Makélélé, il maratoneta: rincorse e contrasti tra Madrid, Londra e Parigi

Makélélé, il maratoneta: rincorse e contrasti tra Madrid, Londra e Parigi

Il centrocampista francese fu il perno della mediana dei Galacticos, del Chelsea e del PSG nei primi anni Duemila. La sua storia dagli esordi col Nantes ai successi con Mourinho

Paolo Valenti/Edipress

18.02.2023 ( Aggiornata il 18.02.2023 14:44 )

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Dalle vie polverose di Kinshasa ai quartieri più eleganti di capitali come Madrid, Londra e Parigi, la strada è lunga. Claude Makélélé l’ha percorsa a modo suo, con quell’ampia dose di capacità di sacrificio e desiderio disperato di salvarsi da un destino sfortunato che contraddistingue chi lascia il proprio Paese. Cosa che la famiglia di Claude fa quando lui ha appena quattro anni, destinazione Parigi. La vita nei sobborghi non è semplice: farsi accettare dai locali, sostenere il tenore di vita che richiede la grande città. Arriva così un altro trasferimento: a Brest, città portuale nell’estremo occidente francese. A Parigi tornerà vent’anni dopo, da campione affermato, quando le barriere dell’indifferenza saranno state abbattute dall’accondiscendenza che accompagna il successo.

Claude Makélélé, gli inizi al Brest e il passaggio al Nantes

A Brest Makélélé approccia il calcio vero. Sono gli osservatori del Nantes ad accorgersi di lui e a portarlo a vestire la maglia dei canarini, coi quali arriva a vincere il campionato nella stagione 1994-95. É il primo successo importante di un giocatore che si distingue sin dall’inizio della carriera per l’impressionante numero di chilometri che percorre: nato come esterno alto, si sposta presto in mezzo al campo, dove le sue capacità aerobiche riescono a trovare la massima espressione. Nel periodo speso a Nantes riesce a esordire in nazionale. Prova a far parte del gruppo che nel 1998 vincerà il Mondiale ma la non brillante stagione vissuta a Marsiglia è decisiva nelle scelte del CT Jacquet, che lo lascia a casa.

Dal Celta Vigo al Real Madrid dei Galacticos: gli anni spagnoli di Makélélé

C’è bisogno di una svolta nella carriera di Makélélé, che a 25 anni decide di trasferirsi in Galizia per aprire un nuovo capitolo della sua vita professionale. Il Celta Vigo non è un top club (è arrivato sesto nella stagione precedente) ma è una squadra nella quale riesce a mettere definitivamente in mostra le sue doti migliori: dinamismo, senso tattico, capacità di contrasto. Negli spazi che si estendono da un’area di rigore all’altra lui è ovunque, in verticale e in orizzontale, a rubar palloni e ad appoggiarli al compagno più vicino. Non velocissimo, recupera spesso le distanze con scivolate dure, talvolta al limite del regolamento, ma efficaci. La sua bravura nell’andare a contrasto è da insegnare nelle scuole calcio, con quell’abilità che sembra innata nel porsi sempre a metà tra l’avversario e il pallone in modo da recuperarne o mantenerne il possesso. È impossibile da spostare, non per via delle dimensioni fisiche ma per la forza scultorea che sanno sprigionare le sue gambe in costante movimento. È il giocatore che sa dare concretezza al gioco disegnato dagli esteti: è il motivo per cui, nell’estate del 2000, il Real Madrid lo chiama alle sue dipendenze. Fa il suo ingresso nella Casa Blanca insieme a Luis Figo, fiore all’occhiello della campagna acquisti di quell’anno, che va ad aggiungersi alle altre stelle di una compagine che, paradossalmente, ha più bisogno di Makélélé che del portoghese per poter funzionare come squadra. In una costellazione di archistar com’è il Real tocca a lui legare le due fasi del gioco, avvicinare la linea difensiva ai progetti di calcio sopraffino che esprime il talento dell’attacco dei Blancos. É l’Oriali degli anni Duemila, al quale Ligabue, se fosse stato tifoso delle Merengues, avrebbe dedicato una canzone. Per capirlo può essere sufficiente dare un’occhiata alla formazione che scende in campo a Glasgow il 15 maggio 2002 nella finale di Champions League: Makélélé è l’unico anello di congiunzione tra i quattro difensori (Salgado, Hierro, Helguera e Roberto Carlos), i “centrocampisti” dalle spiccatissime attitudini offensive (Figo, Zidane e Solari) e gli attaccanti (Raul e Morientes). È una formula che funziona: nei tre anni passati a Madrid, il Real vince quella finale di Champions e, in sequenza, Supercoppa Uefa e Coppa Intercontinentale, mentre a livello domestico si aggiudica due campionati e due Supercoppe.

Già, solo tre anni. Perché nell’estate del 2003, quando si affronta la questione del rinnovo del contratto, il centrocampista sarebbe felice di prolungare la sua permanenza ma le sue istanze si scontrano con l’incompetenza tecnica di chi il calcio lo vede solo come un riverbero di lustrini e paillettes: Florentino Perez. Le richieste di Makélélé vengono respinte: per il presidente “ha una tecnica mediocre, gli manca il talento e la velocità per recuperare la palla”. Affermazioni che lasciano trasparire, con vent’anni di anticipo, la concezione parziale del calcio del promotore più estremo del progetto odierno della Superlega: solo uno sport declassato a mero divertimento, un’industria fonte di guadagno da far girare su regimi di fatturato ogni anno più elevati. In questa prospettiva non c’è posto per i calciatori di fatica. Apprezzatissimi, al contrario, proprio da chi in campo riempie le pupille di avidi magnati come Perez. È Zinedine Zidane, infatti, dinanzi all’addio di Makélélé e al contemporaneo arrivo a Madrid di un ennesimo cesellatore, David Beckam, a formulare un paragone quanto mai critico della combinazione di quelle due operazioni di mercato: ”un’ulteriore mano di vernice dorata ad una Bentley senza motore”. In aggiunta Steve McManaman sosterrà che Makélélé “era il giocatore più importante del Real e il meno riconosciuto”. Anche il campo darà ragione ai calciatori: dopo la sua partenza le Merengues dovranno attendere l’arrivo di Capello (nel 2007) per rivincere la Liga mentre per sollevare al cielo la Champions (l’agognata decima) passeranno altri undici anni.

Makélélé, le vittorie col Chelsea di Mourinho e il finale di carriera al PSG

Nel frattempo la carriera di Claude continua ai massimi livelli perché dopo Madrid riesce a trovare casa a Londra, Chelsea per la precisione. Prima con Ranieri, poi con Mourinho, il suo modo di giocare rimane determinante per gli equilibri della squadra e ben riconoscibile dai tifosi inglesi, che grazie a lui scoprono il Makélélé Role. Con il tecnico portoghese fa ulteriore incetta di trofei: due campionati, due Coppe di Lega, una FA Cup e un Community Shield. Nel 2008 perde la finale di Champions League solo ai rigori: ha trentacinque anni e capisce che è il momento di tornare a casa. Le ultime tre stagioni le disputa col PSG, vincendo anche l’ultimo titolo: la Coppa di Francia nel 2010. L’anno successivo è l’ultimo prima del ritiro, dopo oltre 800 partite ufficiali con squadre di club che, approssimativamente, hanno significato 8000 chilometri di corsa su e giù per il campo (l’equivalente di 190 maratone) e 15 trofei. Non male per un giocatore di tecnica mediocre e con poco talento...    

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