        Non sappiamo bene quante siano state le vittime della strada nell&rsquo;estate del 1989: non &egrave; una statistica che qui interessa analizzare. Quello che possiamo sapere &egrave; che tre di esse erano nel cuore non solo dei loro cari ma anche dei milioni di tifosi che gli avevano regalato l&rsquo;anima sperando che le loro gesta portassero le squadre in cui giocavano alla vittoria. Prima di Kazimierz Deyna e Gaetano Scirea, il cui tragico destino si sarebbe consumato poche settimane pi&ugrave; tardi, il 15 luglio 1989 perdeva la vita in un incidente automobilistico Laurie Cunningham, talentuoso giocatore in quel momento in forza al Rayo Vallecano, che a Madrid era arrivato dieci anni prima avendo sedotto i dirigenti e lo staff tecnico del grande Real. Calcio e ballo, le grandi passioni di Laurie Cunningham Una vita costantemente in bilico, la sua. Tra danza e calcio, arte e persecuzione, voglia di esprimersi liberamente e costrizioni. Di genitori giamaicani trasferitisi a Londra, sin da bambino mostra evidenti inclinazioni per la musica, il ballo e la pittura, che in una sorta di connubio sportivo riesce a rappresentare nel suo modo di giocare a calcio, veloce e raffinato da far girare la testa. Lo sceglie il Leyton Orient quando ancora lui stesso forse non ha davvero deciso se nella sua vita sar&agrave; il calcio o la danza ad avere un ruolo primario. E&rsquo; il dramma di chi si sente pervaso da pi&ugrave; passioni, fonti di ispirazione ma anche diavoli tentatori se non riescono a portarti sulla strada del successo. Nonostante le notti in discoteca e i numerosi ritardi agli allenamenti, Laurie attira l&rsquo;attenzione del West Bromwich Albion, che nel 1977 gli permette di esordire in First Division. Non solo: in quello stesso anno Cunningham &egrave; il primo inglese di colore ad essere convocato in una selezione nazionale, quella dell&rsquo;Under 21, con la quale esordisce realizzando il gol della vittoria contro la Scozia. Nel WBA Cunningham si lancia definitivamente insieme ai compagni, anch&rsquo;essi di colore, Cyrille Regis&nbsp;e&nbsp;Brendon Batson. La nota assume rilievo per via dell&rsquo;atipicit&agrave;, per l&rsquo;epoca, della compresenza in un club di pi&ugrave; calciatori non bianchi, che dal tecnico Ron Atkinson vennero ribattezzati The Three Deegrees, prendendo spunto da un trio musicale molto trendy in quegli anni. L&rsquo;approdo di Laurie Cunningham al Real Madrid  Le merengues si innamorano di lui dopo averlo visto all&rsquo;opera negli ottavi di finale della Coppa Uefa 1978-79, quando le sue giocate superlative portano all&rsquo;eliminazione il Valencia di Kempes. La trattativa tra le societ&agrave; ha un esito scontato, c&rsquo;&egrave; solo da decidere quanto debbano incassare gli inglesi: alla fine quasi un milione di sterline. Cunningham approda cos&igrave; in Spagna nella fase di fermento successiva alla dittatura franchista, quando Madrid &egrave; un luccichio notturno che si alimenta di musica, evasione e voglia di assaporare la libert&agrave; riconquistata. &Egrave; il periodo della Movida Madrile&ntilde;a alla quale colui che veniva considerato da molti il pi&ugrave; grande talento britannico dopo George Best non sa resistere. La prima stagione tutto fila per il verso giusto: gol e ottime prestazioni arridono al giovane inglese, che in un memorabile clasico disputato al Camp Nou esce dal campo dopo una prestazione che fa ammattire i blaugrana e costringe agli applausi conviti il pubblico presente sugli spalti. Campionato e Coppa nazionale impreziosiscono il suo palmares, talento naturale e forza dell&rsquo;et&agrave; gli consentono quella vita sul doppio binario che, alla lunga, &egrave; difficile continuare. Se ne accorge nella seconda stagione, quando si rompe un piede in uno scontro di gioco e il giorno stesso che lascia l&rsquo;ospedale viene avvistato in un night. Il Real Madrid si indispettisce e gli commina una salatissima sanzione di un milione di pesetas.  Laurie Cunningham, gli ultimi anni e il declino  &Egrave; l&rsquo;inizio di una precoce parabola discendente che porta Laurie ad attraversare i sentieri sdrucciolevoli degli infortuni, dei rientri claudicanti e delle ricadute. Nel 1981 gioca la finale di Coppa dei Campioni contro il Liverpool in condizioni tali da renderlo inoffensivo. Vincono i Reds e le stagioni successive sono sempre pi&ugrave; da comprimario, con passaggi estemporanei a Manchester (United), Sporting Gijon, Olympique Marsiglia, Leicester, Rayo Vallecano, Charleroi e, nel 1987-88, Wimbledon, dove riesce a partecipare alla conquista della FA Cup prendendosi una parziale rivincita sul Liverpool. &Egrave; l&rsquo;ultimo bagliore prima di tornare al Rayo e spegnere definitivamente i riflettori al termine di un&rsquo;ennesima serata nella quale fu la morte a concedergli l&rsquo;ultimo ballo.&nbsp;       

L&rsquo;inglese di origine giamaicana scomparve prematuramente in un incidente stradale nel 1989. Per alcuni l&rsquo;erede di Best, visse nel 1979-80 la sua miglior stagione ai Blancos

Cunningham, un ballo finito troppo presto tra il Real Madrid e la strada

        Dalle vie polverose di Kinshasa ai quartieri pi&ugrave; eleganti di capitali come Madrid, Londra e Parigi, la strada &egrave; lunga. Claude Mak&eacute;l&eacute;l&eacute; l&rsquo;ha percorsa a modo suo, con quell&rsquo;ampia dose di capacit&agrave; di sacrificio e desiderio disperato di salvarsi da un destino sfortunato che contraddistingue chi lascia il proprio Paese. Cosa che la famiglia di Claude fa quando lui ha appena quattro anni, destinazione Parigi. La vita nei sobborghi non &egrave; semplice: farsi accettare dai locali, sostenere il tenore di vita che richiede la grande citt&agrave;. Arriva cos&igrave; un altro trasferimento: a Brest, citt&agrave; portuale nell&rsquo;estremo occidente francese. A Parigi torner&agrave; vent&rsquo;anni dopo, da campione affermato, quando le barriere dell&rsquo;indifferenza saranno state abbattute dall&rsquo;accondiscendenza che accompagna il successo.  Claude Mak&eacute;l&eacute;l&eacute;, gli inizi al Brest e il passaggio al Nantes A Brest Mak&eacute;l&eacute;l&eacute; approccia il calcio vero. Sono gli osservatori del Nantes ad accorgersi di lui e a portarlo a vestire la maglia dei canarini, coi quali arriva a vincere il campionato nella stagione 1994-95. &Eacute; il primo successo importante di un giocatore che si distingue sin dall&rsquo;inizio della carriera per l&rsquo;impressionante numero di chilometri che percorre: nato come esterno alto, si sposta presto in mezzo al campo, dove le sue capacit&agrave; aerobiche riescono a trovare la massima espressione. Nel periodo speso a Nantes riesce a esordire in nazionale. Prova a far parte del gruppo che nel 1998 vincer&agrave; il Mondiale ma la non brillante stagione vissuta a Marsiglia &egrave; decisiva nelle scelte del CT Jacquet, che lo lascia a casa.  Dal Celta Vigo al Real Madrid dei Galacticos: gli anni spagnoli di Mak&eacute;l&eacute;l&eacute; C&rsquo;&egrave; bisogno di una svolta nella carriera di Mak&eacute;l&eacute;l&eacute;, che a 25 anni decide di trasferirsi in Galizia per aprire un nuovo capitolo della sua vita professionale. Il Celta Vigo non &egrave; un top club (&egrave; arrivato sesto nella stagione precedente) ma &egrave; una squadra nella quale riesce a mettere definitivamente in mostra le sue doti migliori: dinamismo, senso tattico, capacit&agrave; di contrasto. Negli spazi che si estendono da un&rsquo;area di rigore all&rsquo;altra lui &egrave; ovunque, in verticale e in orizzontale, a rubar palloni e ad appoggiarli al compagno pi&ugrave; vicino. Non velocissimo, recupera spesso le distanze con scivolate dure, talvolta al limite del regolamento, ma efficaci. La sua bravura nell&rsquo;andare a contrasto &egrave; da insegnare nelle scuole calcio, con quell&rsquo;abilit&agrave; che sembra innata nel porsi sempre a met&agrave; tra l&rsquo;avversario e il pallone in modo da recuperarne o mantenerne il possesso. &Egrave; impossibile da spostare, non per via delle dimensioni fisiche ma per la forza scultorea che sanno sprigionare le sue gambe in costante movimento. &Egrave; il giocatore che sa dare concretezza al gioco disegnato dagli esteti: &egrave; il motivo per cui, nell&rsquo;estate del 2000, il Real Madrid lo chiama alle sue dipendenze. Fa il suo ingresso nella Casa Blanca insieme a Luis Figo, fiore all&rsquo;occhiello della campagna acquisti di quell&rsquo;anno, che va ad aggiungersi alle altre stelle di una compagine che, paradossalmente, ha pi&ugrave; bisogno di Mak&eacute;l&eacute;l&eacute; che del portoghese per poter funzionare come squadra. In una costellazione di archistar com&rsquo;&egrave; il Real tocca a lui legare le due fasi del gioco, avvicinare la linea difensiva ai progetti di calcio sopraffino che esprime il talento dell&rsquo;attacco dei Blancos. &Eacute; l&rsquo;Oriali degli anni Duemila, al quale Ligabue, se fosse stato tifoso delle Merengues, avrebbe dedicato una canzone. Per capirlo pu&ograve; essere sufficiente dare un&rsquo;occhiata alla formazione che scende in campo a Glasgow il 15 maggio 2002 nella finale di Champions League: Mak&eacute;l&eacute;l&eacute; &egrave; l&rsquo;unico anello di congiunzione tra i quattro difensori (Salgado, Hierro, Helguera e Roberto Carlos), i &ldquo;centrocampisti&rdquo; dalle spiccatissime attitudini offensive (Figo, Zidane e Solari) e gli attaccanti (Raul e Morientes). &Egrave; una formula che funziona: nei tre anni passati a Madrid, il Real vince quella finale di Champions e, in sequenza, Supercoppa Uefa e Coppa Intercontinentale, mentre a livello domestico si aggiudica due campionati e due Supercoppe.  Gi&agrave;, solo tre anni. Perch&eacute; nell&rsquo;estate del 2003, quando si affronta la questione del rinnovo del contratto, il centrocampista sarebbe felice di prolungare la sua permanenza ma le sue istanze si scontrano con l&rsquo;incompetenza tecnica di chi il calcio lo vede solo come un riverbero di lustrini e paillettes: Florentino Perez. Le richieste di Mak&eacute;l&eacute;l&eacute; vengono respinte: per il presidente &ldquo;ha una tecnica mediocre, gli manca il talento e la velocit&agrave; per recuperare la palla&rdquo;. Affermazioni che lasciano trasparire, con vent&rsquo;anni di anticipo, la concezione parziale del calcio del promotore pi&ugrave; estremo del progetto odierno della Superlega: solo uno sport declassato a mero divertimento, un&rsquo;industria fonte di guadagno da far girare su regimi di fatturato ogni anno pi&ugrave; elevati. In questa prospettiva non c&rsquo;&egrave; posto per i calciatori di fatica. Apprezzatissimi, al contrario, proprio da chi in campo riempie le pupille di avidi magnati come Perez. &Egrave; Zinedine Zidane, infatti, dinanzi all&rsquo;addio di Mak&eacute;l&eacute;l&eacute; e al contemporaneo arrivo a Madrid di un ennesimo cesellatore, David Beckam, a formulare un paragone quanto mai critico della combinazione di quelle due operazioni di mercato: &rdquo;un&rsquo;ulteriore mano di vernice dorata ad una Bentley senza motore&rdquo;. In aggiunta Steve McManaman sosterr&agrave; che Mak&eacute;l&eacute;l&eacute; &ldquo;era il giocatore&nbsp;pi&ugrave; importante&nbsp;del Real e il meno riconosciuto&rdquo;. Anche il campo dar&agrave; ragione ai calciatori: dopo la sua partenza le Merengues dovranno attendere l&rsquo;arrivo di Capello (nel 2007) per rivincere la Liga mentre per sollevare al cielo la Champions (l&rsquo;agognata decima) passeranno altri undici anni.  Mak&eacute;l&eacute;l&eacute;, le vittorie col Chelsea di Mourinho e il finale di carriera al PSG Nel frattempo la carriera di Claude continua ai massimi livelli perch&eacute; dopo Madrid riesce a trovare casa a Londra, Chelsea per la precisione. Prima con Ranieri, poi con Mourinho, il suo modo di giocare rimane determinante per gli equilibri della squadra e ben riconoscibile dai tifosi inglesi, che grazie a lui scoprono il Mak&eacute;l&eacute;l&eacute; Role. Con il tecnico portoghese fa ulteriore incetta di trofei: due campionati, due Coppe di Lega, una FA Cup e un Community Shield. Nel 2008 perde la finale di Champions League solo ai rigori: ha trentacinque anni e capisce che &egrave; il momento di tornare a casa. Le ultime tre stagioni le disputa col PSG, vincendo anche l&rsquo;ultimo titolo: la Coppa di Francia nel 2010. L&rsquo;anno successivo &egrave; l&rsquo;ultimo prima del ritiro, dopo oltre 800 partite ufficiali con squadre di club che, approssimativamente, hanno significato 8000 chilometri di corsa su e gi&ugrave; per il campo (l&rsquo;equivalente di 190 maratone) e 15 trofei. Non male per un giocatore di tecnica mediocre e con poco talento...&nbsp; &nbsp;&nbsp;         

Il centrocampista francese fu il perno della mediana dei Galacticos, del Chelsea e del PSG nei primi anni Duemila. La sua storia dagli esordi col Nantes ai successi con Mourinho

Makélélé, il maratoneta: rincorse e contrasti tra Madrid, Londra e Parigi

        Si pu&ograve; separare l&rsquo;artista dalla sua opera? Si pu&ograve; giudicare solamente la sua arte rimanendo il pi&ugrave; possibile distaccati dalla sua storia? A questa domanda molti, seppure dopo ampio dibattimento, non riescono a dare risposta. Dovremmo forse rivalutare negativamente la produzione letteraria di Pasolini, alla luce delle turbolente vicende della sua vita privata? Oppure un film di Polanski, una tela di Caravaggio? Se c&rsquo;&egrave; qualcosa di certo &egrave; che il tempo, giudice massimo delle vicende umane, ci dice che alla fine uomo e arte si scindono, lasciando posto quasi solamente a quest&rsquo;ultima, a patto ovviamente che si tratti di arte vera, con la A maiuscola. Siete a conoscenza, per esempio, del fatto che Michelangelo Merisi fosse un vero balordo? Passava le sue notti romane, quando non era in cella a Tor di Nona, tra bettole, vino e risse, che spesso finivano a colpi di coltello. Ha ucciso anche un uomo, in un alterco dovuto ad un fallo durante una partita di pallacorda in Campo Marzio, o forse per questioni legate a una donna. Fatto sta che se pensiamo a Caravaggio abbiamo bene in mente la Vocazione di San Matteo, il Narciso o lo Scudo con testa di Medusa, non le peripezie notturne del controverso pittore. Con le dovute differenze, neanche troppo dovute a dirla tutta, per noi calciofili l&rsquo;artista &egrave; rappresentato dal campione, dal fuoriclasse, e le gesta sul rettangolo verde invece simboleggiano la sua arte. Trovandoci oggi su queste pagine a ripercorrere la storia di uno dei pi&ugrave; grandi artisti del pallone di sempre, nella ricorrenza dei suoi 50 anni, ci imbattiamo dinanzi allo stesso dilemma. Dobbiamo giudicare Luis Figo esclusivamente per le sue magie in campo? O il nostro giudizio sar&agrave; irrimediabilmente condizionato da quanto successo nell&rsquo;estate del 2000, quando il lusitano si rese protagonista del pi&ugrave; grande caso mediatico di calciomercato della storia, passando dal Barcellona al Real Madrid? Per noi la risposta &egrave; abbastanza semplice, Luis Figo &egrave; stata una delle stelle pi&ugrave; brillanti di quella galassia di campioni degli anni &rsquo;90 e 2000, e non ce ne vogliano i supporters blaugrana, in tal guisa lo ricorderemo.  I primi anni, il mancato arrivo in Serie A e il Bar&ccedil;a A dirla tutta, qualche turbolenta storia extracalcistica accompagna il campione lusitano sin dagli albori della sua carriera: nella stagione 1994/95, ancora in forze allo Sporting Lisbona, firma prima un contratto con la Juve, in un secondo tempo decide unilateralmente che non &egrave; pi&ugrave; valido e ne firma un altro con il Parma. La Lega alla fine giudica irregolari entrambi gli accordi, cos&igrave; Figo e la Serie A sono costretti a dirsi addio, almeno per un po&rsquo;. Nonostante la giovane et&agrave; l&rsquo;esterno di Setubal &egrave; uno dei calciatori pi&ugrave; desiderati d&rsquo;Europa: con le Nazionali giovanili ha gi&agrave; vinto sia l&rsquo;Europeo che il Mondiale, scatta, dribbla e tira come un veterano, &egrave; evidente a tutti che si tratti di un campione. Dopo il superato impasse delle questioni di mercato, &egrave; il Barcellona a vincere ogni concorrenza e ad aggiudicarsi le prestazioni del giovane talento. Figo arriva in Catalogna alla corte di Johan Cruijff e ben presto diventa l&rsquo;idolo dei cul&eacute;s. Un giocatore cos&igrave; forse non si &egrave; mai visto: Luis calcia con entrambi i piedi, &egrave; veloce e salta l&rsquo;uomo con una facilit&agrave; imbarazzante. Durante quegli anni tutti i ragazzini d&rsquo;Europa imparano a dire &ldquo;dribbli come Figo&rdquo;, quando vogliono indicare qualcuno particolarmente bravo. Il legame tra il calciatore lusitano e Barcellona per&ograve; va oltre le questioni di campo: Figo diventa l&rsquo;idolo di una tifoseria intera, si immerge totalmente nella cultura catalana, abbraccia a 360 gradi tutto quello che rappresenta il Bar&ccedil;a, che come molti sanno, &egrave; &ldquo;mes que un club&rdquo;. Qui continua a fare gol, a far sognare i tifosi e trova anche l&rsquo;amore: si lega sentimentalmente alla modella svedese Helen Svedin nel 1996, tre anni dopo nasce la loro prima figlia. Il filo rosso che unisce Figo e Barcellona sembra davvero indistruttibile, &egrave; il leader tecnico della squadra, la trascina alla vittoria di due campionati, due Coppe del Re, una Coppa delle Coppe, una Supercoppa spagnola e una europea. Si guadagna nel tempo i gradi di vicecapitano alle spalle di Pep Guardiola, suo grande amico. Nessuno potrebbe mai immaginare quello che sarebbe successo nell&rsquo;estate del 2000.  La gran traicion e gli anni madrileni A Madrid, durante la campagna elettorale per eleggere il nuovo presidente del Real, il rampante e semi-sconosciuto ingegnere civile Florentino Perez deve battere la concorrenza di Lorenzo Sanz, fresco vincitore di due Champions League in tre anni. Per batterlo fa un annuncio sensazionale: promette che in caso di vittoria porter&agrave; Luis Figo tra le fila dei Blancos. Inizialmente non molti gli credono, ma poi iniziano a trapelare diverse notizie di incontri tra lui e Jos&eacute; Veiga, agente del calciatore lusitano. Per quanto sembrasse davvero impossibile agli occhi di qualsiasi appassionato di calcio dell&rsquo;epoca, alla fine succede: Florentino vince le elezioni, versa circa 140 miliardi delle vecchie lire al Barcellona e acquista Luis Figo. Lo shock che questa notizia provoca nel mondo del Bar&ccedil;a e non solo &egrave; epocale: &egrave; pi&ugrave; o meno come se Giulio Cesare nel bel mezzo della campagna di Gallia avesse scelto di schierarsi con Vercingetorige e compagni. A dicembre di quello stesso anno il fenomeno lusitano viene insignito, a buon diritto, del pi&ugrave; prestigioso trofeo individuale mondiale: il Pallone d&rsquo;Oro. Con il suo arrivo a Madrid inizia ufficialmente l&rsquo;era dei Galacticos, con l&rsquo;impronta fortemente voluta da Florentino Perez e la sua voglia di farla diventare una squadra piena zeppa di campioni. Nel 2002 vince la Champions League, che aggiunge al suo palmar&egrave;s stellare. Rimane per 5 stagioni a Madrid, trovandosi cos&igrave; a giocare molto spesso il Clasico, questa volta con la maglia bianca. In tutte queste occasioni i supporters blaugrana non mancheranno mai di ricordargli il loro amore tradito, bersagliandolo di insulti e lanci di oggetti contundenti fino ad arrivare, il 23 novembre del 2002, alla celeberrima testa di maiale lanciatagli al Camp Nou. Figo non chiarir&agrave; mai totalmente come and&ograve; la trattativa in quell&rsquo;estate del 2000, ma risulta abbastanza ovvio che nessuno lo abbia costretto a trasferirsi a Madrid contro la sua volont&agrave;.  Gli ultimi anni Nel 2005, dopo una carriera piena zeppa di successi e di titoli, si trasferisce all&rsquo;Inter, ritrovando quella Serie A a cui era stato cos&igrave; vicino 10 anni prima. Nonostante l&rsquo;et&agrave; avanzata il suo apporto alla causa nerazzurra &egrave; fondamentale: con la Beneamata vince quattro scudetti, una Coppa Italia e tre Supercoppe italiane, prima di dire addio al calcio il 31 maggio del 2009, dopo ben 20 anni da professionista. La sua storia, costellata di grandi traguardi e di giocate fantasmagoriche, lo eleva senza nessun dubbio nell&rsquo;Olimpo dei pi&ugrave; grandi di sempre: idolo della successiva generazione di calciatori, ha contribuito a scrivere la storia del calcio, assurgendo al livello di arte quello che molti, sbagliando, definiscono un semplice gioco. Ed &egrave; per questo, e per nient&rsquo;altro, che per sempre lo ricorderemo.          

Il calciatore lusitano, uno dei pi&ugrave; grandi di sempre &ndash; nato il 4 novembre 1972 &ndash; nel 2000 fu protagonista di un clamoroso cambio maglia, passando ai rivali del Real Madrid

Luis Figo: l’artista del dribbling che incantò e tradì Barcellona

        Il primo fotogramma storico che cogliamo nella carriera di Zidane &egrave; il suo trasferimento alla Juventus nel 1996, dopo essersi rivelato a livello internazionale con la maglia del Bordeaux: con i bianconeri il fuoriclasse marsigliese compie il salto di qualit&agrave; definitivo e si impone a livello mondiale. Nelle sue cinque stagioni a Torino il francese porta a casa qualcosa come due scudetti, una Supercoppa italiana, una Coppa&nbsp;Intercontinentale, una Supercoppa europea, un Intertoto ma anche e soprattutto il Pallone d'Oro nel 1998, raggiungendo il punto pi&ugrave; alto della sua carriera.Il 1998 &egrave; davvero lo zenith della sua ascesa calcistica, non solo per la vittoria del Pallone d'Oro: Zizou in quell'anno trascina anche da assoluto leader la nazionale francese alla conquista del suo primo storico Mondiale davanti al pubblico di casa. Il fuoriclasse disputa un torneo d'altissimo livello ma il meglio lo esibisce proprio nella finalissima di Parigi, realizzando 2 dei 3 gol che stendono il Brasile campione in carica. La vittoria Mondiale non &egrave; l'unico trofeo che Zidane conquista con la Francia: un paio d'anni pi&ugrave; tardi infatti conquister&agrave; anche un Europeo battendo in finale l'Italia, con l&rsquo;epilogo del golden gol, dolorosissimo per gli azzurri che erano passati in vantaggio con Delvecchio e avevano subito il pari proprio allo scadere del tempo regolamentare.  Zidane: lo stile di gioco di un fenomeno Definirlo semplicemente un centrocampista offensivo sarebbe alquanto riduttivo e offensivo, in questo caso s&igrave;, ma nell&rsquo;accezione pi&ugrave; deleteria del termine. Zidane &egrave; stato, sin dai suoi inizi, molto di pi&ugrave; e soprattutto di diverso rispetto ai canoni. Un trequartista dalle spiccate e pregiatissime doti offensive. Una presenza costante nell&rsquo;area di rigore avversaria ma anche attorno a essa; uno che, indipendentemente dalla zolla sulla quale riceveva palla, incuteva timore ogni volta che sotto i suoi tacchetti iniziava il concepimento dell&rsquo;azione. E lo si pot&eacute; capire gi&agrave; dai primi anni da calciatore trascorsi in Francia.  Le origini di Zidane Originario di una famiglia berbera, Zin&eacute;dine Zidane ha tre fratelli e una sorella. I suoi genitori provengono dalla Cabilia, una regione berbera del nord dell&rsquo;Algeria. Essendo nato a Marsiglia, il 23 giugno del 1972, Zidane possiede la doppia nazionalit&agrave;, francese e algerina. Il padre, Sma&iuml;l Zidane, pastore e musulmano praticante, decide di attraversare il Mediterraneo e andare a lavorare come muratore in Francia nel 1953. Dopo l'indipendenza dell'Algeria, nel 1962, Sma&iuml;l vuole ritornare in patria dopo aver trascorso nove anni nei cantieri della Seine-Saint-Denis. Ma poco prima di imbarcarsi a Marsiglia, incontra Malika, una marsigliese anch'ella originaria della Cabilia, che sposa poco dopo. Alla fine la coppia decide di rimanere in Francia e di stabilirsi a Marsiglia. Quartiere Le Castellane, uno dei pi&ugrave; difficili della periferia marsigliese. Casermoni in cemento e angoli oscuri, alla cui ombra nulla pu&ograve; sorprendere un&rsquo;umanit&agrave; avvezza sin dall&rsquo;infanzia adifendere la vita a morsi, innanzitutto neutralizzando quelli della fame. Contro i muri di quegli edifici brulicanti umanit&agrave;, Zizou da piccolo genera i rimbalzi dei malandati palloni con cui lui e i suoi coetanei fanno sbocciare l&rsquo;unica spensieratezza a loro possibile; nel domare quei rimbalzi, mette in mostra un talento adamantino, che accende riflettori laddove esistono solo lampioni sui quali sono disegnate oscenit&agrave;.  Il Bordeaux, la Juve e il Real Madrid: l&rsquo;ascesa di Zizou Per lui tutto comincia, poi, con la maglia del Cannes, per quanto riguarda il calcio &ldquo;vero&rdquo;, dopo quello verissimo delle banlieue.L&rsquo;esordio nel 1989 in Ligue 1, arriva a soli 16 anni, mentre il suo primo gol da professionista &egrave; datato 10 febbraio 1991. Nel 1992 venne acquistato dal Bordeaux e si mise subito in mostra giocando assieme a calciatori del calibro di Dugarry e Lizarazu. Grazie alla qualificazione del Bordeaux alla Coppa Uefa, Zidane come abbiamo gi&agrave; accennato si guadagna la vetrina continentale. La sua consacrazione si compie nella stagione 1995-96 quando il Bordeaux vince la Coppa Intertoto anche grazie ai 5 gol in 8 partite messi a segno da lui con giocate che resteranno per sempre impresse nella memoria del tifo girondino. Nella stessa stagione trascina il club in finale di Coppa Uefa, ma il Bordeaux finisce sconfitto dal Bayern Monaco. Quindi, come abbiamo gi&agrave; raccontato, la Juventus. L&rsquo;ultima stagione con i bianconeri fu quella del 2000-2001, una stagione amara conclusa senza vincere nessun trofeo. Nel 2001, avvenne la storica cessione al Real Madrid per 150 miliardi di lire, ovvero il pi&ugrave; costoso trasferimento nella storia del calcio fino a quel momento. La consacrazione di Zizou al Real Madrid Con il Real, Zidane ottenne la sua consacrazione e vinse la Champions League, solo sfiorata in bianconero, nella finale del 2001-02contro il Bayer Leverkusen, nella quale realizz&ograve; un gol memorabile.  Pochi mesi dopo ebbe anche la ventura di alzare la Supercoppa Uefae la Coppa Intercontinentale. Nella stagione successiva trionf&ograve; nel campionato spagnolo e lasci&ograve; il Real solo al termine della stagione 2005-06. Si ritir&ograve; al termine dei Mondiali del 2006 persi in finale contro l&rsquo;Italia, match in cui lo stesso giocatore si fece espellere per la celebre testata a Materazzi nei tempi supplementari.Nel corso della sua lunga carriera, Zidane ha vinto tutto anche a livello di riconoscimenti individuali: un Pallone d&rsquo;Oro, tre FIFA World Player of the Year (1998, 2000, 2003); &egrave; stato quindi incluso dalla rivista &ldquo;World Soccer&rdquo; nella lista degli 11 migliori giocatori della storia.         

Dalle banlieue marsigliesi, passando per il Mondiale con la Francia fino alla Champions con il Real. La storia di un campione, tra i pi&ugrave; forti calciatori di sempre

Zinedine Zidane, il berbero francese che ha conquistato il mondo

        La prima volta che Liverpool e Real Madrid si incontrano in una finale di Coppa dei Campioni &egrave; il lontano 27 maggio del 1981. Allora (come oggi per un curioso caso del destino) i Reds e i Blancos scendono in campo in terra francese, a Parigi. In quella mite giornata di fine maggio il mondo &egrave; da poco entrato in quella decade dalle tante luci e dalle tantissime ombre che sono stati gli anni &rsquo;80: negli States Reagan diventa presidente e subito rischia di morire per mano di un pazzo, da noi invece &egrave; Giovanni Paolo II a scampare miracolosamente alla mano assassina di Ali Agca, mentre con l&rsquo;omicidio di Stefano Bontate inizia la seconda guerra di mafia. In Inghilterra il mai dimenticato Bobby Sands si lascia morire in carcere, mentre qualche giorno dopo, per un melanoma al piede, viene a mancare anche il leggendario Bob Marley. Sono giorni strani, a tratti cupi, in cui il mondo si prepara a scoprire e a dover affrontare un nuovo terribile virus dal nome strano e sconosciuto, ma che purtroppo diventer&agrave; ben noto a tutti di l&igrave; a poco. Il calcio nel frattempo si appresta a vivere l&rsquo;appuntamento pi&ugrave; importante della stagione, ovvero la finale di Coppa dei Campioni: al Parco dei Principi si affrontano il Liverpool di Bob Paisley e il Real Madrid di Vujadin Boskov.&nbsp; Le grandi del calcio europeo&nbsp; I due club sono gi&agrave; delle autentiche corazzate del calcio europeo e insieme vantano otto coppe dalle grandi orecchie in bacheca, due per gli inglesi e ben sei per gli spagnoli. Da un lato per&ograve; bisogna ricordare che le Merengues non sono pi&ugrave; quella squadra formidabile che negli anni &rsquo;50 e &rsquo;60 faticava a trovare degni rivali, mentre il Liverpool vive forse uno dei momenti pi&ugrave; floridi della sua storia. I Reds dunque si presentano alla sfida di Parigi da favoriti.&nbsp; Road to Paris Il cammino delle due formazioni verso l&rsquo;atto finale &egrave; stato abbastanza simile: sia il Liverpool che il Real Madrid non hanno incontrato avversari irresistibili prima delle semifinali, dove affrontano e superano, non senza qualche difficolt&agrave;, rispettivamente il Bayern Monaco di Rummenigge e l&rsquo;Inter di Oriali, Beccalossi e di un giovanissimo Bergomi. Il difensore interista, tra l&rsquo;altro, si mette in luce nella partita di ritorno riuscendo ad annientare Juan Gomez Gonzalez, al secolo Juanito, il celebre e velocissimo numero 7 delle Merengues.&nbsp; Il trionfo dei Reds e il gol di Alan Kennedy Bob Paisley si affida al capitano Phil Thompson, al grande Ray Kennedy, inventato proprio da lui come mezz&rsquo;ala, oltre che ai soliti Kenny Dalglish,&nbsp;Terry McDermott e&nbsp;Graeme Souness. Dall&rsquo;altra parte i Blancos davanti schierano un tridente formato dal sopracitato Juanito, Santillana e l&rsquo;inglese Cunningham. Davanti a quasi 50.000 persone l&rsquo;arbitro ungherese Karoly Palotai d&agrave; il via ad una finale che inizialmente si rivela tesa, senza guizzi da una parte e dall&rsquo;altra. In un primo tempo davvero avido di emozioni, arrivano due squilli da parte del Real, che prima col tedesco Uli Stielike e poi con Juanito, si rende pericoloso dalle parti della porta di Ray Clemence, ma senza trovare fortuna. La seconda frazione vede l&rsquo;inerzia del gioco spostarsi vertiginosamente dalla parte dei Reds, che incalzano a pi&ugrave; riprese gli avversari, avvicinandosi in pi&ugrave; di un&rsquo;occasione ad andare in vantaggio. La partita si sblocca solamente all&rsquo;ottantunesimo, quando sugli sviluppi di un fallo laterale il terzino sinistro Alan Kennedy entra in percussione in area e supera Agust&igrave;n, segnando il gol decisivo che consegna la vittoria al Liverpool. Non sar&agrave; l&rsquo;ultima volta che il difensore inglese decider&agrave; una finale di Coppa dei Campioni con un suo gol (segner&agrave; l&rsquo;ultimo rigore nella finale dell&rsquo;edizione 1983/84), ma questa &egrave; un&rsquo;altra storia. Per i Reds si tratta della terza vittoria nella pi&ugrave; grande competizione europea per club, e tutte e tre le volte in panchina c&rsquo;&egrave; Bob Paisley, vera leggenda dei Reds. &Egrave; cos&igrave; che il presidente Uefa Artemio Franchi consegna a Phil Thompson la coppa dalle grandi orecchie, che il capitano inglese alza fiero contro il cielo di Parigi.        

Al Parco dei Principi di Parigi pi&ugrave; di quarant&rsquo;anni fa gli inglesi superarono gli spagnoli di Boskov per 1-0 grazie al gol di Alan Kennedy

Liverpool-Real Madrid, nel 1981 trionfarono i Reds di Bob Paisley

        Il 15 maggio del 2002 l&rsquo;Hampden Park di Glasgow si veste a festa per ricevere l&rsquo;appuntamento pi&ugrave; affascinante del calcio europeo: la finale della Uefa Champions League. In Scozia arrivano due club con una storia completamente agli antipodi: da una parte il Real Madrid dei Gal&agrave;cticos, alla ricerca della vittoria numero nove nel torneo, dall&rsquo;altra l&rsquo;operaio Bayer Leverkusen, vero e proprio outsider del torneo che si gioca per la prima volta nella sua storia la possibilit&agrave; di alzare la coppa dalle grandi orecchie. Il mondo del calcio si appresta dunque a godersi quest&rsquo;ultimo appuntamento per club prima dell&rsquo;attesissimo mondiale di Corea e Giappone, un torneo stellare che vedr&agrave; affrontarsi quella generazione di fenomeni provenienti da molti dei Paesi dalla grande tradizione calcistica. Generazione di cui fa parte, tra gli altri, Zinedine Zidane. La notte di Zizou Troppo evidente la sproporzione dei valori in campo. Questa &egrave; la sensazione della vigilia, il Real Madrid, gi&agrave; otto coppe dei campioni alle spalle, vera potenza del calcio europeo che in questo momento pu&ograve; schierare in campo il maggior numero di stelle, contro la Cenerentola Bayer, ottima formazione trascinata dal gi&agrave; fortissimo Ballack, ma niente di pi&ugrave;. A dire il vero questo grande divario non sar&agrave; cos&igrave; evidente in campo, anche se i tedeschi non rischieranno mai seriamente di impensierire troppo i Blancos.&nbsp;La partita pi&ugrave; importante del calcio europeo quella sera finisce per&ograve; per diventare una mera cornice, uno sbiadito sottofondo di fronte a una delle prodezze pi&ugrave; belle della storia del calcio: il gol di Zizou. Nel corso del primo tempo il Real Madrid va in vantaggio dopo meno di 10 minuti con il solito Raul Gonzalez Blanco, prima di essere raggiunto al quattordicesimo dal pareggio firmato da Lucio. Quando la prima frazione sta per volgere al termine arriva il guizzo, la pennellata d&rsquo;artista che mette la firma su un gol capolavoro:&nbsp;Solari fa involare sulla fascia Roberto Carlos che brucia sullo scatto Sebescen e mette al centro, dove Zidane con una girata eccezionale di mancino, lui che in teoria sarebbe destrorso, spedisce il pallone all'incrocio dei pali. Ancora oggi per molti questo &egrave; il gol pi&ugrave; bello della storia della finale di Champions League, insidiato forse solamente molti anni pi&ugrave; tardi dalla rovesciata di Bale contro il Liverpool.  Il secondo tempo si trascina senza troppe emozioni, come se il sigillo, su quella partita e su quell&rsquo;edizione del trofeo, fosse stato gi&agrave; messo al quarantacinquesimo minuto. Il Real alza cos&igrave; la sua nona Champions League/Coppa dei Campioni, e Zidane si toglie uno sfizio personale. Fino a quel momento, anche se aveva gi&agrave; alzato una Supercoppa Europea, era uscito sconfitto in finale in Coppa Uefa con il Bordeaux e due volte con la Juventus in Champions.&nbsp; Bayer Leverkusen-Real Madrid 1-2 del 15 maggio 2002: il tabellino BAYER LEVERKUSEN (4-3-2-1): Butt; Sebescen (20' st Kirsten) Zivkovic, Lucio (45' st Babic), Placente; Schneider, Ramelow, Ballack; Basturk, Brdaric (38' pt Berbatov); Neuville. A DISP.: Juric, Vranjes, Dzaka, Kleine. ALL.: Toppmoller. REAL MADRID (4-1-3-2): Cesar (22' st Casillas); Salgado, Helguera, Hierro, Roberto Carlos; Makelele (28' st Flavio Conceicao); Figo (13' st McManaman), Zidane, Solari; Morientes, Raul. A DISP.: Guti, Karanka, Munitis, Pavon. ALL.: Del Bosque.&nbsp; ARBITRO: Meier (Svizzera). &nbsp;MARCATORI: 8' Raul (R), 14' Lucio (B), 45' Zidane (R).&nbsp;&nbsp;        

Il 15 maggio del 2002 i Blancos alzarono la coppa dalle grandi orecchie per la nona volta grazie ad una perla di Zizou

Bayer Leverkusen-Real Madrid: quando Zidane incantò l’Europa

        La lunga gittata con le mani di Roberto Carlos spiove nell&rsquo;area di rigore, la difesa del Valencia allontana; McManaman raccoglie la respinta e con uno splendido tiro al volo fulmina Canizares, avvicinando il Real al trionfo. &Egrave; da qui che vogliamo iniziare il racconto della seconda vita di Steve McManaman, divisa tra Real Madrid e Manchester City. Era la prima finale di Champions League del nuovo millennio, che incoron&ograve; campioni i Blancos per l&rsquo;ottava volta, grazie al 3-0 sul Valencia firmato anche Morientes e Raul.  Da Liverpool a Madrid Figlio di Liverpool, l&rsquo;esterno inglese approd&ograve; a Madrid dopo quasi un decennio trascorso in maglia Reds. E pensare che per la sponda rossa del Mersey non sarebbe mai voluto passare: era tifosissimo dell&rsquo;Everton fin da bambino. &Egrave; anche stato relativamente sfortunato, visto che in 9 anni di militanza all&rsquo;ombra della Kop &egrave; riuscito a mettere in bacheca a malapena una Coppa di Lega e una FA Cup. Nulla pensando alla tradizione del club. A Madrid l&rsquo;estroso esterno britannico si riprese tutto, ricevendo indietro dal calcio quella gloria mai troppo vicina negli anni passati in Premier. McManaman era svincolato e Lorenzo Sanz lo port&ograve; al Bernabeu nell&rsquo;estate &rsquo;99, offrendogli un quadriennale. Fu il primo inglese in assoluto a trasferirsi dalla &ldquo;nuova&rdquo; Premier League alla Casa Blanca. La Champions League e Florentino Perez Nella prima stagione la squadra, oltre a vivere l&rsquo;avvicendamento in panchina tra John Toshack e Vicente Del Bosque, part&igrave; in un clima burrascoso, con tante cessioni illustri sul mercato dovute alla pesante condizione di crisi delle casse del club. Nella Liga fin&igrave; male (5&deg; posto), ma in Europa arriv&ograve; una vittoria inattesa che non pot&eacute; far altro che smaterializzare i fantasmi d&rsquo;inizio stagione. Steve McManaman nella finale di Parigi segn&ograve; un gol fantastico e fu etichettato come migliore in campo dalla maggioranza della stampa europea. Nell&rsquo;annata seguente, per&ograve;, cambi&ograve; tutto: Florentino Perez s&rsquo;insedi&ograve; ai vertici della societ&agrave; e fece follie per acquistare Figo dal Bar&ccedil;a (140 miliardi, menomale che le casse del club erano in crisi). Il club aveva bisogno di un ritorno e cos&igrave; l'inglese fu messo sul mercato. Arrivarono decine di offerte, ma McManaman le rifiut&ograve; tutte: voleva giocarsi le proprie chance al Real. Anche all&rsquo;interno dello spogliatoio alcuni senatori (come Salgado) si schierarono dalla parte di Steve, affermando che non meritava un trattamento simile. Addirittura i tifosi in un sondaggio su El Mundo Deportivo espressero un plebiscito in suo favore, con il 90% dei voti a incitarne la permanenza.  La seconda Champions McManaman rimase cos&igrave; a Madrid, dirottando principalmente il suo gioco sulla fascia sinistra, creando una grande intesa con Roberto Carlos. Si distinse in zona assist nel 2000-01, con 8 passaggi vincenti in 28 presenze che contribuirono alla conquista della Liga. Con la politica dei Galacticos, sulla quale ormai puntava il Real Madrid, il suo minutaggio diminu&igrave;, ma l&rsquo;ex Liverpool seppe sempre farsi trovare pronto, risultando efficace anche a gara in corso. Come nella semifinale d&rsquo;andata di Champions, quando un suo delizioso pallonetto in pieno recupero al Camp Nou tagli&ograve; le gambe ai catalani. Il Real non vinceva un Clasico in trasferta dal &rsquo;93 e con lo 0-2 si ritrov&ograve; spianata la strada verso la finale, decisa poi dal celebre sinistro volante di Zidane contro il Leverkusen. Su di lui Butragueno disse: &ldquo;McManaman &egrave; un gentiluomo e un giocatore eccellente&rdquo;. Mentre Johan Cruijff lo defin&igrave; &ldquo;El socio de todos&rdquo; (&ldquo;il miglior partner di tutti&rdquo;).  Il deludente ritorno in Premier League Segu&igrave; solo un&rsquo;ultima stagione per Steve alla Casa Blanca, in cui conquist&ograve; un&rsquo;altra Liga, ma giocando sempre meno. Quelli dell&rsquo;estate 2003 furono gli ultimi mesi passati a Madrid, in concomitanza con l&rsquo;arrivo di David Beckham, che McManaman aiut&ograve; ad ambientarsi. Il 30 agosto, a margine della finestra di calciomercato estiva, nonostante le pressioni dello Spice Boy, fece ritorno in Premier League firmando per il Manchester City. Determinante per la sua scelta fu la figura di Kevin Keegan, tecnico dei Citizens e suo grande ammiratore fin dai tempi del Liverpool. L&rsquo;esperienza al City dur&ograve; solo due stagioni e fu assolutamente deludente: ancora relativamente giovane (31 anni) McManaman aveva ormai perso i ritmi della Premier League e riscontrava sempre pi&ugrave; spesso problemi fisici. Nel biennio passato a Manchester ritrov&ograve; anche il suo amico di vecchia data Robbie Fowler, ma la coppia attir&ograve; l&rsquo;attenzione mediatica pi&ugrave; per i vissuti extra campo che per le giocate sul rettangolo verde.        

Dopo tanti anni passati con il Liverpool, l&rsquo;inglese si trasfer&igrave; nella Liga per vincere tutto con i Blancos. Il suo ritorno in Premier ai Citizens fu deludente

Real Madrid-Manchester City: la seconda vita di Steve McManaman

        C&rsquo;&egrave; stato un tempo in cui la sponda granata di Torino era abituata alle grandi imprese, al grande calcio e ai grandi campioni. Era il tempo andato del Grande Torino, quello di Bacigalupo, Rigamonti, di Gabetto e Mazzola, finito tragicamente in quel maledetto pomeriggio nebbioso di pi&ugrave; di settant&rsquo;anni fa. Eppure c&rsquo;&egrave; stato un momento nel passato pi&ugrave; recente in cui il colore granata &egrave; tornato prepotentemente a risplendere, a guadagnarsi la gloria imperitura della vittoria, attraverso un trionfo europeo che ha permesso ai ragazzi di Mondonico di entrare per sempre, e a buon diritto, nell&rsquo;Olimpo degli eroi del Torino. Stiamo parlando ovviamente della semifinale di ritorno della Coppa Uefa contro il Real Madrid, disputatasi il 15 aprile del 1992.&nbsp; Mondonico contro i Blancos Esattamente due settimane prima i ragazzi in maglia granata escono sconfitti per 2 a 1 dal Santiago Bernab&eacute;u, dopo una partita in cui avrebbero meritato sicuramente maggior fortuna. Per il ritorno lo Stadio Delle Alpi di Torino si veste a festa, esaurito in ogni ordine di posto dai tifosi granata, che ne fanno una vera e propria bolgia dantesca con sciarpe, bandiere e fumogeni. I Blancos arrivano nel capoluogo piemontese forti del risultato d&rsquo;andata, di campioni del calibro di Hierro, Butragueno e Hagi, il Maradona dei Carpazi. Inutile sottolineare come il blasone della squadra spagnola possa incutere timore in qualsiasi avversario, figuriamoci ad una squadra non pi&ugrave; abituata da anni al lustro dei palcoscenici europei. &nbsp;  Il trionfo del Toro contro il Real Madrid Il Toro per&ograve; scende in campo senza paura e si riversa da subito nella met&agrave; campo avversaria, sospinto in maniera decisiva dai 60.000 del Delle Alpi. Dopo appena 7&rsquo; minuti riesce ad andare in vantaggio, grazie alla sfortunata deviazione di Rocha, che intercetta una palla in area e la fa finire in fondo alla propria rete. Lo stadio esplode, e i ragazzi di Mondonico iniziano a crederci sul serio: per tutta la prima frazione i temibili Blancos non si fanno vedere dalle parti di Cravero e Marchegiani, cercando anzi di contenere le scorribande offensive dei granata. A poco meno di 15 minuti dal termine arriva il colpo del raddoppio: Lentini galoppa sulla sinistra, salta l&rsquo;uomo e mette al centro una palla perfetta dove si precipita Fusi che di destro insacca alle spalle di Paco Buyo. &Egrave; estasi granata, il pubblico del Delle Alpi non crede a quello che sta vedendo. Il Real Madrid fatica a rispondere, l&rsquo;estro dei suoi campioni viene imbrigliato dalla ragnatela di Mondonico, che porta cos&igrave; a casa la vittoria. Il Toro va in finale, la squadra, i tifosi e una citt&agrave; intera si abbandonano ai festeggiamenti. Torino-Real Madrid 2-0 del 15 aprile 1992: il tabellino   TORINO: Marchegiani, Bruno, Mussi (43'&nbsp;st Sordo), Fusi, Annoni, Cravero, Scifo, Lentini, Casagrande (32'&nbsp;st Benedetti), Martin Vazquez, Venturin. A DISP.: Di Fusco, Cois, Vieri. ALL.: Mondonico. REAL MADRID: Buyo, Chendo, Lasa (22'&nbsp;st Luis Enrique), Rocha, Maqueda, Milla, Butragueno, Michel, Hierro, Hagi, Llorente. A DISP.: Tendillo, Jaro, Villaroja, Gordillo. ALL: Beenhakker. ARBITRO: Galler (Svizzera). MARCATORI: 7&rsquo; aut. Rocha, 31&rsquo;st&nbsp;Fusi.&nbsp;         

I granata superarono i Blancos in una partita che rimarr&agrave; per sempre nella memoria collettiva dei tifosi torinisti e non solo

15 aprile 1992, quando il Torino di Mondonico sconfisse il Real Madrid

        Chelsea e Real Madrid, due club con un passato totalmente differente che nel calcio moderno lottano ormai costantemente ai massimi livelli, entrambi praticamente sempre presenti in Champions League. Si sono contesi un trofeo in una sola occasione &ndash; la Coppa delle Coppe 1971 vinta dai Blues &ndash;, che &egrave; anche il primo storico precedente ufficiale. Nonostante l&rsquo;epilogo, all&rsquo;epoca si trovavano in due dimensioni opposte, con gli spagnoli in leggero calo rispetto all&rsquo;epopea delle cinque Coppe Campioni consecutive, ma ugualmente sempre presenti nei palcoscenici pi&ugrave; importanti. Forse in pochi sanno che Ferenc Puskas, calciatore fenomenale e tra gli attori principi nel ciclo d&rsquo;oro del Grande Real, &egrave; il protagonista di un curioso aneddoto legato proprio al Chelsea. Ferenc Puskas a Stamford Bridge Siamo nel novembre del 1966, la leggenda ungherese ha appeso gli scarpini al chiodo dopo aver vinto l&rsquo;ultima Coppa dei Campioni con le Merengues. &Egrave; in corso la pausa per le nazionali, con gli azzurri attesi dal debutto contro la Romania nelle qualificazioni per l&rsquo;Europeo che si disputer&agrave; in Italia nel &rsquo;68 e che la Nazionale non si far&agrave; sfuggire... Nel frattempo Chelsea e Real Madrid ne approfittano per organizzare una partita di beneficenza a Stamford Bridge. Nonostante abbia smesso &ndash;&nbsp; come si pu&ograve; notare dall&rsquo;immagine di copertina in cui saluta il pubblico londinese visibilmente appesantito &ndash; partecipa anche Ferenc Puskas. Il motivo &egrave; interpretabile sfogliando l&rsquo;edizione del Corriere dello Sport datata 23 novembre 1966 &ndash; giorno dopo la gara di beneficenza &ndash; che titola cos&igrave; un trafiletto: &ldquo;Clamoroso: Puskas guider&agrave; il Chelsea&rdquo;. L&rsquo;ungherese &egrave; promesso sposo dei Blues, ma in Inghilterra non allener&agrave; mai. Puskas: le dichiarazioni a Londra, tra ricordi e profezie A Londra il &ldquo;sinistro proibito&rdquo; diede spettacolo 13 anni prima, quando con la collaborazione del fenomenale Hidegkuti &ndash; autore di una tripletta &ndash; e di tutta la &ldquo;Squadra d&rsquo;oro&rdquo; ungherese umili&ograve; l&rsquo;Inghilterra a Wembley (3-6). Gli inglesi ancora se lo ricordano e nelle interviste a cornice dell&rsquo;evento Puskas ammette che quell&rsquo;Ungheria del &rsquo;53 avrebbe potuto battere anche l&rsquo;Inghilterra fresca campione del mondo. Ma, soprattutto, tocca temi rivoluzionari che potrebbero essere addirittura attuali: &ldquo;Il gioco sta tornando indietro. Oggi &egrave; soltanto difesa, difesa e ancora difesa, e se il calcio deve rimanere uno spettacolo &egrave; necessario cambiare, tornando ai tempi in cui lo scopo principale era quello di segnare dei gol. Come la nazionale ungherese del 1953: avevamo una buona difesa, avevamo anche dei buoni attaccanti e dei buoni mediani&hellip; segnavamo molti gol e davamo veramente spettacolo&rdquo;. E ancora: &ldquo;Presto qualcuno si accorger&agrave; che le rivoluzioni tattiche conducono fatalmente alle controrivoluzioni. Sono certo che tra non molto accadr&agrave; qualche cosa nel calcio che ci far&agrave; apparire dei superati. Il nuovo verbo non verr&agrave; per&ograve; dai Paesi che si consumano con il professionismo: verr&agrave; ancora dall&rsquo;Ungheria e dalla Cecoslovacchia, dove i giocatori sono ancora dilettanti e gli allenatori hanno ancora il tempo di pensare&rdquo;. Leggendo queste ultime parole a 56 anni di distanza &egrave; elementare sottolineare quanto Puskas si sia effettivamente soltanto sbagliato di un migliaio di chilometri: il nuovo verbo arriver&agrave; da Amsterdam, dove sta gi&agrave; nascendo il Calcio Totale dell&rsquo;Ajax di Rinus Michels. &nbsp;       

Ormai ex calciatore, l&rsquo;ungherese sarebbe dovuto diventare il nuovo manager del club inglese e venne organizzata un&rsquo;amichevole a Stamford Bridge contro le Merengues il 22 novembre 1966

Chelsea-Real Madrid: quando Puskas doveva essere l‘allenatore dei Blues

        Non esiste squadra al mondo che sia simbolo dell'invincibilit&agrave; e della conservazione come il Real Madrid, che oggi compie 120 anni. Un monumento, un monolite, un pezzo fondamentale del calcio, nonch&eacute; "club pi&ugrave; titolato al mondo" con 27 trofei internazionali vinti, dopo aver sorpassato in tromba Boca Juniors e Milan a quota 18 e l'Al Ahly (24). Merito anche di 13 Coppe Campioni/Champions League, naturalmente, che hanno creato il mito di una squadra che quando arriva in fondo non perde mai, o quasi. E lo fa grazie a giocatori passati alla storia, perch&eacute; praticamente tutti i grandi hanno transitato da Chamart&igrave;n o dal Santiago Bernabeu, lo stadio che &egrave; parte integrante di questo mito. La leggenda europea del Grande Real Nata come Madrid Club de F&ugrave;tbol nel 1902, la societ&agrave; &egrave; diventata Real per intercessione del sovrano spagnolo Alfonso XIII nel 1920. Il colore in compenso non &egrave; mai cambiato, &egrave; sempre rimasto il bianco, anzi il blanco o merengue, due dei soprannomi della squadra. In 120 anni, oltre a non essere mai retrocesso in seconda divisione tanto quanto Barcellona e Athletic Bilbao, non ha mai avuto un vero momento di crisi o appannamento: in compenso sono arrivati 34 campionati, 19 Coppe del Re e 12 Supercoppe di Spagna, pi&ugrave; naturalmente le 13 Coppe dei Campioni/Champions League, 7 Coppe Intercontinentali/Mondiali per club, 4 Supercoppe Europee e 2 Coppe Uefa. Insomma, una corazzata a livello internazionale, che ha cominciato ad acquisire uno status ancora pi&ugrave; grande in contemporanea con la nascita della prima vera grande competizione continentale, la Coppa dei Campioni, di fatto inventata da Santiago Bernabeu, all'epoca, nel 1955 presidente del Real Madrid. Comincia l&igrave; la leggenda, fatta di cinque titoli consecutivi con nomi come Di Stefano, e poi Kopa, Puskas, Rial e Gento. Anche se arrivano gi&agrave; in l&agrave; con gli anni, un po' attempati come Puskas, fanno ancora in tempo a predicare calcio, segnando raffiche di gol. Intorno a Di Stefano, che del Real diventer&agrave; anche allenatore e presidente onorario fino alla morte, nasce il mito. L'uomo che per&ograve; ha fatto maggiormente da trait d'union tra l'era delle prime Coppe Campioni e quella successiva, dove in Europa il Real avrebbe vinto meno, &egrave; stato Francisco &ldquo;Paco&rdquo; Gento, un esterno sinistro formidabile morto di recente. Gento &egrave; il calciatore che ha conquistato pi&ugrave; volte il maggior trofeo continentale: sei.  I cicli da ricordare Il Real Madrid &egrave; la squadra vincente per antonomasia, non c'&egrave; dubbio. Eppure anche quando &egrave; rimasta a secco non ha mai perso un briciolo della sua importanza. Dal 1966 al 1998, per dire, i Blancos non hanno conquistato la Coppa Campioni, diventata nel frattempo Champions League. La svolta negli anni Ottanta si chiamer&agrave; &ldquo;Quinta del Buitre&rdquo;, da Emilio Butrague&ntilde;o, attaccante nato e cresciuto nel centro di Madrid soprannominato appunto &ldquo;Buitre&rdquo;, &ldquo;Avvoltoio&rdquo;. Butrague&ntilde;o per 12 anni sar&agrave; l'attaccante titolare dei Blancos assieme ai vari Santillana o Hugo Sanchez, il messicano che esultava con una capriola: insieme a lui, la &ldquo;quinta&rdquo;, la leva, perch&eacute; erano tutti suoi coetanei Pardeza, Sanch&iacute;s, M&iacute;chel e il futuro torinista Mart&iacute;n V&aacute;zquez. Ci sarebbe voluto un altro madrileno per diventare il simbolo della generazione successiva: Raul Gonzalez Blanco ha diviso critica e tifosi, mentre nel frattempo accumulava record di precocit&agrave; e di gol segnati, oltre che il maggior numero di presenze nella storia del club (741). Tre volte Raul ha conquistato la Champions in quattro anni, dal 1998 al 2002, segnando due gol nelle finali, al Valencia e al Bayer Leverkusen, nella partita della sensazionale rete di Zidane. Gi&agrave;, Zidane, il nome pi&ugrave; decisivo nella storia recente del club. Per lui trionfi da calciatore e da allenatore dei Blancos, con il record assoluto, una volta seduto in panchina, di tre successi consecutivi in Champions League, dal 2016 al 2018. Tuttavia quel gol al Bayer Leverkusen, nella finale del 2002, quel sinistro al volo all'incrocio dei pali su cross a campanile di Roberto Carlos, &egrave; stato uno dei pi&ugrave; belli (nonch&eacute; decisivi) di tutta la Champions, roba davvero da antologia del pallone. Sempre Zidane, ma da calciatore, &egrave; stato il simbolo di un altro ciclo, non molto vincente a dire il vero, del Real Madrid recente: quello dei &ldquo;Galacticos&rdquo;. Un'idea concretizzatasi con Florentino Perez, l'altro grande presidente del club assieme a Santiago Bernabeu, che all'inizio del nuovo millennio ha pensato di poter mettere assieme, senza pensare troppo alla tattica e agli equilibri, alcuni dei migliori giocatori del mondo. Cos&igrave; a centrocampo assieme c'erano Zidane, d'accordo, e poi Beckham e Figo, pi&ugrave; Raul, sempre lui davanti, e l'inglese Owen o il brasiliano Ronaldo strappato all'Inter; s&igrave;, ma chi correva per loro? Nessuno. E per compensare i costi stratosferici di queste stelle bisognava arrangiarsi con i ragazzi della primavera: i cosiddetti &ldquo;Pavones&rdquo;, dal nome di Francisco Pav&ograve;n, preso a simbolo di questi giocatori inesperti e piuttosto scarsi, a dire il vero.  Uno spicchio d'Italia&nbsp; In questa carrellata di giocatori fenomenali, alcuni dei quali trascinatori e vincenti, come Cristiano Ronaldo che in nove stagioni ha segnato la bellezza di 450 gol vincendo 4 volte la Champions, anche l'Italia ha avuto il suo spicchio di gloria. S&igrave;, perch&eacute; il Real Madrid chiss&agrave; come sarebbe andato senza l'apporto di alcuni nostri connazionali. Due nomi su tutti, quelli degli allenatori: Fabio Capello e Carlo Ancelotti. Il tecnico friulano in due momenti diversi si &egrave; seduto sulla panchina delle Merengues, vincendo la Liga nel 1997 e nel 2007. Sotto i suoi ordini avr&agrave; il capitano della Nazionale italiana freschissima trionfatrice al Mondiale: Fabio Cannavaro. Nel cuore dei tifosi del Real, comunque, un posticino speciale ce l'avr&agrave; sempre Carlo Ancelotti, e per un motivo molto semplice: ha vinto la decima Coppa Campioni, nel 2014. Carletto ci &egrave; poi tornato la scorsa estate a Madrid, ma qualsiasi risultato otterr&agrave; nessuno gli potr&agrave; mai contestare nulla. Il primo italiano ad aver giocato nel Real, tuttavia, &egrave; stato Christian Panucci nel 1997. Una presenza di spessore e personalit&agrave;, del tutto diversa da quella, dieci anni dopo, di Antonio Cassano. Il barese segna all'esordio, ma diventa ben presto &ldquo;El Gordito&rdquo;, &ldquo;Il grassottello&rdquo;, per la tendenza a prendere peso e ad essere fuori forma. Finir&agrave; cacciato dopo essere stato beccato a imitare Capello prima di una partita. Anche questo &egrave; stato il Real Madrid, un pezzo importantissimo nella storia del calcio mondiale.&nbsp; &nbsp;&nbsp;        

Il compleanno del club pi&ugrave; titolato al mondo, da cui sono passati tutti i pi&ugrave; grandi (anche italiani)

Real Madrid, al potere da 120 anni

        Se nasci a Liverpool e segui il football ben presto ti troverai davanti ad un bivio: Blue o Red, Goodison Park o Anfield Road, Everton o Liverpool. Anche Steve McManaman ci si &egrave; trovato davanti, e da subito non ha avuto dubbi scegliendo l&rsquo;Everton. Ovviamente non aveva idea che la sua vita di calciatore professionista lo avrebbe portato da l&igrave; a pochi anni sull&rsquo;altra sponda del Mersey. &nbsp;Un Toffees&nbsp;ad Anfield Road  Sin da piccolo tutti si rendono conto che Steve &egrave; destinato a fare il calciatore e i primi a bussare a casa McManaman sono proprio i Reds. Nonostante le proteste del ragazzo che avrebbe volentieri fatto a meno di vestire la maglia dei rivali cittadini, i genitori non gli lasciano scelta. Dopo la lunga trafila nelle giovanili, a soli 18 anni esordisce in prima squadra, dove ben presto diventa un titolare inamovibile. Ala destra dotata di una grande velocit&agrave; e un ottimo dribbling, &egrave; ricordato come uno dei giocatori pi&ugrave; forti della sua generazione. Gi&agrave; celebre in patria, otterr&agrave; la fama internazionale durante gli europei inglesi del 1996, risultando appena 24enne uno dei giocatori migliori del torneo.  &nbsp;Il passaggio al Real Madrid e il ritorno in Inghilterra Nel 1999, dopo quasi un decennio passato ad Anfield Road, decide di cedere alle lusinghe dei Blancos di Madrid, approdando alla corte diLorenzo Sanz.In Spagna ottiene ottimi risultati durante lastagione d&rsquo;esordio, primadi venire chiuso dall&rsquo;arrivo di Luis Figo, giocando sempre meno. In ogni caso a Madrid si toglier&agrave; delle grandi soddisfazioni vincendo duecampionati e due Champions, segnando anche nella finale vinta 3-0 contro il Valencia nel 2000, con un gran destro da fuori area. Nel 2003, svincolato, torna in patria, precisamente al Manchester City. Qui ritrova il suo grande amico Robbie Fowler, compagno in campo e non solo ai tempi del Liverpool. I due infatti sono celebri in patria per i bagordi fuori dal terreno di gioco, nella stessa maniera per cui lo sono per le gesta sul rettangolo verde. Nel 2005, dopo due stagioni, decide che &egrave; arrivato il momento di smettere, ritirandosi dal calcio giocato a 33 anni.        

Nato l&rsquo;11 febbraio 1972, ha giocato con i Reds pur tifando l&rsquo;Everton. Con le Merengues sono arrivati i successi pi&ugrave; importanti della sua carriera

Steve McManaman, l’ala destra di Liverpool e Real icona degli anni ’90

&ldquo;E l&rsquo;immensit&agrave; si apre intorno a noi&rdquo;. Lucio Battisti si spegneva a Milano il 9 settembre 1998, una settimana prima che l&rsquo;immensit&agrave; del palcoscenico europeo si aprisse nuovamente per l&rsquo;Inter. Il 16 settembre infatti, nell&rsquo;inedita cornice del Sanchez-Pizju&agrave;n di Siviglia, i nerazzurri fanno il loro debutto nella fase finale della &ldquo;nuova&rdquo; Champions League, otto anni dopo l&rsquo;ultima, non indimenticabile presenza in Coppa dei Campioni.  I Blancos a Siviglia  Real Madrid-Inter si gioca a Siviglia per un motivo preciso che forse non tutti ricordano. Il Bernabeu deve scontare un turno europeo di squalifica dopo che prima della sfida interna contro il Dortmund del 1 aprile 1998 alcuni tifosi esagitati, aggrapatisi alla rete sotto il loro settore, fanno letteralmente crollare la porta. Ne viene presa in fretta e furia un&#39;altra, la partita si disputa con un&#39;ora di ritardo e la Uefa sceglie di redarguire le merengues con la squalifica di una giornata per il Santiago Bernabeu.&nbsp;In Andalusia dunque i detentori della Coppa Uefa affrontano i detentori della coppa dalle grandi orecchie, ma entrambe le squadre non daranno seguito alle grandi annate europee della stagione precedente, uscendo ai quarti di finale. L&rsquo;Inter per 3,5 miliardi di lire si &egrave; assicurata le prestazioni di Roberto Baggio, che realizzer&agrave; uno dei suoi pochi acuti in maglia nerazzurra proprio nel ritorno&nbsp;di&nbsp;San Siro con una doppietta decisiva per il 3-1 finale.  La vittoria madridista nei minuti finali  Le formazioni che scendono in campo ricalcano comunque quelle vittoriose in Europa pochi mesi prima. Sulla panchina delle Merengues, subentrato a Jupp Heynckes, siede Guus Hiddink, che come il suo collega interista Gigi Simoni non terminer&agrave; la stagione. Per il Real in campo, tra gli altri, Panucci, Hierro, Roberto Carlos, Redondo, Seedorf (futuro nerazzurro), Ra&ugrave;l, Mijatovic. Nell&rsquo;Inter il trio difensivo Galante-Fresi-Bergomi &egrave; seguito da una linea di centrocampo in cui spiccano Zanetti e Simeone, mentre la coppia d&rsquo;attacco Zamorano-Ronaldo implica l&rsquo;esclusione eccellente di Roberto Baggio, foriera di molte critiche a mister Simoni. Savio e Ra&ugrave;l sono di gran lunga i pi&ugrave; pericolosi dei&nbsp;Blancos&nbsp;e possono recriminare sulle decisioni arbitrali dello scozzese Hugh Dallas. Pagliuca deve superarsi sui colpi di testa di Panucci e Hierro. L&rsquo;Inter per&ograve; &egrave; gi&agrave; in inferiorit&agrave; numerica a fine primo tempo, a causa del secondo cartellino giallo rimediato da Fresi per un intervento al limite dell&rsquo;area su uno scatenato Savio. I nerazzurri provano a colpire in contropiede, ma Ronaldo non &egrave; in serata. Simoni vuole coprirsi inserendo Pirlo al posto del brasiliano, ma il Real spinge e si divora diverse occasioni, con la coppia d&rsquo;attacco madrilena Mijatovic-Morientes anch&rsquo;essa spenta. Dopo due falli da rigore non concessi, alla fine Savio ottiene giustizia quando uno sgambetto di Zanetti in area viene finalmente sanzionato: Hierro segna l&rsquo;1-0 dagli undici metri al 79&rsquo;. Al 91&rsquo; &egrave; infine Seedorf a mettere il punto esclamativo sul match, con un inserimento su invito di Mijatovic e un dolce tocco a bucare Pagliuca: 2-0. Sar&agrave; una delle tante delusioni della scialba stagione 1998-99&nbsp; dell&rsquo;Inter. 

Un palcoscenico inedito ma zeppo di campioni a salutare il ritorno dei meneghini nell&rsquo;Europa che conta, dopo la grande cavalcata dell&rsquo;anno precedente

Real Madrid-Inter 1998, l&#39;esordio dei nerazzurri ai gironi di Champions

        Il primo fuoriclasse del calcio francese, Raymond Kopa, nacque nell&rsquo;estremo Nord della Francia il 13 ottobre di 90 anni fa. La sua storia, oltre a essere quella di uno straordinario campione, racconta di un uomo di carattere che fuori dal campo ha saputo intraprendere molteplici attivit&agrave;, portando avanti i suoi interessi e quelli della sua categoria. Una figura dal vissuto toccante e intenso.&nbsp; L&rsquo;infanzia a Noeux-les-Mines Kopa nasce da una famiglia di emigranti polacchi, trasferitasi a Noeux-les-Mines al tramonto del primo grande conflitto mondiale. Il bimbo prodigio cresce infatti con il cognome di Kopaszewski in una vera e propria comunit&agrave; polacca, che a quei tempi si stabilisce in Francia. La regione abitata &egrave; ricca di minerali, motivo per il quale la sua famiglia di minatori sceglie quel luogo per vivere. Fin da piccolissimo si appassiona al calcio, sport che pratica con costanza e sfrenata passione. A scuola, vista anche la poca confidenza con la lingua &ndash; a casa Kopaszewski si parla polacco &ndash;, incontra grandi difficolt&agrave;. All&rsquo;et&agrave; di 8 anni, insieme ai ragazzi della comunit&agrave; polacca presente nel paese, crea una squadra di quartiere che gli permette presto di essere notato dalla formazione del posto per le sue spiccate capacit&agrave;: gi&agrave; da giovanissimo &egrave; un funambolo, un artista del dribbling pronto per trasferire le sue serpentine dalle strade e dai cortili ai campi di calcio. Un episodio che rappresenta il caratterino forte e irriverente del giovane Raymond verr&agrave; da lui raccontato anni pi&ugrave; tardi. Durante l&rsquo;occupazione tedesca i soldati si appropriarono di un campo da calcio per passare il &ldquo;tempo libero&rdquo;, ma gli adolescenti di Noeux-les-Mines gli rubarono il pallone: &laquo;Alla nostra maniera, abbiamo quasi fatto un atto di resistenza&raquo;. Sicuramente un atto di coraggio, quello non &egrave; mai mancato al piccolo grande fuoriclasse francese di origini polacche. Raymond vive con il pallone sotto il braccio, ma nella povert&agrave; assoluta, motivo per il quale, come tutto il resto della famiglia, deve darsi da fare nelle miniere di carbone. Gli inizi e il passaggio allo Stade Reims &nbsp; In et&agrave; adolescenziale comincia a giocare per il Noeux-les-Mines, mentre a 16 anni &egrave; vittima di un incidente sul lavoro: non tutti i mali vengono per nuocere, si dice. Raymond perde parte del pollice e dell&rsquo;indice sinistro, dita che gli vengono parzialmente amputate. Questo gli d&agrave; diritto a una piccola pensione e lo esclude dalle miniere. Sul campo &egrave; una furia e un anno pi&ugrave; tardi viene prematuramente affiliato alla prima squadra del club. Il cognome Kopaszewski comincia a girare nella sede delle squadre professionistiche transalpine: l&rsquo;Angers e lo Stade Reims mettono gli occhi sul giovane talento. Con il figlio ancora minore, la trattativa &egrave; nelle mani di pap&agrave; Franz, che accetta un conguaglio di 100mila franchi dal club bianconero. &Egrave; qui che il nome del giovane Kopaszewski viene francesizzato in Raymond Kopa. Un biennio povero dal punto di vista dei risultati di squadra riesce comunque a risaltare le sue prestazioni: nel 1951, a 20 anni di et&agrave;, Kopa &egrave; pronto per il salto di categoria dalla Division 2 alla Division 1, dove vestir&agrave;, finalmente, la maglia dello Stade Reims. L&rsquo;iniziale periodo di prova &egrave; presto superato e la societ&agrave; biancorossa decide di pagare il compenso richiesto dall&rsquo;Angers (un milione e 800mila franchi), offrendone 500mila al giocatore. Al Reims Kopa diventa un astro del calcio europeo, un calciatore totale capace di svariare su tutto il fronte d&rsquo;attacco. Il suo ruolo naturale &egrave; quello di ala destra, ma grazie alle sue spiccate doti nel dribbling, alla fantasia, alla precisione nei passaggi e nelle conclusioni a rete, viene spesso impiegato come punta centrale: una sorta di moderno falso 9, che non d&agrave; punti di riferimento facendo della mobilit&agrave; e della rapidit&agrave; le sue armi migliori (le caratteristiche fisiche non sono certo quelle di un centravanti dell&rsquo;epoca visti i suoi 169 cm). Con i biancorossi milita per cinque stagioni conquistando subito la maglia della nazionale, che vestir&agrave; in 45 occasioni mettendo a referto 18 reti. In campionato raggiunge la doppia cifra per tre annate consecutive, aggiudicandosi due titoli (1952-53 e 1954-55) e una Coppa Latina (1953). La sua carriera sale ulteriormente di livello nel 1956, anno della svolta. &nbsp;&nbsp; La finale di Coppa dei Campioni, il Real Madrid e il Pallone d&rsquo;Oro&nbsp; L&rsquo;ultima partita della sua prima parte di carriera con la maglia del Reims &egrave; la finale della prima storica edizione della Coppa dei Campioni. I biancorossi perdono contro il Real Madrid, squadra che nell&rsquo;estate successiva vince la concorrenza dei pi&ugrave; grandi club europei, aggiudicandosi il cartellino di Kopa per 520mila franchi. Dalle miniere di Noeux-les-Mines, dove ha rischiato di perdere una mano, al Grande Real: il destino ha riservato al piccolo Kopaszewski una favola incredibile. E non &egrave; finita qui. La famiglia lo segue nella Capitale spagnola dove lo aspetta il trio delle meraviglie composto da Rial, Di Stefano e Gento. Il triennio a Madrid lo consacra definitivamente tra i pi&ugrave; forti calciatori di sempre. Nella prima stagione vince campionato e Coppa dei Campioni, successo bissato nell&rsquo;annata successiva (in Europa a farne le spese sono la Fiorentina nel 1957 e il Milan nel 1958). L&rsquo;estate del &lsquo;58 &egrave; quella del Mondiale svedese, vinto dal Brasile del giovane e gi&agrave; fenomenale Pel&eacute;, nel quale la Francia di Kopa si piazza al terzo posto, grazie anche alle 13 reti messe a segno da Just Fontaine (l&rsquo;attaccante che il Reims aveva acquistato per sostituire il ragazzo proveniente dalle miniere). Le sue giocate, unite alle vittorie con il Real Madrid, gli consentono di aggiudicarsi l&rsquo;edizione 1958 del Pallone d&rsquo;Oro, primo francese della storia a ricevere l&rsquo;ambito riconoscimento individuale (dopo di lui ci riusciranno solo Platini, Papin e Zidane). L&rsquo;avventura in maglia Blancos si chiude nel &rsquo;59 con la conquista della terza Coppa dei Campioni consecutiva in finale proprio contro il &ldquo;suo&rdquo; Reims. Il club francese &egrave; ancora nel destino di Kopa, che dopo i successi di Madrid torna a vestire biancorosso per vincere al fianco del bomber Just Fontaine altri due campionati (1959-60 e 1961-62). Dopo un&rsquo;ultima parte in netto calo, chiude la carriera da calciatore nel &lsquo;67 con un palmar&egrave;s invidiabile, ma soprattutto con un posto fisso tra le leggende del calcio. &nbsp;&nbsp;&nbsp;  Rivoluzionario, uomo immagine e imprenditore: gli altri lati di Kopa Appesi gli scarpini al chiodo, continu&ograve; a calcare i campi da calcio amatoriale fino a tarda et&agrave;, ma Raymond Kopa non fu solo uno straordinario calciatore: fu una persona estremamente intelligente, che seppe sfruttare al meglio la sua immagine e i mezzi a sua disposizione, oltre che un vero e proprio rivoluzionario. &laquo;Ancora oggi, in pieno XX secolo, il calciatore professionistico &egrave; il solo uomo che pu&ograve; essere venduto e comprato senza che si domandi il suo parere&raquo;, Kopa port&ograve; avanti una vera e propria battaglia che gli cost&ograve; anche inimicizie e squalifiche in ambito federale. Un uomo cresciuto nella povert&agrave;, che ha vissuto da vicino l&rsquo;occupazione durante la guerra e che quindi pi&ugrave; di altri conosceva il significato di libert&agrave;. Questo spirito lo port&ograve; avanti per tutta la vita, giocando un ruolo fondamentale nell&rsquo;applicazione dei contratti nel calcio francese. Questi in Francia non esistevano: i calciatori erano legati ai club da obbligazioni a tempo indeterminato, avendo quindi un potere decisionale pari a zero. I contratti in Francia, grazie al suo sforzo, unito a quello di altri colleghi, vennero inseriti nel 1969. Inoltre, parallelamente alla sua carriera da calciatore, sfrutt&ograve; la sua immagine anticipando gi&agrave; negli anni &rsquo;60 i tempi moderni. Prima stipul&ograve; un accordo con la N&ouml;el per commercializzare materiale sportivo con il suo nome, poi fond&ograve; il Gruppo Kopa, la sua linea di indumenti sportivi. Fu anche imprenditore in altri ambiti al di fuori dello sport: un uomo che ha viaggiato a 100 all&rsquo;ora, non solo in campo, ma fino alla fine, anche nella vita.        

Nato in povert&agrave; il 13 ottobre 1931 da una famiglia polacca, ha vestito le maglie di Angers, Stade Reims e delle Merengues scrivendo la storia del calcio francese

Kopa, dalle miniere fino al Grande Real e al Pallone d’Oro

        Siamo nel 1971. Il mondo si &egrave; definitivamente messo alle spalle i favolosi anni &rsquo;60, la corsa alla Luna &egrave; ormai roba vecchia, le donne in minigonna non fanno pi&ugrave; notizia, e persino i Beatles, allontanati l&rsquo;un l&rsquo;altro da Yoko Ono, prendono strade diverse finendo in tribunale per dirimere le questioni legate al patrimonio. Anche il mondo del calcio si appresta a vivere un&rsquo;era di grandi cambiamenti, traghettato nel futuro da un ragazzo olandese di nome Johan Cruijff e dal suo Ajax stellare. A dire il vero l&rsquo;anno non &egrave; cominciato nel migliore dei modi per i fan del football: il 2 gennaio infatti, all&rsquo;Ibrox Stadium di Glasgow, nei minuti finali dell&rsquo;Old Firm, sugli spalti si produce una ressa che porta alla morte di 66 persone. Le cause dell&rsquo;incidente non verranno mai chiarite completamente.  &nbsp; La finale: Davide contro Golia &nbsp; Mentre dunque i ragazzi terribili di Cruijff si apprestano a iniziare un grande ciclo vincendo la loro prima Coppa dei Campioni, il 19 maggio va in scena un&rsquo;altra finale europea, quella di Coppa delle Coppe tra Chelsea e Real Madrid. Teatro della sfida &egrave; il Georgios Karaiskakis al Pireo, stadio riqualificato nel 1964, nonch&eacute; uno degli impianti pi&ugrave; moderni d&rsquo;Europa. Le forze in campo, almeno sulla carta, non si direbbero equilibrate: i Blues di Londra, nonostante il processo di miglioramento che il club sta vivendo da circa 20 anni, non sono neanche lontanamente la corazzata che conosciamo oggi. Dall&rsquo;altra parte, invece, le Merengues sono gi&agrave; la squadra pi&ugrave; titolata al mondo con sei Coppe dei Campioni in bacheca e Paco Gento, l&rsquo;ala che correva i 100 metri in 11 secondi, sulla fascia sinistra.&nbsp;  &nbsp; La grande illusione &nbsp; I ragazzi di Dave Sexton scendono in campo senza paura e, dopo un primo tempo dalle poche emozioni, passano addirittura in vantaggio al 56&rsquo;, grazie ad un gran tiro rasoterra di Peter Osgood. I Blancos di Madrid si gettano in avanti e, proprio quando sembrava fatta per gli inglesi, Zoco sfrutta una mischia in area e pareggia a 30 secondi dalla fine. I tempi supplementari si concludono con un nulla di fatto, si dovr&agrave; rigiocare.  Il primo trofeo europeo  &nbsp; In un&rsquo;epoca in cui non esistono i tiri di rigore, in una competizione a eliminazione diretta, la partita viene rigiocata, in caso di parit&agrave;. Le due formazioni si presentano in campo due giorni dopo, nello stesso stadio e con lo stesso direttore di gara. I Blues questa volta, scottati dal pareggio in extremis del Madrid, partono in quarta e al 40&rsquo; sono gi&agrave; in vantaggio per due reti a zero grazie a John Dempsey e al solito cannoniere di Windsor, Peter Osgood. I Blancos provano di nuovo ad agguantare il pareggio, ma riescono solo ad accorciare le distanze con Fleitas a 15&rsquo; dalla fine. Il Chelsea si aggiudica la vittoria, portando cos&igrave; a Fulham Road il loro primo, storico trofeo europeo.  &nbsp; &nbsp;       

Il 19 maggio di 50 anni fa i Blues e le Merengues si resero protagonisti di una doppia finale entusiasmante

Coppa delle Coppe 1971, il trionfo del Chelsea sul Real Madrid

        Tra i doppi ex della semifinale di Champions League tra Real Madrid e Chelsea, spicca un nome su tutti: Claude Mak&eacute;l&eacute;l&eacute;. Il centrocampista nato in Zaire e cresciuto in Francia fu tra i primi acquisti dell'era Abramovich, iniziata nel 2003 con una campagna trasferimenti faraonica. "Perch&eacute; mettere un altro strato di vernice dorata sulla Bentley quando le togli l'intero motore?", cos&igrave; Zinedine Zidane, attuale tecnico del Real Madrid, comment&ograve; il passaggio dell'allora compagno Mak&eacute;l&eacute;l&eacute; al Chelsea per lasciare spazio a David Beckham. Un attestato di stima che certifica l'importanza di un equilibratore come il francese in un organico come quello dei Galacticos, zeppo di campioni dotati di una tecnica superiore. E pensare che i suoi primi calci al pallone li diede da esterno offensivo. Ben presto, per&ograve;, cap&igrave; che il suo posto era un altro, in mezzo al campo, a sradicare la sfera dai piedi degli avversari per darla a chi era in grado di disegnare calcio sul rettangolo verde. Con il Real Madrid &Egrave; l'alba del nuovo Millennio quando Mak&eacute;l&eacute;l&eacute; passa al Real Madrid dopo essersi messo in mostra con le maglie di Brest, Nantes, Marsiglia e Celta Vigo. Qui incontra il suo angelo custode, Vicente Del Bosque. "Da lui mi sentivo molto apprezzato. Conosceva la mia posizione e sapeva che ero un elemento chiave per l'equilibrio della squadra", dir&agrave; Claude. Mak&eacute;l&eacute;l&eacute; si ritrova a ricoprire il ruolo di un certo Fernando Redondo, una sorta di semidio dalle parti del Santiago Bernabeu, e dopo una prima fase complicata diventa il motore della mediana dei Galacticos. Lui corre, gli altri inventano. E cos&igrave; arrivano trofei in quantit&agrave; industriale. L'idillio dura fino all'estate del 2003, quando la societ&agrave; gli fa capire che &egrave; tempo dei saluti. Lui prova fino all'ultimo a convincerli. Il club e il suo presidente Florentino Perez, che dopo la sua cessione dir&agrave; "arriveranno calciatori che lo faranno dimenticare", si svegliano tardi, quando &egrave; pronto per salire la scaletta dell'aereo che lo porta a Londra, al Chelsea di Abramovich e Claudio Ranieri. Florentino Perez sulla strada di Bernabeu  Al Chelsea Con il tecnico italiano vive una stagione di alti e bassi prima di tornare a vincere con l'approdo al timone dei Blues di Mourinho nella stagione 2004-05. Il suo compito &egrave; sempre lo stesso, corsa e legna in mezzo al campo, qualit&agrave; che gli valgono il soprannome di The Octopus. Il rapporto con il tecnico portoghese, per&ograve;, inizia a incrinarsi tanto che Mak&eacute;l&eacute;l&eacute;, una volta appesi gli scarpini al chiodo, dir&agrave;: "Mourinho ha distrutto tutto, mettendo ai margini gli elementi chiave di quel gruppo e trattando altri giocatori come stelle&rdquo;. Parole forti, come lui, che del suo nome di battesimo, Claude Sinda Mak&eacute;l&eacute;l&eacute;, che in dialetto singala significa "il rumoroso", ne ha fatto una nemesi pur agendo nell'ombra, al servizio degli altri, ma restando comunque il motore senza il quale la squadra non sarebbe stata nemmeno in grado di iniziare a camminare. L'ultimo Mourinho       

Storia di un equilibratore e dei suoi trionfi: il centrocampista francese nato a Kinshasa &egrave; il doppio ex della prima semifinale di Champions League

Makélélé, dal Real Madrid dei Galacticos al Chelsea di Abramovich

La disfatta con l&rsquo;Ajax chiude quello che &egrave; il pi&ugrave; grande ciclo nella storia del Real Madrid: otto semifinali consecutive di Champions League, otto percorsi di cui quattro conclusi alzando la Coppa. In rapporto al valore e al numero degli avversari, non &egrave; una bestemmia storica affermare che il ciclo del Real di Florentino Perez, Cristiano Ronaldo, Sergio Ramos e di tutti gli altri, a partire dagli allenatori (Mourinho, Ancelotti, Zidane), sia stato come peso specifico superiore al Real di Bernabeu, Di Stefano, Gento, eccetera. Questo non toglie che si debba parlare del presente e nel presente il Real Madrid attuale appare a molti come una squadra da rifondare, come avevano ritenuto quasi un anno fa Zidane e Cristiano Ronaldo. Il segreto del successo, che poi un segreto non &egrave; (mantenere unito negli anni lo stesso gruppo di campioni: facile a dirsi, difficile finanziariamente e umanamente), alla fine del ciclo presenta il conto tutto in una volta. Decisamente meglio cos&igrave; che navigare nella mediocrit&agrave;, comunque. Ma il Real sar&agrave; poi davvero da rifondare? Vediamo.  In porta ha con Courtois uno dei migliori portieri del mondo, di soli 27 anni, e in panchina ha il sottovalutato Keylor Navas che nelle vittorie del recente passato ci ha messo pi&ugrave; di una mano, senza contare che &egrave; stato dato in prestito al Leganes il promettentissimo Lunin. I problemi non sono fra i pali. Veniamo alla difesa. In mezzo Sergio Ramos, ieri assente per la nota vicenda dell&rsquo;ammonizione cercata, a 33 anni &egrave; ancora una certezza e al suo fianco c&rsquo;&egrave; un campione del mondo come Varane, 26 anni. I primi investimenti andranno fatti sugli esterni, anche se Carvajal (27 anni) fa il suo e lo scontento Marcelo (31) sarebbe in teoria ancora da corsa, in attesa che Reguilon maturi. A destra Odriozola &egrave; stato una delusione, in relazione alle aspettative, ma a 24 anni potrebbe avere un&rsquo;altra chance (e uno dei migliori del settore giovanile &egrave; un terzino destro, Sergio Lopez). Nacho &egrave; un buon rincalzo, come al solito, forse in mezzo Jesus Vallejo potrebbe diventare qualcosa in pi&ugrave;.&nbsp;  A centrocampo, con il senno di poi, l&rsquo;errore &egrave; stato quello di non cedere l&rsquo;adesso trentaquattrenne Modric al massimo del suo valore di mercato, ma dopo l&rsquo;addio a Cristiano Ronaldo non era in termini di marketing possibile rinunciare a un altro Pallone d&rsquo;Oro. A 27 anni Casemiro ha ancora tanto da dare, mentre Kroos (29) non &egrave; vecchio, ma ultimamente gioca come giocano quelli con un chilometraggio troppo alto. Si &egrave; visto poco ma vale molto il giovane uruguayano Valverde. Fra centrocampo e attacco Isco (27) e Asensio (23) sono un po&rsquo; sempre nel limbo, come del resto Lucas Vazquez, campioni quando intorno hanno campioni ma non proprio trascinatori. Vinicius, nemmeno diciannovenne, si &egrave; dimostrato un ottimo acquisto e ha potenzialit&agrave; enormi, ma alla fine il grande colpo andr&agrave; fatto in attacco visto che Benzema e soprattutto Bale sono a fine corsa, anche come rapportui umani con il mondo madridista: &egrave; forse l&rsquo;ultima estate utile per venderli benissimo, magari a qualche club di Premier League in cerca del nome per turisti. Mariano Diaz modesto, non &egrave; chiaro quale possa essere nel calcio vero il valore di Rodrigo. &Egrave; in questo reparto che bisogna intervenire pesantemente.  Insomma, abbiamo negli occhi le partite di questa stagione soprattutto le ultime, ma analizzando la rosa parlare di rifondazione sembra davvero esagerato. E infatti nei piani di Perez questa non doveva essere una stagione di transizione, visto che al di l&agrave; del sentito dire sul mercato sono state buttate cifre enormi: Mariano Diaz, Odriozola, Vinicius, Courtois, Lunin e Brahim Diaz sono costati tutti insieme circa 180 milioni, 70 in pi&ugrave; di quanto incassato per CR7 dalla Juventus. Certo il giocatore vendi-magliette, il Neymar della situazione, non &egrave; arrivato, ma questi giocatori sono pochissimi e attualmente non in vendita. Conclusione? Non siamo sicuri che questo ciclo del Real Madrid sia finito. 

La disfatta con l&#39;Ajax potrebbe avere chiuso un ciclo straordinario, con otto semifinali di Champions League consecutive, ma l&#39;et&agrave; e il valore dei giocatori fa pensare che con pochi colpi Florentino Perez riesca a far tornare galattica questa squadra...

Real Madrid da rifondare, anzi no

Quella vinta in scioltezza contro il Getafe &egrave; stata la prima partita del Real Madrid al Bernabeu nell&rsquo;era post Cristiano Ronaldo. Osservazione banale, che diventa meno banale guardando l&rsquo;affluenza in uno degli stadi pi&ugrave; famosi del mondo: 48.466 persone, con un entusiasmo oltretutto al minimo. Per trovare un pubblico numericamente peggiore bisogna risalire al maggio 2009, ad una partita contro il Maiorca che non contava niente al termine di un torneo perso contro il primo scintillante Barcellona di Guardiola allenatore: 45.000 spettatori per la quarta sconfitta consecutiva di quel tragico filotto inziato con un 2-6 proprio contro i blaugrana.&nbsp;Cristiano Ronaldo sarebbe stato acquistato dal Manchester United poche settimane dopo&hellip;  Ridurre tutto a CR7 &egrave; stupido, oltretutto per una squadra che schiera Sergio Ramos, Marcelo, Modric, Kroos, Isco, Benzema e Bale. Che non cancellano i 450 gol in 438 partite segnati per il Real dall&rsquo;attuale attaccante della Juventus, ma dicono che la vita va avanti e che la loro squadra rimane fra le favorite per Liga e Champions League. A contribuire allo scarso entusiasmo anche il fatto che non essendo in campo Courtois la squadra anti-Getafe era esattamente lo stesso Real Madrid dell&rsquo;anno scorso ma senza Cristiano. E a dirla tutta nemmeno l&rsquo;anno scorso l&rsquo;entusiasmo era stato debordante: nella stagione 2017-18 la media di spettatori al Bernabeu, pur drogata dai tanti turisti e dalle poche partitissime del campionato spagnolo, &egrave; stata di 65.653 in uno stadio da 81.044 61.739 nella prima partita casalinga, contro il Valencia. Insomma, la squdra pi&ugrave; famosa e, fino a prova contraria, pi&ugrave; forte del mondo entusiasma pi&ugrave; gli stranieri dei suoi stessi tifosi e le stesse modalit&agrave; dell&rsquo;arrivo di Lopetegui al posto del dimissionario Zidane non hanno contribuito a ricreare la magia.  Il mercato del Real &egrave; stato pi&ugrave; che buono, con l&rsquo;arrivo di uno dei migliori portieri del pianeta, Courtois, a un prezzo accettabile (35 milioni che diventano inbarazzanti se confrontati a quanto spesso da Liverpool e Chelsea per Alisson e Kepa), della futura stella del Brasile Vincius e di una certezza come Odriozola. Ma &egrave; inutile nascondersi: il grande colpo, quello che sarebbe stato Neymar, quello che fa parlare i media di tutto il mondo, manca almeno dal 2014, quando James Rodriguez reduce da un grande Mondiale fu pagato 75 milioni al Monaco, per non parlare dei 100 milioni al Tottenham per Bale nel 2013, dell&rsquo;ingaggio di Mourinho nel 2010 e della doppietta Cristiano Ronaldo-Kak&agrave; (quell&rsquo;estate arriv&ograve; anche Benzema) del 2009, l&rsquo;anno che segn&ograve; il ritorno di Florentino Perez alla presidenza. Anche chi ha vinto quattro delle ultimi cinque Champions League deve vivere di sogni. 

La prima partita casalinga del Real Madrid dopo la cessione di CR7 ha fatto segnare il record negativo di pubblico dal maggio 2009. Quando il fuoriclasse non era ancora stato acquistato...

Il Bernabeu dopo Cristiano Ronaldo

Il 239&ordm; derby di Spagna non delude&nbsp;nonostante il Bar&ccedil;a sia gi&agrave;&nbsp;sicuro del suo 25&ordm; scudetto e il Real abbia gi&agrave; la testa&nbsp;alla finalissima di Champions contro il Liverpool. Al Camp Nou all&#39;uscita dal campo di Iniesta&nbsp;lo stadio non smette di applaudire

Botte e emozioni: che show nel Clasico!

L&rsquo;addio di Kak&agrave; al calcio giocato &egrave; avvenuto molto pi&ugrave; tardi rispetto al momento giusto, a 35 anni e con la parabola discendente iniziata da ben prima del 2013, quando torn&ograve; al Milan dopo 4 difficili anni di Real Madrid. Ultimo essere umano a vincere il Pallone d&rsquo;Oro (era il 2007, con la maglia del Milan campione d&rsquo;Europa e del mondo) prima che il premio venisse monopolizzato da Messi e Cristiano Ronaldo, il miglior Kak&agrave; &egrave; stato senza dubbio quello visto al Milan di Ancelotti, anche se si &egrave; trascinato con dignit&agrave; fino all&#39;epilogo ad Orlando.  Fra problemi fisici e ambientali (in rossonero era la stella assoluta, nel Real no anche perch&eacute; arriv&ograve; la stessa estate di Cristiano Ronaldo preso dal Manchester United), raramente in Spagna si &egrave; visto il miglior Kak&agrave; e forse la freddezza con Mourinho (dal 2010) e l&rsquo;ambiente madridista c&rsquo;entra poco. Intanto perch&eacute; l&rsquo;operazione al ginocchio dell&rsquo;estate 2010 ha di fatto chiuso l&rsquo;era del miglior Kak&agrave;, a prescindere dal contesto, e poi perch&eacute; nemmeno nella Selec&atilde;o, nonostante il Mondiale vinto da ventenne riserva, le 83 presenze e le tante buone prestazioni &egrave; stato mai considerato un leader indiscutibile: forse non era considerato abbastanza &lsquo;del popolo&rsquo;, visto che viene da una famiglia dell&rsquo;alta borghesia di San Paolo, forse non aveva un vero ruolo e questo te lo puoi permettere soltanto in una squadra dove sei nettamente il migliore, forse il &lsquo;suo&rsquo; Mondiale, che era quello del 2010, se lo &egrave; giocato con troppi piccoli infortuni.  Ricardo Izecson dos Santos Leite &egrave; stato un campione e soprattutto un brasiliano atipico, che aveva come modello Ra&igrave;: ottima carriera fra San Paolo e PSG, e anche nella rosa campione del mondo del 1994, noto anche come fratello di Socrates. Molto concreto e molto atleta, Kak&agrave;, almeno nei suoi anni migliori: raramente nella storia e mai nel calcio moderno si &egrave; visto uno con questa progressione palla al piede. Un gesto tecnico lungo anche quaranta metri che contro le difese del terzo millennio sembra impossibile, ma che lui faceva diventare facile ed esaltante. Il calcio dei videogiochi, per certi aspetti: sar&agrave; anche per questo e per la sua faccia pulita che Kak&agrave; &egrave; sempre stato amatissimo dai bambini e dagli sponsor, da Adidas ad Armani.  Kak&agrave; ha il fisico e l&rsquo;atteggiamento del dirigente, nella peggiore delle ipotesi dell&rsquo;uomo immagine. Negli spogliatoi che ha frequentato si &egrave; guadagnato il rispetto di tutti ma non &egrave; mai stato un trascinatore: difficile che possa diventare la nuova bandiera milanista mandata allo sbaraglio in panchina per coprire gli errori di altri, ma non si pu&ograve; mai dire. Di certo a Milano tornerebbe senza la moglie Caroline, che Milano mai l&rsquo;avrebbe lasciata, visto che il matrimonio &egrave; finito. Va detto che la sua immagine straordinaria e positiva, non a caso &egrave; stato uno dei primi calciatori a diventare una vera star sui social network, &egrave; tutta da verificare alle prove della vita reale. Per fare il dirigente o l&rsquo;allenatore non basta conoscere il calcio, ma questo non vale soltanto per Kak&agrave;.&nbsp; 

Il campione brasiliano ha lasciato il calcio a 35 anni, anche se gi&agrave; da tanto era lontano dai suoi migliori livelli. Incerto fra una carriera da allenatore o da dirigente, potrebbe essere la prossima bandiera del Milan a scendere nell&#39;arena...

Il futuro di Kak&agrave;

Ad Abu Dhabi la squadra di Zidane si aggiudica il Mondiale per&nbsp;Club sconfiggendo i brasiliani del Gremio in finale: decide una punizione di Cristiano Ronaldo che festeggia nel migliore dei modi il suo quinto Pallone d&#39;oro

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