        Crescendo nel nord-est italiano, in particolar modo in Veneto e nel vicentino, &egrave; scontato conoscere almeno un Baggio nel corso della propria vita. Meno scontato &egrave; vederne due insieme contemporaneamente con la maglia della Nazionale, e ancora meno leggerli come marcatori sul tabellino di una partita del Mondiale. Eppure &egrave; successo il 9 luglio del 1994, durante il quarto di finale Italia-Spagna. I due Baggio sono ovviamente il Divin Codino, croce e delizia del Mondiale a stelle strisce che prima ci trascin&ograve;, unico faro nell&rsquo;autoreferenziale buio di Arrigo Sacchi, per poi fallire il celebre rigore, e Dino, egregio gregario e incontrista della mediana, uno dei centrocampisti pi&ugrave; forti della sua generazione.  Il match e la doppia firma dei Baggio  &Eacute; stato proprio Dino, dopo pi&ugrave; di venti minuti di continui cambi di fronte, a siglare la rete del vantaggio. Il ragazzo di Camposampiero, presa palla poco fuori dall&rsquo;area di rigore, lascia partire una staffilata di collo pieno che si infila a mezza altezza a fil di palo non lasciando scampo a Zubizarreta. &Eacute;&nbsp;un gol fantastico, ma soprattutto importante, visto che spezza gli equilibri indirizzando l&rsquo;inerzia del match dalla parte degli azzurri. Il resto del primo tempo si trascina verso il termine con gli spagnoli che tengono palla e i ragazzi di Sacchi che tentano veloci verticalizzazioni per Roberto Baggio, costante spina nel fianco degli iberici. Nella seconda frazione il pressing delle Furie Rosse si fa pi&ugrave; alto, i nostri perdono campo e arriva l&rsquo;inevitabile pareggio su un tiro deviato di Caminero.&nbsp;A salvare le sorti del confusionario reparto offensivo azzurro ci pensa neanche a dirlo, il solito Divin Codino che, a 3 minuti dal 90&rsquo;, scarta l&rsquo;estremo difensore spagnolo e fa 2-1. La prima volta della prova tv  L&rsquo;Italia intera esplode, i ragazzi in maglia azzurra dall&rsquo;altra parte dell&rsquo;oceano sono a pochi minuti dalla semifinale, ma la partita ha ancora qualcosa da dire. La quaterna arbitrale concede sei minuti di recupero e gli spagnoli si gettano in avanti. A poco pi&ugrave; di sessanta secondi dal termine, su una palla tesa da destra, Tassotti vede accorrere Luis Enrique di gran carriera e, per non correre rischi, lo colpisce con una gomitata sul setto nasale. Ko tecnico. Il fantasista spagnolo &egrave; una maschera di sangue, in diretta l&rsquo;arbitro non vede nulla, finisce 2-1 con l&rsquo;Italia in semifinale. La stangata per Tassotti arriver&agrave; dalla prova tv, usata per la prima volta nella storia, che lo squalificher&agrave; per 8 turni, mettendo la parola fine sul suo Mondiale e, pi&ugrave; in generale, sulla sua avventura in azzurro.       

<p>In vista della semifinale di Nations League contro gli iberici, il precedente del Mondiale americano in cui Tassotti colp&igrave; l&rsquo;attuale Ct delle Furie Rosse</p>

Italia-Spagna: Usa ‘94, i Baggio e la gomitata a Luis Enrique

Chiss&agrave; quanto ha influito il 4-0 preso dal PSG nell'andata degli ottavi di Champions, sulla decisione di Luis Enrique di lasciare il Barcellona dopo tre anni di tante vittorie (su tutte la Champions League 2014-15) e di buona gestione di una squadra che ha cambiato per forza pelle dopo gli anni (quattro pi&ugrave; uno) di Guardiola e Vilanova. Non che sia peggiorata, come somma di valori individuali assoluti, ma l'addio di Xavi nel 2015, e il lento declino di Mascherano e Iniesta, per parlare solo di uomini chiave, hanno per forza trasformato i blaugrana in una squadra fortissima, dall'attacco stellare, ma per certi versi anche normale. Va ricordato che quando Luis Enrique arriva dal Celta Vigo, nell'estate 2014, il Barcellona &egrave; in difficolt&agrave;. Il Real Madrid ha appena vinto la Decima (Champions League), i blaugrana hanno appena perso l'occasione di vincere il campionato nella decisiva partita con l'Atletico di Simeone, in pi&ugrave; il capitano Puyol si &egrave; ritirato e da pochi mesi &egrave; cambiato anche il presidente (da Rosell a Bartomeu). A dirla tutta, in pochi sono convinti che Luis Enrique sia meglio del Tata Martino, che ha iniziato a cambiare il gioco della squadra rendendolo pi&ugrave; aggressivo e verticale, per sfruttare le accelerazioni di Neymar. Invece Luis Enrique prosegue intelligentemente a trasformare un Barcellona che ha appena acquistato, fra gli altri, Suarez e Rakitic. &Egrave; un Barcellona meno bello a vedersi, ma che crea molte pi&ugrave; occasioni ed &egrave; anche vincente almeno ai livelli di quello di Guardiola: al primo anno campionato, Champions e Coppa del Re, al secondo Liga, coppa del mondo per club, supercoppa europea e Coppa del Re, il terzo &egrave; questo in cui il Barcellona &egrave; primo nella Liga, ha gi&agrave; vinto la supercoppa spagnola, &egrave; in finale in Coppa del Re (il 27 maggio contro l'Alaves) e quasi fuori dalla Champions contro un'avversaria contro cui comunque si pu&ograve; uscire. Un ritmo degno delle migliori epoche di questo club, che non gli ha comunque garantito l'esenzione dalle critiche per i motivi pi&ugrave; diversi, fra cui spicca quello di usare pochi giocatori provenienti dal settore giovanile del club. Di sicuro dopo il secondo (il primo quello post Roma) anno sabbatico della carriera sar&agrave; uno degli allenatori pi&ugrave; corteggiati del mondo. Ma cosa rimarr&agrave; di Luis Enrique? Il primo a chiederselo &egrave; lui, che non &egrave; certo il prototipo dell'allenatore-mestierante.

Cosa rimarr&agrave; di Luis Enrique

Il finale della Liga con il Barcellona campione &egrave; stato abbastanza scontato, visto che le avversarie all'ultima giornata di Barcellona e Real Madrid (rispettivamente Granada e Depor) erano al tempo stesso modeste e demotivate. Anche se entrambe le partite, viste in contemporanea, hanno mantenuto una dignit&agrave; di fondo e salvato almeno le apparenze, con i discorsi sui premi a vincere 'incrociati' archiviati ma probabilmente non infondati. Da quando siede sulla panchina blaugrana, cio&egrave; dall'estate 2014, Luis Enrique ha vinto due campionati su due, insieme a una Champions League (l'anno scorso in finale sulla Juventus), un Mondiale per Club, una Supercoppa UEFA e una Coppa del Re (con la seconda possibile, fra una settimana in finale con il Siviglia): non proprio un palmares scontato, considerando sia il Real sia la nuova e costante dimensione dell'Atletico Madrid.  Non ci vengono in mente altri grandi tornei nazionali con tre squadre, e che squadre (le due non vincenti si giocheranno la Champions a San Siro), a giocarsi quasi fino alla fine il titolo, ma i meriti dell'ex allenatore di Roma e Celta Vigo vanno al di l&agrave; della vittoria con una squadra storicamente sempre piena di fenomeni (6 giocatori pi&ugrave; 3 suoi scarti di extralusso, Ibrahimovic, Yaya Tour&eacute; e Alexis Sanchez, sui 23 della lista per il Pallone d'Oro 2015) e che comunque &egrave; arrivata al titolo nazionale numero 24. Con il tocco in pi&ugrave; di Suarez 'Pichichi' a quota 40 gol, in una squadra che certo non &egrave; obbligata a giocare soltanto per lui. Onore delle armi per Zidane e le sue 12 vittorie consecutive, ma anche per&nbsp;Cristiano Ronaldo:&nbsp;non &egrave; capocannoniere della Liga ma per il sesto anno di fila ha segnato pi&ugrave; di 50 gol in stagione. Quest'anno 51, nel 2014-15 61: l'unico aspetto infinito della sua sfida infinita con Messi &egrave; cha la diamo per scontata. Fra poco la rimpiangeremo.  Tornando al Barcellona, bisogna dire che Luis Enrique non &egrave; esattamente un allenatore dai principi tattici flessibili, visto che mai deroga da un'interpretazione ortodossa del 4-3-3, ma con intelligenza non chiede alla squadra di giocare a tutta per 90' tutte le partite: &egrave; un maniaco della preparazione fisica (anche della sua personale), ma come l'ultimo dei tifosi sa benissimo che giocando con calma, senza intasare gli spazi, prima o poi i tre tenori davanti troveranno la strada giusta. Visto che quando le cose vanno male il primo colpevole &egrave; l'allenatore, va anche detto che mai nella storia del calcio si sono visti tre fuoriclasse integrarsi cos&igrave; bene sul piano umano, al punto di esagerare (soprattutto Neymar) in altruismo e ricerca dell'assist.  Poi &egrave; giornalisticamente scontato rapportare tutto a Guardiola e al guardiolismo, non ci tiriamo indietro e non ci nascondiamo dietro alla statistica che dice nelle ultime 8 stagioni il Barcellona non ha vinto la Liga soltanto l'ultimo anno di Guardiola (primo il Real di Mourinho) e in quello dell'inadeguato Tata Martino (primo l'Atletico di Simeone). Non &egrave; arrivata la Champions League, ma dopo l'uscita con l'Atletico nei quarti dopo due partite di intensit&agrave; clamorosa Luis Enrique &egrave; stato bravo nel ripartire dimenticando l'arbitraggio e anche le prove 'normali' di alcuni dei suoi. Senza fare della psicologia a buon mercato, la differenza nello stile di gioco &egrave; evidente: riduzione del tiqui taqua, imposta anche dall'avere tre attaccanti veri quasi sempre in campo (va detto che l'Iniesta di adesso non pu&ograve; pi&ugrave; giocare davanti come faceva a volte ai bei tempi), pi&ugrave; cambi di gioco e meno passaggi corti, ma soprattutto lanci in verticale a costo di essere meno belli e un po' pi&ugrave; in affanno rispetto al Barcellona di Guardiola nel gestire le situazioni di vantaggio. Diciamo anche che Luis Enrique, che comunque da giocatore al Barcellona ci &egrave; stato 8 anni (arrivando dal Real Madrid...), &egrave; meno sensibile di Guardiola alla retorica della cantera e dall'orgoglio catalano, atteggiamento che rende poco caldi nei suoi confronti alcuni giornalisti di Barcellona. Per&ograve; parlare di 'mano dell'allenatore', anche per una rosa di questo livello, si pu&ograve;. E la squalifica FIFA terminata pochi mesi fa permetter&agrave; di diventare ancora pi&ugrave; forti. Evitiamo di erigere statue equestri a un tecnico che non aveva ai suoi ordini la rosa del Levante, ma le grandi macchine hanno comunque bisogno di grandi piloti.

Barcellona campione, la faccia di Luis Enrique

Proposta, applicazione e sviluppo. La filosofia del grande Barcellona poggia su questi tre termini e nasce, ironia del destino, sul campo degli eterni rivali. &Egrave; il 2 maggio del 2009 e al Santiago Bernabeu il Real Madrid di Juande Ramos e la squadra di Guardiola giocano per la Liga. Un paio di mesi prima una conversazione privata tra Carles Rexach e Tito Vilanova ha gettato le basi per l'idea che rivoluzioner&agrave; il modo di giocare dei blaugrana e che far&agrave; proseliti sulle lavagne di tanti altri tecnici. Rexach &egrave; una bandiera della societ&agrave;, Tito il vice di Guardiola. I due sono molto amici. &laquo;Perch&eacute; non provi Messi al centro dell'attacco?&raquo; suggerisce il vecchio Charly. Vilanova &egrave; un po' scettico. Questo significherebbe spostare Eto'o sulla corsia esterna, facendogli perdere del potenziale. Il camerunese, fino ad allora, aveva garantito un nutrito numero di reti. &laquo;Per&ograve; in questo modo Samuel potrebbe svariare su tutto il fronte e non essere utilizzato soltanto come terminale offensivo&raquo; pensa tra s&eacute; e s&eacute; l'allenatore. Vilanova comincia cos&igrave; a vedere i lati positivi della proposta. Conosce alla perfezione le straordinarie virt&ugrave; di Leo Messi (lo ha cresciuto nelle giovanili) e si affretta a illustrare il nuovo metodo a Guardiola. Pep, in un primo momento, rifiuta. Poi si rende conto di non poter nulla contro l'insistenza di Tito e decide di plasmare la squadra seguendo quest'idea. Il "falso nueve" &egrave; pronto a scendere in campo nella partita contro il Real, che rischio. Higuain porta le Merengues in vantaggio, ma &egrave; solo questione di minuti. Una rete di Henry permette al Barcellona di pareggiare, poi sar&agrave; assedio. I centrali - Cannavaro e Metzelder - non sanno come reagire. Messi non d&agrave; punti di riferimento, non c'&egrave; un "nove" classico. Eto'o manda tutti in confusione, &egrave; dove meno te lo aspetti. Buona parte della gara si gioca sull'asse centrale Xavi-Messi. Finir&agrave; 6-2. Charly, Tito e Pep non lo sapevano ancora, ma stavano per scalare le pi&ugrave; alte vette dell'Olimpo. Quell'anno il Barcellona riuscir&agrave; a far suo il primo "triplete" della storia. Vittoria in Liga, in Champions e in Copa del Rey. Negli anni successivi sar&agrave; sempre un crescendo di trionfi: altri due campionati, un'altra Champions, un'altra Copa del Rey, tre Supercoppe di Spagna, due Supercoppe europee e due Mondiali per club. Tutto questo dura fino al 2013, l'anno in cui Vilanova &egrave; costretto a lasciare la panchina - dopo aver sostituito Guardiola, che aveva deciso di prendersi un anno sabbatico - per l'aggravarsi delle condizioni di salute. La gloria terrena di Tito sar&agrave; spezzata da un brutto male l'anno successivo, qualche giorno dopo la domenica di Pasqua.  IL BAR&Ccedil;A DI GUARDIOLA E VILANOVA  L'espressione "tiki-taka" fu utlizzata per la prima volta da Andr&eacute;s Montes, telecronista spagnolo de laSexta, durante il match tra Spagna e Tunisia al Mondiale tedesco del 2006. La ragnatela dei passaggi della Roja era talmente fitta che il giornalista, dalla tribuna stampa del Gottlieb-Daimler-Stadion di Stoccarda, con chiaro riferimento onomatopeico esclam&ograve;: &laquo;Estamos tocando tiki taka tiki taka&raquo;. Il concetto del possesso palla &egrave; stato poi estremizzato dal Barcellona di Guardiola. Costruzione dell'azione dal basso, passaggi sicuri, nessuna intenzione di accelerare la manovra. Il centrocampo - mai dare a Pep calciatori tecnicamente mediocri in mediana, vedi anche al Bayern - ha l'obiettivo di addormentare il gioco, stancare i difensori avversari e approfittare dello spazio venutosi a creare per una disattenzione. Tenere sempre la palla tra i piedi e avere cos&igrave; il controllo della partita. Con Vilanova il Barcellona non cambia. &Egrave; lo stesso allenatore a dichiararlo nella prima conferenza stampa (alla vigilia dello scontro con la Real Sociedad): &laquo;La differenza rispetto agli anni precedenti &egrave; la persona che trasmette il messaggio, non la filosofia. Cercher&ograve; di avere una linea di continuit&agrave;&raquo;. Qualche verticalizzazione in pi&ugrave; e giusto un po' di conclusioni dalla distanza, a voler trovare le differenze con la squadra di Guardiola. Tito vincer&agrave; la Liga. Con 100 punti.  TATA, LUCHO E SUAREZ  Gerardo Martino &egrave; l'uomo scelto dalla dirigenza per iniziare il dopo Guardiola-Vilanova. Niente pi&ugrave; tiki-taka. Il gioco &egrave; pi&ugrave; diretto e vivace, ma non sar&agrave; una grande annata. Messi vivr&agrave; al di sotto dello standard abituale e il Barcellona non riuscir&agrave; a centrare l'ottava semifinale consecutiva in Champions. L'Atletico Madrid di Simeone condanner&agrave; il Tata agli ottavi e, non sazio, scipper&agrave; la Liga all'ultima giornata. Scontro diretto, 1-1 e festa colchoneros. Le cose cambiano nella stagione successiva con l'arrivo in panchina di Luis Enrique. Il distacco da Guardiola &egrave; netto, quella mentalit&agrave; appartiene ormai al passato. L'asturiano si fa notare per la sua efficacia e per la particolare attenzione rivolta al contropiede. Esemplare &egrave; l'azione dello scorso gennaio che ha portato il Bar&ccedil;a, nel ritorno dei quarti di Copa del Rey al Vicente Calderon ancora una volta contro l'Atletico, sul momentaneo 1-1. Messi in ripartenza becca Suarez, stop e lancio d'esterno dell'uruguaiano verso Neymar che, in solitaria, batte Oblak.  L'EREDIT&Agrave;  La portata storica dei concetti di Guardiola e Vilanova &egrave; arrivata anche in Italia. Nella prima parte della scorsa stagione Inzaghi aveva in Menez il suo falso nueve, Gasperini in Perotti, Montella e Pioli, in alcune partite, in Ilicic e Mauri. Ma la vera vittoria dei due allenatori spagnoli &egrave; arrivata al Mondiale brasiliano. Non basta un occhio esperto per trovare delle analogie tra il Barcellona di Pep e Tito e la Germania di Joachim L&ouml;w, tra Messi o Fabregas e M&uuml;ller o G&ouml;tze. Anche l&rsquo;idea di Lahm a centrocampo &egrave; opera di Guardiola. L&ouml;w ha solo sfogliato gli appunti.  @damorirne

Real-Bar&ccedil;a, quando Messi esord&igrave; da falso nueve

Praticamente Arda Turan &egrave; un nuovo giocatore del Barcellona e, praticamente, potrebbe non esserlo pi&ugrave; tra un paio di settimane. L'esterno offensivo, arrivato dall'Atletico Madrid per 34 milioni di euro pi&ugrave; 7 di bonus, si &egrave; legato alla societ&agrave; blaugrana firmando un contratto di cinque anni. &Egrave; il settimo acquisto pi&ugrave; caro che il Camp Nou abbia mai avuto il piacere di conoscere dopo Neymar, Suarez, Ibra, Villa, Sanchez e Overmars. Sicuramente non vedremo il turco insieme alla MSN fino al gennaio del 2016, in virt&ugrave; del noto blocco di mercato imposto dalla FIFA. Si parla gi&agrave; di un possibile prestito al Galatasaray, il club che lo ha lanciato tra i grandi. Ma c'&egrave; un'altra curiosa questione che riguarda il trasferimento ed &egrave; una clausola che permetterebbe al club catalano di rispedirlo al mittente entro il 20 luglio. Gi&agrave;, perch&eacute; giorno 18 i soci del Bar&ccedil;a saranno chiamati a votare per l'elezione del nuovo presidente. Si profila il testa a testa tra Josep Bartomeu, il numero uno in carica, e Joan Laporta, che ha guidato i blaugrana tra il 2003 e il 2010. Chi salir&agrave; sul trono, avr&agrave; il diritto di decidere se tenere o meno Arda Turan in cambio della somma e pagando una penale del 10%.  La notizia certa per il momento &egrave; che l'Atletico, e sorvoliamo sulle pur ottime qualit&agrave; tecniche, ha perso il suo uomo immagine. Il capitano della Nazionale turca era stato uno dei cinque giocatori scelti come testimonial per le maglie ufficiali della stagione 2015/2016 e la sua gigantografia campeggiava nel negozio ufficiale del Vicente Calderon. Con i Colchoneros ha portato a casa la Liga, la Coppa e la Supercoppa di Spagna, l'Europa League e la Supercoppa Europea, fermandosi a un passo dal sogno di una vita, la Champions del 2014, conquistata dai cugini del Real. Arda Turan, quel giorno, sedette in tribuna per un infortunio procuratosi, ironia della sorte, proprio contro il Barcellona.   Quali saranno gli scenari che si apriranno, ipotizzando la sua permanenza in Catalogna alla data dell'1 gennaio 2016? L'insistenza con la quale Luis Enrique ha richiesto il giocatore lascia presagire un suo continuo utilizzo nell'undici del Bar&ccedil;a. Il problema &egrave; dove, il problema &egrave; che l'allenatore asturiano possa trovarsi nella stessa condizione del Tata Martino, costretto a fare i conti con la sterminata abbondanza del reparto offensivo, costretto a lasciare gente come Tevez, Higuain, Lavezzi o Lamela in panchina, costretto a non considerare i nuovi protagonisti del calcio argentino, vedi Icardi, Dybala e Vietto. Chiss&agrave; che per Arda non ci sia spazio nella linea a 3 di centrocampo.   Adriano Lo Monaco @damorirne

Barcellona, il curioso caso di Arda Turan

Tutto si pu&ograve; dire del Luis Enrique allenatore, tranne che manchi di educazione e di onest&agrave;. Rinunciare a un anno di contratto con la Roma a 3 milioni lordi, quando il manuale del bravo allenatore 'italiano' (non necessariamente di passaporto) insegna che per farsi cacciare basta mettere in campo una formazione provocatoria o dare qualche titolo forte alla stampa, torna ad onore del 42enne asturiano che sul piano dei risultati ha ottenuto poco e su quello del gioco purtroppo anche. Perch&eacute; al di l&agrave; della simpatia umana per un uomo che ha indubbiamente qualcosa di Guardiola (per questo &egrave; stato scelto, pur avendo esperienza solo di B spagnola), a parte i giocatori del Barcellona, il problema alla Roma non sono stati i risultati. Una tifoseria come quella giallorossa pu&ograve; tollerare le 16 sconfitte, in omaggio a un ideale di calcio alla quale l'hanno educata grandi maestri (Liedholm e Zeman su tutti) e piccoli budget, ma non il clima da 'rompete le righe' che si &egrave; respirato nelle ultime settimane senza che Luis Enrique avesse un vero nemico. Non i giornalisti, sempre affascinati da guru e para-guru, fatta eccezione per i nostalgici dei Sensi. Non i cosiddetti senatori: De Rossi rinnovando il contratto gli aveva dato anzi fiducia, mentre Totti ormai pensa solo alle statistiche personali ed &egrave; andato avanti a forza di infortuni 'diplomatici'. Anche se di sicuro un campione che cammina non era certo alla base del 'progetto'. Non i giocatori pi&ugrave; giovani o quelli di minor nome, che Luis Enrique ha sempre trattato con lo stesso metro dei grandi, venendo ripagato da litigi da cortile (esemplare quello fra Osvaldo e Lamela) e i musi lunghi di chi credeva che ogni regola fosse saltata. Non la societ&agrave;, che soprattutto nella persona di Baldini ha voluto legare la propria immagine a quella di un allenatore teoricamente emergente e che probabilmente non l'avrebbe esonerato. Insomma, alla fine una bella storia si &egrave; chiusa tutto sommato bene e con stile. Ma non ha lasciato niente. Proprio come quelle con i vituperati mestieranti. Adesso avanti con un altro allenatore che porta bene la giacca, come Vincenzo Montella, ma che a livello di serie A ha dimostrato ben altra sostanza in proporzione al materiale umano avuto a disposizione.  Stefano Olivari, 11 maggio 2012 

Luis Enrique, sotto lo stile niente

Nulla di personale contro Luis Enrique. Anzi. Dietro ai modi burberi, talvolta persino scontrosi, si intravvede un allenatore stimolante, con idee valide e soprattutto non condizionabili dalla critica. Insomma, non sono tra coloro che lo liquidano come inadatto al nostro campionato o come un tecnico troppo acerbo per guidare la Roma. Si rifar&agrave;. Per&ograve; bisognerebbe che il trattamento mediatico dei soggetti fosse pi&ugrave; bilanciato e democratico, questo s&igrave;. Per quale motivo, meno di un anno fa, la piazza romana si liber&ograve; di Vincenzo Montella con tanta rapidit&agrave;? Lo accusavano di essere troppo amico dei calciatori, in primis Totti, con cui aveva vinto lo scudetto. Ma non mi risulta che la risposta opposta, quella fornita Luis Enrique contro lo stesso capitano (vedi Europa League) e De Rossi (leggi Bergamo) abbia prodotto grandi effetti. Mi chiedo di pi&ugrave;. E lo domando soprattutto ai tifosi della Roma: a voi diverte di pi&ugrave; il gioco giallorosso o quello del Catania? Io non ho dubbi nella scelta, specie dopo l&rsquo;ennesima, bellissima prestazione offerta dai siciliani a San Siro. La squadra giallorossa ha un grande possesso palla, arrivando spesso a due terzi dell&rsquo;incontro con la sfera tra i piedi, ma senza i gol del giovane Borini starebbe oggi in acque poco calde. Questo per dire dell&rsquo;evidente difficolt&agrave; ad arrivare al gol. Con grande compostezza, come &egrave; nel suo stile, a luglio Montella ha dovuto lasciare il posto a Luis Enrique, accettando in silenzio e senza polemiche lo spostamento a Catania. Da allora ha fatto piccole ma significative cose: ha messo Lodi in regia, dandogli qualche decimo di secondo in pi&ugrave; di libert&agrave; nel gioco. Decisivo. Ha finalmente puntato su Bergessio, anche a scapito del pi&ugrave; sponsorizzato Maxi Lopez. Ha fatto di Gomez un&rsquo;ala decisiva e immarcabile. Ha riportato Almiron alle sue stagioni migliori. Senza tralasciare Barrientos, il recupero di Llama e altre cosucce. Non mi si venga a dire che a Roma non sarebbe riuscito a farlo. Leggo e sento che oggi molti club - dall&rsquo;Inter alla Lazio - vorrebbero l&rsquo;Aeroplanino per il prossimo anno. E la Roma ce l&rsquo;aveva gi&agrave; in mano, a casa propria. A Montella rimproverano il fatto di avere guidato solo le giovanili giallorosse. E allora Luis Enrique? Ribadisco: niente contro il tecnico spagnolo, tantomeno per stupida difesa nazionalista, solo constatazione di quanto sia divertente vedere giocare il Catania di Montella.  Se il Catania passa a Cesena, compito certamente non facile, arriva a un punto di distacco dalla Roma. E il ragionamento &egrave; completo.  Twitter @matteomarani

Montella meritava la Roma

Quanto &egrave; bella la Roma di Luis Enrique! Lo dico a chiare lettere, nonostante la squadra sia fattibile di figuracce o sconfitte a breve. Troppo altalenante sinora il cammino della squadra capitolina, in virt&ugrave; di una rosa senz'altro interessante a livello di individualit&agrave; ma alquanto acerba e per questo soggetta a svarioni e grandi partite. Ieri &egrave; stata una di quelle, contro il Novara, nonostante il risultato sia stato raggiunto solo nel secondo tempo, dopo l'ingresso di Bojan. Se il bravo Meggiorini avesse concluso bene una bellissima azione personale, neutralizzata da un sempre pi&ugrave; sicuroStekelenburg magari non sarei qui a elogiare l'operato di Luis Enrique. Ma io provo sempre a essere obbiettivo e ammetto che mi intriga molto il gioco dello spagnolo. Lasciamo stare paragoni fuorvianti e nocivi come quello con il mentore Guardiola. La squadra &egrave; composta da giovani di sicuro talento come il gi&agrave; citato Bojan Krkic, l'ex Lione Pjanic, l'argentino Lamela che si sta imponendo con una facilit&agrave; disarmante, l'italo argentino Osvaldo, un altro giocatore rispetto al timido attaccante che lasci&ograve; la serie A tre anni fa. E poi Borini, il terzino tutto sprint Jos&egrave; Angel, l'ex Palermo Kjaer, il rivitalizzato Gago, l'enfant prodige Borini ben miscelati con i campioni della vecchia guardia (Totti, De Rossi, Perrotta, Taddei). Col Genoa sono bastate poche ma fatali disattenzioni difensive per compromettere una buona gara, ma l'importante &egrave; che dietro le spalle della squadra ci sia il supporto e la piena fiducia della societ&agrave;. Di Benedetto si sta dimostrando sulla lunga distanza un buon presidente, di quelli "deleganti", nel senso che non si intromette minimamente nelle scelte tecniche (per forza, mi direte voi, di calcio non capisce nulla.. ma lo sceicco Mansour secondo voi conosce la Premier?) e ha vagliato con Sabatini (lui s&igrave; un grande addetto ai lavori) un vero progetto a lungo termine. Questa s&igrave; una vera novit&agrave; del calcio italiano: la capacit&agrave; di aspettare, di programmare, di non bruciare. La Roma pu&ograve; andare lontano.  Gianni Gardon Dal blog PELLEeCALAMAIO http://giannivillegas.splinder.com/  

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