candela, il francese innamorato della Roma e di Roma

        "La vita di ogni uomo &egrave; una via verso se stesso". Lo aveva scritto Hermann Hesse, lo cap&igrave; Aldo Maldera nel percorso che segu&igrave; sul confine tra autodeterminazione e destino. Nacque a Milano da genitori pugliesi il 14 ottobre 1953, un dettaglio non irrilevante per chi ai segni zodiacali assegna un ruolo importante nel valutare i calciatori: quelli nati sotto il segno della Bilancia, infatti, sono spesso dei campioni. Era il terzo di tre fratelli che avevano il pallone nel DNA: tutti giocatori, tanto che Aldo, per chi collezionava le figurine, compariva sempre come Maldera III anche se era il pi&ugrave; bravo. L&rsquo;esordio con la maglia di Rivera Cos&igrave; bravo da esordire in Serie A con la maglia del Milan di Gianni Rivera, il 26 marzo 1972, in una trasferta a Mantova dove, in assenza dell&rsquo;ex golden boy, invece del suo consueto numero tre indossa un dieci che mette imbarazzo. Col titolare di quella maglia il giovane Aldo nutre un rapporto reverenziale: non riesce a dargli del tu, tanto che alla fine sar&agrave; Rivera stesso a prenderlo da parte per sollevarlo da quella soggezione ormai fuori moda gi&agrave; in quei primi anni Settanta. Maldera, del resto, era fatto cos&igrave;: un ragazzo garbato, dai modi educati dettati da una timidezza che si accompagnava a una gentilezza d&rsquo;animo inusuale, di quelle che sorprendono per la loro rarit&agrave;. L&rsquo;esordio a Mantova, in quella stagione, rimase un episodio isolato. Quel ragazzo che correva sulla fascia sinistra si doveva ancora formare: un anno a Bologna, seppur con poche presenze, lo riconsegn&ograve; al Milan pronto per fare sul serio. Aldo non &egrave; soltanto un terzino che sa spingere: ha intelligenza tattica e una buona tecnica di base che gli consente di calibrare ottimi cross in mezzo all&rsquo;area, tiri potenti dalla distanza e dribbling all&rsquo;occorrenza. Capacit&agrave; che, affinate nel tempo, lo porteranno a segnare molti gol.&nbsp;&nbsp; &nbsp; La Coppa Italia 1976-77 Il Milan lo assorbe, &egrave; il sogno da bambino che si realizza grazie alla dedizione e all&rsquo;impegno totali che mette nel conquistare un posto da titolare, che a met&agrave; di quegli anni Settanta &egrave; finalmente suo. Diventa protagonista in un derby che si gioca il 3 luglio 1977 per decidere il vincitore della Coppa Italia: sblocca il risultato in combinazione col sempiterno Rivera, che gli fornisce un assist dentro l&rsquo;area sul quale Aldo si lancia in acrobazia e batte Bordon prima che Braglia chiuda la partita. &Egrave; il primo successo di un biennio che per il terzino rossonero sar&agrave; indimenticabile. Con l&rsquo;arrivo di Liedholm accresce la sua consapevolezza, spinge ulteriormente in avanti il suo raggio d&rsquo;azione e, col ritiro di Facchetti, coglie l&rsquo;opportunit&agrave; di far parte stabilmente della Nazionale.  La parentesi azzurra e lo scudetto della stella Quella con la maglia azzurra, per&ograve;, &egrave; un&rsquo;esperienza che, iniziata come un percorso, alla fine si riveler&agrave; solo una parentesi. Partito titolare alla volta del mundial &lsquo;78, viene travolto dalla freschezza che spinge Antonio Cabrini, preferito dal CT Bearzot anche per via dell&rsquo;appartenenza a quel blocco Juventus che gli assicura pi&ugrave; garanzie. Maldera, in Argentina, scende in campo solo nella finalina per il terzo posto mentre ai successivi Europei non giocher&agrave; nemmeno un minuto, chiudendo cos&igrave; la sua frequentazione con gli azzurri. Uno dei grandi rammarichi della sua vita professionale, al quale riesce a ovviare grazie al Milan, col quale nel 1979 vince da primattore lo scudetto della stella: non solo non salta una partita di campionato ma realizza anche nove reti che pesano la dimensione del suo essere un giocatore moderno, capace di inserimenti, finalizzazioni e contrasti portati spesso in scivolata per recuperare i metri consumati nelle proiezioni offensive.  Il richiamo del Barone e lo scudetto con la Roma La sua fedelt&agrave; al Milan viene messa a dura prova con il calcioscommesse: i rossoneri, per colpe non sue, vengono retrocessi. Maldera decide di rimanere a guidare la risalita, acquistando ulteriore credito agli occhi dei tifosi. Ma quando, nel 1982, la Serie B &egrave; una derivata solo sportiva, la sua vita prende una nuova direzione. Lo vuole il Napoli ma quando tutto sembra ormai fatto lo chiama Liedholm, tornato alla Roma dopo averlo guidato allo scudetto tre anni prima. Il Barone lo conosce bene, apprezza le sue doti tecniche e caratteriali. E poi &egrave; della Bilancia, proprio come lui e Paulo Roberto Falc&atilde;o: &rdquo;Vieni Aldo, che vinciamo lo scudetto&rdquo;. La Citt&agrave; Eterna &egrave; l&rsquo;alba di una nuova vita, quella che Maldera non avrebbe mai immaginato. &Egrave; la scoperta di nuovi spazi, di una dimensione diversa che incanta il suo animo gentile: l&rsquo;amore incondizionato della gente, le pennellate di sole in pieno inverno e la vicinanza del mare accarezzano le radici meridionali della sua famiglia d&rsquo;origine. Arriva il secondo scudetto, un tripudio di colori ed emozioni che nemmeno Liedholm sarebbe stato in grado di spiegargli. La stagione successiva diventa un&rsquo;autostrada da percorrere verso quella che sembra essere l&rsquo;unica destinazione possibile: la finale di Coppa dei Campioni, che per Maldera costituir&agrave; un rammarico ancora pi&ugrave; grande di quello vissuto da compagni e tifosi. Lui, infatti, non potr&agrave; nemmeno provare a cambiare il destino di una squadra che rester&agrave; ferita per sempre da una sconfitta a cui nemmeno il tempo riuscir&agrave; a porre rimedio. Ammonito in semifinale viene squalificato ed &egrave; costretto a guardare Roma-Liverpool dalla tribuna, a macerare dolore e rabbia senza aver lo sfogo di una discesa sulla fascia o la possibilit&agrave; di tirare almeno uno di quei disgraziati rigori. Una finale che si rivela un ultimo appuntamento mancato: Aldo a Roma fa ancora una stagione prima degli ultimi due anni di carriera a Firenze, dove chiude senza sussulti. Poi il ritorno nella Capitale fino al momento di un precoce addio alla vita che ne ha cancellato il respiro, non il ricordo di quel ragazzo che non sapeva dare del tu a Gianni Rivera.        

A diciotto anni dava del lei a Rivera. Leg&ograve; le sue fortune a Nils Liedholm, col quale vinse due storici scudetti: quello della stella col Milan e quello del 1983 con la Roma

Aldo Maldera, il terzino sinistro dall’animo gentile

        Cromatica. Un po&rsquo; come la storia della Roma e del Milan, legata a doppio filo a chi ha allenato squadre forti e vincenti. Il rosso in comune. Da un lato il giallo, dall&rsquo;altro il nero. In mezzo anche degli scudetti mescolati nel tricolore, con il rosso sempre in evidenza al fianco del bianco e del verde. Sono due gli allenatori che hanno portato in alto Roma e Milan, l&igrave; davanti alla concorrenza, contro tutto e tutti, lass&ugrave; dalle parti dell&rsquo;arcobaleno: Nils Liedholm e Fabio Capello. Anche se la lista di chi si &egrave; seduto su entrambe le panchine &egrave; lunghissima: si va da William Thomas Garbutt a Herbert Burgess, da Gigi Radice a Vincenzo Montella, giusto per citare alcuni nomi.    Uno svedese tra il Duomo e il Colosseo: Liedholm  Classe, eleganza e carisma da vendere. Che esercitava dentro e fuori dallo spogliatoio. Nils Liedholm &egrave; l&rsquo;allenatore che ha speso la sua esistenza, calcistica e non, tra il Duomo e il Colosseo. Era un centrocampista. Arriv&ograve; in Italia quasi per caso, dopo l&rsquo;oro olimpico di Londra con la Svezia (correva l&rsquo;anno 1948) e non la lasci&ograve; mai pi&ugrave;. Con la maglia del Milan mise da parte 394 partite, 89 gol e quattro scudetti. Da tecnico successivamente divent&ograve; leggenda. Perch&eacute; aveva una visione del calcio futuristica pensando che la sua carriera prende la rincorsa negli Anni Sessanta, esplode negli Anni 70 e 80, e va a finire negli Anni Novanta. Filosofia chiara e limpida: possesso palla, tecnica e difesa a zona. &laquo;Finch&eacute; la palla ce l&rsquo;abbiamo noi, sono gli altri a doversi preoccupare&raquo;, &egrave; la frase cult del Barone, soprannominato cos&igrave; perch&eacute; spos&ograve; una nobildonna piemontese. Ha guidato il Milan per otto stagioni diverse, in mezzo e in coda le annate alla Roma, undici. Nel 1979 confezion&ograve; lo scudetto della prima stella in rossonero, tra l&rsquo;altro promuovendo un giovanissimo Baresi e inventandosi Bigon come falso nove. In quella rosa c&rsquo;erano Capello, Collovati, Buriani e Maldera e fino all&rsquo;anno prima Turone: gente che anche a Roma ha inciso e non poco. Dopo il successo al Milan, Liedholm pass&ograve; in giallorosso per centrare il secondo scudetto del club nel 1983, dopo 41 anni, puntando forte su Falcao, Conti, Di Bartolomei, Ancelotti e Pruzzo. Vinse anche tre volte la Coppa Italia. In Coppa Campioni fu beffato dal Liverpool nella finalissima del 1984 e poi ci fu la macchia del gol di Turone che il Barone comunque prese con filosofia. Successivamente and&ograve; e torn&ograve; da Milano a Roma, lanciando Maldini a 16 anni e assaggiando la classe di un baby Totti.    Capello, sergente di ferro  Concretezza. Un sergente di ferro. E allievo di Liedholm. Fabio Capello ha giocato e allenato sia Roma che Milan, ma anche la Juventus. Dopo un lungo periodo di apprendistato, prese il testimone da Arrigo Sacchi in rossonero e da l&igrave; inizi&ograve; un&rsquo;avventura unica sotto la presidenza di Silvio Berlusconi, che disse: &laquo;Fabio Capello &egrave; il tecnico giovane su cui puntiamo&raquo;. Ci aveva visto lungo: quattro scudetti e la Champions League del 1994 rappresentano larga parte del bottino. Sul tetto d&rsquo;Europa ci arriv&ograve; con la classe di Boban e Savicevic, una difesa completamente Made in Italy (Maldini, Panucci, Galli e Tassotti) e una coppia di centrocampisti centrali mostruosi come Albertini e Dasailly, perni del 4-4-2. La Roma fu un un altro capitolo lungo, durato cinque stagioni, che vide il punto pi&ugrave; alto nel terzo scudetto giallorosso. Era il 2001. Franco Sensi voleva il tricolore a tutti i costi. Samuel, Emerson e Batistuta erano lo scheletro dell&rsquo;undici di Capello, che sfrutt&ograve; poi l&rsquo;esplosione di Tommasi in mezzo al campo e un reparto avanzato che poteva contare, oltre sull&rsquo;argentino arrivato dalla Fiorentina, su capitan Totti, Montella e Delvecchio. Il Circo Massimo in festa, clacson e fuochi d&rsquo;artificio. Quel 3-4-1-2 &egrave; rimasto nella storia. Capello, va sottolineato, ha avuto come collaboratore Italo Galbiati nella doppia avventura tra Milan e Roma.  Un Roma-MIlan da Garbutt a Montella  Le panchine di Roma e Milan sono legate da un filo invisibile fin dall&rsquo;inizio. Nel 1927 la squadra giallorossa fu affidata all&rsquo;inglese William Thomas Garbutt (vince la Coppa Coni) che poi pass&ograve; il testimone al connazionale Herbert Burgess, il quale lasci&ograve; il Milan per approdare in riva al Tevere dopo un passaggio (il secondo) al Padova. Garbutt, invece, fin&igrave; sulla panchina rossonera nel 1936, prendendo il posto di Adolfo Baloncieri, guida della Roma nel 1950. Insomma, siamo di fronte a una sorta di puzzle che va dalla notte dei tempi fino all&rsquo;era moderna. Gi&agrave;, perch&eacute; nel 1951 sbarc&ograve; a Roma Giuseppe Viani, poi direttore tecnico per un decennio al Milan tra scudetti e una Coppa Campioni. Un percorso inverso rispetto ad Antonio Busini, che prima ricopr&igrave; il ruolo di direttore tecnico e sportivo del Milan (1940-1953) e molto tempo dopo fece il vice alla Roma, verso la fine degli Anni 50. Altri nomi con un doppio passato tra Roma e Milan? Gustavo Giagnoni, Luis Carniglia e Gigi Radice. L&rsquo;ultimo in ordine di tempo &egrave; stato Vincenzo Montella, traghettatore della Roma nel 2011 e poi allenatore del Milan per quasi una stagione e mezza, tra il 2016 e 2017.  Ancelotti e Nordahl  Carlo Ancelotti, unico allenatore ad avere vinto i cinque pi&ugrave; importanti campionati europei, ha indossato da giocatore le maglie di Roma e Milan, vincendo scudetti e coppe. Ma ha allenato solamente i rossoneri (per otto stagioni di fila) prima di intraprendere una carriera dal respiro internazionale tra Chelsea, Psg, Real Madrid e Bayern Monaco. Alla panchina della Roma &egrave; stato accostato pi&ugrave; volte ma la firma non &egrave; arrivata. Un discorso simile si pu&ograve; cucire addosso a Gunnar Nordahl, ex bomber di Milan e Roma, che una volta appese le scarpette al chiodo inizi&ograve; ad allenare partendo proprio dalla Capitale. Sulla panchina del Milan per&ograve; non si &egrave; mai seduto.       

Non solo Capello e Liedholm ma anche Radice e Montella Garbutt e Burgess: i racconti di tutti gli allenatori in comune

Roma-Milan, quante panchine scambiate

        Il filo di un destino che all&rsquo;inizio si dipana senza intoppi, che si svolge in crescendo, come il talento e l&rsquo;impegno meritano. E sembra gi&agrave; scritta la storia, di gol di provincia che si fanno metropolitani; di campi di pozzolana che si tingono di un verde Serie A; di pacche sulla spalla in un bar di provincia tramutate in titoli di giornale. Poi, immaginate che quel filo il vento cominci a spostarlo, a farne grovigli sempre meno districabili, nel bel mezzo del suo srotolarsi verso una meritata gloria. Che in tanti ne calpestino i nodi formatisi nel frattempo: non per cattiveria ma per indifferenza, per incuria, per mancato rispetto nei confronti dell&rsquo;individuo; per l&rsquo;umanit&agrave; accantonata a fronte di interessi meschini. E, alla fine, che tutti assistano ebeti e increduli al suo spezzarsi, senza che nessuno abbia nel frattempo fatto nulla per sciogliere quei nodi. Taccola e la legge del gol Storia di Giuliano Taccola da Uliveto Terme, provincia di Pisa, che oggi, 28 giugno 2023, compirebbe ottant&rsquo;anni. Che non fece in tempo a vedere i ventisei e cinquantaquattro anni dopo, ancora non si dirada la nebbia dei perch&eacute;. Ha detto qualcuno che chi fa gol da ragazzino far&agrave; gol anche da grande; chi segna regolarmente in Serie C segner&agrave; regolarmente anche in Serie A. La storia di Giuliano sembra destinata a un crescendo simile, meritato di rete in rete, conquistato come il pane bianco che ci si pu&ograve; permettere dopo aver macinato la farina grezza di quello scuro. Corre i cento metri in undici secondi; segna regolarmente e caratterizza il destino delle squadre nelle quali milita: lo scopre Fulvio Bernardini quando milita nel Savona, che con i suoi gol viene promosso in B nella primavera del 1966. L&rsquo;anno dopo Taccola &egrave; al Genoa. A quel punto, c&rsquo;&egrave; la Roma, che lo acquista per la stagione 1967-68. Una Roma ancora modesta tecnicamente, con Oronzo Pugliese alla guida, che Taccola galvanizza con i suoi gol, a cominciare dal primo, all&rsquo;esordio a San Siro contro l&rsquo;Inter, il 24 settembre del &lsquo;67.  La Roma di Taccola in grande spolvero La Roma nelle prime giornate &egrave; un fuoco di paglia d&rsquo;alta classifica, sar&agrave; decima a fine stagione. Ma i gol di Taccola, dieci in campionato, saranno una costante e soprattutto sembrano costituire la pietra di posa per la stagione successiva, quando alla guida del club giallorosso arriva Helenio Herrera. Taccola agisce in attacco in coppia con Peir&ograve;, sulla trequarti Cordova e Salvori, Fabio Capello centromediano a imbastire la manovra. Al giro di boa delle festivit&agrave; natalizie, Taccola si ritrova ad aver segnato sette gol in undici partite; in odore di Nazionale maggiore, con somme importanti guadagnate grazie ai premi partita, politica abituale nel calcio italiano dell&rsquo;epoca, che fanno comodo a un ragazzo che ha gi&agrave; due bambini e una moglie, la giovanissima Marzia. Poi, che succede? Perch&eacute; il filo s&rsquo;ingarbuglia fino a spezzarsi? Il malessere che frena il sogno A quel punto, la storia di un uomo esce dal campo per entrare in una serie di studi medici; la ospitano cartelle cliniche, forse manipolate nel tempo, e non pi&ugrave; i resoconti dei quotidiani del luned&igrave;. Stanchezza e febbre, una brutta tonsillite che necessita di un intervento; l&rsquo;emersione di un problema cardiaco mai ben accertato e bollato frettolosamente come &ldquo;soffio d&rsquo;atleta&rdquo;. Debolezza e febbre, ancora di pi&ugrave;, tra gennaio e febbraio del 1969. Un riposo assoluto da osservare secondo le prescrizioni, precetto mai rispettato in realt&agrave;, perch&eacute; Taccola torna subito ad allenarsi, anche se ogni sera &egrave; febbricitante. Giuliano serve alla squadra anche se &egrave; sottopeso di quattro o cinque chilogrammi. E poi "Niente partita, niente dinero" &egrave; la regola ratificata dal Mago Herrera, ossia i premi vanno a chi scende in campo. Realt&agrave; contrattuali imparagonabili a quelle odierne, anche ad alti livelli. S&igrave;, ma che succede? Domanda destinata a rimanere senza una risposta definitiva, ancora oggi. Oggi che Marzia Nannipieri &egrave; una donna quasi anziana, consumatasi nella ricerca di giustizia quantomeno per la memoria del marito, visto che un destino reciso nessuno lo potr&agrave; pi&ugrave; riallacciare. Lo deve all&rsquo;infanzia dei due figli che prese un corso diverso, da un certo momento in poi, a una vita che da agiata pass&ograve; repentinamente a uno status di rinuncia e sacrificio. Alla prima morte misteriosa del calcio italiano e alla prima tragedia dimenticata, o ricordata solo dai romanisti di una certa et&agrave;, se preferite.  Le cure e la fine del sogno Qualcosa la dobbiamo a Giuliano Taccola pure noi, che scriviamo anche per risarcire, a volte. Pi&ugrave; che di colpe, per il calcio italiano di fine anni Sessanta &egrave; pi&ugrave; giusto parlare di ignoranza, di calciatori non considerati del tutto atleti e utilizzati come polli da batteria; di medici impegnati a tutelare la prestazione, pi&ugrave; che la salute, a loro volta tormentati da allenatori che vogliono i &ldquo;cavalli&rdquo; migliori in pista a ogni costo. Si parla di iniezioni &ldquo;prodigiose&rdquo;, di pillole di ricostituenti delle quali &egrave; bene che i calciatori non ricordino nemmeno il nome. Si parla, ma a distanza di tempo, perch&eacute; all&rsquo;epoca e bene non parlare. Il 2 marzo del &lsquo;69, in un periodo in cui la febbre serale non gli d&agrave; tregua, Taccola scende in campo per un&rsquo;ora a Genova contro la Sampdoria, prima di infortunarsi al malleolo. Sar&agrave; la sua ultima presenza su un terreno di gioco. Convocato per Cagliari-Roma del 16 marzo 1969 allo stadio &ldquo;Amsicora&rdquo;, dove non c&rsquo;&egrave; nemmeno un dispositivo per l&rsquo;ossigeno, Taccola non se la sentirebbe di andare. Convinto a fatica, durante gli allenamenti di rifinitura evidenzia un affaticamento tale da indurre persino Herrera ad arrendersi. La Roma impone lo 0-0 a un Cagliari gi&agrave; molto forte, che nella stagione successiva vincer&agrave; uno storico scudetto. Giuliano Taccola scende negli spogliatoi assieme a Ciccio Cordova per complimentarsi con i compagni. Beve un&rsquo;aranciata, si sente male. Molto male, da subito. Il medico sociale della Roma Massimo Visalli, chiede aiuto al collega del Cagliari Frongia. "Gli fecero tre iniezioni, poi chiusero gli spogliatoi e cercarono di ripulirli. Ci fu il tentativo disperato di salvarlo anche da parte di un giornalista e di un professore ISEF che stavano l&igrave;. Gli fecero la respirazione bocca a bocca. Queste persone non sono mai state interrogate. Anche questo &egrave; un altro mistero da chiarire", ricorda Marzia. Insufficienza respiratoria, cuore troppo sotto pressione con un&rsquo;infezione polmonare in corso: cause di per s&eacute; banali e ancora oggi non del tutto chiarire, che si sarebbero potute gestire semplicemente con il riposo e il tempo dovuto agli accertamenti, quel tempo che il calendario nemmeno all&rsquo;epoca concedeva a un calciatore, con l&rsquo;aggravante di una medicina sportiva ancora approssimativa. Giuliano Taccola muore cos&igrave;, in uno spogliatoio del vecchio stadio di Cagliari, il 16 marzo del 1969, sotto gli occhi dei compagni, i quali in un certo senso debbono sentirsi abbandonati e potenzialmente soli, ognuno di loro in cuor suo, quasi quanto quel calciatore pi&ugrave; fragile e sfortunato rispetto a loro, quando si sentono dire da Helenio Herrera: "Andiamo via, ormai &egrave; morto e non possiamo fare pi&ugrave; niente. Mercoled&igrave; abbiamo un&rsquo;altra partita".        

Una storia che ancora non d&agrave; pace, nel pensiero soprattutto del calciatore, uomo, padre che non fu in un pomeriggio del 1969 durante una trasferta a Cagliari

Giuliano Taccola e la Roma: il filo del destino

        Giuseppe Zinetti &egrave; nato il 22 giugno 1958 a Leno, in provincia di Brescia. Dopo il percorso nelle giovanili del Bologna, esordisce &ldquo;tra i grandi&rdquo; a 20 anni con la fascia di capitano al braccio. Trascorsi tanti anni nel capoluogo emiliano, si trasferisce dapprima a Pescara, dove rimane tre stagioni, per poi vivere una seconda giovinezza nella Roma, come secondo portiere. Zinetti pu&ograve; vantare una carriera con oltre trecento presenze tra i professionisti e sedici nella Nazionale Under 21. Fai il tuo esordio a 20 anni in Serie A. Cosa ricordi di quella giornata? &ldquo;Una giornata emozionante, tra l&rsquo;altro il mister decise di farmi fare il vice capitano, poi a met&agrave; ripresa usc&igrave; il capitano e io ne ereditai la fascia. Per me, nonostante la sconfitta, la gioia fu indescrivibile&rdquo;. In quel periodo eri considerato l&rsquo;enfant prodige del ruolo, ne eri consapevole? &ldquo;C&rsquo;eravamo solo io e Giovanni e Galli a vent&rsquo;anni che giocavamo in Serie A; per questo devo ringraziare il mio preparatore dei portieri, Pietro Battara, che ha creduto fortemente in me, in un&rsquo;epoca in cui era normale inviare i giovani in Serie C o D per 'farsi le ossa'&rdquo;. Gli addetti ai lavori dicevano che eri pi&ugrave; simile a Dino Zoff che ad Enrico Albertosi. Concordi? &ldquo;Assolutamente s&igrave;, avevo uno stile molto pi&ugrave; lineare simile a Dino; solo simile, non diciamo che eravamo uguali mi raccomando (ride ndi)&rdquo;. Avevi un idolo tra i due, oppure qualcun altro? &ldquo;Erano i due portieri della Nazionale, quelli che noi giovani guardavamo con maggiore attenzione. Anche se ero pi&ugrave; simile a Zoff, il capello lungo e il modo di interpretare il ruolo di Albertosi erano unici&rdquo;. Nel 1980 vieni convocato da Bearzot per il Mundialito. Vero che non si trattava di una competizione canonica ma era comunque una vetrina appetita da ogni giocatore. Che ricordi hai di quei giorni? &ldquo;Ricordi indelebili, non mi aspettavo la convocazione. Giocavo nell&rsquo;Under 21 e la Nazionale maggiore era un sogno. Ebbi, tra l&rsquo;altro, la fortuna di vedere all&rsquo;opera per la prima volta, Diego Armando Maradona, che aveva appena vinto il Mondiale Under 20; si vedeva gi&agrave; allora che giocatore sarebbe diventato&rdquo;. A Bologna passi circa una decina d&rsquo;anni, con un intermezzo alla Triestina, pensi di non essere stato apprezzato abbastanza? &ldquo;Credo che Corioni e Maifredi al loro arrivo abbiano portato una discontinuit&agrave; in societ&agrave; ed il mio ciclo era giustamente giunto al termine. Ringrazier&ograve; sempre il Bologna per l&rsquo;opportunit&agrave; che mi ha dato, di esordire in Serie A e disputare 250 partite con quella maglia indosso&rdquo;. A Pescara circa 60 presenze in tre anni: per uno destinato alla pensione - come pensavano alcuni - non sembra male. &ldquo;Giuseppe Gatta doveva essere il titolare ma alla fine giocammo entrambi. Ho bellissimi ricordi anche qui, anche se il mister Galeone non prestava molta attenzione al ruolo di portiere&rdquo;. Giunto a Roma vivi quasi una seconda giovinezza. Non sei il titolare, ma quando giochi dimostri sempre il tuo valore. Cosa ricordi della piazza romana? &ldquo;Sono stati tre anni molto intensi: l&rsquo;esordio in Coppa Uefa, la vittoria della Coppa Italia. Sono sincero, senza la vicenda che colp&igrave; Peruzzi non avrei mai giocato, anche perch&eacute; si vedevano le qualit&agrave; enormi di Angelo, pur giovanissimo; sono contentissimo di aver lasciato un buon ricordo nei tifosi della squadra giallorossa&rdquo;. Finita la carriera da calciatore, inizia la seconda vita da preparatore dei portieri. Cosa ti ha spinto a intraprendere questa strada? &ldquo;Ho cercato di tramettere ai giovani portieri e a quelli pi&ugrave; esperti la mia esperienza di portiere in Serie&rdquo;. Meglio allenare un giovane o un portiere gi&agrave; formato? &ldquo;Ho iniziato con dei ragazzini alla Spal; poi andai a Fiorenzuola, dove rimasi un anno con Cavasin allenatore, grazie a Tullio Tinti, con il quale siamo cresciuti insieme da ragazzini. Alla fine dell&rsquo;annata mi richiam&ograve; Tullio dicendomi che si era liberato un posto a Cagliari con Ventura; parlai con Cavasin, che cap&igrave; la situazione e da quell&rsquo;anno inizi&ograve; la mia avventura ventennale con Gian Piero&rdquo;. Raccontami invece della tua passione per il golf. Come nasce? &ldquo;Nasce in Sardegna, a Cagliari; l&igrave; conobbi un maestro inglese, Dan Williamson, grande tifoso del Cagliari; andai a provare e non smisi pi&ugrave;. Diciamo che il golf &egrave; un po&rsquo; la prosecuzione del ruolo del portiere: sei da solo contro tutti&rdquo;. Pensi mai che avresti potuto essere al posto di Giovanni Galli nel 1982 e, di conseguenza, essere un campione del mondo? &ldquo;Sinceramente non ci ho mai pensato. Io ero nel Bologna in Serie B, lui nella Fiorentina ai primi posti della classifica; poi Giovanni ha fatto una carriera grandiosa e si &egrave; meritato negli anni quella medaglia&rdquo;.&nbsp; &nbsp;       

Il numero uno racconta in esclusiva il suo passato: &ldquo;Ero simile a Zoff, ma il mio modello era Albertosi&rdquo;

Giuseppe Zinetti, gli inizi a Bologna e la seconda giovinezza a Roma

        Il Presidente della Repubblica era Luigi Einaudi, il giorno il 17 maggio del 1953. Una fiumana di persone, al limite e forse anche oltre la capienza che gli spalti, di candore marmoreo, ancora immacolati, potevano ospitare. Sole che batte non soltanto sul campo di pallone, avrebbe cantato De Gregori, ma nel nuovo stadio che non era stato concepito soltanto per il calcio perch&eacute; doveva innanzitutto rispettare la sua &ldquo;natura&rdquo;, per come era stato progettato, di impianto polifunzionale. Boniperti e Meazza Quel giorno, la Nazionale italiana di calcio capitanata da Giampiero Boniperti e guidata in panchina da Giuseppe Meazza si trov&ograve; ad affrontare la celeberrima, leggendaria Ungheria dei Puskas e degli Hidegkuti. Fu un battesimo di sole e di sport, dunque, per lo &ldquo;Stadio Olimpico&rdquo; di Roma. Non di solo calcio, da subito, perch&eacute; dopo la partita con gli ungheresi sarebbe toccato ai ciclisti che prendevano parte al trentaseiesimo Giro d&rsquo;Italia fare il loro ingresso nell&rsquo;impianto. &nbsp; Angolo di Roma Come cornice, il complesso monumentale del Foro Italico, sotto la collina verdeggiante di Monte Mario e appena sopra il nastro scorrevole, tono su tono almeno all&rsquo;epoca, del Tevere che andava e va lento lento: stavolta citiamo Baglioni, uno che nel suo concerto del 1998 avrebbe poi riempito l&rsquo;Olimpico come un uovo, letteralmente. Del resto, Il nuovo stadio presentava una pianta ovoidale, simmetrica rispetto agli assi, con la particolarit&agrave; di avere un campo di gioco collocato parecchio pi&ugrave; in basso rispetto al livello del piano stradale. Come fondamenta, il nuovo colosso con struttura di cemento armato rivestita di travertino aveva il preesistente &ldquo;Stadio dei Cipressi&rdquo;, costruito nella &ldquo;Cittadella dello sport&rdquo; il cui allestimento era stato fortemente voluto dal Duce, Benito Mussolini, il quale aveva poi affidato il progetto architettonico a Enrico Del Debbio, il quale si occup&ograve; di cambiare il volto dell&rsquo;area che si colloca tra le pendici di Monte Mario, i colli della Farnesina e il succitato Tevere, all&rsquo;altezza del punto in cui il suo corso segue un&rsquo;ansa. Lo &ldquo;Stadio dei cipressi&rdquo; era stato inaugurato nel 1932 e deve la scelta del suo nome al tipo di vegetazione che all&rsquo;epoca circondava l'impianto. La denominazione di ispirazione bucolica dell&rsquo;impianto dell&rsquo;epoca era stata scelta anche per sottolinearne la compatibilit&agrave; con il paesaggio naturale che lo circondava.  Il nuovo progetto Corre l&rsquo;anno 1950 quando iniziano i lavori per uno nuovo stadio progettato dagli architetti Annibale Vitellozzi e Cesare Valle e dall'ingegnere Carlo Roccatelli. Il campo da gioco resta interrato, senza derogare rispetto al progetto originale, dunque; gli spalti si elevano fino a un'altezza superiore ai dodici metri; la capienza originariamente prevede la possibilit&agrave; di ospitare 80000 spettatori, dei quali 55.000 nei posti a sedere e 25.000 in piedi. Oggi il discorso non &egrave; ovviamente sostenibile, per una questione di sicurezza; per&ograve; all&rsquo;epoca utilizzando anche gli spazi delle scale e quelli adibiti alle soste la capienza totale arriva a 100.000 spettatori. Il fatto di avere il terreno di gioco - e di gara - a un livello molto pi&ugrave; basso del piano stradale consente di sfruttare per le gradinate anche la parte interrata e questo &egrave; un elemento di salvaguardia per i grandi alberi precedentemente piantumati nell&rsquo;area circostante i quali non devono essere tagliati e, anzi, oltre che per l&rsquo;apporto di ossigeno sono utili anche per quanto riguarda l&rsquo;impatto visivo, in quanto rendono pi&ugrave; armonica la presenza del &ldquo;gigante&rdquo;.  Lo stadio dei &ldquo;Centomila&rdquo; &nbsp;Dopo la nuova inaugurazione nel 1953, viene subito ribattezzato &ldquo;Stadio dei Centomila&rdquo; per via del numero di spettatori che potrebbe contenere. Subito dopo l&rsquo;assegnazione a Roma dei Giochi della XVII Olimpiade, quella indimenticabile del 1960, viene ribattezzato &ldquo;Stadio Olimpico&rdquo;, come lo abbiamo sempre conosciuto, fino alla data odierna, in ragione della quale gli auguriamo buon compleanno.       

Fu una sfida tra l'Italia di Boniperti e l&rsquo;Ungheria di Puskas (doppietta) a inaugurare, il 17 maggio 1953, l&rsquo;impianto nella zona nord della Capitale

Stadio Olimpico di Roma: da Puskas ai Cinque Cerchi

        Una vittoria che vale per dieci, almeno. Anche se la bacheca si riempie appena di un trofeo, molto dipende anche dalla maniera con cui lo si conquista. E il modo di vincere la Coppa Uefa del 1988 da parte del Bayer Leverkusen &egrave; intriso nella leggenda: intanto perch&eacute; &egrave; l&rsquo;unico trofeo continentale mai sollevato dalle &ldquo;Aspirine&rdquo; e poi perch&eacute; arriv&ograve; al termine di un doppio confronto in finale contro l&rsquo;Espanyol degno di un film thriller: 3-0 a Barcellona per i padroni di casa, 3-0 per i tedeschi a Leverkusen e rigori decisivi a favore del Bayer dopo i supplementari. Coppa Uefa 1987-88, il Bayer Leverkusen outsider di lusso Il Bayer di quell&rsquo;anno comunque era una squadra solidissima: a parte il 3-0 preso dall&rsquo;Espanyol nell&rsquo;andata della finale, i tedeschi non persero nessun&rsquo;altra partita durante il percorso. Anzi, tra le vittime ci furono squadre di tutto rispetto come il Feyenoord e soprattutto il Barcellona, eliminato ai quarti di finale da una rete di Tita, brasiliano che poi sarebbe venuto a giocare al Pescara. Zero a zero a Leverkusen, 1-0 al Camp Nou. In semifinale poi derby fratricida tutto tedesco contro il Werder Brema, anche qui di &ldquo;corto muso&rdquo;, grazie all&rsquo;1-0 dell&rsquo;andata confermato dallo 0-0 del ritorno. Werder che comunque vincer&agrave; la Bundesliga, a conferma del capolavoro del Leverkusen, non molto considerato all&rsquo;inizio di quel torneo e capace invece di spingersi fino all&rsquo;atto conclusivo. Un torneo in cui erano presenti quattro squadre italiane, tutte piuttosto deludenti: Inter, Milan, Juventus e Verona, con l&rsquo;Hellas unica in grado di andare un po&rsquo; pi&ugrave; avanti nella manifestazione, fuori ai quarti di finale proprio contro il Werder Brema. Bayer Leverkusen, i protagonisti della Coppa Uefa 1987-88 Una squadra, quella, di spessore internazionale come dimostrano i nomi degli stranieri a disposizione dell&rsquo;allenatore Erich Ribbeck: Tita, ne abbiamo gi&agrave; parlato, ex pilastro del Flamengo di Zico campione della Libertadores, il polacco Buncol, motore della squadra terza al Mondiale 1982, e il sudcoreano Cha Bum-kun, uno dei primissimi asiatici a spopolare nei campionati europei. Tutt&rsquo;altro che solamente esotico, Cha, capace di sdoppiarsi in un doppio lavoro da attaccante e da esterno (destro) che farebbe la fortuna degli allenatori di oggi: per lui peraltro seconda Coppa Uefa in carniere dopo quella del 1980, quando aveva vinto con l&rsquo;Eintracht Francoforte. Insomma, un giocatore di spessore internazionale. L&rsquo;anima tedesca era incarnata da capitan Rolff soprattutto, dal difensore Reinhardt e dal bomber Falko G&ouml;tz: dalla panchina si alzava un altro futuro &ldquo;italiano&rdquo;, l&rsquo;attaccante Herbert Waas, che andr&agrave; a giocare al Bologna senza troppa fortuna. Espanyol-Bayer Leverkusen 3-0: andata disastrosa Tutti gli appassionati comunque ricordano quella finale, quel doppio confronto, contro una vera outsider come l&rsquo;Espanyol del basco Clemente e con in campo, tra gli altri, Ernesto Valverde, futuro tecnico del Barcellona e attuale allenatore dell&rsquo;Athletic Bilbao. Catalani reduci da una clamorosa rimonta in semifinale ai danni del Bruges, da 2-0 a 3-2, sempre tra andata e ritorno, e che cominciano la finale allo stadio Sarri&agrave; di slancio. Tutto si concretizza a cavallo tra il primo e il secondo tempo, quando in 14 minuti, pi&ugrave; naturalmente l&rsquo;intervallo, l&rsquo;Espanyol colpisce in tre occasioni: doppietta di Losada e gol di Soler dopo una rete precedentemente annullata ai padroni di casa. Una lezione di calcio che non sembra solo rimontabile, ma nemmeno avvicinabile. I catalani in porta peraltro hanno un muro, sulla carta, come il camerunese N&rsquo;Kono, quindi il 3-0 dell&rsquo;andata pare proprio una sentenza. Eppure mai dire mai. Bayer Leverkusen-Espanyol, rimonta da favola e trionfo ai rigori Ribbeck per il ritorno fa solo un cambio davanti: fuori Waas e dentro Gotz, dietro di lui Cha e Tita. Purtroppo per il Bayer il primo tempo finisce 0-0. A quel punto l&rsquo;allenatore tedesco si gioca il tutto per tutto e mette Waas, passando a una specie di 4-3-3 molto offensivo, che &egrave; la svolta della gara. Spunto di Waas a destra, cross in area dove si accende un mischione risolto da Tita con una zampata sottomisura: parrebbe un gol casuale, ma l&rsquo;inerzia gira quasi subito con il 2-0 di Gotz al minuto 63, servito da T&auml;uber appena entrato al posto proprio di Tita, non proprio d&rsquo;accordo con la decisione del suo allenatore. Il 3-0 nel finale &egrave; di Cha, inesauribile, di testa su calcio di punizione. Supplementari di studio e poi rigori, dove il Bayer inizia male, sbagliando con Falkenmayer: l&rsquo;Espanyol invece &egrave; perfetto nei primi due tiri, ma la svolta arriva quando Urquiaga spiazza Vollborn ma centra la traversa. Da l&igrave; i catalani non ne azzeccano pi&ugrave; una, mentre il Leverkusen mette la testa avanti con Waas e T&auml;uber. L&rsquo;ultimo rigore &egrave; di Losada, l&rsquo;eroe dell&rsquo;andata, che spara alto. Tripudio per i tedeschi, che sollevano la Coppa Uefa davanti al loro pubblico, per quello che ancora oggi &egrave; l&rsquo;unico titolo internazionale in bacheca.       

I tedeschi hanno conquistato la Coppa Uefa del 1987-88 contro l&rsquo;Espanyol pareggiando lo 0-3 subito all&rsquo;andata e vincendo ai rigori al termine di una rimonta rimasta nella storia

Il Bayer Leverkusen e quella goduria dagli 11 metri

        Al Genoa padrone di casa - si fa per dire visto l'esodo di massa dei tifosi della Roma - basta un punto per la salvezza aritmetica; lo stesso che manca alla Roma per laurearsi Campione d'Italia. La Roma di tante anime, tutte diversamente dominanti, profili caratteriali a volte non facili da tenere assieme, ma straordinariamente cooperanti per &ldquo;giungere in porto col vessillo&rdquo; come aveva profetizzato il timoniere dal cipiglio severo, ovvero Capitan Agostino Di Bartolomei, al termine della gara vinta all&rsquo;Olimpico contro l&rsquo;Avellino. La Roma del Presidente Dino Viola, colui che aveva instillato nella storia del club il &ldquo;germe&rdquo; di una sorte diversa da quella che i tifosi giallorossi avevano sempre supposto e persino accettato preventivamente per il futuro del club; la Roma di Nils Liedholm, condottiero apparentemente placido e serafico, in realt&agrave; granitico nel carisma e nell&rsquo;autorevolezza con la quale guidava il gruppo; la Roma di Paulo Roberto Falcao, corsa neoclassica ed esultanza regale che sfiorava il cielo, senso euclideo e tempi di gioco degni di von Karajan; la Roma di Bruno Conti, Campione del Mondo e nel mondo campione, mancino fertile per ogni latitudine; la Roma potente come Nela ed esperta come Maldera, geometra come Prohaska e invalicabile come Vierchowod; la Roma perpetua nel moto di Ancelotti e baffuta sotto rete per ogni gol di Pruzzo. La festa scudetto della Roma La festa, com'&egrave; ovvio, comincia gi&agrave; prima della gara. Dopo il fischio d'inizio, la squadra capitolina comincia a cercare la sicurezza definitiva del vantaggio; il goal arriva con Pruzzo, di testa, su assist proprio di Di Bartolomei. Ancora una volta, impressionano la pulizia della giocata, la precisione, i giri contati del pallone: gli argomenti di fronte a cui, come sempre, debbono arrendersi quelli che tacciano Agostino di essere un giocatore troppo lento e compassato. Di Bartolomei in quell'azione, nata da un tentativo di Conti direttamente da calcio d'angolo, finta il passaggio rasoterra alla sua sinistra, manda a vuoto mezza retroguardia genoana e poi con la visuale sgombra "apre" una traiettoria che sembra disegnata da un goniometro. Lo stacco e la torsione del bomber di Crocefieschi fanno il resto, Silvano Martina non pu&ograve; che raccogliere la sfera in fondo al sacco. Il Genoa paregger&agrave; con Fiorini, estendendo i festeggiamenti a tutto lo stadio. Dopo il fischio finale, l'invasione, lo spogliarello forzato a cui i neo campioni sono obbligati sul terreno di gioco, nello spogliatoio &egrave; il delirio: Conti innaffia tutti con lo champagne, Nela pu&ograve; concedersi una sigaretta, Ancelotti e Tancredi non smettono di abbracciarsi, si canta e si urla. Sempre Galeazzi, l'uomo ovunque della Rai di allora, si accomoda con Di Bartolomei da una parte per chiedere proprio a lui - non solo in quanto capitano ma anche in quanto Agostino - di "tirare una linea", stilare un bilancio dopo il grandissimo, storico traguardo appena raggiunto. "Ago", con ancora indosso l'accappatoio umido, con il sopracciglio arcuato e l'espressione assorta, nel parlare fissa un punto imprecisato: l&igrave; convergono la soddisfazione per un titolo impensabile fino a qualche anno prima e la consapevolezza della grandezza non episodica raggiunta dalla Roma, dell'autorevolezza delle sue ambizioni. Senza uscire dalla sua naturale compostezza, con il solito, inusuale - per il calcio italiano dell'epoca - linguaggio forbito, il capitano lascia comunque trapelare un grandissimo orgoglio. &Egrave; un figlio di Roma - una Roma autentica la sua, verace ma aliena dai luoghi comuni che fanno clich&eacute; e cartolina - che ha appena collocato il giallo e il rosso sul gradino pi&ugrave; alto del podio. E allora, forse, senza neanche il bisogno di rifletterci pi&ugrave; di tanto, quella che rompe un digiuno che sembrava eterno &egrave; soprattutto la Roma di Agostino Di Bartolomei, che c&rsquo;era gi&agrave; prima della grandezza e ci sarebbe stato comunque. Suo, un po&rsquo; pi&ugrave; che di ogni altro, l&rsquo;istante di quel fischio finale quarant&rsquo;anni fa; per lo stesso motivo, dopo quattro decenni &egrave; il suo nome il primo che viene in mente: a chi scrive, come a chi legge.       

L'8 maggio del 1983 i giallorossi vincevano il loro secondo storico scudetto guidati dal "Barone" Nils Liedholm

Roma, quando si avverò il sogno di Viola

        Il 22 aprile 1973 &egrave; la domenica di Pasqua. L&rsquo;Italia si dibatte e discute fra inflazione, crisi energetica e violenza politica mentre il campionato si avvia verso un finale arroventato che avr&agrave; bisogno del fotofinish dell&rsquo;ultima giornata per dare lo scudetto alla Juventus e lasciare un pugno di rammarico a Milan e Lazio. Una domenica di Pasqua nella quale il mistero della resurrezione, il profumo della colomba e le vicende del campionato si mescolano in un m&eacute;lange di emozioni nel quale un calciatore neo maggiorenne trova la sua sorpresa pi&ugrave; gradita: quella dell&rsquo;esordio in Serie A. Agostino Di Bartolomei e l'esordio in Inter-Roma&nbsp; Il sogno che faceva da bambino si materializza in un contesto impegnativo ad elevato coefficiente di difficolt&agrave;: lo stadio &egrave; San Siro, gli avversari gloriosi (Facchetti, Mazzola, Boninsegna, Corso) e lui viene inserito nell&rsquo;undici titolare per sostituire un compagno importante come Ciccio Cordova. Ma Agostino Di Bartolomei &egrave; un ragazzo solido, di quelli che sanno cosa vogliono dalla vita, che sognano per ottenere il meglio, non per mero compiacimento adolescenziale. Quando la maglia giallorossa numero undici (nell&rsquo;occasione bianca) gli cala sulle spalle, lui &egrave; pronto a sostenerla con tutto il peso e la gioia che comporta. Emozioni contrastanti, stomaco in subbuglio: non &egrave; difficile immaginare un po&rsquo; di tremore alle gambe alle 15.30 di quella domenica nel percorrere i pochi metri che portano dagli spogliatoi al terreno di gioco di uno degli stadi pi&ugrave; iconici del mondo. Ma Di Bartolomei sa che i momenti decisivi, quelli che segnano un passaggio importante, danno la sensazione del salto nel vuoto. Vanno accolti e vissuti senza che il timore freni la transizione verso il futuro, quello che Agostino insegue da quando non aveva paura di tirare i calci di rigore all&rsquo;oratorio del San Filippo Neri, dove la sua passione per il calcio aveva cominciato a sostanziarsi.  Milano nel destino di Agostino di Bartolomei Lui, romano di Tor Marancia, forse in quel momento capisce che Milano &egrave; un luogo che segna il suo cammino. Aveva rifiutato le lusinghe del Milan quando, a tredici anni, ne aveva notato le qualit&agrave; e voleva portarlo nel suo settore giovanile. Ora San Siro ne celebra il battesimo da calciatore vero. I rossoneri torneranno nel suo destino l&rsquo;anno dopo, quando da capitano della Primavera li batter&agrave; in finale per vincere il campionato, e nel 1984, quando la sua Roma gli dir&agrave; che le loro strade si devono separare e Agostino seguir&agrave; il mentore Liedholm nella sua ultima esperienza da allenatore a Milano. Le prime volte, a prescindere dall&rsquo;esito, non si possono dimenticare: Inter-Roma ristagna in un asfittico 0-0 ma la partita di Di Bartolomei, guidato da Antonio Trebiciani, il tecnico che lo allena nella Primavera da poco subentrato ad Helenio Herrera sulla panchina della prima squadra, &egrave; positiva. Nel commento al match, La Stampa del 24 aprile 1973 scrive: &ldquo;Il romano diciottenne Di Bartolomei &hellip; ha fatto un positivo esordio in Serie A al posto di Cordova&rdquo; mentre il Corriere della Sera ne rimarca un errore a inizio ripresa, quando &ldquo;Di Bartolomei ha fallito il bersaglio da due passi&rdquo;. Una domenica di Pasqua che per Agostino &egrave; soprattutto un&rsquo;epifania: a San Siro si &egrave; rivelato questo ragazzo dallo sguardo fin troppo serio, difficilmente incline ai sorrisi, gi&agrave; capace di ovviare a qualche limite strutturale (Ago non aveva il dono della velocit&agrave;) con un&rsquo;interpretazione del gioco asciutta, fatta di possesso palla, precisi lanci in verticale e soluzioni dalla distanza che terrorizzano i portieri. Di Bartolomei, anima da capitano Un modo di stare in campo mai finalizzato all&rsquo;autocelebrazione ma funzionale alle esigenze della squadra, lo specchio di un&rsquo;anima che non indulge su se stessa ma si pone al servizio di una collettivit&agrave; di cui sa di far parte e che si sente ispirata a condurre. Nel gioco di Agostino, nella fascia che ne cingeva il braccio c&rsquo;era un io che si faceva noi, una forza silenziosa che si sostanziava nei fatti. Eclatanti e definitivi come le punizioni che calciava, come anche quella che inflisse a s&eacute; e ai suoi cari nel porre fine prematuramente a una vita nella quale prese il sopravvento quel lato oscuro di cui nessuno aveva intuito la profondit&agrave; dolorosa.        

Il capitano della Roma dello scudetto 1982-83 debutt&ograve; in un Inter-Roma del 22 aprile 1973. Per lui fu il primo incontro con una citt&agrave; che aveva nel destino&nbsp;

Di Bartolomei e quell’esordio in Serie A alla Scala del calcio

        &Egrave; da poco iniziato il nuovo millennio e il campionato di Serie A &egrave; un serbatoio di campioni che tutt&rsquo;oggi ancora rimpiangiamo. A Roma, il 25 marzo 2000, si gioca il derby di ritorno. La cornice di pubblico &egrave; quella delle grandi occasioni con 74.000 tifosi che infiammano l&rsquo;Olimpico. Le squadre arrivano al match con morali diversi: la Roma nel turno precedente ha incassato una pesante sconfitta casalinga contro la Reggina; la Lazio, nonostante la caduta a Verona per mano di Morfeo, proviene dalla vittoria di Londra in Champions League con il Chelsea e vuole riaprire il discorso scudetto. La Juventus capolista ha infatti perso nell&rsquo;anticipo del venerd&igrave; contro il Milan. Shevchenko &ndash; che a fine torneo sar&agrave; capocannoniere con 24 reti &ndash; con una doppietta ha affossato i bianconeri. La Juve resta a +9, ma con una vittoria i biancocelesti rientrerebbero prepotentemente in corsa, visto anche lo scontro diretto in programma nel turno successivo.  Lazio-Roma, quante stelle in campo I due tecnici schierano formazioni con caratteristiche differenti. Eriksson opta per un prudente 4-5-1 affidando la retroguardia ai centrali Negro e Couto, che devono sopperire le pesanti assenze di Nesta e Mihajlovic. Proprio il serbo, dopo la dolorosa sconfitta subita all&rsquo;andata per 4-1, in attesa del derby e a insaputa dei tifosi ha deciso di caricare la squadra a modo suo, esponendo un cartello negli spogliatoi di Formello per tutta la settimana: &ldquo;A volte le aquile scendono al livello delle galline, ma una gallina non potr&agrave; mai volare in alto come un&rsquo;aquila&rdquo;. A centrocampo Conceicao e Nedved agiscono sulle corsie; Almeyda, Simeone e Veron al centro, con &ldquo;La Brujita&rdquo; pi&ugrave; libera di svariare per dare appoggio all&rsquo;unica punta Inzaghi. Risponde Capello con un pi&ugrave; offensivo 3-4-3. Lupatelli &ndash; al debutto in A &ndash; &egrave; il portiere; Zago, Aldair e Mangone i tre centrali; in mediana la fantasia e la corsa di Nakata e Di Francesco con il pendolino Cafu a destra e il francese Candela a sinistra. Davanti Totti-Delvecchio-Montella.  Nedved e Veron ribaltano il vantaggio firmato Montella Inizia il match e i giallorossi passano subito. Delvecchio calcia addosso a Marchegiani: sul seguente corner &egrave; Montella a portare avanti i suoi in spaccata. La Roma continua a spingere chiudendo i biancocelesti nella propria met&agrave; campo. Tra le aquile sembrano riemergere i fantasmi dell&rsquo;andata, ma il calcio &egrave; strano e imprevedibile. Passano i minuti, la gara &egrave; molto spezzettata, in campo i giocatori se le danno di santa ragione. Veron sfiora la traversa di testa e improvvisamente la partita cambia. Al 25&rsquo; Pancaro serve Inzaghi, la sponda dell&rsquo;ex Piacenza &egrave; sporca ma efficace: come una furia arriva Nedved che prima cicca e poi mette dentro. La Roma accusa il colpo e dopo tre minuti concede il bis. L&rsquo;arbitro Messina assegna una punizione dai 25 metri. Come detto non c&rsquo;&egrave; Mihajlovic e sul punto di battuta si presenta Veron. L&rsquo;argentino con l&rsquo;interno destro d&agrave; un violento schiaffo al pallone, il risultato &egrave; una perla assoluta: la sfera termina come un proiettile sotto al sette. Nel finale di tempo ci riprovano i giallorossi, prima con Delvecchio poi con Totti. Proprio nella seconda azione uno scontro tra Marchegiani e il numero 24 giallorosso costringe il portiere al forfait. Al suo posto entra Ballotta.  Aspettando Juve-Lazio, il derby &egrave; biancoceleste A inizio ripresa Capello cambia: fuori Nakata dentro Assuncao. Totti prova a impensierire Ballotta, ma l&rsquo;esperto portiere laziale si fa trovare pronto. Rispondono i biancocelesti con Pancaro che confeziona un prezioso assist per Conceicao, il portoghese arriva sul pallone in precario equilibrio chiamando comunque Lupatelli agli straordinari. La girandola di cambi continua, tra i giallorossi entra anche Tommasi; Eriksson invece sostituisce Inzaghi e il match winner Veron con Boksic &ndash; pi&ugrave; adatto alle ripartenze &ndash; e Sensini &ndash; che garantisce maggiore equilibrio &ndash;. Il tempo stringe, la Roma attacca. Delvecchio si conferma in giornata no quando servito splendidamente dal suo capitano conclude centralmente. Totti ci prova ancora con un tiro a giro che esce di un soffio. Con i giallorossi tutti in avanti Simeone ha sulla testa la chance per chiudere i giochi, ma la sua capocciata termina a lato. Solo sette giorni pi&ugrave; tardi &ndash; su assist di un ispiratissimo Veron &ndash; ammutolir&agrave; il Delle Alpi regalando ai suoi la vittoria chiave per la rimonta scudetto. Messina fischia tre volte dando il via ai festeggiamenti del popolo laziale. Quando mancano solo sette giornate al termine la Juve comanda la classifica con 59 punti; la Lazio insegue a 53&hellip; Lazio-Roma 2-1 del 25 marzo 2000: il tabellino LAZIO (4-5-1): Marchegiani (43&rsquo; pt Ballotta); Gottardi, Negro, Couto, Pancaro; Conceicao, Almeyda, Simeone, Veron (21&rsquo; st Sensini), Nedved; Inzaghi. A DISP.: Lombardo, Mancini, Ravanelli, Salas. ALL.: Eriksson.  ROMA(3-4-3): Lupatelli; Zago, Aldair, Mangone; Cafu (37&rsquo; pt Rinaldi), Di Francesco, Nakata (1&rsquo; st Assuncao), Candela (13&rsquo; st Tommasi); Delvecchio, Totti, Montella. A DISP: Campagnolo, Gurenko, Blasi, Poggi. ALL.: Capello.  ARBITRO: Messina (Bergamo). MARCATORI: 3&rsquo; pt Montella (R), 25&rsquo; pt Nedved (L).        

Il 25 marzo 2000 inizi&ograve; la rimonta scudetto bianceleste: attendendo lo scontro al vertice contro la Juve, battuti 2-1 i giallorossi nella stracittadina grazie alla magia della Brujita&nbsp;

Lazio-Roma: quando la punizione di Veron regalò il derby a Eriksson

        C&rsquo;era anche lui tra i ragazzi che festeggiavano in uno stadio Olimpico incendiato dalla gioia della vittoria del primo trofeo che la Nazionale otteneva nel dopoguerra. Picchio De Sisti, al secolo Giancarlo, non sapeva che quello era il primo atto di un biennio (1968-70) nel quale la sua luminosa carriera avrebbe attraversato il momento migliore. Protagonista nella vittoriosa finale contro la Jugoslavia che port&ograve; all&rsquo;Italia il suo primo titolo Europeo, nella stagione successiva De Sisti fu tra gli artefici del secondo scudetto della Fiorentina che, in quegli anni di cambiamento, portava la rivoluzione nelle gerarchie del calcio italiano. Nel 1970 fece parte della spedizione mondiale in Messico, imprescindibile per il CT Valcareggi che, perennemente in bilico nella scelta tra Mazzola e Rivera, a De Sisti non rinunci&ograve; mai per via della sua abilit&agrave; nel dare equilibrio a una squadra che senza di lui avrebbe rischiato di rimanere spezzata in due. Picchio De Sisti e gli inizi con la Roma&nbsp; Era questo, dal punto di vista tecnico, il tratto distintivo di Picchio: saper ragionare, assemblare gli elementi del gioco resi disponibili dai compagni in un progetto funzionale in grado di portare la squadra all&rsquo;ottimizzazione del rendimento. Aveva una capacit&agrave; di domare il pallone mai fine a se stessa che usava come mezzo per progettare azioni e gestire tempi di gioco. Un&rsquo;arte che aveva appreso da Juan Alberto Schiaffino durante gli allenamenti dei primi anni Sessanta, quando De Sisti aveva realizzato il sogno di una famiglia tutta romanista esordendo in Serie A con la maglia giallorossa. Prodotto del vivaio, era entrato nelle giovanili grazie a un provino che gli aveva procurato un amico del padre. Fu subito Picchio per via della similitudine delle sue movenze a quelle di una trottola di legno, che in romanesco viene appunto chiamata cos&igrave;. Il percorso a braccetto con la Roma &egrave; un sogno a occhi aperti: la vittoria della Coppa Italia nel 1964 (quando De Sisti, a ventuno anni, &egrave; ormai titolare della squadra) pi&ugrave; che la Coppa delle Fiere del 1961, quando il ragazzo fa solo parte della rosa, sono il presagio della sua carriera. Che per&ograve;, con la squadra del cuore, si interrompe bruscamente nell&rsquo;estate del 1965, quando le casse della Roma (nihil sub sole novum) sono pi&ugrave; aride del deserto del Mojave. &Egrave; la stagione della penosa colletta del Sistina e per finanziare la societ&agrave; &egrave; necessario vendere i migliori giocatori. De Sisti &egrave; tra questi e la sua cessione alla Fiorentina (la prima squadra alla quale fece gol in Serie A l&rsquo;11 marzo 1962) &egrave; cosa fatta per tanti milioni pi&ugrave; Benaglia. I nove anni a Firenze e lo scudetto del 1969 &nbsp;All&rsquo;inizio ci rimane male. Il suo mondo affettivo &egrave; legatissimo alla Capitale: genitori, fidanzata, amici, squadra amata. Ma Firenze, dopo avergli fatto i ponti d&rsquo;oro, lo coccola come un re. &Egrave; la Fiorentina &lsquo;j&egrave;j&egrave;&rsquo;, quella frizzante costruita sulla voglia di emergere dei giovani che nel 1969 vince lo scudetto. &Egrave; la squadra esuberante di Merlo, Amarildo e Chiarugi. Ma &egrave; anche la compagine nella quale spicca la personalit&agrave; sobria e cristallina di De Sisti, allenatore delegato in campo: &ldquo;Faccia lei, De Sisti&rdquo; gli concedeva il tecnico Pesaola quando lui non riusciva a intervenire in prima persona. Trasparente nel portare il suo carattere anche in campo, Picchio era votato, per citt&agrave; di nascita e d&rsquo;adozione, alla visione creativa del gioco. L&rsquo;armonia e la bellezza delle piazze e delle chiese romane e fiorentine gli avevano fatto respirare la forza dell&rsquo;equilibrio e la potenza delle geometrie. In una concezione artistica del calcio, De Sisti era Brunelleschi pi&ugrave; che Botticelli, struttura architettonica pi&ugrave; che dipinto estatico. Varcata la soglia dei trent&rsquo;anni, Firenze avrebbe potuto essere la sua ultima magione. Se non fosse stato per l&rsquo;arrivo di Gigi Radice, col quale Picchio ebbe un rapporto infelice che lo spinse, al termine della stagione 1973-74, a chiedere la cessione.  Il ritorno nella Capitale Certi amori fanno giri immensi e poi ritornano. Cos&igrave;, dopo aver sciacquato i panni in Arno, De Sisti decise di tornare a Roma nonostante le lusinghe dell&rsquo;Inter. Lo aspettava Liedholm per dargli in mano le chiavi della squadra e utilizzarlo come un Falc&atilde;o&nbsp;ante litteram. Coi giallorossi spende le ultime cinque stagioni del suo cammino professionale, facendo in tempo a intravedere l&rsquo;evoluzione del calcio che sarebbe arrivata. Nel 1979 Liedholm, all&rsquo;alba del suo secondo mandato sulla panchina della Roma, gli chiese di non ritirarsi. Ma Picchio cap&igrave; che lo scudetto che il presidente Viola gi&agrave; preconizzava per lui era solo una terra promessa: cos&igrave; rimase fermo nella sua decisione. Del Barone, per&ograve;, accolse il suggerimento di studiare da allenatore, diplomandosi a Coverciano e guidando la Fiorentina al doloroso secondo posto del 1981-82, miglior risultato di una carriera da tecnico frenata da qualit&agrave; umane sempre meno di moda nel mondo del calcio: rispetto, educazione e voglia di lavorare senza proclami.        

Cresciuto nel vivaio giallorosso, con la Fiorentina arriv&ograve; allo scudetto nel 1969. Fu tra i protagonisti dell&rsquo;Italia di Valcareggi, con cui vinse l&rsquo;Europeo e gioc&ograve; la finale a Messico &rsquo;70

Picchio De Sisti, l’architetto che disegnò calcio tra Roma e Firenze

        Jesus Maria Satrustegui &egrave; il massimo realizzatore di ogni epoca della Real Sociedad, unico club della sua vita e della sua carriera: tredici stagioni con 162 gol segnati. Record difficile da battere visto che tra i giocatori in attivit&agrave; quello che gli va pi&ugrave; vicino &egrave; Oyarzabal, a quota 81: anche se &egrave; ancora molto giovane, ne ha di strada da percorrere, l&rsquo;attuale numero 10 dei baschi. Satrustegui era un attaccante che non aveva paura di niente, specie se c&rsquo;era da colpire di testa: capelli lunghi, baffoni di un&rsquo;altra epoca, con la Real Sociedad ha vinto due volte la Liga, nel 1981 e nel 1982, e la Supercoppa sempre nel 1982, nell&rsquo;era d&rsquo;oro del club di San Sebastian, quando schierava ancora tutti giocatori baschi. Al suo attivo pure una lunga militanza con la nazionale spagnola, compreso un Mondiale, quello del 1982, e l&rsquo;Europeo del 1980. Gli abbiamo chiesto un parere sulla sfida tra la &ldquo;sua&rdquo; Real e la Roma, lui che nella Coppa Uefa 1979-80 segn&ograve; due gol all&rsquo;Inter nella sfida di primo turno, nel 2-0 del ritorno che non serv&igrave; a ribaltare il 3-0 di San Siro. Satrustegui, cosa si ricorda di quel doppio confronto?  "Che probabilmente disputammo l&rsquo;andata in maniera troppo leggera, errore gravissimo contro le squadre italiane. Detto che quell&rsquo;Inter poi avrebbe vinto il campionato italiano, fu molto brava nel sorprenderci, di fatto ipotecando la qualificazione al secondo turno". Lei segn&ograve; una doppietta al ritorno, cosa vi manc&ograve; per portare la sfida ai supplementari?  "Dettagli, forse, oltre che un rigore chiarissimo non fischiato nel finale al mio compagno di reparto Lopez Ufarte. Comunque fu molto utile per noi quella vittoria, perch&eacute; ci fece rendere conto della nostra forza e ci diede quell&rsquo;autostima necessaria a raggiungere i futuri traguardi". Era difficile giocare contro i difensori italiani dell&rsquo;epoca? "Noi nella Liga avevamo degli elementi che davano del gran filo da torcere, come Goyo Benito o Migueli. Per&ograve; s&igrave;, anche i vostri non erano male, erano bravissimi nell&rsquo;arrivare a un punto in cui si faticava a distinguere l&rsquo;intervento duro dal fallo. Anche in nazionale, ricordo bene lo 0-0 dell&rsquo;Europeo del 1980". Cosa pensa di Roma-Real Sociedad?  "Dei giallorossi ho visto appena qualche partita. Mi &egrave; sembrata una formazione abbastanza irregolare ma, come detto, contro le squadre italiane non puoi giocarci 'a cuor leggero'. E poi hanno Mourinho in panchina, non lo scopriamo certo oggi. Ha avuto qualche inciampo, qualche contrattempo, per&ograve; intanto &egrave; l&igrave; e l&rsquo;anno scorso ha portato a casa la Conference League". E come vede la &ldquo;sua&rdquo; Real Sociedad?  "&Egrave; una squadra molto giovane che non &egrave; in un grandissimo momento di forma, soprattutto perch&eacute; fatica a segnare. Deve confidare nelle sue qualit&agrave; individuali, che comunque sono evidenti".  Dove possono soffrire i baschi?  "Nella mancanza di esperienza, appunto. Ricordo l&rsquo;edizione dell&rsquo;Europa League del 2020-21, la partita che giocarono contro il Manchester United a Torino. Non dico che sottovalutarono l&rsquo;avversario, per&ograve; furono un po&rsquo; ingenui e beccarono tutti e quattro i gol praticamente in contropiede, finendo eliminati gi&agrave; all&rsquo;andata. In generale per&ograve; vedo una sfida molto equilibrata, forse con la Real leggermente avvantaggiata, ma davvero di poco". Qualche giocatore decisivo dal punto di vista della Real Sociedad? "Sicuramente David Silva, un giocatore di grande caratura internazionale, &egrave; l&rsquo;uomo con pi&ugrave; esperienza. Di recente ha avuto qualche problema fisico di troppo ma come mentalit&agrave; &egrave; indispensabile per i suoi".       

Fu un giocatore iconico della formazione rivelazione dei primi anni Ottanta e bicampione di Spagna. Segn&ograve; due gol all&rsquo;Inter in Coppa Uefa nel 1979

Roma-Real Sociedad, Satrustegui: il Pruzzo basco

        Ascolta il podcast e clicca il tasto segui    Nella nuova puntata del podcast de Il Cuoio raccontiamo Roma-Juventus, una delle rivalit&agrave; pi&ugrave; accese del calcio italiano, che affonda le sue radici negli anni Trenta del secolo scorso e si esalta negli anni Ottanta, tra le battute di Dino Viola e la caustica vivacit&agrave; di Giampiero Boniperti, fino alle dinamiche pi&ugrave; recenti, da Zeman a Mourinho. Il podcast su Roma-Juventus &egrave; con Stefano Cocci, Alessandro Ruta e Paolo Valenti. Seguilo e clicca la campanella su Spotify e su tutte le app gratuite di ascolto podcast.       

Dal 5-0 di Campo Testaccio alle polemiche tra Boniperti e Viola fino ai giorni nostri: racconto di una delle rivalit&agrave; pi&ugrave; accese del calcio italiano

PODCAST - Roma-Juve, la storia infinita

        Nel suo destino sembrava potesse esserci la Lazio, invece &egrave; stato il giovane pilastro della Roma pi&ugrave; bella e vincente di sempre. Ubaldo Righetti compie sessant&rsquo;anni, oggi brillante comunicatore, capace di cogliere i momenti tattici delle partite come in pochi sono capaci di fare. Ubaldo Righetti da Sermoneta fu preso da Liedholm tra i ragazzini della Roma (&ldquo;i bambini&rdquo; come li chiama oggi Mourinho) e visse sette anni magici, conquistando lo scudetto del 1983 e tirando un rigore (segnato) nella sfortunata finale contro il Liverpool del 1984 - a testimonianza di quanta fiducia avesse Nils in quel ragazzo alto, prestante, ma ancora 21enne -.&nbsp; Gli inizi: da tornante a libero Fu l&rsquo;altezza a far fallire il suo primo provino nella Roma. Tredicenne, giocava tornante nella Fulgorcavi, fu preso, ma fu fermato tutto quando alla Roma scoprirono la sua giovane et&agrave;, lo avevano scambiato per un quindicenne. L&rsquo;occasione si ripresent&ograve; pi&ugrave; avanti, ma con la Lazio; fu Giorgio Perinetti a soffiarlo ai biancocelesti pagandolo in totale 20 milioni di lire. Pi&ugrave; o meno 10 mila euro. Debutta in Serie A il 7 febbraio 1982, tre minuti, come recitava un catenaccio del Corriere dello Sport-Stadio. Invece, l&rsquo;esordio dal primo minuto, da titolare, &egrave; del 21 marzo 1982, la Roma gioca a Bologna e per sfortuna i giallorossi perdono, ma la sua pagella &egrave; buona: 6,5. A fine partita dichiara: &ldquo;Sono davvero felice per aver soddisfatto il mister. Personalmente mi sento euforico, soddisfattissimo per la mia prestazione. Purtroppo a frenare la mia gioia c&rsquo;&egrave; il risultato: non ci voleva questa sconfitta, non l&rsquo;abbiamo meritata. Che cosa ha fatto il Bologna pi&ugrave; di noi?&rdquo;. E quando gli chiedono della prima ammonizione, Righetti risponde sicuro: &ldquo;Non avevo alternativa, Mancini (eh s&igrave; lui, l&rsquo;attuale commissario tecnico della Nazionale, ndr) era stato bravissimo a sorprendermi, io mi aspettavo che stoppasse la palla, invece se l&rsquo;&egrave; portata avanti di prima, sullo slancio e per non mandarlo in gol l&rsquo;ho dovuto atterrare&rdquo;.&nbsp; La carriera di Righetti La Roma gioca a zona e Righetti diventa un centrale, quello che oggi definiremmo uno con il piede educato, capace di verticalizzare per superare la prima linea di pressing avversaria o in grado di sganciarsi palla al piede per creare superiorit&agrave; a centrocampo.&nbsp;Nel 1984 vinse il Trofeo Bravo, riconoscimento per il migliore Under 21 europeo. Roma, la Roma, Dino Viola e soprattutto Liedholm se lo coccolano. Lui Nils non lo ha mai dimenticato. Qualche tempo fa, durante un&rsquo;intervista per il canale tv della societ&agrave; giallorossa, dichiar&ograve; come Liedholm per lui fu &ldquo;un Maestro, non solo di calcio, ma di vita, capace di leggere le situazioni anche personali, perch&eacute; se la persona sta bene riesce a fare l&rsquo;allenamento bene e d&agrave; molto di pi&ugrave;&rdquo;. Alla Roma resta fino al 1987. Poi arrivarono Collovati e Signorini e per il centrale, ancora giovane, inizi&ograve; una nuova avventura, a Udine, poi Lecce, Bari (in prestito per disputare la Mitropa Cup che i biancorossi vinsero), poi Pescara (citt&agrave; e club a cui &egrave; ancora legatissimo e dove nacque l&rsquo;amicizia con Massimiliano Allegri). Chiuse la carriera a Terracina, vicino casa, lui di Sermoneta e ancora oggi un cuore giallorosso.&nbsp;        

Gli esordi, il Maestro Nils Liedholm, lo scudetto, il Trofeo Bravo, il rigore contro il Liverpool in una notte maledetta: come direbbe Mourinho, storia di un &ldquo;bambino&rdquo; della Roma

Ubaldo Righetti, l’eleganza del centrale

Settantacinque anni e non sentirli. In occasione del suo compleanno, Sven-G&ouml;ran Eriksson apre l&rsquo;album dei ricordi: una carriera straordinaria fatta di successi, avventure e innovazioni. Dagli esordi al Benfica alla prima tappa italiana alla Roma, con lo scudetto perso in extremis: dalle vittorie europee, alla rivincita con la Lazio fino alle esperienze sulle panchine dell&rsquo;Inghilterra, del Messico, della Costa d&#39;Avorio e delle Filippine. La storia del &ldquo;perdente di successo&rdquo; capace di trasformarsi in uno degli allenatori pi&ugrave; vincenti e apprezzati del panorama internazionale. Uno dei primi a ricorrere al turnover e a creare una nuova generazione di allenatori: da Mancini a Mihajlovic, da Nesta a Lampard, fino a Gerrard e Concei&ccedil;ao. Sono tanti gli allievi che hanno dichiarato di ispirarsi a lui come allenatori.    Mister Eriksson, come ci si sente a 75 anni guardandosi alle spalle?  &ldquo;A parte una piccola influenza che mi ha bloccato in questi giorni (ride ndr) bene. E ancora in forma. Sento di poter dare ancora tanto al calcio e mi sto impegnando nel ruolo di Direttore Sportivo. Ora sono in Svezia nel Karlstad BK. E guardo tante partite&rdquo;.  Anche la Serie A?  &ldquo;Certo, il campionato italiano, la Premier, la Liga. Mi piace tenermi aggiornato. Oggi, rispetto a qualche anno fa, &egrave; molto pi&ugrave; facile vedere il football in televisione&rdquo;.  Nella sua carriera pensa di aver ottenuto il massimo o ci sono dei rimpianti?  &ldquo;Se uno si guarda alle spalle &egrave; normale vedere quello che si poteva fare meglio. E di rimpianti se ne trovano sempre tanti. Ma io non sono fatto cos&igrave;. Non sono uno a cui piace guardarsi alle spalle e piangersi addosso. La vita &egrave; bella e va vissuta giorno dopo giorno. E poi credo di aver ottenuto e vinto tanto&rdquo;.    A Roma, prima di trionfare con la Lazio nel 2000, ha perso due scudetti: con la Roma nel 1986 e con i biancocelesti nel 1999. Rimpianti?  &ldquo;Potevo vincere di pi&ugrave;: lo scudetto alla Roma, quello con la Lazio perso alla penultima giornata e soprattutto la Champions League con i biancocelesti. Eravamo una squadra davvero forte e potevamo portare a casa altri trofei&rdquo;.  In biancoceleste per&ograve; ha vinto uno scudetto incredibile.  &ldquo;Soprattutto per come &egrave; arrivato. &Egrave; stato bello, emozionante. Abbiamo fatto felici tanti tifosi che aspettavano da anni di tornare a vincere il campionato. Se penso a quegli anni &egrave; chiaro che, il rammarico c&rsquo;&egrave;, ma anche la gioia e l&rsquo;enorme soddisfazione di aver vinto uno scudetto in modo unico&rdquo;.  Quando ha accettato la panchina dell&rsquo;Inghilterra, pensava che il suo ciclo a Roma si era chiuso?  &ldquo;Era una grande occasione. Un lavoro importante e volevo provare questa avventura. Se ho fatto bene oppure no ad accettarlo e a lasciare la Lazio, non so dirtelo. Ma valeva la pena tentare&rdquo;.    Mancini, Mihajlovic, Nesta, Concei&ccedil;ao. Ha cresciuto un lungo elenco di allenatori.  &ldquo;Ma io ho fatto poco per loro. Erano gi&agrave; allenatori da giocatori. Si vedeva che avevano la stoffa. &Egrave; stato un piacere lavorare con loro e non &egrave; stata una sorpresa vederli protagonisti in panchina&rdquo;.  Su tutti c&rsquo;&egrave; qualcuno che l&rsquo;ha sorpresa?  &ldquo;Dico il contrario: sarei stato sorpreso se Mancini non avesse fatto la carriera che ha poi realizzato. Era la mia guida in campo e si vedeva che ragionava gi&agrave; da allenatore&rdquo;.    Come ha vissuto la malattia e gli ultimi giorni di Sinisa Mihajlovic?  &ldquo;Malissimo. Un dispiacere enorme, che ho vissuto con grande tristezza. Un uomo giovane, forte, non pu&ograve; finire cos&igrave;. Mi dispiace tanto per la sua famiglia. Lo avevo sentito una settimana prima della sua morte e ogni volta che ci penso sento un peso enorme sul cuore&rdquo;.  Con la nazionale inglese poteva fare meglio?  &ldquo;Fare due Mondiali ed uscire entrambe le volte ai quarti di finale &egrave; dura da digerire, ma soprattutto nel 2006 potevamo fare di pi&ugrave;: eravamo una squadra fortissima e non dovevamo uscire con il Portogallo&rdquo;.  Mister, tra i tecnici di oggi, c&rsquo;&egrave; un Sven-G&ouml;ran Eriksson?  (Ride ndr)&hellip; &ldquo;Non mi faccia dire queste cose: non sono mai stato bravo. Questo dovete dirlo voi&rdquo;.    &nbsp;  &nbsp; 

Il tecnico svedese ripercorre le tappe della sua carriera: &quot;Con la Roma sfiorai il tricolore. La morte di Mihajlovic un dolore enorme, ci eravamo sentiti una settimana prima&quot;

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