        Trent'anni fa troppe cose non sapevamo e tante altre non potevamo nemmeno supporle; a stento oggi ricordiamo quali fossero i nostri pensieri, le nostre abitudini o addirittura se avessimo un amore degno di essere definito tale. Una delle poche sensazioni che gli anni a seguire avrebbero trasformato in certezze, fu quella che il 4 settembre del 1994 avvertimmo quando vedemmo il ragazzino, che di l&igrave; a qualche giorno sarebbe diventato maggiorenne, battere a rete con un sinistro al volo che come part&igrave; arriv&ograve;, all'angolino basso alla destra del portiere Franco Mancini. Il primo guizzo Minuto 30 di Roma-Foggia allo Stadio Olimpico, con la Roma che attacca sotto la Curva Nord: lancio di Thern di interno destro nel cuore dell'area, sponda di Fonseca di testa all'indietro e sul pallone si avventa Francesco Totti, che scrive 1-0 sul tabellone dello stadio.&Egrave; il primo di 307 fremiti di rete che porteranno la sua firma, sempre con la maglia della Roma, da quel 4 settembre 1994 fino al termine della carriera, con la conclusione della stagione 2016-2017.&nbsp;  Le altre prime volte Una storia calcisticamente infinita, scandita da tante altre prime volte; una, in particolare, aveva preceduto quel gol: di certo quel 28 marzo 1993, allo stadio Rigamonti di Brescia, nessuno pensava di stare presenziando a un appuntamento con la storia. Uno dei pochi pomeriggi tranquilli e vittoriosi, quell&rsquo;anno, in trasferta: giallorossi in vantaggio per due a zero sul terreno delle &ldquo;Rondinelle&rdquo;; gol di Caniggia e Mihajlovic. A due minuti dal termine, Boskov richiama Rizzitelli e spedisce sul terreno di gioco un giovane che &egrave; all&rsquo;esordio assoluto: ha soltanto sedici anni, si chiama Francesco Totti.Per il momento, &egrave; una notizia buona soltanto per gli almanacchi. Il ragazzino assaggia la Serie A in un momento storico estremamente complicato per la societ&agrave; giallorossa, tra le vicissitudini della gestione Ciarrapico e il profilarsi della presidenza di Franco Sensi.Un conto per&ograve; &egrave; debuttare per iscrivere il proprio nome nelle statistiche, un altro cominciare a inciderlo nella storia di partite importanti, meritandosi il cosiddetto onore delle cronache.Di Totti ovviamente si parlava gi&agrave; come di un valore assoluto, a livello giovanile; il calcio dei grandi per&ograve; &egrave; un&rsquo;altra cosa, con ben altre insidie e numerosi rischi: alcuni calcolati, molti altri incalcolabili.Nessuno pu&ograve; ancora saperlo, ma &egrave; in quel frangente che una delle storie pi&ugrave; belle del calcio italiano si mette in cammino.Tante altre prime volte, dicevamo: l'esordio in Coppa Italia, contro il Padova, con Carlo Mazzone in panchina, il 27 ottobre del 1993. O nella vecchia Coppa UEFA, il 12 settembre del 1995, contro gli svizzeri del Neuch&acirc;tel Xamax.La data dell'esordio in Champions League &egrave; una data terribilmente fatidica per la storia del mondo, calcio a parte: &egrave; l'11 settembre del2001 ed &egrave; tutta la Roma, in un Olimpico dall'effetto straniante, a fare l'esordio nella manifestazione, da quando ha quel nome: qualche ora dopo l'attentato alle Torri Gemelle, i giallorossi allenati da Fabio Capello scendono in campo contro il Real Madrid. Sar&agrave; 1-2 per le Merengues, alla fine, con Totti che dal dischetto dimezza lo svantaggio.Ben otto stagioni dopo, avviene l'esordio in Europa League, per Francesco Totti: la Roma di Luciano Spalletti nel turno di qualificazione ai gironi affronta i belgi del Gent e nel 3-1 finale Totti mette due volte la forma, con un rigore e una conclusione dalla distanza.Per quanto riguarda la maglia azzurra della Nazionale italiana, dopo tutta la trafila nelle selezioni giovanili, il 10 ottobre del 1998, a Udine, con Dino Zoff CT, a ventidue anni Totti esordisce durante Italia - Svizzera, qualificazione a Euro 2000.Il primo gol con l'Italia dei grandi arriva invece a Reggio Calabria, il 26 aprile del 2000, in amichevole contro il Portogallo. &nbsp;       

Il 4 settembre del 1994 lo storico capitano giallorosso, ancora diciassettenne, segn&ograve; contro il Foggia la sua prima rete in Serie A&nbsp;

Francesco Totti, 30 anni fa il primo gol con la Roma

        Da piccolo rientrava a casa al tramonto, quando il sole fischiava tre volte, avvolto dalla compagnia dei fratelli maggiori, tra l&rsquo;altro attaccanti. &laquo;Sai, era la vita dei paesi, si giocava e basta: a volte sorrido se sento qualcuno che si lamenta per i rimbalzi del pallone&hellip;&raquo;. Da l&igrave;, dalle strade e da Arezzo, &egrave; partita una carriera con pochi precedenti, che l&rsquo;ha portato a diventare una leggenda al Valencia, passando prima dalle giovanili della Fiorentina con Sacchi, dal Parma di Zeman, dalla Sampdoria di Boskov e dalla Roma di Mazzone. Amedeo Carboni in giallorosso ci &egrave; rimasto per sette stagioni, dal 1990 al 1997, vincendo una Coppa Italia e totalizzando 230 presenze. Dopo l&rsquo;addio di Giuseppe Giannini la fascia da capitano &egrave; passata sul suo braccio. &laquo;Ogni volta che incontro Francesco Totti gli ricordo che sono stato il suo capitano&hellip;&raquo;, dice scherzando l&rsquo;ex terzino sinistro, forse il giocatore pi&ugrave; costante dell&rsquo;era moderna. La Roma non era una squadra da scudetto negli Anni 90, ma si &egrave; tolta parecchie soddisfazioni in quel periodo in ambito nazionale e internazionale (vedi la finale di Coppa Uefa). Una delle tante? Battere la Juventus al Delle Alpi nel dicembre del 1995: nell&rsquo;almanacco brilla un 2-0 firmato dalla rete di Balbo e dall&rsquo;autogol di Ferrara. &nbsp; Carboni, si ricorda quella partita?&nbsp;&laquo;Certo, la Juve era la squadra da battere. Vincere in trasferta a Torino non era semplice.&nbsp;Fu davvero una bella giornata. A fine gara gli avversari furono sportivi, tanto che venne Lippi nello spogliatoio a farci i complimenti. Mazzone rispose: &ldquo;Bravo Marcello, mi piaci cos&igrave;&rdquo;&raquo;.&nbsp;  Che allenatore era Mazzone?&nbsp;&laquo;Te ne diceva di tutti i colori e poi ti abbracciava. Aveva un cuore grande e anche una parte un po&rsquo; pi&ugrave; oscura. E&rsquo; passato alla storia come un tecnico difensivo, ma in realt&agrave; la sua Roma era super offensiva&raquo;.&nbsp;  Un aneddoto di quel Juve-Roma?&nbsp;&laquo;Prima del fischio d&rsquo;inizio Collina e Lippi stavano parlando nel tunnel: erano di Viareggio e si conoscevano molto bene. Mazzone li vide lontano e grid&ograve;: &ldquo;Oh baciavate voi&rdquo;. Era leggermente prevenuto (ride)&raquo;.&nbsp;  E&rsquo; vera la storia del siparietto di Cagliari che &egrave; diventato un meme?&nbsp;&laquo;S&igrave;, per&ograve; qualche gol l&rsquo;ho fatto, per esempio contro il Br&ouml;ndby su assist di Totti. Era una cosa che si ripeteva di pi&ugrave; in allenamento ma &egrave; successo anche in partita. Mazzone: &ldquo;Amede&rsquo;, quante partite hai giocato in Serie A?". Io: "Tante, mister". Mazzone: "E quanti gol hai segnato?". Io: "Quattro, mister". Mazzone: "A&ograve;, e allora &lsquo;ndo cazzo vai?&rdquo;. Essendo il pi&ugrave; veloce della squadra voleva che fossi pronto per un eventuale contropiede. Per fortuna non sono un tipo permaloso&raquo;.&nbsp;  Che citt&agrave; era Roma in quel periodo?&nbsp;&laquo;In Italia si viveva il boom economico e sociale. La Capitale era in fermento, c&rsquo;era anche tanta politica. Andreotti era tifoso della Roma: ho detto tutto&raquo;.&nbsp;     Cosa ha significato essere capitano?&nbsp;&laquo;La fascia &egrave; una responsabilit&agrave; nel bene e nel male. I tifosi erano caldissimi, a volte per&ograve; c&rsquo;erano delle contestazioni. Essere capitano a Roma ti riempie ma non sempre &egrave; facile&raquo;.  Il capitolo giallorosso per&ograve; finisce dopo sette anni&hellip;&nbsp;&laquo;C&rsquo;era stata una discussione con il presidente Franco Sensi nel periodo di Bianchi. Aveva messo gli allenamenti alle 7.30 di mattina con gente che veniva da Parioli e da altre zone della citt&agrave;. E poi ci furono altre circostanze che incisero&raquo;.  Cio&egrave;? &nbsp;&laquo;Trotta per esempio aveva carattere e voleva battere tutte le punizioni e i rigori. Si cre&ograve; del malumore. I risultati non arrivarono nonostante il duro lavoro&raquo;.&nbsp;  La parola fine nel 1997.&nbsp;&laquo;Avevo firmato per la Juventus, dovevo andarci insieme a Fonseca, ma mi ruppi il tendine d&rsquo;Achille a maggio. Nonostante un altro anno di contratto andai via. Vedevo solo nero. Avevo 32 anni e pensavo che la mia carriera fosse finita. Quella &egrave; stata una grande lezione che ripeto a tutti i ragazzi che incontro sul mio cammino: &ldquo;Anche nella stanza pi&ugrave; buia c&rsquo;&egrave; luce, sta a te trovarla&hellip;&rdquo;&raquo;.  La sua luce?&nbsp;&laquo;Vado in Finlandia e mi opero a mie spese. Ho sempre fatto tutto da solo, non ho mai avuto un procuratore. Sakari Orava era il medico, lo stesso che ha operato Spinazzola molti anni dopo. Ad agosto ero gi&agrave; in campo, un recupero lampo: ero pronto per iniziare l&rsquo;avventura al Valencia&raquo;.&nbsp;  Una scelta fuori dal coro: gli italiani non andavano all&rsquo;estero.&nbsp;&laquo;Chi andava fuori perdeva la possibilit&agrave; di giocare in Nazionale: funzionava cos&igrave;. Ho preso questa decisione in controtendenza ma con il cuore, ragionando a 360&deg;. Eravamo pochi a scegliere altri campionati. Oltre a me in Spagna, c&rsquo;era Zola in Inghilterra&raquo;.     Il Valencia diventa una favola.&nbsp;&laquo;Vinciamo tantissimo, anche due campionati nella Liga lasciandoci alle spalle Real Madrid e Barcellona. Trionfiamo anche in Coppa del Re eliminando Real, Barcellona e Atletico Madrid: il Re in persona ci consegna un trofeo che a quei tempi valeva tantissimo, non come adesso che schierano le riserve. Anche in Europa voliamo: due finali di Champions, la Coppa Uefa e la Supercoppa&raquo;.&nbsp;  Il segreto?&nbsp;&laquo;Non prendevamo gol, mai. Difendevamo e attaccavamo tutti insieme. Nel primo campionato il capocannoniere fu Ruben Barajca con 7 gol. Cuper e Benitez sono stati grandi allenatori e poi c&rsquo;erano tanti campioni in squadra. A Valencia resto nove stagioni e divento anche direttore sportivo quando smetto con il pallone, superata la soglia dei 40 anni&raquo;.&nbsp; &nbsp;  Rimpianti?&nbsp;&laquo;Pochi, rifarei tutto. Per&ograve; mi sarebbe piaciuto chiudere la carriera negli Stati Uniti d&rsquo;America. L&rsquo;offerta c&rsquo;era, non era una questione economica ma di vita, per me e per la mia famiglia. Ho sempre avuto una propensione per il marketing e il business&hellip;&raquo;.&nbsp;  Cosa fa oggi Amedeo Carboni?&nbsp;&laquo;Sono socio di MolcaWorld, un&rsquo;azienda che si occupa di ammodernare gli stadi. Siamo partiti dal Mestalla e siamo arrivati in ogni angolo del mondo, fino in Messico e in Arabia Saudita&raquo;. &nbsp;     Vedr&agrave; Juve-Roma?&nbsp;&laquo;Il calcio continuo a seguirlo da spettatore&raquo;.  Che partita si aspetta?&nbsp;&laquo;Le prime giornate non possono rappresentare un metro di giudizio definitivo. Anche perch&eacute; si gioca con il calciomercato aperto: una stortura del sistema. Del resto, puoi partire male e finire bene, cos&igrave; come fare al contrario. La stagione &egrave; lunghissima e le dinamiche che si innescano non sono tutte sotto controllo. Quindi per me &egrave; una sfida aperta a qualsiasi risultato&raquo;.&nbsp;  De Rossi contro Thiago Motta: due allenatori agli inizi.&nbsp;&laquo;Vengono da annate molto positive, ma adesso devono confermarsi, stando alla guida di due grandi club fin dal primo giorno del raduno. Hanno squadre forti, sulla carta costruite per fare bene. Roma &egrave; una piazza esigente, ma anche a Torino non &egrave; una passeggiata. Se l&igrave; arrivi secondo hai fallito&raquo;.&nbsp;  La questione Dybala intanto si &egrave; risolta. Pu&ograve; essere davvero il valore aggiunto per la Roma?&nbsp;&laquo;Se trova entusiasmo e continuit&agrave; la Roma pu&ograve; diventare una mina vagante in campionato. Anche se la vedo meglio su competizioni come l&rsquo;Europa League o la Coppa Italia. Ma &egrave; chiaro che l&rsquo;argentino deve giocare tante partite di seguito.. Non &egrave; semplice farlo coesistere con Soul&eacute;. Sono due mancini, ma sono convinto che De Rossi riuscir&agrave; a trovare una chiave&raquo;.&nbsp; &nbsp;       

L'ex esterno della Roma racconta il calcio dei suoi anni, le sfide contro i bianconeri e la celebre frese dell'ex allenatore della Roma

Carboni: Io, Juve-Roma e il meme di Mazzone

        Ai romanisti troppo giovani che non lo hanno visto dal vivo palla al piede, uno come lui dovrebbero raccontarlo i romanisti pi&ugrave; maturi, premettendo che Giuseppe Giannini, sessant'anni oggi, ancora deve finire di riscuotere gratitudine, dal club e dal suo popolo. Ha cucito assieme, cos&igrave; come cuciva le trame di gioco che dirigeva, l'epoca di Di Bartolomei e quella di Totti, senza i loro allori ma con lo stesso senso di appartenenza: gi&ugrave; il cappello di fronte a chi, prima della propria carriera ha avuto a cuore la Roma. &nbsp;  &nbsp; L&rsquo;inizio del Principe &nbsp; Ragazzino in un pomeriggio d'inizio anni Ottanta, portamento gi&agrave; principesco &ndash; come sancito dal soprannome che Odoacre Chierico sceglier&agrave; per lui e che lo accompagner&agrave; per tutta la carriera &ndash; e viso ancora imberbe, si ritrova, nel gorgo di un malinteso con Falcao, a causare un contropiede romagnolo verso Tancredi, che culmina con la rete di tale Antonio Genzano: Roma 0 - Cesena 1. Tra il Divino e l'esordiente, deve essere per forza stato quest'ultimo a sbagliare, non ci piove. Comincia cos&igrave;, anche se &egrave; soltanto un assaggio della storia, la vita in giallorosso di Giuseppe Giannini, a testa alta anche sbagliando un retropassaggio. Le epoche le fanno gli uomini ma le subiscono anche, secondo il dettato di un destino che le sceglie al posto loro, nella tensione eterna tra ci&ograve; che meritano e ci&ograve; che ottengono; per questo ci sono uomini che dalle epoche a cui sono appartenuti non hanno ottenuto quanto avevano meritato, nel chiaroscuro di quello che poteva essere e che, per mille motivi, non &egrave; stato. A risarcirli, almeno in parte, ci pensa la storia, quando si capisce che c'&egrave; anche un modo diverso, per scriverla: che non passa per le date incise nel marmo degli almanacchi. Perch&eacute; alcune storie hanno saputo essere grandi per merito delle emozioni che sono state in grado di suscitare; perch&eacute; ancora oggi la filigrana dei ricordi che fanno affiorare &egrave; pura, nitida, a maggior ragione quando non &egrave; l'urlo liberatorio del trionfo quello di cui si percepisce l'eco, ma lo strascico di rabbia e malinconia che lasciano le imprese sfiorate, l'orizzonte troppo distante delle ambizioni che non si riuscivano mai ad accarezzare.    &nbsp; Storia di un capitano della Roma &nbsp; Ecco perch&eacute; i capitani sono coraggiosi, non solo nei romanzi: perch&eacute; hanno accettato di caricarsi sulle spalle il destino di tutta la ciurma, anche quando sentono che la sorte che avrebbero meritato non doveva essere quella che poi hanno vissuto, interpretato, addirittura incarnato. Spesso a un palmo dal sogno, quale che fosse, a volte quasi senza pi&ugrave; bussola in mezzo alla tempesta, ma sempre col vessillo alto sull'albero maestro. Il vessillo di Giuseppe Giannini &egrave; stata la maglia della Roma, lungo tutta una traversata che comincia con un errore, forse neanche suo, al timone, e che certamente, a una vita calcistica di distanza, non doveva finire come invece &egrave; finita. &Egrave; nella stagione 1984-85 che Il Principe si vede consegnare le chiavi del centrocampo della Roma, in una fase di delicato passaggio storico tra un'epoca che sta tramontando e una che stenta a vedere la luce, nella storia giallorossa.    Di lui si accorgono tutti, in breve tempo: &egrave; un centrocampista dal portamento elegante, con i tempi naturali e la visione di gioco del regista e con fondamentali da trequartista, a cominciare dal destro, delizioso. Lo stile di gioco lo fa apparire pi&ugrave; lento di quanto in realt&agrave; sia; legge lo sviluppo dell'azione e ha in dote anche il lancio lungo, di quelli che pescano i compagni con i giri contati. Gli mettono gli occhi addosso in tanti, a cominciare da quella Juventus contro la quale mette a segno il suo primo goal in Serie A, al Comunale di Torino, nella gara di andata della stagione 1984-85. Il presidente Viola non vacilla di fronte alla cospicua offerta bianconera e confida al ragazzo di sognarlo sempre e comunque in maglia giallorossa; lui non vuole sentirsi dire altro che quello. &Egrave; allora che comincia la Roma di Giannini, che ne diverr&agrave; via via capitano, simbolo, parafulmine. Anche capro espiatorio, alla fine.    &nbsp; La Nazionale di Giannini &nbsp; Parallelamente al cammino romanista, comincia e procede anche quello in maglia azzurra, a cominciare dall'Under 21. Il CT degli azzurrini, Azeglio Vicini, lo considera gi&agrave; imprescindibile per lo sviluppo della sua manovra: fatalmente, quando sale al timone della Nazionale maggiore, fa di Giannini il volano dell'Italia che dovr&agrave; onorare il Campionato del mondo del 1990, che proprio nel Belpaese si disputa. Sar&agrave; la ribalta pi&ugrave; importante della sua carriera, che lui onora con prestazioni sempre degne della massima rassegna calcistica mondiale, fino alla malinconica finale di Bari per il terzo posto, piazzamento conquistato contro l'Inghilterra di Platt e Gascoigne. Nella seconda partita del girone eliminatorio, allo Stadio Olimpico, tocca l'apice della sua esperienza in azzurro: Italia-Stati Uniti, partita che alla fine si riveler&agrave; pi&ugrave; ostica e rognosa del previsto ma il cui risultato matura gi&agrave; all'undicesimo minuto, quando su assist di Donadoni Vialli, al limite dell'area, con un velo geniale spalanca a Giannini l'ingresso in area, che culmina con il sinistro che fulmina il portiere Meola. &nbsp;   &nbsp; Quei gol romantici di Giannini &nbsp; C'&egrave;, poi, un'altra sua rete, sempre realizzata con il mancino, alla quale i tifosi romanisti saranno per sempre legati: in ballo c'&egrave; molto meno prestigio ma tanto pi&ugrave; pathos, l'onore della Roma e il suo futuro si trovano sull'orlo del precipizio, con la Serie A che sta franando sotto i tacchetti di una squadra che in campionato non vince da tre mesi e mezzo. Il 20 marzo del 1994, allo stadio Zaccheria di Foggia, lo psicodramma degli uomini guidati da Carlo Mazzone &ndash; che in un eccesso d'ira abbatte un cameraman con una manata &ndash; sembra essere giunto al punto di non ritorno: i padroni di casa, allenati da Zdenek Zeman, vanno in vantaggio dopo un quarto d'ora con De Vincenzo. Il buio d'una probabile retrocessione diviene oscurit&agrave; totale quando si diffonde la notizia che allo stadio Giglio la Reggiana sta battendo il Torino. La Roma gioca il finale sui nervi, perseguendo un minimo di residua lucidit&agrave;. A un quarto d'ora dal termine, una palla impazzita spiove al limite dell'area, dove Giannini addomestica il rimpallo e arma un sinistro teso al limite della disperazione, che batte sul palo e poi entra, cominciando a riscrivere una classifica che s'era fatta disperata. Il Principe corre, si sdraia sull'erba e, sommerso dall'abbraccio dei compagni, piange. Piange di gioia ma ancor pi&ugrave; di rabbia, piange per la rivalsa colta dopo due settimane di gogna, per aver fallito, nel derby del 6 marzo, il rigore - conquistato dal giovanissimo Francesco Totti - che avrebbe pareggiato i conti col goal di Signori. &nbsp;   Le sue non saranno state, in maglia giallorossa, notti di sogni, e meno che mai di coppe dei campioni; raramente ha giocato con compagni all'altezza del suo pregio tecnico e da capitano ha sempre guidato una Roma di cuore, grinta e determinazione, lasciando un ricordo vivido di imprese sfiorate, che si trattasse di una finale di ritorno di Coppa Italia contro il Torino oppure di una rimonta quasi perfetta in un quarto di finale di Coppa Uefa, contro lo Slavia Praga. Per tutti quei "quasi" che lo rendono creditore al pari degli stessi tifosi romanisti, andava scritta meglio e pi&ugrave; solennemente la storia della sua militanza e della sua appartenenza; per gli stessi motivi, andrebbe sottolineato ancora oggi che a quelli come lui un posto nella dirigenza della Roma dovrebbe essere naturale riservarlo.       

Capitano dell'era di passaggio tra Di Bartolomei e Totti, fosforo a centrocampo arricchito da una sorprendente attitudine al gol

Giuseppe Giannini, Il Principe di Roma e della Roma

        Lo sponsor erano ceramiche sassuolesi e per festeggiare la buona riuscita del ricco accordo si era scomodato addirittura Riva. I due stranieri un lusso: l&rsquo;uruguagio Victorino, che aveva in Bearzot un ammiratore illustre, e il peruviano Uribe, che nel 1981 era stato votato quarto miglior calciatore sudamericano dietro Zico, Maradona e Junior. Il capitano, manco a dirlo, &ldquo;Gigi&rdquo; Piras, che quell&rsquo;anno replicher&agrave; con nove gol il suo miglior bottino in A. In panchina, c&rsquo;era Gustavo Giagnoni, l&rsquo;olbiese con il colbacco, che finalmente aveva l&rsquo;occasione di trasformarsi in profeta in patria dopo lunghe stagioni nel continente. Gli ingredienti c&rsquo;erano tutti per provare l&rsquo;assalto a un posto in Europa, ma il sogno ci aveva messo poco a trasformarsi in incubo. &nbsp; Quella partita di Coppa Italia&nbsp;  Il 18 agosto di quarantadue anni fa il Casteddu apriva la sua stagione in Coppa Italia contro la Reggiana, al mitico Mirabello. Nonostante lo 0-2 a tavolino avesse posticipato un&rsquo;anteprima delle difficolt&agrave; future, vedi alla voce retrocessione all&rsquo;ultima giornata nello scontro diretto con l&rsquo;Ascoli, i primi segnali di una squadra costruita meno bene di quanto si pensasse c&rsquo;erano tutti. Il Cagliari aveva chiuso il primo tempo sotto 1-0 contro una compagine di B, poi anch&rsquo;essa retrocessa, e aveva portato a casa la vittoria solo perch&eacute; una monetina aveva colpito nell&rsquo;occhio il povero arbitro Facchin &ndash; &ldquo;trauma bulbare&rdquo; per lui &ndash; cos&igrave; la partita era stata sospesa.    &nbsp; Il Cagliari 1982-83&nbsp;  Grazie a quei due punti, e agli altri cinque messi insieme nelle quattro gare prima dell&rsquo;esordio in campionato con la Roma, in Coppa Italia i rossobl&ugrave; si erano qualificati agli ottavi. Il primo gol della stagione 1982-83, il 22 agosto a Monza, lo aveva segnato un certo Walter Mazzarri, allora un centrocampista ventunenne arrivato dal Pescara, ma il raddoppio era stato opera di Victorino. E l&rsquo;hype intorno al miglior giocatore del Mundialito 1980 e dell&rsquo;Intercontinentale 1981 si era alzato ulteriormente. Alla prima di campionato, alla sfida del Sant&rsquo;Elia contro la Roma futura scudettata si era per&ograve; presentato un Cagliari &ldquo;sbracato, sotto ritmo&rdquo; e addirittura &ldquo;disfatto dallo scirocco&rdquo;, e dopo nove minuti era gi&agrave; 0-1. Gol dell&rsquo;esordiente Alberto Faccini. Il primo centro del nuovo torneo era gi&agrave; una sentenza: ci sarebbe stato da sudare. E l&rsquo;1-3 finale contro una squadra a basso ritmo, proiettata al vicino impegno europeo contro l&rsquo;Ispwich, sarebbe potuto essere pi&ugrave; largo. Per il povero Victorino, cos&igrave; come per Uribe, quella di Cagliari non era proprio aria. Sar&agrave; stato lo scirocco?       

18 agosto 1982 primo turno di Coppa Italia vinto a tavolino. Per i sardi inizia una stagione piena di aspettative con il neoacquisto peruviano, la speranza Victorino e la bandiera Piras

Cagliari, la Coppa Italia, Uribe e la Roma

        Un delta di cicatrici ramificate all'altezza della rotula sinistra, ramificate come le linee del destino: nella consapevolezza di dove &egrave; sfociato, nel pensiero di come sarebbe potuta andare la sua storia se non portasse memoria di quei geroglifici chirurgici, con il ginocchio piegato all'interno sotto il peso della sorte.Sinistro &egrave; anche il lato del cuore, quello che un uomo come Francesco Rocca ha sempre speso nel sostenere tutto quello in cui ha creduto: da calciatore anche un poco oltre la ragione, indotta dalle spietate diagnosi; da tecnico e maestro cercando di proteggere il gioco, e la dedizione che occorre per onorarlo al massimo, da tutto il ciarpame che lo ammanta e lo inquina. Rocca: talento e abnegazione Oggi che compie settant'anni, con una cornice di rughe d'espressione che impreziosiscono quel sorriso cos&igrave; raro, cos&igrave; rado, con quella specie di smorfia a labbra serrate, come se anch'esse mimassero l'incisione di un bisturi, per parlare di Francesco Rocca non abbiamo bisogno del consueto piglio celebrativo che si esercita in queste occasioni: il miglior riconoscimento che possiamo tributargli &egrave; continuare a pensare di lui ci&ograve; che abbiamo sempre pensato. Del suo straripante talento che procedeva di pari passo, in continua accelerazione, sulla fascia di competenza; del fatto che il calcio italiano ha dovuto fare a meno di lui troppo presto quand'era calciatore e voluto fare a meno di lui proprio quando di uno cos&igrave; avrebbe avuto pi&ugrave; bisogno. Tanto pi&ugrave; bisogno e con molta pi&ugrave; responsabilizzazione rispetto a ci&ograve; che la Federazione gli ha affidato e per quanto tempo.Venuto alla luce, nitida e striata di vento fresco, di San Vito Romano il 2 agosto del 1954, quello stesso vento sembrava soffiargli alle spalle sin dai tempi del Bettini Quadraro; vento ascensionale, come la carriera che avrebbe meritato, sin da quando Helenio Herrera cap&igrave; che quel ragazzo aveva sotto il turbo prima ancora che i francesi lo inventassero, perch&eacute; dalla prima porzione della propria met&agrave; campo te lo ritrovavi nella trequarti avversaria con un'accelerazione da "effetto suolo", nel senso che pi&ugrave; aumentavano i giri, pi&ugrave; la palla restava appiccicata al piede. Le gambe sono due, per&ograve;, non quattro come le ruote di un'automobile; il soprannome allora fior&igrave; dall'ambito motociclistico: Kawasaki, marchio nipponico di affidabilit&agrave; assoluta, gi&agrave; all'epoca, oltre che sinonimo di velocit&agrave;; beffardo sarebbe suonato di l&igrave; a qualche tempo, perch&eacute; Rocca ne avrebbe onorato soltanto questa seconda caratteristica, tradito ben presto dalla prima.Della Roma dal '72, romanista per sempre: sono due cose diverse, due discorsi che hanno dovuto procedere parallelamente, quando invece all'inizio sembravano convergere in tutto e per tutto; perch&eacute; ci mise poco a dimostrare tutto il suo valore Francesco Rocca, che a vent'anni e dopo il fallimento della Nazionale al Mondiale tedesco del '74 era gi&agrave; entrato nel novero dei papabili per costruire l'Italia della rinascita. L&rsquo;infortunio  10 ottobre 1976, Roma - Cesena: Rocca sente una fitta fastidiosa al ginocchio sinistro dopo uno scontro con Bittolo, all'inizio di una gara che disputer&agrave; per intero. Non &egrave; certo uno che si risparmia, nemmeno se, come in quel caso, avverte un dolore crescente. Subito dopo la gara il ginocchio si gonfia, persistente si fa il dolore, notte compresa. Il 16 per&ograve; c'&egrave; la convocazione con l'Italia, contro il Lussemburgo. Kawasaki pur di onorare la maglia azzurra si staccherebbe una gamba per scagliarla addosso a un avversario, figuriamoci se non intende convivere con un dolore. Con il benestare dei medici, maledetta ignoranza della medicina sportiva dell'epoca, onora la convocazione: prestazione tutt'altro che memorabile, Rocca non era lui e il giudizio sui quotidiani &egrave; unanime, a cominciare dalla insufficienza con la quale lo valuta Gianni Brera, che di lui ha enorme stima.Tre giorni dopo, al Tre Fontane, il ginocchio cede da solo, durante un palleggio. Il dolore cambia stadio, al punto da fargli perdere i sensi per qualche istante; il fastidio diventa un calvario. Uno dei pi&ugrave; promettenti calciatori della sua generazione, non solo in ambito italiano, comincia a convivere forzatamente con un dubbio pi&ugrave; persistente rispetto al dolore; con le diagnosi, con l'obbligo di fermarsi ciclicamente dopo qualche buona, a volte buonissima partita. In meno di cinque stagioni, fino al termine del campionato '80 - '81, la punteggiatura della sua resilienza saranno cinque interventi chirurgici. Cinque. Dopo ogni sosta in officina, Kawasaki si convince di poter tornare ad aprire la manopola del gas fino al massimo dei giri. Ogni volta, il dolore si ripresenta, il gonfiore avvolge il ginocchio e un ragazzo che prometteva come pochi altri fa parlare di s&eacute; pi&ugrave; per i dubbi sulla sua condizione che per l'apporto che pu&ograve; dare alla Roma. Nel mentre, non smette mai di essere un idolo per la tifoseria giallorossa: se &egrave; vero, come &egrave; vero, che la Roma &egrave; innanzitutto un'entit&agrave; sentimentale, uno come Rocca che ci mette cuore e appartenenza viene considerato come un'appendice della Curva Sud sul terreno di gioco. Anche se il ginocchio glielo nega sempre pi&ugrave; spesso, quel fondo erboso che pare fatto apposta per farsi mitragliare dai suoi tacchetti, i proiettili delle sue accelerazioni.All'alba della stagione '81 - '82, durante il ritiro pre campionato, Kawasaki ha compiuto da poco ventisette anni e deve prendere confidenza con un dolore che nessuna anestesia pu&ograve; placare: dopo l'ennesima fitta, l'ennesimo gonfiore, deve annunciare che &egrave; tempo di rinunciare. Di lasciar andare quel sogno che era nato assieme a lui, che a ventidue anni si era gi&agrave; meritato la Nazionale e molto prima dei trenta non sostiene neanche una partitella senza soffrire.Nell'amichevole del 29 agosto 1981 allo Stadio Olimpico, contro l'Internacional di Porto Alegre, disputa una ventina di minuti scarsi per salutare il suo popolo; gli rimbomba nelle orecchie quel "Lode a te Francesco Rocca!" dolente e tonante da parte della Sud; il coro sembra ritmare quella parte di storia che lui s'era ampiamente meritato e che non potr&agrave; percorrere. La grande Roma di Dino Viola &egrave; un fiore in boccio, che sta per aprire definitivamente i petali fino allo scudetto del 1983; Rocca non potr&agrave; farne parte, eppure Falc&atilde;o se ne ricorda, negli spogliatoi del Luigi Ferrariis di Genova, col Tricolore appena vinto, quando dice che quel percorso &egrave; stato merito anche di gente come Kawasaki, che alla Roma nel tempo ha continuato a voler bene senza un minimo di presenzialismo; che era in Curva Sud in quella notte, maledetta come una fitta al ginocchio sinistro, del 30 maggio '84 contro il Liverpool e pochi lo sanno perch&eacute; a pochi volle farlo sapere, prima.C'&egrave; una fotografia che colpisce, tra le tante che lo ritraggono su un letto d'ospedale, dopo uno dei tanti bisturi della speranza: quella in cui si vede Pietro Mennea che era andato a fargli visita. I due parlano amichevolmente e la simbologia &egrave; gigantesca: sono due asceti dello sport, due uomini che alla loro passione hanno devoluto tutto e Rocca, in particolare, essendo un calciatore, &egrave; una mosca bianca in mezzo a quelli della sua epoca; in mezzo a quegli sportivi che guadagnano troppo di pi&ugrave; e si sacrificano tanto meno rispetto agli altri atleti. Perch&eacute; per lui, tanto come giocatore che come tecnico, il bello del calcio &egrave; sempre stato il calcio stesso, assieme alla riconoscenza dei tifosi: non il successo, i soldi, le fuoriserie, le belle donne. Ha cercato di predicare ogni volta che ne ha avuto possibilit&agrave; questo suo mantra, in pochi lo hanno ascoltato proprio perch&eacute; l'autenticit&agrave; non paga, non sempre.La sua storia, a braccetto con l'ineluttabilit&agrave; del destino, ci lascia un insegnamento ancora, oltre ai tanti che gi&agrave; sappiamo: gli eroi non sono soltanto quelli che compiono le imprese, ma anche quelli che debbono rinunciarci, a volte avendo meritato pi&ugrave; degli altri. &nbsp;       

Nato a San Vito Romano il 2 agosto del 1954, "Kawasaki" come venne soprannominato dai suoi tifosi, avrebbe meritato senza dubbio una carriera pi&ugrave; lunga

Francesco Rocca, quel talento sfortunato romanista per sempre

        &ldquo;Sono un uomo fortunato&rdquo; dice Mondonico alla fine della partita di San Siro del 20 novembre 1988 tra Milan e Atalanta. Avranno pensato la stessa cosa gli appena tre tredicisti di giornata, che grazie alla vittoria al 91esimo dei nerazzurri si sono portati a casa un montepremi da lotteria di Capodanno. Sugli spalti &ldquo;Berlusconi sembrava una statua di gesso&rdquo; titola &ldquo;L'Eco di Bergamo&rdquo;. E l'autore del gol decisivo, fa le capriole: il suo colpo di testa contro i futuri &ldquo;invincibili&rdquo; che diverranno campioni d'Europa a Barcellona &egrave; stato uno dei mattoni che lo hanno trasformato in una &ldquo;leggenda&rdquo; ipse dixit della Dea, superato solo a marzo di quest'anno da De Roon al secondo posto nella classifica degli atalantini pi&ugrave; presenti di sempre, dietro al capofila Bellini. Valter Bonacina &ndash; per la Panini sempre e solo &ldquo;Walter&rdquo; in ognuna delle figurine che gli ha dedicato negli anni &ndash; &egrave; nato a Bergamo, &egrave; cresciuto in una realt&agrave; minore cittadina, i viola della Virtus Boccaleone, conquistando due promozioni dalla D alla C1 e una coppa Italia di categoria, e con l'Atalanta si &egrave; tolto le pi&ugrave; grandi soddisfazioni in carriera. Qualsiasi tifoso romanista, tuttavia, gl'invidia il posto in prima fila nel giorno dell'esordio di Francesco Totti a Brescia, il 28 marzo 1993. Boskov, il suo allenatore nella seconda delle sue tre stagioni giallorosse, lo definiva &ldquo;l'austriaco&rdquo; per la sua grande dedizione al lavoro e la predisposizione al sacrificio, ma il &ldquo;Cina&rdquo;, come lo chiamavano a Bergamo, non &egrave; stato un semplice portatore d'acqua e come De Roon &ndash; prima di De Roon &ndash; &egrave; diventato la colonna di una Dea operaia che ha saputo librarsi nel paradiso delle coppe europee.  Le grandi imprese con la Dea  Insostituibile e, come scrivevano spesso i giornali per commentare le sue gare, &ldquo;protagonista di un'ottima prestazione&rdquo;, Bonacina ha partecipato a molte delle pi&ugrave; grandi imprese atalantine prima dell'avvento di Gasperini, dalla finale di coppa Italia 1987 alla semifinale di coppa delle Coppe dell'anno successivo, sino alle due qualificazioni in coppa Uefa consecutive nel 1989 e 1990. Una Dea solida, tosta in casa e capace di sorprendere le avversarie in trasferta, come nell'impresa del 15 marzo 1988 sul campo dello Sporting Lisbona, quando l'1-1 di &ldquo;Aldone&rdquo; Cantarutti fece urlare di gioia Sandro Ciotti in telecronaca e impazzire il popolo bergamasco. Bonacina c'era, &ldquo;sempre l&igrave;, l&igrave; nel mezzo&rdquo; direbbe Ligabue. In A, in B, in Europa, per Bonacina non faceva differenza quale fosse il palcoscenico, lui sgobbava correva e sudava per la sua Atalanta dando tutto se stesso. Permettendo a gente pi&ugrave; dotata di lui tecnicamente &ndash; come Stromberg, Evair o il &ldquo;figlio del vento&rdquo; Caniggia &ndash; di esprimersi al massimo delle proprie capacit&agrave;, ma togliendosi anche pi&ugrave; di una soddisfazione in avanti. Un &ldquo;Ringhio&rdquo; Gattuso ante litteram, ma con pi&ugrave; gol nei piedi, e una capacit&agrave; d'inserimento non comune &ndash; anche di testa, come dimostrato in quello storico gol al Milan &ndash; per un &ldquo;piccoletto&rdquo; di appena un metro e settanta.  Gli anni a Roma  Acquistato dalla Roma nell'estate 1991 su espressa richiesta di Ottavio Bianchi, che di cose bergamasche ne ha sempre saputo, &egrave; stato una delle poche note positive della presidenza Ciarrapico,&nbsp; uno che si dichiarava &ldquo;ignorante di calcio&rdquo; ma che con lui ci ha azzeccato. Per tre stagioni ha protetto le spalle al &ldquo;Principe&rdquo; Giannini, sino all'avvento dell'Ottavo re di Roma, lasciando buoni ricordi e molte maglie sudate. Il suo primo gol ufficiale (uno di due) con la nuova maglia, lo ha segnato proprio agli ex compagni, in un Roma-Atalanta 1-1 dell'8 dicembre 1991, guarda caso, in cui indossava addirittura la numero dieci per assenza del legittimo proprietario. Non era una grande squadra, quella, ma se Bianchi a fine partita aveva messo tutti in discussione, a Bonacina non sapeva rinunciare. Sia Boskov che Mazzone, nelle due stagioni successive, avevano seguito il suo esempio: quale che fosse la formazione, Bonacina si allenava troppo bene e dava un contributo talmente importante al collettivo da essere quasi insostituibile. Dopo il triennio romano, Bonacina &egrave; rientrato nella sua Bergamo, in B, e dal 1994 al 1999 &ndash; con una promozione in A al primo anno e un'altra stagione in cadetteria al passo d'addio &ndash; ha conquistato lo status di &ldquo;bandiera&rdquo; che ancora oggi nessuno si sognerebbe di contestare. Diventato allenatore a fine carriera &ndash; dopo due ulteriori stagioni a Monza in B e una in D al Rodengo Saiano &ndash; ha guidato tra le altre anche la Primavera atalantina, cementando ancora di pi&ugrave; il legame con la sua citt&agrave; e costruendo la generazione dei Gagliardini, dei Caldara e dei Kessi&eacute; che ha fatto le fortune del primo Gasperini. &ldquo;Mola mia&rdquo; direbbero a Bergamo: un motto che Valter Bonacina ha sempre interpretato alla lettera.        

L&rsquo;ex centrocampista d&rsquo;interdizione che non disdegnava gli inserimenti e i gol, &egrave; stato una vera e propria bandiera della squadra bergamasca

Valter Bonacina, la colonna portante di un’Atalanta operaia

        Damiano Tommasi non era solo gamba e corsa, ma un fine dicitore del centrocampo. Certo, nella Roma il suo compito era sempre quello di coprire una fase offensiva "pesante" che aveva un'artiglieria mica da ridere (Totti, Batistuta, Delvecchio, Montella), ma non era il classico mediano di rottura. Grande qualit&agrave; nei piedi, grandi qualit&agrave; umane come la decisione di accettare un contratto al minimo sindacale dopo un grave infortunio che ne aveva compromesso la carriera (1.500 al mese, per la cronaca). Ora che &egrave; sindaco di Verona &egrave; come se quell'incarico l'avesse sempre ricoperto.    Tommasi giocatore moderno &nbsp; Fosse nato una generazione dopo oggi di Tommasi parleremmo come di un "tuttocampista", schierabile in ogni posizione della mediana o chiss&agrave;, anche dietro in un'eventuale difesa a tre. Impossibile non notarlo in campo, peraltro, coi capelli ricci e lunghi (non sempre cos&igrave; lunghi), a volte una barba da asceta: parlava poco, lasciava che si esprimesse il pallone, con una buona visione di gioco e la capacit&agrave; di leggere le situazioni degna di un grande. Al Verona in Serie B l'esplosione definitiva, e quando ancora i grandi club andavano a pescare i giovani italiani per trasformarli in titolari ecco la chiamata della Roma, nel 1996. Un salto di categoria vissuto senza fare una piega, con allenatori diversissimi tra loro a fare di Tommasi il fulcro insostituibile del centrocampo: da Zeman a Capello fino a Spalletti, non si poteva prescindere da Damiano. Accanto a lui si alternavano in tanti, ma il veronese anche dentro lo spogliatoio era una presenza unica. Del resto il suo soprannome mitico, "Anima candida", non &egrave; che fosse arrivato per caso. Un decennio irripetibile, da leader vero. &nbsp;   Quel gol annullato in Corea... &nbsp; Tommasi in nazionale ha vissuto in prima persona il ricambio generazionale tra il gruppo del 1998 e quello del 2006, la vecchia guardia fortissima ma incapace anche per sfortune assortite (rigori al mondiale in Francia) di centrare il massimo obiettivo e la successiva del trionfo di Berlino in coppa del mondo. Con Giovanni Trapattoni come commissario tecnico il veronese diventer&agrave; un punto fermo, con la sua maglia numero 17, indossata sempre a tutte le latitudini. Forse il Trap, ex centrocampista passato alla storia da giocatore come semplice interditore, si rivede in Tommasi, per il quale ritaglia un posto da titolare pressoch&eacute; insostituibile nel suo 4-4-2, questo s&igrave; forse un po' ingessato. Al mondiale in Corea del Sud e Giappone non salta un minuto fino a quando ai tempi supplementari degli ottavi di finale contro i coreani segna un gol che visto al replay sarebbe validissimo ma che viene annullato per fuorigioco inesistente. Inserimento sul filo del fuorigioco, portiere dribblato e rete a porta vuota: tutto inutile, prima della beffa di Ahn. Via Trapattoni, fine dell'esperienza di Tommasi in azzurro, con una nuova generazione a sopravanzarlo nelle gerarchie. E lui, come sempre, accettando tutto senza problemi. Da dirigente poi diventer&agrave; presidente dell'Associazione Italiana Calciatori, un punto di riferimento non solo per i compagni di squadra ma per tutti i colleghi o ex colleghi.&nbsp;       

Il centrocampista veronese &egrave; stato grande con la Roma, cuore dello scudetto del 2001, vivendo una carriera mai sopra le righe

Damiano Tommasi, moderno e d'altri tempi

        Erano ancora gli anni del gemellaggio, tra le tifoserie della Roma e del Napoli; quando il calendario metteva di fronte le due compagini, pi&ugrave; che trasferte andavano in scena veri e propri esodi, in su o in gi&ugrave;, lungo quei duecento chilometri d'amicizia. Preistoria, non tanto in senso cronologico quanto in rapporto a quello che &egrave; oggi il clima fortemente ostile tra i sostenitori partenopei e quelli giallorossi. L&rsquo;Olimpico e Maradona Quel 28 aprile del 1985, in particolare, allo Stadio Olimpico si verific&ograve; una sorta di epifania: per la prima volta i tifosi romanisti ebbero l'occasione per ammirare Diego Armando Maradona dal vivo. Era arrivato a Napoli nell'estate del 1984 e il rapporto, subito simbiotico, con la sua nuova tifoseria, quando il Napoli affrontava una trasferta si faceva ancora pi&ugrave; viscerale, pi&ugrave; sanguigno. Gi&agrave; da molto prima del fischio d'inizio delle 15.30, quella tipologia di amore incondizionato avevano cominciato ad ammirarla anche i tifosi romanisti padroni di casa - anche se mezzo stadio quel giorno era appannaggio dei sostenitori azzurri - e il riscaldamento di Maradona fu la prima occasione per godersi un avversario che, in ragione della propria grandezza, non sarebbe mai potuto diventare un nemico.Nonostante in quella stagione Roma e Napoli non stessero disputando un grande campionato, come alla fine testimoniarono anche i rispettivi piazzamenti, ossia settima e ottava, quel giorno l'Olimpico presentava la cornice delle grandi occasioni e un impatto cromatico che oggi sarebbe un benefit anche per Sky e DAZN. 1-1 sul campo&nbsp; La Roma di Eriksson, anche per tentare di fare un regalo alla propria tifoseria nella giornata che potremmo definire un vernissage di prestigio, profuse ogni energia utile per provare a vincere la partita: soprattutto Bruno Conti, galvanizzato dal duello tra fantasisti con Maradona, ma anche Cerezo, Giannini, Di Carlo tentarono la via della porta. Da parte sua, il Napoli di Marchesi ogni volta che riusciva a ripartire offriva a Maradona la possibilit&agrave; di una percussione che era uno spettacolo anche per i romanisti, in casa loro. Verso lo scadere del primo tempo, al minuto 40 per la precisione, Daniel Bertoni per vie centrali decise di assecondare la fuga di Maradona sulla destra, il quale premi&ograve; il connazionale con la palla dello 0 - 1. Boato per mezzo Olimpico, anche se la parte restante dello stadio dovette attendere soltanto due minuti per assistere al raggiungimento del pareggio, che la Roma trov&ograve; grazie a una sfortunata autorete di Dal Fiume.Fu cos&igrave; che and&ograve; nella prima occasione in cui Maradona e la Roma si guardarono negli occhi. &nbsp;       

Quel 28 aprile fu la prima volta in cui i tifosi romanisti videro dal vivo El Pibe de Oro. In campo fin&igrave; in parit&agrave;

Roma-Napoli 1985 : "Ho visto Maradona"

        Sul web si trovano fotografie datate nelle quali compaiono affiancati giocatori simbolo di Roma e Lazio che indossano la stessa maglia. Una maglia atipica, che porta sul petto uno sull&rsquo;altro gli stemmi stilizzati delle due squadre. Un dettaglio unico che non ha pi&ugrave; avuto repliche e che ebbe modo di trovare il suo spazio nella storia il 18 novembre 1979 allo stadio Olimpico di Roma, quando i calciatori delle due compagini capitoline si mischiarono dando vita a un&rsquo;amichevole tra nativi di Roma (e dintorni) e coloro che provenivano dal resto d&rsquo;Italia. A guidare le due rappresentative i tecnici Bob Lovati, che dalla panchina della Lazio si andava a sedere su quella dei &ldquo;romani&rdquo;, e Nils Liedholm, da pochi mesi tornato nella Capitale, in quel giorno chiamato a inculcare i principi del gioco a zona alla rappresentativa del &ldquo;resto d&rsquo;Italia&rdquo;. Iniziativa anomala, anche se non la prima in assoluto di quel tenore, tanto che, dopo quel 18 novembre 1979, non trov&ograve; pi&ugrave; il modo di essere replicata. Vale la pena ricordare il motivo per il quale venne organizzata: la morte di Vincenzo Paparelli, tifoso laziale seduto in curva Nord che pochi giorni prima, in attesa del derby, era stato colpito da un razzo partito dalla curva Sud che gli aveva tolto la vita. Quell&rsquo;amichevole aveva lo scopo di raccogliere fondi da devolvere alla famiglia Paparelli, oltre a quello di mitigare le inevitabili tensioni che quel ferale episodio aveva innescato tra le tifoserie delle due squadre. Un esperimento andato a buon fine: quasi ventimila spettatori occuparono gli spalti mentre in campo si vide un match gradevole, finito 2-1 per il resto d&rsquo;Italia grazie alla doppietta di Roberto Pruzzo e al rigore realizzato da Bruno Giordano. Divertiti anche i protagonisti: Spinosi espresse l&rsquo;auspicio di ripetere quel tipo di amichevole due volte l&rsquo;anno mentre Wilson venne elogiato da Liedholm per la facilit&agrave; con cui si inser&igrave; nella difesa a zona, sistema di gioco che all&rsquo;epoca in Italia muoveva i primi passi proprio grazie al Barone ma che non convinceva il capitano biancoceleste.   I precedenti tra gli anni &rsquo;20 e &rsquo;30  In realt&agrave;, come accennato, quella fu l&rsquo;ultima volta in cui scesero in campo delle rappresentative miste di Roma e Lazio. Ma non era la prima, che risale a un lontano 26 dicembre 1928. Quel giorno una selezione capitolina incontr&ograve; il Viktoria Žižkov, campione in carica della Cecoslovacchia, vincendo 4-2 grazie alle reti dei giallorossi Volk (doppietta) e Fasanelli e del biancoceleste Pardini. Per gli ospiti realizz&ograve; due gol Novak. A sei giorni di distanza, il Capodanno del 1929, la rappresentativa romana scese nuovamente sul campo dello Stadio Nazionale indossando la divisa che aveva gi&agrave; utilizzato nell&rsquo;amichevole precedente: una maglia bianca con una grande lupa blu apposta sul petto e dei calzoncini neri. Questa volta l&rsquo;avversario era costituito dall&rsquo;Hungaria, che si impose 4-3.A due anni esatti dalla prima esperienza, una selezione mista disput&ograve; una nuova amichevole contro la squadra ungherese del Sabaria. Le cronache del tempo raccontano di una partita non esaltante, giocata a Campo Testaccio sotto una pioggia caduta per quasi tutta la durata dell&rsquo;incontro davanti a uno scarso pubblico, nella quale tra i locali si distinsero le prestazioni dei romanisti Fasanelli e Ferraris IV e del laziale Pizzetti. Alla fine i padroni di casa si imposero 3-2. Gli anni Quaranta  Durante la seconda guerra mondiale, in assenza del massimo campionato, il calcio faceva quello che poteva per sopravvivere. In quel periodo furono due le occasioni in cui si ebbe modo di ripresentare Roma e Lazio in campo insieme. La prima il 16 aprile 1944, quando giallorossi e biancocelesti si unirono per affrontare una rappresentativa di giovani che giocavano nelle squadre del Campionato Romano di Guerra. Nella squadra dei cosiddetti Assi, che indossava una maglia biancoceleste, figurava gente come Gradella, Andreolo, Krieziu, Amadei e Koenig. I Giovani, in maglia giallorossa, fecero un&rsquo;ottima figura: in svantaggio per una tripletta di Koenig, trovarono la forza di rimontare e chiudere sul 3-3 la partita.Il 4 febbraio 1945 il sole ormai primaverile che baciava lo Stadio del Partito Nazionale Fascista faceva da preludio all&rsquo;imminente fine della guerra. Una partita di calcio tra una rappresentativa romana e una squadra inglese formata da militari era un evento ideale per respirare il profumo di una nuova primavera che accompagnasse Roma e l&rsquo;Italia fuori dall&rsquo;incubo del conflitto bellico. Si giustifica anche cos&igrave; l&rsquo;enfasi con la quale la stampa comment&ograve; quella gara che, organizzata a scopi benefici, vide i romani imporsi col punteggio di 3-1, grazie alla doppietta di Koenig e alla rete di Krieziu. Il gol della bandiera inglese venne siglato da un tale Rudd. Contro l&rsquo;Armata Rossa &nbsp; Roma e Lazio si ritrovarono nuovamente insieme il 1&deg; novembre 1973 a fronteggiare il CSKA di Mosca, la squadra dell&rsquo;esercito sovietico. Per la prima volta all&rsquo;Olimpico, in una giornata di sole, davanti a cinquantamila spettatori, i giocatori non fecero molto per raccogliere gli applausi di quel pubblico che immaginava ben altra prestazione. I biancocelesti erano in corsa per vincere lo scudetto e la linea offensiva, formata dal quintetto Domenghini, Re Cecconi, Chinaglia, Frustalupi e Prati, faceva sognare. La rappresentativa, che indossava per l&rsquo;occasione un&rsquo;anomala maglia bianca con tre strisce verticali rossa, blu e gialla, non sembr&ograve; avere voglia di profondersi nel massimo impegno e soccombette agli ospiti, che andarono in gol al 45&rsquo; grazie a Kuznetzov, abile a liberarsi di Martini e Re Cecconi prima di superare anche Pulici e segnare a porta vuota il gol vittoria.Di queste partite episodiche rimane il ricordo sempre pi&ugrave; sfocato di un calcio quasi primordiale, che riusciva a recuperare il gusto del gioco fine a se stesso. Oggi, tra calendari asfissianti, contratti da rispettare, infortuni da evitare (o dai quali recuperare) trovare spazio per simili iniziative &egrave; impossibile. Roma-Lazio rimane cos&igrave; un eterno derby che contrappone le due tifoserie trecentosessantacinque giorni all&rsquo;anno senza momenti di tregua.        

Solitamente avversarie di derby molto sentiti, in passato le due squadre della Capitale hanno dato vita a selezioni miste per disputare partite amichevoli. Questa &egrave; la loro storia

Quando Roma e Lazio hanno giocato con la stessa maglia

        Roma, 31 gennaio 1982 Fior de poi, non s'ha da mette 'r carro avanti ai buoi Le storie romanesche sanno fregare come l'ironia schietta di una boccia di Frascati e vanno raccontate "co' 'na scucchia rivortata 'ns&ugrave; a uso de cucchiaro" tra i tavolacci di Trastevere o ancor meglio tra le botti dei Castelli. Lo sciamare della folla in curva sud, nell&rsquo;inverno del millenovecentoeottantadue, pareva un carnevale di sciarpe, bandieroni e cappelli di lana col ponpon giallo e arancione. E di rumore. Quello del vociare di migliaia di persone all&rsquo;ingresso della chiesa, come il giorno della messa di un paese. Che poi Roma, una volta che le togli i suoi turisti, non &egrave; altro che un paese gigantesco in cui la parrocchia porta il nome &ldquo;stadio olimpico&rdquo; ed il prete &egrave; uno svedese, fa battute e lo chiamano &ldquo;er barone&rdquo;. Funziona cos&igrave;, sempre, fino a maggio, ogni santa domenica romana: se magna presto a casa tutti insieme, si salutano le donne di gran fretta e si corre alla partita della Roma. E se un tempo qualche volta si poteva pure fare sega per finire tutto il pasto, dall&rsquo;arrivo in Italia di Falcao il caff&egrave; lo si prende dal bibitaro dello stadio e per dolce basta il sapore di scudetto.&nbsp; Quello che ogni anno sembra quasi di acchiappare. Quello che &ldquo;se quer cornuto nun annullava er gol de Turone, adesso ce l&rsquo;avevamo cucito sulla maija&rdquo;.&nbsp; &ldquo;Ma ariva, dajie tempo e ariva uguale&rdquo;, ripeteva sempre er sor Mario in gradinata, e teneva pure tutta la ragione anche se poi quegli altri disfattisti in sesta fila scuotevano la testa blaterando di arbitraggi, di agnelli e di rigori, con inciso sotto il naso un sorriso da chi crede di sapere.  Le storie romanesche vanno raccontate pure un po&rsquo; incupiti, sugli spalti dell&rsquo;Olimpico mentre la Roma sta a giocare una partita, meglio ancora se noiosa da met&agrave; del campionato. Quando a Roma non c&rsquo;&egrave; il sole e pure in campo ci sta poco da guardare. Ed allora viene voglia di parlare. &ldquo;Che te pensi? Ce l&rsquo;hanno rubata pure ad Avellino&rdquo; sbraitava qualcuno che al Partenio c&rsquo;era stato e spiegava che il gol di Juary era arrivato dopo un fallo non fischiato sul solito Turone e che i bari in maglia verde non avevano neppure aspettato che il libero si alzasse per puntare la porta con codarda decisione. E, come se non bastasse, il moretto si era messo perfino a sculettare come a prendere a pernacchie il Cupolone, il Colosseo e perfino il Quirinale. &ldquo;Reg&agrave;, a forza de parl&agrave;, semo ancora zero a zero e se semo magnati armeno due o tre reti&rdquo; e un conto &egrave; bucare una trasferta, un altro fare meno dei due punti casalinghi messi in conto col Cesena fin da prima che iniziasse il campionato. &ldquo;Che se oggi non se vince, pure stavorta ne parlamo quest&rsquo;artranno&rdquo;. E poi questi del Cesena chi davero li conosce? E chi cacchio li ha mai sentiti nominare?&nbsp; &ldquo;Quello si chiama Genzano. Ed &egrave; de Roma&rdquo; vien da dire ad uno che sta dietro di parecchio e che forse sar&agrave; amico di famiglia.&nbsp; Genzano, come il paese dei Castelli, manco fosse un nome d&rsquo;arte o d&rsquo;invenzione per un ruolo da maschera del calcio o da comparsa d&rsquo;occasione. Genzano Antonio, nato a Roma e cresciuto su e gi&ugrave; in giro per l&rsquo;Italia, tra Foggia e Novara, con parecchia Genova nel cuore. Momentaneamente romagnolo del Cesena. Centrocampista e calciatore.&nbsp; &ldquo;Che ce frega de Genzano?&rdquo; grida un altro anche lui in piedi su un gradone. Piuttosto ci sarebbe da augurarsi che il barone abbia fatto una cazziata come si deve a Conti e Pruzzo, perch&eacute; va bene bucare una trasferta, ma se non si batte all&rsquo;Olimpico il Cesena, ci rimane proprio poco da sperare.  La Roma attacca forte, ma pare che il Cesena abbia parcheggiato il pullman davanti alla porta e il nuovo allenatore ha piazzato due o tre uomini su Conti. E su Pruzzo forse pure qualcuno in pi&ugrave;. Pressappoco alle quattro meno un quarto, dalla panchina della Roma s'alzan dritte due figure: ce n'&egrave; una in tuta da ginnastica con in mano un quadrato di cartone con la stampa dieci in nero. Che &egrave; come un fumetto dalla bocca di Nils Liedholm che sta a dire "esci, Scarnecchia!" L'altro c'ha maglietta e calzoncini giallorossi, ma alla tribuna non pare un volto noto.&nbsp; Qualcuno in curva sud lo riconosce: "E' er fijolo de zi' Gildo, quello che c'aveva er bar ar Trieste". Un esordiente con la maglia della Roma. Uno che per star bene da protagonista di sta storia romanesca non poteva ch'esser nato in un quartiere e imparato a Frattocchie nei Castelli, uno di quei romani veri cresciuti con la sciarpa giallorossa e che la Lazio la lasciano ai burini. Uno che fa Peppe di nome. E di cognome me pare Giannini. Giannini Giuseppe. Anni 17, calciatore. O armeno ce se prova. E "se move bene sto regazzino", soltanto che pare che balla e non sar&agrave; un po' troppo delicato?&nbsp;  Passato un quarto d'ora dalle quattro, quando la gente ingrugnita del pareggio inizia gi&agrave; a scappare dallo stadio per non restare imbottigliata sul raccordo, un altro pallone rimbalza fuori dall'area del Cesena e finisce verso la lunetta.&nbsp; Pi&ugrave; vicino di chiunque, c'&egrave; Giannini che dovrebbe controllare e ricacciare dentro l&rsquo;area. Sar&agrave; stato il controsole o magari la presenza di Falcao che ti mette la paura della palla, il ragazzino pare che s'addormenti e lascia sfilare.&nbsp; Altro ardore, il buon Genzano, si butta sul pallone e inizia a correre come se fosse la sua storia romanesca, una di quelle storie che finiscono con un gran finale. E cos&igrave; attraversa tutto il campo, chiede triangolo e finisce per segnare. Finisce in quel momento pure la rincorsa giallorossa allo scudetto, mentre Peppe scompare tra i ragazzi in giovanile e, tra i fischi di chi dice &ldquo;non &egrave; buono&rdquo;, la finisce di giocare. &nbsp; Cos&igrave; suona la storia amara dell&rsquo;esordio di Giannini. Una storia romanaccia che se conta cor sorriso di chi si siede tra le botti e non sta a dire che poi il principe ha regnato alla faccia dei cretini.        

Il Principe ha scritto un pezzo di storia del club giallorosso, ma il suo debutto con la Lupa fu segnato dal ko contro il Cesena: riviviamo quel pomeriggio nel racconto di chi era presente all'Olimpico

Giuseppe Giannini e l'esordio amaro con la Roma

        Gennaio 1997: la Roma di Carlos Bianchi si trova dinanzi al bivio che dovr&agrave; indirizzare la sua annata. In una classifica comunque corta, la squadra non riesce a spiccare il volo verso posizioni pi&ugrave; congrue alle ambizioni di inizio stagione, quando il presidente Sensi aveva salutato Carlo Mazzone e ingaggiato Carlos Bianchi per trovare uno slancio verso l&rsquo;alto che il profilo del nuovo tecnico sembrava poter garantire.  L&rsquo;arrivo di Carlos Bianchi &nbsp; Nell&rsquo;estate del 1996, infatti, il palmares da allenatore dell&rsquo;ex attaccante, tra le altre, di Paris Saint-Germain e Velez Sarsfield sembrava essere una garanzia di successo: tre campionati argentini, una Libertadores e un&rsquo;Intercontinentale ne disegnavano un profilo elevato che avrebbe dovuto riavvicinare la Roma ai livelli di competitivit&agrave; dell&rsquo;era Viola. La stagione, per&ograve;, non stava andando come preventivato. Un registro di partite dall&rsquo;andamento altalenante, tendente al ribasso, aveva portato la Roma a chiudere il girone di andata in undicesima posizione, a pari merito con la Lazio. Ad ogni buon conto, con 23 punti, il distacco dall&rsquo;Inter, terza in classifica, era di sole cinque lunghezze e la speranza di poter fare un girone di ritorno migliore si basava su due presupposti: l&rsquo;affinamento del processo di conoscenza del calcio italiano e dei giocatori della rosa di Carlos Bianchi e il mercato invernale. Gi&agrave;, perch&eacute; la squadra aveva dimostrato di aver bisogno di qualche innesto, soprattutto nel reparto arretrato. Nel 4-4-2 che l&rsquo;argentino preferisce schierare in campo, gli interpreti della difesa si dimostrano per tre quarti inadeguati: Annoni e Lanna, abituati alle marcature centrali, non riescono a spingere sulle fasce come dovrebbero mentre il fido Trotta, richiesto esplicitamente da Bianchi per fare coppia in mezzo con l&rsquo;inamovibile Aldair, in Italia sembra un dilettante allo sbaraglio. &Egrave; l&igrave; che bisogna intervenire, cercando di trovare sul mercato soluzioni che possano aumentare il valore della difesa.   L&rsquo;acquisto di Candela &nbsp; Cos&igrave;, per sostituire Trotta, arriva dal Carpi, all&rsquo;epoca militante in C1, la giovane promessa Pivotto mentre il giocatore scelto per prendere il posto di Annoni sulla fascia destra &egrave; il georgiano Tetradze. Rimane da riempire la casella del terzino sinistro: ed &egrave; in quella scelta che Franco Sensi riesce a fare l&rsquo;acquisto che, per il presente e il futuro, si rivela fondamentale per le sorti dei giallorossi. Il suo nome &egrave; Vincent Candela e al pubblico non dice granch&eacute;: sono in pochi a conoscere questo fluidificante che gioca a sinistra ma &egrave; tutto destro e proviene dal Guingamp, squadra francese che oppone mille resistenze prima di convincersi a cederlo. Una trattativa lunga, nella quale la volont&agrave; del giocatore diventa importante per essere sbloccata. Come in una storia a lieto fine, Candela arriva a Roma. Invero senza troppi clamori e curiosit&agrave; eccessiva, che aleggiano pi&ugrave; su Tetradze, gi&agrave; conosciuto a livello internazionale per le sue presenze nella nazionale russa. I tifosi gongolano: &rdquo;Co&rsquo; &lsquo;na candela e tre tazze sistemamo tutto&rdquo; affermano giocando sulle assonanze dei cognomi dei due nuovi acquisti, che scendono in campo insieme la prima volta il 2 febbraio 1997 in un Roma-Vicenza che finisce 2-0. La magia dura poco: Tetradze si perde tra infortuni e difficolt&agrave; di ambientamento, Carlos Bianchi viene esonerato e la squadra chiude male una stagione maldestra. Candela, in quel disastro, si rivela il salmone che sale la corrente, il fiore che nasce dal letame. L&rsquo;Olimpico se ne accorge la prima volta in un Roma-Verona del 9 marzo 1997 quando, grazie anche a una sua doppietta, i giallorossi vincono 4-3 un match pirotecnico.   Nella storia della Roma  La sua voglia di emergere stride con i malesseri di uno spogliatoio che l&rsquo;anno seguente verr&agrave; rivoluzionato con l&rsquo;arrivo di Zeman, che in lui trova un punto fermo, da utilizzare all&rsquo;occorrenza pure sulla fascia opposta o in mezzo alla difesa. Ma sar&agrave; con Capello che Candela trover&agrave; la sua capacit&agrave; espressiva pi&ugrave; matura, in grado di coprire tutta la fascia sinistra con le modalit&agrave; che le circostanze di gioco richiedono. Vincent sa essere terzino, centrocampista e rifinitore e la sua simbiosi con i compagni e la citt&agrave; lo rende uno dei simboli pi&ugrave; rappresentativi della Roma campione d&rsquo;Italia 2000-01. Delle sue origini francesi sembra rimanere solo quella cadenza un po&rsquo; trascinata che si combina curiosamente con l&rsquo;acquisito accento romano. Un legame, quello con la citt&agrave; eterna, che il tempo non canceller&agrave;, nato in una sessione di calciomercato invernale nella quale Vincent Candela trov&ograve; la sua via, la sua verit&agrave;, la sua vita.       

Arrivato nella Capitale nel gennaio 1997, il francese vi si &egrave; stabilito a fine carriera. Vincendo lo scudetto nel 2001, ha scritto indelebilmente il suo nome nella storia del club

Guingamp-Roma: per Vincent Candela viaggio di sola andata

        Il 14 gennaio 1999, per una Roma che sta attraversando l&rsquo;impasse dell&rsquo;inverno di Zeman (saranno solo cinque i punti ottenuti nelle sette partite giocate tra il 20 dicembre 1998 e il 7 febbraio 1999), arriva il momento tanto agognato gi&agrave; nella precedente sessione estiva del calciomercato: il presidente Sensi pu&ograve; finalmente presentare il giocatore che sembrava mancare al 4-3-3 del boemo, il centravanti che dovrebbe garantire ulteriore potenza a quello che, in quel momento, &egrave; comunque il miglior attacco del campionato.  Fabio Junior, l&rsquo;Uragano Si tratta di Fabio Junior, brasiliano di ventuno anni che nella stagione appena conclusa col Cruzeiro ha realizzato 18 gol in 32 partite. Non sono solo i numeri a incoronarlo come nuova promessa del calcio verdeoro: le sue prestazioni lo portano al riconoscimento della Bola de Prata, premio assegnato ai migliori undici calciatori della massima divisione brasiliana. Insomma, non sembra un&rsquo;eresia che il soprannome col quale si presenta ai nuovi tifosi sia quello di Uragano. Dal punto di vista fisico &egrave; ben strutturato (&egrave; alto 186 centimetri) anche se appare un po&rsquo; macchinoso nei movimenti. Ma l&rsquo;esordio in nazionale, avvenuto il 14 ottobre 1998 nel vittorioso match disputato contro l&rsquo;Ecuador, sembra rappresentare un&rsquo;ulteriore garanzia delle buone referenze che lo accompagnano.  Fabio Junior, il nuovo Ronaldo Gi&agrave;, perch&eacute; dal suo Paese d&rsquo;origine giungono voci (col senno di poi storpiate dalla distanza, verrebbe da dire) che indicano in Fabio Junior il nuovo Ronaldo. Lui, senza simulare modestia, non fa nulla per non alimentarle. A fronte di un&rsquo;esplicita domanda sul paragone, a scanso di equivoci risponde cos&igrave;:&rdquo;Ronaldo? Non so cosa giri nella sua testa, so cosa gira nella mia e penso di essere l'attaccante brasiliano pi&ugrave; forte fra quelli in attivit&agrave;&rdquo;. E anche dal punto di vista estetico fa poco per sottrarsi al confronto, presentandosi nella Capitale con un look molto simile a quello del campione interista: testa rasata e orecchino, oltre alla carnagione molto simile di cui la natura li ha dotati, sono tratti (i soli, probabilmente) che lo avvicinano al Fenomeno. In assenza degli strumenti che oggi rendono conoscibili squadre e giocatori di qualsiasi latitudine, i non addetti ai lavori possono farsi un&rsquo;idea delle qualit&agrave; tecniche del ragazzo acquistando un vhs distribuito dal Corriere dello Sport, che a Roma va a ruba. Sono immagini che qualche dubbio sulle sue effettive capacit&agrave; dovrebbero alimentarlo. Il presidente Sensi &egrave; felice di essere finalmente riuscito a &ldquo;regalare&rdquo; (in realt&agrave; Fabio Junior gli costa 30 miliardi di lire) alla piazza quell&rsquo;attaccante che critica e pubblico chiedevano a gran voce. La stampa romana, durante il calciomercato dell&rsquo;estate 1998, aveva profuso fiumi di inchiostro nel raccontare le trattative che i giallorossi avevano intavolato per inseguire un numero imprecisato di attaccanti, da Trezeguet a Batistuta. Balbo, per motivi di et&agrave; e di screzi con Zeman, era stato ceduto al Parma e andava sostituito, Delvecchio non convinceva nelle vesti di titolare. Si ripieg&ograve; sull&rsquo;evanescente Bartelt, argentino assurto a eroe per qualche stralcio di partita, diventato dopo poche settimane un oggetto misterioso. I gol che l&rsquo;ex attaccante interista aveva realizzato in abbondanza nella prima parte di stagione, non avevano placato quel desiderio di centravanti che Fabio Junior riusc&igrave; a soddisfare solo nei pochi giorni necessari a soffocare le aspettative.  Fabio Junior, che delusione! S&igrave;, perch&eacute; alla fine il giovane brasiliano si dimostra una delusione cocente. Deve attendere qualche settimana per esordire a Venezia, poi segna un gol nella prima partita che gioca all&rsquo;Olimpico, ripetendosi nella trasferta di Udine del 7 marzo 1999. Ma le sue prestazioni non sono all&rsquo;altezza delle esigenze del boemo, che su di lui si esprimer&agrave; in termini lapidari: &rdquo;Non sa fare quasi niente e non ha la minima voglia di imparare&rdquo;. Un giudizio senza appello che chiude ogni possibilit&agrave; di recupero per Fabio Junior, al quale l&rsquo;arrivo sulla panchina di Fabio Capello non giova in alcun modo. La seconda stagione in giallorosso &egrave; ancor pi&ugrave; ombrosa della prima, tanto che, nel mercato invernale del 2000, l&rsquo;allenatore di Pieris avalla l&rsquo;acquisto di un attaccante di riserva come Paolo Poggi, non contando in alcun modo sul contributo del brasiliano che, ancor prima della fine del campionato, torna al Cruzeiro. Del suo periodo nella Capitale restano 5 gol (4 in campionato e 1 in Coppa Uefa) e il ricordo sempre pi&ugrave; sbiadito di un uragano che in citt&agrave; non &egrave; mai passato.&nbsp;        

Arrivato nel gennaio 1999, al presidente Sensi cost&ograve; ben 30 miliardi di lire. Inizialmente paragonato a Ronaldo, &egrave; ricordato come uno dei pi&ugrave; grandi flop della storia giallorossa

Fabio Junior, l’uragano che a Roma non è mai passato

        Essere Simone Perrotta. Potrebbe essere un titolo di un film. Perch&eacute; dietro a questo nome e cognome c&rsquo;&egrave; la storia di un ragazzo che &egrave; partito dal profondo Sud, dal centro sportivo Sant&rsquo;Agata di Reggio Calabria, per arrivare ad alzare a Berlino la Coppa del Mondo, passando da esperienze alla Juventus (una stagione) e alla Roma (nove anni di fila) ma anche in realt&agrave; pi&ugrave; piccole, vedi il Bari di Fascetti o il Chievo di Delneri. Anni formativi. Anche se &egrave; tutta una grande favola. Da attore (non) protagonista. Vedi il lancio per il primo gol di Cassano in Serie A ai tempi del Bari. A quel &laquo;mamma sono ricco...&raquo; poteva essere aggiunto in fondo &laquo;...grazie a Simone&raquo;. &ldquo;A volte ci scherziamo con Antonio. Lui dice che quel- lo &egrave; stato l&rsquo;unico lancio decente della mia carriera, io rispondo che l&rsquo;avrei potuta appoggiare la- teralmente quella palla&hellip;", ammette con un sorriso l&rsquo;ex centrocampista. Di pi&ugrave;. Quando Totti ha iniziato a fare l&rsquo;attaccante, a segnare a raffica da falso nove, aveva come spalla proprio Per- rotta, diciotto polmoni al servizio del capitano tra corse a vuoto, inserimenti spettacolari, gol, assist e quel ruolo di (falso) trequartista inventato da Spalletti che gli ha cambiato la carriera prima delle convocazioni per l&rsquo;avventura in Germania. Senza dimenticare la parentesi alla Juventus, &ldquo;l&igrave; al fianco di Zidane, Davids, Del Piero, Henry, Conte e tantissimi campioni&rdquo;. E poi l&rsquo;impegno attuale nel calcio, il sottofondo della sua vita: la gestione della Jem&rsquo;s Soccer Academy a Casal Palocco, i ruoli in Figc e Aic, cos&igrave; come il sostegno da vicepresidente alla Roma Calcio Amputati. Insomma, cuore e passione. Come al solito. Come ai tempi dell&rsquo;Olimpico. Perrotta, tutto inizia a Reggio Calabria.&ldquo;Avevo 14 anni e due offerte sul tavolo: dal Cosenza che era casa mia e dalla Reggina. Mio padre mi ha lasciato libero di scegliere e sono partito per Reggio Calabria. La testa ha detto cos&igrave;. L&rsquo;ambienta- mento non &egrave; stato semplice. Piangevo al telefono all&rsquo;inizio. Ma in fondo si stava bene, nel convitto c&rsquo;erano 50 ragazzi pieni di sogni. L&rsquo;esordio in prima squadra &egrave; stato un momento speciale&rdquo;. Poi nel 1998 arriva la chiama- ta della Juventus...  &ldquo;Impossibile da rifiutare. Ero contento anche perch&eacute; con parte dei soldi della mia cessione la Reggina ha rinnovato il Sant&rsquo;Agata. Ho giocato poco anche perch&eacute; facevo il militare, quindi mi allenavo solo a ridosso delle partite. Ma stare in mezzo a tanti campioni mi &egrave; servito per capi- re come funzionano le dinami- che di un grande club. E poi ho avuto per sei mesi Lippi e per al- tri sei mesi Ancelotti&rdquo;. Che annata &egrave; stata?  &ldquo;Siamo arrivati in semifinale di Champions contro lo United che poi ha vinto il trofeo. In campio- nato invece si andava meno forte. La concorrenza era impressionante: a centrocampo, tra gli altri, c&rsquo;erano Conte, Davids, Tudor e Deschamps. Sono comunque riuscito a ritagliarmi dei piccoli spazi&rdquo;. Zidane era davvero di un altro pianeta?&ldquo;S&igrave;. Era enorme fisicamente, elegante e unico. In campo ha fatto vedere il 50% di quello che ci faceva vedere in allenamento&rdquo;. Perch&eacute; non resta alla Juventus?&ldquo;Dovevo giocare con continuit&agrave;. E in compropriet&agrave; finisco al Bari con Fascetti, che faceva un calcio all&rsquo;antica, uomo a uomo. Resto per due anni, al termine dei quali retrocediamo. Alle buste vince il Bari, la Juve aveva altri progetti, ma non potevo rimane- re in B cos&igrave; scelgo il progetto del Chievo, di una neo promossa&rdquo;. E si vola...  "Delneri era all&rsquo;opposto rispetto a Fascetti come filosofia di gio- co. Ci ho messo un po&rsquo; a capire gli schemi che per&ograve; hanno funzionato da subito. Ci siamo di- vertiti parecchio&rdquo;. La Roma bussa alla sua porta nell&rsquo;estate del 2004...&ldquo;In Nazionale Totti mi diceva sempre &ldquo;quando vieni?&rdquo;. Beh, la telefonata giusta &egrave; arrivata e sono sbarcato a Roma&rdquo;. Altre offerte?  &ldquo;Mi voleva anche l&rsquo;Inter, mi seguiva da tempo&rdquo;. Non &egrave; stato subito amore con la Sud...&ldquo;Mi avevano introdotto nel mondo Roma come sostituto di Emerson. Ma io non ero quel genere di giocatore&rdquo;. Prandelli, Voeller, Delneri e Conti: la panchina era bollente.&ldquo;Era complicato. Io ero sommerso da critiche e ogni volta che toccavo palla venivo fischiato dal pubblico. Mi sono estraniato, leggevo poco i giornali e vedevo ancora meno tv&rdquo;. L&rsquo;anno dopo arriva Spalletti, ma lei inizialmente voleva andare via...&ldquo;In ritiro dissi a Spalletti che avrei accettato l&rsquo;offerta dell&rsquo;Everton. Ero pronto a partire. Ma lui blocc&ograve; la mia cessione. Mi disse: &ldquo;Vengo in guerra con te&rdquo;. Fino a dicembre continu&ograve; l&rsquo;andamento negativo, Spalletti era anche a rischio esonero. Poi cambi&ograve; tutto con il nuovo modulo". Totti falso nove e Perrotta trequartista perch&eacute; gli altri attaccanti erano fuori.  &ldquo;Proprio cos&igrave;. Vincemmo 11 partite di fila stabilendo un record. Andavamo a mille all&rsquo;ora&hellip;". Mesi intensi e la convocazione per il Mondiale in Germania.  &ldquo;Il pi&ugrave; grande traguardo della mia carriera &egrave; stato alzare la Coppa del Mondo insieme a Totti e De Rossi&rdquo;. I momenti pi&ugrave; belli dei nove anni alla Roma?&ldquo;Sono cos&igrave; tanti che non si possono racchiudere in poche parole. Non abbiamo vinto tanto ma eravamo una squadra vera fuori e dentro il campo&rdquo;. I pi&ugrave; forti?  &ldquo;In porta Doni, dietro Juan, a centrocampo De Rossi e Pizarro, in attacco Totti&rdquo;. Resta la ferita dello scudetto del 2010.&ldquo;Avevamo recuperato il gap dall&rsquo;Inter di Mourinho, che era fortissima. Contro la Sampdoria di certo non eravamo appagati. Ma, dopo un primo tempo fantastico, for- se uno dei migliori della stagione, sono arrivati quei due gol che han- no spento il nostro sogno&raquo;. La differenza tra Roma e Juventus?&ldquo;La gente. A Torino sei uno qualsiasi a meno che non ti chiami Del Piero, si suda, si vince e si torna subito a lavorare. A Roma ti fermano per strada facendoti sentire a volte il giocatore migliore del mondo. C&rsquo;&egrave; pi&ugrave; passione in tutto, nel bene e nel male&rdquo;. Si ritira dopo 346 presenze e 48 gol in giallorosso.&ldquo;Potevo chiudere la carriera negli Stati Uniti ma mio figlio all&rsquo;epoca aveva solo 10 anni. Tornando indietro sarebbe stato pi&ugrave; giusto partire all&rsquo;avventura".        

Cresciuto nella Juve, si impose in giallorosso grazie al tecnico di Certaldo: "Crisi risolta con Francesco falso nueve e io trequartista"

Simone Perrotta: "Quanti ricordi a Roma con Totti e Spalletti"

        Sebino Nela aveva una caratteristica speciale: da difensore sapeva fare tutto anche se era nato centrocampista. Un jolly vero. &laquo;A 22 anni ero gi&agrave; un calciatore completo&raquo;, ricorda con il sorriso di chi sa fare con disinvoltura l&rsquo;occhiolino al passato. Liedholm diceva di lui: &laquo;Pu&ograve; giocare a destra, a sinistra, al centro, persino in tribuna se non gli piace una posizione di queste&hellip;&raquo;. In realt&agrave; il Barone non ci ha mai rinunciato a Nela, che oltre alle doti tecniche era accompagnato da un fisico possente (tanto da essere soprannominato l&rsquo;Incredibile Hulk) e da un agonismo che ha fatto innamorare i tifosi prima della Roma e poi del Napoli, le uniche due squadre dove ha giocato dopo aver lasciato la casa madre del Genoa. La sua carriera prende la corsia di sorpasso dell&rsquo;A1 nel 1981: Nela sbarca a Roma in cambio di tre miliardi e mezzo&nbsp;in&nbsp;contanti pi&ugrave;&nbsp;la&nbsp;compropriet&agrave; di Iachini,&nbsp;Romano e Capezzuoli. Un&rsquo;enormit&agrave; per un 20enne. Alla fine di quella finestra di mercato fu il giocatore pi&ugrave; pagato in Italia. Entra subito nel cuore dei tifosi che cominciano a osannarlo con il coro &ldquo;Picchia Sebino&rdquo; per le sue entrate al limite per&ograve; sempre confinate dentro il recinto della sportivit&agrave;. &Egrave; amore totale tra la Curva Sud e Nela. In giallorosso ci passa undici stagioni, vince lo scudetto, gioca due finali europee e alza tre Coppe Italia. Si rompe il ginocchio in mille pezzi e rinasce. Diventa leggenda anche per un dito medio mostrato all&rsquo;allenatore del Dundee, reo di aver insultato i suoi compagni. Poi va a finire la carriera al Napoli, ci resta due anni. Era stato chiamato da Ottavio Bianchi per rimettere in piedi una stagione iniziata male ma finita con una salvezza tranquilla. &nbsp; Nela, come &egrave; nata la firma con la Roma?&laquo;Dal nulla. Non sapevo niente. All&rsquo;epoca funzionava in maniera diversa: mi ha chiamato il presidente del Genoa e mi ha detto che ero stato venduto. Fine. Valigie e sono andato via&raquo;.&nbsp; Non se l&rsquo;aspettava?&nbsp;&laquo;No, credevo di restare dopo la promozione dalla Serie B&raquo;.&nbsp; Il primo impatto con la Citt&agrave; Eterna?&nbsp;&laquo;Notevole. Roma era ed &egrave; la bella del mondo, non solo per il suo patrimonio artistico. Negli Anni 80 si viveva veramente bene, non c&rsquo;era traffico e la gente era pi&ugrave; simpatica. Mica come oggi che sono tutti incazzati&raquo;.&nbsp; Roma l&rsquo;ha adottata&hellip;&nbsp;&laquo;Direi proprio di s&igrave;. Ancora oggi vivo all&rsquo;Eur&raquo;. &nbsp; &nbsp;   Come era lo spogliatoio?&nbsp;&laquo;Per un ragazzo che veniva dal Genoa incredibile perch&eacute; dentro c&rsquo;erano Bruno Conti, Pruzzo e Turone, i miei idoli&raquo;.&nbsp; &nbsp; Come si spiega il rapporto d&rsquo;amore con i tifosi?&nbsp;&laquo;Sapevo cosa era il senso di appartenenza, in giallorosso l&rsquo;ho sviluppato. In campo, al di l&agrave; delle doti tecniche che Liedholm ha potenziato, ero un generoso. I tifosi non sono stupidi e se ne sono accorti. Ero orgoglioso di indossare la maglia della Roma&hellip;&raquo;.&nbsp; Parla di orgoglio&hellip;&nbsp;&laquo;S&igrave;, perch&eacute; a me piace stare dalla parte dei pi&ugrave; deboli. La Roma non &egrave; mai stata l&rsquo;Inter, il Milan o la Juve, ma la sentivo mia, anche e soprattutto quando mi chiamavano terrone in giro per gli stadi del nord&raquo;.&nbsp; Come riassume le 11 stagioni a Roma?&laquo;Facile dire con lo scudetto. Io preferisco ricordare l&rsquo;Olimpico pieno, sempre e comunque. Oggi con Mourinho si grida al miracolo, ma in quel periodo era la normalit&agrave; avere lo stadio sold out&raquo;. &nbsp; &nbsp;   Rimpianti?&nbsp;&laquo;Potevamo vincere di pi&ugrave; ma alla fine &egrave; stata un&rsquo;avventura bellissima. Zero rimpianti. &Egrave; vero, abbiamo perso la finale di Coppa Campioni ai rigori contro un Liverpool mostruoso, ma l&rsquo;unica ferita aperta &egrave; la partita contro il Lecce del 1986. Quel titolo era nostro&raquo;.&nbsp; &nbsp;L&rsquo;anno dopo si infortun&ograve; gravemente al ginocchio. Ebbe paura di smettere?&nbsp;&laquo;Tantissima. I medici dicevano che non ce l&rsquo;avrei fatta. Sono stato fuori quasi un anno ma ho lavorato duro tranne il giorno di Natale. Sono tornato ma perdendo almeno il 20 per cento del mio potenziale&raquo;.&nbsp; &nbsp; Venditti le dedic&ograve; il brano &ldquo;Correndo Correndo&rdquo;.&nbsp;&laquo;Ero in ritiro in Toscana con la Roma con le stampelle, mi vennero a chiamare in camera, mi dissero di scendere perch&eacute; c&rsquo;era Venditti. Nella hall dell&rsquo;albergo c&rsquo;era un pianoforte e lui si &egrave; messo a suonare e mi ha fatto sentire la canzone che mi aveva scritto. Fu una cosa bella, molto emozionante. E ci tengo ad aggiungere una cosa&raquo;.&nbsp; Dica.&nbsp;&laquo;La ascolto tutti i giorni almeno una volta. Mi d&agrave; la carica per affrontare la vita&raquo;. &nbsp; Dopo la Roma, la parentesi finale a Napoli.&nbsp;&laquo;Non volevo andare via, avrei voluto chiudere la carriera a Roma. Ma questioni interne, adesso ampiamente risolte, mi hanno portato a Napoli, dove era stato chiamato Bianchi al posto di Ranieri&raquo;.&nbsp; Due anni intensi.&nbsp;&laquo;La squadra era forte ma rischiava di retrocedere. Alla fine ci salvammo bene e l&rsquo;anno dopo and&ograve; meglio&raquo;.&nbsp; Come si trov&ograve;?&nbsp;&laquo;Alla grande. Perch&eacute; a Napoli come a Roma si vive di calcio e per il calcio&raquo;.&nbsp; La prima da ex se la ricorda?&nbsp;&laquo;Mi ha fatto molto strano. Per&ograve; lo spettacolo sia al San Paolo che all&rsquo;Olimpico era unico. Le tifoserie poi erano amiche&raquo;.&nbsp; Genova, Roma e Napoli: la sua vita&hellip;&nbsp;&laquo;In comune hanno il mare e il calore della gente. Sono felice di cosa ho fatto. Mi sento fortunato&raquo;.&nbsp; Roma-Napoli all&rsquo;Olimpico. Mourinho contro Mazzarri.&laquo;Non la perdo. Ma non tifer&ograve; n&eacute; per l&rsquo;una n&eacute; per l&rsquo;altra. Forse &egrave; deformazione professionale, ma io guardo le partite per il gusto di guardarle. Un po&rsquo; come quando giocavo per il gusto di giocare&raquo;.       

Fu acquistato nel 1981 quando aveva solo 20 anni: &laquo;L&rsquo;annuncio del Genoa mi colse di sorpresa, eravamo appena stati promossi Ho vinto lo scudetto e tre Coppe Italia. Sempre orgoglioso del mio passato&raquo;

Nela, cuore Roma, dolci ricordi napoletani

        Sembrava essere diventata una di quelle leggi non scritte, perch&eacute; aveva cominciato a stratificarsi con il conforto statistico di una tradizione recente: Roma che passa in vantaggio, poi la Juventus pareggia e rimonta portandosi a casa la partita per due gol a uno. Nella stagione precedente, vale a dire il campionato 1982-83, era finita sempre nella medesima maniera, tanto all&rsquo;andata quanto al ritorno; al vecchio &ldquo;Comunale&rdquo; torinese come allo Stadio Olimpico. &nbsp; Il giorno della rovesciata &nbsp; Quando, il 4 dicembre 1983, la Roma di Nils Liedholm con il Tricolore cucito sul petto fa visita alla Juventus, Di Bartolomei e compagni sono reduci da alcune prestazioni al di sotto del loro valore. In realt&agrave;, il primo tempo che finisce a reti bianche traduce una certa superiorit&agrave; del palleggio romanista e Falc&atilde;o fallisce il vantaggio proprio allo scadere della prima frazione. Nella ripresa, i giallorossi trovano meritatamente il vantaggio con un tracciante rasoterra, millimetrico e millimetrato, sbocciato dal sinistro di Bruno Conti. Immancabile, per&ograve;, arriva la punizione a giro di interno destro di Michel Platini, come da recente, succitata tradizione. Ci&ograve; di cui i romanisti cominciano ad aver paura, visti i precedenti del dell&rsquo;anno prima, puntualmente si materializza, tra l&rsquo;altro con la firma dell&rsquo;ex Mimmo Penzo. Tutto da copione, ancora una volta, tanto che un esercito di titolisti si appresta a far uscire "Non c&rsquo;&egrave; due senza tre". Quando inizia l&rsquo;ultimo giro di lancetta utile, tutti pensano di s&igrave;. Quasi tutti: non lo pensa Nela che lancia lungo, non Bonetti che offre a Chierico una sponda di testa; allora non lo pensa neanche Chierico, che elegantemente controlla in palleggio e poi crossa in mezzo: a quel punto non lo pensa neanche Roberto Pruzzo, spalle alla porta nel cuore dell&rsquo;area bianconera. Il Bomber capovolge se stesso, quando occorre. Alla Roma restava la speranza di un'azione, una sola. Pruzzo vede spiovere il pallone, sa che non avr&agrave; mai il tempo di controllare, girarsi e tentare di battere a rete: ha un cespuglio di maglie juventine attorno. Pu&ograve; fare soltanto una cosa. La fa. La rovesciata &egrave; talmente bella che chi la vede, in campo e fuori, soltanto in un secondo momento capisce che &egrave; anche vera. Tacconi le vola appresso, nell'aria immobile come il respiro di chi stenta a credere, fratturandosi un dito. &Egrave; il novantesimo minuto pi&ugrave; bello di sempre. Qualche secondo dopo il fischio finale di Casarin, Galeazzi lo raggiunge sul terreno di gioco: ancora incredulo e col fiato corto, lui trova le parole solo per dedicare il goal a Carlo Ancelotti, che nel primo tempo aveva visto terminare la sua stagione a causa dell'ennesimo infortunio al ginocchio. Il commento pi&ugrave; esaustivo arriva dallo spogliatoio bianconero, &egrave; una specie di editoriale di Sua Maest&agrave; Platini: &laquo;Risultato giusto, la Juventus la stavo vedendo male dopo il gol di Conti. Il due a due l&rsquo;ha voluto Pruzzo, non &egrave; un jolly, l&rsquo;ha voluto Pruzzo perch&eacute; ha cercato di fare gol per tutta la partita&raquo;.       

Era il 4 dicembre 1983, quando O Rey de Crocefieschi blocc&ograve; sul 2-2 la Juventus di Le Roi&nbsp; Platini&nbsp;

Pruzzo, la rovesciata che fece storia

        Fabio Petruzzi &egrave; stato uno dei protagonisti della Roma degli anni Novanta. Cresciuto nelle giovanili giallorosse, lasci&ograve; la Capitale proprio nella stagione in cui la squadra conquist&ograve; il suo terzo scudetto. Difensore centrale dotato di ottimi fondamentali, era capace di impostare il gioco sia nelle difese con stopper e libero che in quelle schierate in linea, come testimonia l&rsquo;uguale apprezzamento che gli riconobbero allenatori diversi come Mazzone e Zeman. In questa intervista racconta le esperienze vissute in quegli anni proprio partendo dall&rsquo;ultima partita che gioc&ograve; in Coppa Uefa l&rsquo;8 dicembre 1998 a Zurigo. &nbsp; &nbsp; Fabio, quel match contro lo Zurigo in trasferta fin&igrave; 2-2 e qualific&ograve; la Roma ai quarti di finale. Ricordi che clima c&rsquo;era allo stadio?  &laquo;Faceva freddissimo! Mi viene in mente che noi avevamo la maglia nera a maniche lunghe. Ricordo che loro avevano un attaccante molto bravo, Bartlett, che fece una doppietta&raquo;. Lo Zurigo ebbe un rigore a favore causato da un tuo intervento su Di Jorio. Come and&ograve; quell&rsquo;azione? &laquo;Sinceramente mi chiedi troppo, non me lo ricordo! Ho in mente il risultato e il loro attaccante bravo ma del mio rigore niente! Ci sono molte partite delle quali non ricordo nulla. Del resto sono passati tanti anni&hellip;&raquo;. In quella partita Aldair, per l&rsquo;assenza di Cafu, fu costretto a giocare a destra. Come approcciava quel ruolo il brasiliano? &laquo;In quel periodo Aldair gioc&ograve; diverse partite a destra. Si diceva che avendo degli esterni difensivi un po&rsquo; pi&ugrave; puri avremmo potuto prendere meno gol. Non lo so, sicuramente Cafu e Candela erano due fenomeni che spingevano molto e questo a volte poteva portare a rimanere due contro due o uno contro uno. Quanto a Pluto, anche quello non me lo ricordo bene ma non mi sembra che fosse tanto contento di giocare terzino&hellip;&raquo;. Nello spogliatoio chi era il leader di quella squadra?  &laquo;Guarda, innanzitutto c&rsquo;&egrave; da dire che eravamo un grande gruppo fatto di grandi calciatori ma non c&rsquo;era un leader assoluto. Totti eccelleva per le qualit&agrave; tecniche e in campo faceva gi&agrave; la differenza, Di Biagio aveva molta personalit&agrave;, Aldair era un campione del mondo&raquo;.  Per assonanza, dopo Bartlett mi viene da pensare a Bartelt, che era arrivato quell&rsquo;anno a Trigoria: fece qualche giocata incredibile ma alla fine non lasci&ograve; il segno. Mi sai dire che calciatore era? &laquo;Era un giocatore particolare: magari dal punto di vista tecnico non era straordinario ma riusciva a fare delle giocate in mezzo a due-tre avversari clamorose. Era capace di uscire a duecento all&rsquo;ora da situazioni difficili che non ti saresti mai aspettato. Tipo l&rsquo;azione che fece contro la Fiorentina quell&rsquo;anno, che ci permise di ribaltare il risultato&raquo;. Quella sera a Zurigo ricorrevano sedici anni esatti da una partita di Coppa Uefa memorabile: Roma-Colonia 2-0. Hai qualche ricordo particolare di quel match? &laquo;In quella partita io facevo il raccattapalle, ero un ragazzino. Era un&rsquo;emozione unica vedere da vicino i miei campioni, soprattutto Di Bartolomei: per me Agostino &egrave; stato il pi&ugrave; grande di tutti. Ricordo quanto ho esultato al gran gol di Falcao, col tiro dopo lo stop di petto. Peraltro io stavo proprio sotto la Curva Sud quando Paulo corse l&igrave; dopo aver segnato. Venne con tutti i compagni: belle emozioni&raquo;.  Nel 1998-99 la Roma non riusc&igrave; ad andare oltre i quarti di finale, fermata dall&rsquo;Atletico Madrid in una partita in cui l&rsquo;arbitro venne fortemente contestato. Secondo te quella squadra aveva il potenziale per arrivare in finale? &laquo;S&igrave;, quella squadra era forte. Faceva un bel calcio e aveva preso consapevolezza di quello che si doveva fare in campo: andava a giocarsela ovunque. Poi &egrave; vero che rischiavamo anche di perdere con chiunque perch&eacute; potevamo incappare in brutte giornate. Per&ograve; anche quando mancavano giocatori importanti, i compagni che li sostituivano facevano sempre una grande prestazione&raquo;.  Il modo di giocare che aveva quella Roma, che non faceva calcoli e giocava sempre all&rsquo;attacco, era adatto per affrontare le competizioni europee? &laquo;Direi di s&igrave;. Prendi, ad esempio, la partita in trasferta col Leeds (Leeds-Roma 0-0, 3 novembre 1998, ndr): rimanemmo in dieci per l&rsquo;espulsione di Wome ma non subimmo un tiro in porta. Era una squadra che quando doveva stare pi&ugrave; accorta lo sapeva fare&raquo;.  A Zurigo fu la tua ultima partita in Coppa Uefa. Qualche rimpianto? &laquo;No, non ho rimpianti. Io ho indossato la maglia della Roma e ho giocato con grandi calciatori. Da piccolo andavo allo stadio e sentivo l&rsquo;inno di Lando Fiorini, non vedevo l&rsquo;ora di entrare all&rsquo;Olimpico e godere di quelle immagini meravigliose: il prato verde, la Curva Sud. Io ho toccato con un dito tutto questo: cosa posso volere di pi&ugrave;? Solo aver calcato quel manto erboso che vedevo da bambino per me &egrave; stato un sogno. Ho vissuto emozioni che rimarranno sempre dentro di me, come quando passavo sotto quella curva prima di un derby e sentivo il cuore battere a duecento all&rsquo;ora che mi faceva temere di avere un infarto. Certo, mi sarebbe piaciuto vincere qualcosa. Non ho vinto il campionato da calciatore perch&eacute; nel 2001 ero andato via, per&ograve; l&rsquo;ho vinto da tifoso&raquo;.  Come si troverebbe Fabio Petruzzi nella Roma di oggi?  &laquo;Non lo so, oggi il calcio &egrave; cambiato. Gradivo molto giocare a uno, due tocchi, dare palla avanti, forse perch&eacute; fino a diciotto anni ero stato un centrocampista centrale: mi piaceva impostare dal basso. Con Mazzone gi&agrave; facevamo la difesa a tre: io stavo centrale con Aldair e Lanna ai lati. Quindi s&igrave;, penso che mi potrei trovare abbastanza bene con la costruzione del basso che si pratica oggi. Anche se, ti dico la verit&agrave;, per me si eccede con questa impostazione: il rischio che si possa perdere palla &egrave; superiore alla possibilit&agrave; di eludere la pressione. E poi, anche quando ci riesci, non &egrave; detto che arrivi a creare una situazione di gioco pericolosa, perch&eacute; comunque stai a settanta metri dalla porta avversaria. Mentre se perdo palla vicino alla mia porta sicuramente devo subirne una&raquo;.  Come vedi la stagione europea della Roma di Mourinho? Pu&ograve; arrivare a Dublino per riscattare Budapest? &laquo;Ce lo auguriamo anche se quest&rsquo;anno &egrave; un po&rsquo; pi&ugrave; difficile. Intanto c&rsquo;&egrave; il Liverpool. E poi dalla Champions potrebbero scendere un po&rsquo; di &ldquo;carri armati&rdquo;. Gi&agrave; se prendi il girone del Milan, una tra loro, PSG, Borussia o Newcastle scender&agrave; in Europa League. &Egrave; dura ma va detto che Mourinho &egrave; un tecnico da competizione. La Roma &egrave; una squadra che quando va in trasferta non fa giocare l&rsquo;avversario mentre in casa, davanti a 65.000 persone che ti spingono, si trasforma e d&agrave; qualcosa in pi&ugrave;&raquo;. &nbsp; &nbsp;       

Il difensore giallorosso era tra i titolari nella trasferta svizzera del 1998: &laquo;Ricordo il freddo e quel pari che ci qualific&ograve; ai quarti Uefa&raquo;

Petruzzi: "Zurigo, la Roma, la difesa a 3, Mazzone"

        Le figurine della nostra Serie A, quando eravamo ragazzini, avevano i baffi; spesso i basettoni e la chioma ribelle, arruffata, come i protagonisti dei &ldquo;poliziotteschi&rdquo; di Umberto Lenzi. Non sempre, per&ograve;, parlavano in maniera forbita, analitica, come veniva naturale a Paolo Conti, nato funambolo, diventato portiere. Venuto alla luce a Riccione il primo giorno di aprile, ma non era uno scherzo; casomai una canzone di Amedeo Minghi, perch&eacute; era il 1950, con l&rsquo;Italia in ricostruzione e Serenella che avrebbe ascoltato alla radio quella canzone pensata per lei. &nbsp;   La fine del &ldquo;grigio&rdquo; del portiere &nbsp; Una ventina d&rsquo;anni dopo, gracchiando ogni domenica la radio avrebbe iniziato a parlare di lui, minuto per minuto, anche per la ventata di novit&agrave; che il personaggio, divenuto portiere per caso, avrebbe portato nella nostra Serie A: con le sue divise colorate rispetto al grigio usuale, stile Zoff per capirci; con le sue uscite basse e apparentemente avventate, che anticipavano i tempi oltre che gli attaccanti; con l&rsquo;usanza di giocare senza guanti, senza proteggere le manone che erano due morse ma, un po&rsquo; come l&rsquo;olandese Jongbloed, tra i primi a usare i parastinchi, proprio perch&eacute; la proiezione in uscita comportava gli impatti che coinvolgevano gli arti inferiori. &laquo;Dicevano che ero un portiere che comandava la difesa, che uscivo spesso dall&rsquo;area perch&eacute; avevo il fisico, con i piedi, sull&rsquo;avversario&hellip; Ma ero solo un autodidatta: io non avevo fatto il settore giovanile, venivo dalla strada, dai parchi, dalle partite con gli amici. Dovevo solo coprire i miei limiti. E poi fino ai diciotto anni ho giocato solo praticamente da centravanti, mica da portiere&raquo;: troppo vero per non essere pure bello, ci volle l&rsquo;occhio di un dirigente del Riccione durante una partitella. &nbsp;  Gli inizi e l&rsquo;esordio in serie A &nbsp; Dal 1968 al 1970 nella societ&agrave; di casa, poi due anni di Modena, quindi Arezzo nel 1972-73, stagione al termine della quale arriva la chiamata della Roma, che inizia a pensare al futuro dopo Ginulfi. Il 18 novembre del &lsquo;73, mezzo secolo fa, Paolo Conti esordisce tra i pali all&rsquo;Olimpico, dal primo minuto, contro il Verona: comincia un&rsquo;era, per la societ&agrave; giallorossa, con una vittoria per 1-0 firmata da Pierino Prati su rigore. Non impiegheranno troppo tempo, i tifosi della Roma, a individuare il soprannome giusto per quel portiere cos&igrave; na&iuml;f: bocciato in fretta il banale e troppo politicizzato &ldquo;baffone&rdquo;, Paolo Conti diventa &ldquo;tenaglione&rdquo; per via di quelle mani grandi e forti, senza guanti, che in uscita bassa si aprono come ombrelli e che nel campionato 1974-75, quello di un orgoglioso terzo posto, proteggeranno la porta giallorossa al punto tale da renderla la meno perforata della Serie A. &laquo;Tra le tante cose non capivo, prima di venire a Roma, come si potesse impazzire per il calcio, mi sentivo lucido, capite? Ero distaccato, ma non freddo, questo mai. Roma m&rsquo;&egrave; rimasta nel sangue, e io sono rimasto romanista&raquo;. Un breve interregno con Ginulfi, poi l&rsquo;avvio di un voluminoso capitolo di storia della Roma, composto da sette campionati e 206 presenze complessive, con 205 reti incassate, pi&ugrave; la Coppa Italia del 1980, vinta quando l&rsquo;avvicendamento con Franco Tancredi si &egrave; gi&agrave; consumato. &nbsp;   Dopo la Roma &nbsp; Conti lascia la Roma nell&rsquo;estate del 1980, per poi percorrere con estrema rilassatezza e con una serie di stagioni pi&ugrave; che degne il viale del tramonto: Verona in B, vestendo la maglia della societ&agrave; contro la quale aveva esordito in giallorosso; poi due anni di Sampdoria, con tanto di promozione dalla B alla A nella primavera del 1982; la stagione &lsquo;83 - &lsquo;84 a Bari in C1, quindi quattro anni a Firenze, con il ritorno in Serie A come secondo di Giovanni Galli, dal 1984 al 1988. Nel suo palmar&egrave;s personale, anche la maglia azzurra, con sette presenze dal &lsquo;77 al &lsquo;79, pi&ugrave; l&rsquo;esperienza come secondo di Zoff al Mondiale argentino del 1978, dove lui e Jongbloed i guanti li incrociarono per davvero. I guanti no, perch&eacute; entrambi ne facevano a meno.       

Dall&rsquo;esordio in Serie A con la maglia della Roma il 18 novembre 1973 inizi&ograve; la storia di un portiere atipico, senza guanti e sempre in uscita bassa

Paolo Conti, il “baffo” funambolo

        Tonino Tempestilli &egrave; un pezzo di Roma. Prima tifoso, poi giocatore, di seguito allenatore delle giovanili e infine dirigente e team manager. Trent&rsquo;anni in giallorosso. Nella vita spesa da difensore gli si &egrave; appiccicato addosso un soprannome simpatico, &ldquo;Er Cicoria&rdquo;. Questo perch&eacute;, proprio come la pianta selvatica, si faceva trovare in ogni zona del campo a dare una mano. Insomma, era l&rsquo;uomo ovunque. Sempre presente. "Giannini, Conti e Pruzzo si inventarono quel soprannome", ricorda con un sorriso Tempestilli che ha difeso i colori della Roma per sei stagioni (dal 1987 al 1993), durante le quali ha raccolto 162 presenze e 7 reti conquistando tra l&rsquo;altro una Coppa Italia nel 1991. Tante battaglie, tante gioie, ma anche tante delusioni: spicca la finale di Coppa Uefa persa in gara doppia contro l&rsquo;Inter di Trapattoni.&nbsp;  Tempestilli, quando &egrave; diventato tifoso giallorosso?&nbsp; "Da bambino. Bisognava scegliere tra Roma e Lazio e io scelsi la Roma. In citt&agrave; funzionava cos&igrave;, non &egrave; che ti potevi innamorare delle squadre del nord. Adesso sembra che sia un po&rsquo; cambiata questa mentalit&agrave; nelle nuove generazioni".  Banco di Roma, Inter e Como. Poi arriva la grande chiamata&hellip;&nbsp; "Non potevo dire di no alla Roma, anche se mi volevano tante squadre".&nbsp;  Chi si era fatto avanti?&nbsp; "Il Napoli ma anche la Juventus, per&ograve; ripeto: per me era un onore tornare a casa anche se la proposta economica era quella meno allettante. I soldi non sono mai stati una mia priorit&agrave;".&nbsp;  Sei stagioni non sono poche&hellip;&nbsp;&nbsp; "Ho tanti ricordi. E li conservo tutti, belli e meno belli".  L&rsquo;annata migliore?&nbsp; "Sicuramente la prima perch&eacute; arrivammo al terzo posto in campionato".  Il 9 novembre ricorre l&rsquo;anniversario di Roma-Partizan 2-0 in Coppa Uefa. Lei c&rsquo;era.&nbsp; "Una rimonta cercata e voluta che ci permise di accedere agli ottavi di finale. Giocammo bene e non era facile soprattutto dopo quello che era successo all&rsquo;andata, l&igrave; a Belgrado. Era capitato di tutto tra l&rsquo;incendio in tribuna, il 4-2 finale, la polizia e un accendino che colp&igrave; al volto Giannini".&nbsp;&nbsp;  Il Partizan dell&rsquo;epoca e lo Slavia Praga di oggi. Ci sono similitudini?&nbsp; "Il calcio &egrave; cambiato, ma affrontare le squadre dell&rsquo;Est in trasferta non &egrave; mai una passeggiata di salute. Di solito hanno fisico, forza e voglia di non mollare mai. Per superarle ci vogliono testa e corsa".  Nel 1991 si arriva in finale di Coppa Uefa contro l&rsquo;Inter. Fa ancora male?&nbsp;&nbsp; "Un grande rammarico. Perdere una partita del genere davanti ai propri tifosi &egrave; la cosa pi&ugrave; triste. Per certi versi l&rsquo;1-0 dell&rsquo;Olimpico, non utile per ribaltare il 2-0 di Milano, fu vissuto un po&rsquo; come l&rsquo;ultimo atto di Europa League dell&rsquo;anno scorso, contro il Siviglia. La Roma meritava di vincere, meritava un altro epilogo".&nbsp;  Per&ograve; quella cavalcata &egrave; stata incredibile.&nbsp; "Senza dubbio. Fu un crescendo e nessuno si aspettava di vedere la Roma in fondo alla competizione. Il calcio italiano era ben rappresentato".  Gli avversari pi&ugrave; tosti sul cammino?&nbsp; "Sia il Bordeaux che l&rsquo;Anderlecht. Erano due squadre fortissime. Non eravamo favoriti ma riuscimmo a eliminarli e quindi ad aumentare la fiducia in noi stessi, turno dopo turno".  L&rsquo;allenatore che le ha dato di pi&ugrave;?&nbsp; "Da tutti i tecnici ho cercato di prendere il meglio. Quello che mi ha spalmato pi&ugrave; degli altri &egrave; stato Ottavio Bianchi, che ho avuto a Como e anche con la Roma. Aveva un carattere particolare, era burbero, ma di calcio se ne intendeva e pure parecchio. Conosceva tutto di tutti. Era un&rsquo;enciclopedia vivente".  In linea generale in campionato si faticava&hellip;&nbsp; "Dovevamo fare di pi&ugrave;, la squadra a volte non riusciva ad esprimersi ma il supporto del pubblico era sempre unico e speciale".&nbsp; Come se lo spiega?&nbsp; "Erano gli anni di Maradona e Platini e di tantissimi campioni. Il livello in Italia era altissimo. Anche in Europa. C&rsquo;erano, tra gli altri, Van Basten, Careca e Passarella".  L&rsquo;attaccante che soffriva di pi&ugrave; da marcare?&nbsp; "Facile dire Maradona, che era difficile da contenere. Personalmente temevo Laudrup che stava nella Juventus e che poi &egrave; andato al Barcellona. Era veramente un giocatore fantastico".&nbsp; I punti di forza della sua Roma?&nbsp; "I pilastri erano Bruno Conti, Giuseppe Giannini e Rudi V&ouml;ller. Loro erano quelli che facevano la differenza in campo e fuori".&nbsp;  Giuseppe Giannini le ricorda un po&rsquo; Lorenzo Pellegrini?&nbsp; "Sono dei ragazzi stupendi, bravi tecnicamente, che amano a dismisura questi colori. Anche come carattere mi sembrano simili. Giuseppe ha fatto tanto per la Roma ma non &egrave; stato preso in considerazione per lavorarci una volta finita la carriera da calciatore. Questo secondo me &egrave; un gran peccato".&nbsp;  C&rsquo;&egrave; un Tempestilli nella rosa di Mourinho?&nbsp; "Forse Mancini ha qualcosa delle mie caratteristiche, &egrave; determinato e forte. &Egrave; in definitiva un difensore che non ha paura di nessuno. Per&ograve;, per i miei gusti, si lamenta e parla un po&rsquo; troppo con gli arbitri e gli avversari. Io ero diverso da questo punto di vista".&nbsp;  Chi era il Dybala della situazione?&nbsp; "Uguale nessuno. Sforzandomi direi Rudi V&ouml;ller, ma stiamo parlando comunque di due giocatori con una fisicit&agrave; molto diversa. Per&ograve; tutti e due con colpi per risolvere le partite da soli".&nbsp;  I gol in maglia giallorossa ai quali &egrave; pi&ugrave; legato?&nbsp; "Ne dico due, anche se non segnavo tantissimo. Il primo &egrave; quello che ho fatto al Flaminio contro l&rsquo;Inter che ci ha permesso di rimontare la partita: calcio di punizione ribattuto, anticipo un difensore e segno nella porta di Zenga. Una gioia incredibile. Il secondo &egrave; quello in Coppa Italia contro la Juventus. E poi ricordo molti autogol ma &egrave; meglio non soffermarsi su questi (ride, ndc)".&nbsp;&nbsp;  Dopo trent&rsquo;anni il rapporto con la Roma si &egrave; interrotto bruscamente. &Egrave; una storia superata?&nbsp; "No, &egrave; la pi&ugrave; grande delusione. Per la Roma ho lasciato da parte la famiglia. Ho dato tanto e ricevuto tanto. L&rsquo;addio &egrave; stato inaspettato, la cosa che non avrei mai voluto. Solitamente c&rsquo;&egrave; sempre un inizio e una fine. Ma i rapporti possono finire in maniera diversa. Sono stato quasi bannato dalla Roma. Il dispiacere resta enorme. Sai, se uno ha rubato, sta zitto e va via. Io ho sempre lavorato a testa alta per il bene della Roma senza commettere errori come altri".&nbsp;  Dopo una parentesi alla Reggina, ha lavorato per il Velletri. &Egrave; ancora l&igrave;?&nbsp; "Ho dato una mano a degli amici per un breve periodo, la distanza era notevole da dove abito a Roma. &Egrave; stata comunque una bella avventura".       

l difensore ricorda quella sfida con i nerazzurri: "All&rsquo;Olimpico non riuscimmo a ribaltare il 2-0 dell&rsquo;andata. Meritavamo noi ma l&rsquo;1-0 non bast&ograve;"

Tonino Tempestilli: l'amore per la Roma e quella finale contro l'Inter

        Ci sono calciatori che sono entrati nella storia della Roma pur avendo vestito la maglia giallorossa in stagioni caratterizzate da una rosa di livello tecnico non memorabile: &egrave; accaduto perch&eacute; in loro, e in quelle stagioni che hanno disputato con quei colori addosso, i tifosi hanno riconosciuto la filigrana di un impegno e di una dedizione che non sono mai venuti meno, fino all&rsquo;ultima stilla di sudore; fuor di retorica ma dati alla mano, e in questo caso i &ldquo;dati&rdquo; sono rappresentati dall&rsquo;affetto e dalla stima che ancora riscuotono presso i sostenitori ogni volta che da queste parti li si nomina. Anche per questo, da un&rsquo;intervista a tema con Enrico &ldquo;Tarzan&rdquo; Annoni siamo passati a una chiacchierata quasi confidenziale, con ricordi snocciolati uno dopo l&rsquo;altro, sul filo di una memoria rimasta caldissima, a proposito delle sue stagioni romaniste e di un&rsquo;appartenenza a prova di tempo e&hellip; luogo. Enrico, come certamente saprai i tifosi della Roma non ti hanno mai dimenticato e ancora citano il tuo nome, assieme a quello di altri tuoi compagni dell&rsquo;epoca, come sinonimo di agonismo e attaccamento alla maglia, a prescindere da quelli che furono i risultati.&nbsp;  &ldquo;Ma &egrave; il medesimo modo in cui io penso a loro, sempre; mi dispiace soltanto di non poter tornare pi&ugrave; spesso e soprattutto quanto vorrei, perch&eacute; ti assicuro che a Roma torno sempre con il sorriso, anche perch&eacute; ho ancora una casa nella Capitale. Abitando nei dintorni di Como, pur seguendola in ogni modo, &egrave; chiaro che non posso stare vicino come vorrei a una realt&agrave; che &egrave; stata anche la mia, della quale ho fatto parte innamorandomi sempre di pi&ugrave; di ogni componente del mondo romanista. Anzi, fammi anche fare una precisazione&rdquo;.&nbsp; Prego.  &ldquo;La Roma, inteso in questo caso come dirigenza attuale, &egrave; l&rsquo;unica societ&agrave; italiana tra quelle nelle quali ho giocato che ogni settimana si ricorda di me, invitandomi allo stadio; poi lo fa anche il Celtic, dove ho lasciato amici e un altro pezzetto di cuore&rdquo;. Quella tua Roma, in quella sera dove fino a un certo punto tutto sembrava girare alla perfezione, affront&ograve; lo Slavia Praga per la gara di ritorno dei quarti di finale della Coppa Uefa 1995-96, il 19 marzo 1996, con una rimonta che sembr&ograve; essere stata condotta in porto fino al minuto 113 dei supplementari. &nbsp;&ldquo;Eh&hellip; ancora oggi mi brucia, cos&igrave; come a tutti i miei compagni. In campo la nostra convinzione cresceva di minuto in minuto, anche perch&eacute; avevamo preparato con molto rispetto nei confronti dell&rsquo;avversario quella partita; loro all&rsquo;andata ci avevano messo sotto e sapevamo che a noi quella sera sarebbe servita la partita perfetta, cosa che stava accadendo quasi fino alla fine&rdquo;. Che ricordo hai dello Stadio Olimpico di quella sera, per come lo vedresti dal campo?  &nbsp;&ldquo;Semplicemente spettacolare&hellip; sin da quando entrammo in campo sotto una scenografia da brividi che coinvolgeva ogni settore dello stadio. I brividi io stesso li sento anche in questo momento, quando ne stiamo riparlando a tanti anni di distanza&hellip; poi nel corso di quella serata, memorabile quasi fino agli ultimi minuti, ho sentito l&rsquo;incitamento della gente non solo sopra di noi, ma letteralmente accanto; hai presente quando si parla di dodicesimo uomo in campo, a proposito del pubblico di casa? Ecco, ti assicuro che quella sera non fu affatto soltanto un modo di dire. Il nostro dolore, la nostra delusione, furono moltiplicati dal dolore della gente, alla quale era sfuggito un sogno; inoltre, a noi giocatori che avevamo dato tutto ed eravamo davvero stremati, dispiacque moltissimo non essere riusciti a dare una gioia al nostro allenatore, a Carletto Mazzone&rdquo;. Inevitabile parlare di lui ancora una volta. &ldquo;Quando ho saputo che non c&rsquo;era pi&ugrave;, l&rsquo;ho presa malissimo, malissimo. Non che non sapessi che le sue condizioni da un po&rsquo; di tempo erano quelle che erano, ma si tratta di quel tipo di notizie che speri non ti raggiungano mai, di quel tipo di telefonata che non vorresti mai ricevere. Il ricordo che ne ho &egrave; quello di un padre, innanzitutto, poi di un uomo equo e giusto con tutti. A maggior ragione perch&eacute; all&rsquo;inizio con me fu piuttosto freddo, anche comprensibilmente: in una fase di avvicendamenti al vertice della societ&agrave;, alla Roma aspettavano Ciro Ferrara e poi arrivai io, ci sta che gli entusiasmi all&rsquo;inizio si raffreddassero un po&rsquo;. Poi, con l&rsquo;impegno e con la caparbiet&agrave; che non mi sono mai mancati, ho cominciato a entrare nel cuore della gente, e sai perch&eacute;? Perch&eacute; ci sono i bravi architetti, i bravi geometri e poi i bravi muratori. Io, che sapevo di non potermi considerare n&eacute; architetto n&eacute; geometra, ho fatto di tutto perch&eacute; i tifosi della Roma mi considerassero il miglior muratore possibile&rdquo;. Come te lo spieghi che i sostenitori dell&rsquo;epoca ti ricordino ancora con tanto calore?  &ldquo;Perch&eacute; apprezzano i muratori&hellip; scherzi a parte, ma la metafora rende l&rsquo;idea, a un tifo viscerale come quello della Roma devi mostrarti per quello che sei e in nome di quello farti apprezzare; a questa gente che fa sacrifici di ogni tipo non puoi apparire per ci&ograve; che non sei: io con le mie caratteristiche e con i miei limiti ho voluto trasmettere loro un impegno che doveva essere sempre profuso al massimo grado. Poi si vinceva o si perdeva, ma questo &egrave; un altro discorso&rdquo;. Se Vavra, che poi in carriera non segn&ograve; quasi mai pi&ugrave;, con quel tiro ci avesse riprovato altre venti volte?  &ldquo;Probabilmente non avrebbe mai pi&ugrave; fatto gol, ma proprio per questo era destino, con la palla che prese quella traiettoria cos&igrave; arcuata e che pass&ograve; tra le gambe di Marco Lanna in modo da sorprendere poi Giovanni Cervone&rdquo;. &nbsp; Chiudiamo con un saluto ai tifosi della Roma, che sono ancora i tuoi tifosi.&nbsp;  &ldquo;Ho ancora un grande rammarico, per come andai via a met&agrave; stagione 1996-97 per un rapporto mai nato con Carlos Bianchi: non essere andato sotto la Sud a salutare, perch&eacute; me li sarei abbracciati uno per uno. Noleggiare quell&rsquo;aereo da far volteggiare sopra l&rsquo;Olimpico con la scritta attraverso la quale io, Tarzan, li salutavo, era il minimo che potessi fare per un &ldquo;popolo&rdquo; al quale ancora oggi vorrei dire tante cose e al tempo stesso non trovo le parole, anzi me ne vengono soltanto due: vi amo&rdquo;.       

&ldquo;Tarzan&rdquo; ha ricordi indelebili: "Non ho mai dimenticato gli anni in giallorosso, ancora adesso mi vogliono tutti bene"

Enrico Annoni: "La Roma nel mio cuore per sempre"

        Dei francesi che portarono lo scudetto a Roma nel 2001, Vincent Candela &egrave; quello che &egrave; rimasto pi&ugrave; scolpito nella memoria dei tifosi. Rispetto a Jonathan Zebina, l&rsquo;altro transalpino protagonista di quella grande stagione, era pi&ugrave; bravo, pi&ugrave; fedele alla maglia (otto anni nella Capitale contro quattro) e pi&ugrave; immerso nel mood della citt&agrave;. Zebina era un parigino che amava la pittura: forse anche per questo Fabio Capello nutriva per lui una predilezione che a molti appariva quasi inspiegabile. Candela, occitano di B&eacute;darieux, aveva bisogno di minori sofisticazioni per godersi la vita e si adatt&ograve; pi&ugrave; facilmente in un ambiente all&rsquo;atavica ricerca di nuovi gladiatori.  &nbsp;  L&rsquo;arrivo a Roma &nbsp; Lui che, nel sud della Francia, era cresciuto con gli umori del Mediterraneo, non ci mise molto a farsi apprezzare quando, all&rsquo;inizio del 1997, giunse a Roma proveniente dal Guingamp, sessantesimo straniero della storia giallorossa e primo francese. Un trasferimento desiderato con tutte le forze: a ventitr&eacute; anni Vincent si sente pronto a giocare le sue carte nel campionato pi&ugrave; competitivo del mondo e, per non perdere il treno sul quale la Roma gli offre di salire, litiga col suo presidente. Inizialmente il suo arrivo fu oscurato da quello concomitante di Omari Tetradze, terzino destro accompagnato dalla maggior fama acquisita soprattutto grazie alla militanza nella nazionale russa. Gli ci volle un mese, quello trascorso tra l&rsquo;esordio nella partita casalinga col Vicenza del 2 febbraio 1997 e il match disputato all&rsquo;Olimpico contro il Verona del 9 marzo, per rompere gli indugi delle osservazioni titubanti e cominciare a far sognare i tifosi. Fu proprio anche grazie a una sua doppietta, infatti, che i giallorossi batterono gli scaligeri. Candela si guadagn&ograve; i titoli dei giornali del luned&igrave; e la consapevolezza di un pubblico che, da quel giorno in poi, lo amer&agrave; senza riserve. &nbsp;  Da Carlos Bianchi a Capello, passando per Zeman &nbsp; Sopravvissuto con onore alla catastrofica stagione con Carlos Bianchi in panchina, il terzino francese &egrave; titolare indiscusso anche nella Roma di Zeman. Di media statura ma ben strutturato (anche per via del rugby praticato in passato) sostiene gli allenamenti del tecnico anche se, una volta in partita, non ne segue sempre alla perfezione i dettami. Del resto Candela ha piedi raffinati e voglia di divertirsi tipici di un numero dieci pi&ugrave; che di un difensore ed &egrave; poco incline alla disciplina tattica che richiede il boemo. Che, in situazioni di emergenza, gli chiede anche di fare il difensore centrale, ruolo nel quale Vincent si sacrifica senza entusiasmo per mero amor di patria. Per lui, pur se destro naturale, &egrave; la fascia sinistra la tela sulla quale imprimere il suo gioco ideale. Uno spazio nel quale alterna i contrasti al doppio passo, un cross a rientrare e il colpo di tacco. L&rsquo;intesa con Totti &egrave; totale e fluisce in un rapporto che combina naturalmente professionalit&agrave; e amicizia. I loro duetti sulla sinistra, boccate d&rsquo;ossigeno per esteti del calcio, nei momenti d&rsquo;eccesso mandano Zeman in fibrillazione. &Egrave; il prezzo del talento, che alla fine il boemo accetta senza sorridere troppo.E probabilmente &egrave; anche il rapporto non idilliaco con l&rsquo;allenatore a spingere Candela, al termine della stagione 1998-99, ad accettare una proposta dell&rsquo;Inter. I nerazzurri hanno mezzi ed esperienza per vincere il campionato: impossibile dire no. Fin quando a Trigoria arriva Fabio Capello: un nome, un brand che significa successo. Basta una telefonata per far ricredere Vincent, che torna felicemente sui suoi passi a preparare la scalata al paradiso. Che non &egrave; immediata: il primo anno col tecnico del Milan degli Invincibili scivola via insipido nonostante un buon avvio. &Egrave; nell&rsquo;estate del 2000 che Franco Sensi fa gli acquisti giusti, aggiunge campioni a una rosa gi&agrave; talentuosa e Candela si guadagna il lasciapassare per la storia. &nbsp;  Scudetto, Mondiali ed Europei  &nbsp; La sua presenza in campo raggiunge un livello di autorevolezza paradigmatico: &egrave; migliorato nella scelta dei tempi, nel dosare le sortite offensive con i ripieghi sulla linea della difesa a tre. Giocando un po&rsquo; pi&ugrave; lontano da Totti prende maggiori responsabilit&agrave;, diventando una sorta di rifinitore esterno al quale i compagni possono affidarsi quando il capitano &egrave; bloccato nelle gabbie difensive avversarie. La postura col petto in fuori e i capelli lunghi schiacciati dal cerchietto che gli cinge il capo donano al francese un aspetto da personaggio romanzesco. Se sulla destra Cafu spinge cavalcando la fascia con una fisicit&agrave; elastica e fluida, a sinistra Candela alterna spada e fioretto, pause di ritmo e allunghi, ricami e potenza. Nella trasferta di Bari del 20 maggio 2001, il gol di apertura che porta la sua firma rappresenta plasticamente le sue qualit&agrave; di palleggio, forza e precisione. Lo scudetto coi giallorossi, celebrato il mese successivo, &egrave; il momento apicale di una carriera che pure l&rsquo;ha visto contribuire alla conquista di traguardi pi&ugrave; importanti, come la Coppa del Mondo del 1998 e l&rsquo;Europeo 2000. Ma con la sua nazionale Vincent non &egrave; il primattore di Roma: troppo forte la concorrenza nel ruolo di Lizarazu, terzino sinistro del Bayern Monaco, per trovare lo spazio adeguato a sentirsi fondamentale. Anche se, tra il 1996 e il 2002, saranno quaranta le volte che Candela indosser&agrave; la maglia dei Bleus. Ad altissimi livelli la carriera di Vincent non &egrave; longeva. Intorno ai trent&rsquo;anni gli stimoli cominciano a sfumare: Capello, che lo stima molto, prova a scuoterlo senza grossi risultati. Finisce il suo primo matrimonio, il piacere del bere sconfina qualche volta di troppo nel vizio. Anche per Totti, amico fraterno, diventa difficile arginare un momento di difficolt&agrave; che, arrivato in quella fase della vita professionale, incide profondamente sul suo rendimento. Nel gennaio del 2005 lascia i giallorossi per provare un&rsquo;esperienza in Inghilterra col Bolton che dura solo sei mesi. Poi a Udine, Siena e Messina ultima il suo percorso senza ulteriori fiammate. Dopo il ritiro non pu&ograve; che tornare nella Capitale a ricordare con gli amici di oggi, nel suo italiano arroccato tra romanesco e accento francese, le gesta di quella Roma nella quale erano compagni.       

Gioc&ograve; nella Capitale per otto anni. Dopo due stagioni con Zeman, l&rsquo;arrivo di Capello lo port&ograve; alla maturazione e alla vittoria di uno storico scudetto con i giallorossi

251 risultati per 'roma'