Nevio Scala: "Il mio Parma stima reciproca e tanta intensità"

Nevio Scala: "Il mio Parma stima reciproca e tanta intensità"

L'allenatore che cambiò la storia dei gialloblù si racconta in occasione dei suoi 75 anni: "Professavo un calcio diverso dagli altri. Con l'aiuto di Pastorello costruimmo una grande squadra"

Jacopo Pascone/Edipress

22.11.2022 ( Aggiornata il 22.11.2022 08:39 )

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Nevio Scala da Lozzo Atestino (Padova), un’istituzione della panchina, l’allenatore che ha cambiato per sempre la storia del Parma Calcio. Protagonista della nostra Serie A negli anni ’60 e ’70: è sbocciato nelle giovanili del Milan – dove ha vinto campionato, Coppa delle Coppe e Coppa dei Campioni –, e ha poi vestito le maglie di Roma, Lanerossi Vicenza, Fiorentina, Inter e Foggia. A Parma arrivò nel 1989, dopo aver sfiorato il doppio salto di categoria con la Reggina, presa in Serie C e portata a un passo dalla A. Nella prima stagione fu artefice della storica promozione dei gialloblù nel massimo campionato, portandoli negli anni a seguire a dominare addirittura in Europa. Uno scudetto sarebbe stato il giusto premio per un ciclo forse irripetibile, che oggi a Parma ricordano con nostalgia. Nevio Scala contribuì comunque in maniera decisiva all’epopea crociata, portando in bacheca una Coppa Italia (1991-92), una Coppa delle Coppe (1992-93), una Supercoppa Uefa (1993) e una Coppa Uefa (1994-95) in sette anni.

Come nasce il rapporto tra Nevio Scala e il calcio?

“Sono nato con il pallone tra i piedi e il fucile in spalla, essendo cresciuto in campagna. Mio papà era un cacciatore, davanti casa avevamo un cortile nel quale giocavamo a calcio da dopo la scuola fino a tarda sera. L’unico divertimento era il pallone: era quasi scontato che qualcuno di noi diventasse calciatore”.

Ha avuto tantissimi grandi allenatori – Liedholm, Rocco, Herrera, Trapattoni… – a chi di questi deve di più?

“Non ho copiato nessuno, piuttosto ho attinto da tutti un qualcosa: un po’ da Liedholm, da Rocco, da Herrera, da Trapattoni… ma anche tanto dai miei compagni di squadra dai quali ho sempre cercato di ‘copiare’ le cose belle e trascurare quelle negative. Ho comunque avuto la fortuna di essere allenato da tecnici che mi hanno lasciato in eredità tantissime nozioni”.

Leggo della sua partecipazione ai Giochi del Mediterraneo del 1967 da capitano con la Nazionale azzurra. L’Italia vinse al sorteggio grazie al suo lancio: ricorda quell’esperienza?

“Un’esperienza stupenda. Un gruppo bellissimo guidato dal manager Gigi Peronace, con il quale avevo veramente un ottimo rapporto. Poi in quel periodo ho conosciuto anche mia moglie, di conseguenza è stata una fase molto bella della mia vita e della mia attività calcistica. L’esperienza della Tunisia è stata davvero indimenticabile, culminata con la medaglia d’oro, che conservo gelosamente ancora oggi. Ogni tanto guardandola mi rituffo con i ricordi in quel passato abbastanza lontano”.

In Nazionale dopo quell’esperienza non è più tornato, se lo aspettava? Mi chiedevo se per caso fosse mai stato vicino alla panchina azzurra…

“La Nazionale maggiore l’ho sfiorata da calciatore. C’era Valcareggi che mi avrebbe convocato per una partita contro la Jugoslavia, poi invece il giovedì, facendo l’allenamento con la Fiorentina, mi sono infortunato e quindi persi la possibilità di vestire la maglia azzurra. Mi è dispiaciuto molto perché avevo lottato per arrivare in Nazionale, ma non ci son riuscito, anche perché in quel momento c’erano tanti colleghi molto bravi. Da allenatore non saprei dirtelo, ma molto probabilmente qualcuno in un certo periodo ci avrà pensato. Comunque non ho rimpianti: sono felice di quello che ho fatto”.

Domanda soprattutto per i più giovani, com’era il calcio che professava Nevio Scala?

“Era un calcio diverso da quello degli altri miei colleghi. Ero un allenatore diverso, tutti si 'vantavano' di dare i numeri (3-5-2, 4-4-2 ecc.), cosa che io non contemplavo durante la mia settimana di allenamento. Con i miei calciatori avevo un rapporto di stima reciproca e di grande intensità: le nostre fortune dal punto di vista calcistico derivavano appunto dal fatto che c’era continuamente uno scambio di idee e di opinioni; noi giocavamo per divertirci aldilà del fatto che nel mondo del calcio se non vinci non sei nessuno. Arrivavamo a vincere attraverso questo tipo di rapporto che avevamo e che ci ha dato grandi risultati. Ritengo di essere stato un allenatore normale, ma penso di aver dato ai miei calciatori degli esempi di comportamento di notevole qualità. I 7 anni di Parma e i due di Reggio Calabria confermano le mie teorie”. 

Apolloni, Minotti, Ganz, Melli, Osio, Gambaro, Pizzi… sono i ragazzi della promozione, tutti giovani calciatori italiani che da semisconosciuti grazie a lei hanno poi fatto carriere di alto livello, chi a Parma e chi no. Quanto devono questi ragazzi a Nevio Scala e quanto deve Nevio Scala a loro?

“Da questo gruppo ho avuto tantissime soddisfazioni e ho anche imparato molte cose, quindi mi auguro di aver lasciato qualcosa di importante. Ripeto, la cosa fondamentale tra noi era la grande stima reciproca, una continua possibilità di dialogo: io non comandavo loro di far qualcosa, si arrivava alla domenica attraverso continui discorsi, continui confronti. Erano giocatori giovani ma già di grande qualità, poi nel tempo attraverso l’allenamento e l’esperienza accumulata sono migliorati. Mi auguro di aver lasciato loro un’eredità importante che poi si sono ritrovati nelle rispettive carriere da giocatori e allenatori”.

Il Parma divenne stellare anche grazie all’acquisto di calciatori importanti, il più delle volte pescati all’estero e spesso sconosciuti in Italia. C’era il suo occhio dietro tutto questo?

“Avevo un ottimo rapporto con il ds del Parma Pastorello. Lui sapeva come giocavo e io non ho mai preteso grandi nomi, chiedevo solo elementi che si sarebbero adattati al mio tipo di gioco. Con Taffarel il discorso è stato differente perché non rientrava nei nostri piani. Prendere un portiere brasiliano in un periodo in cui c’era il limite di soli tre stranieri in rosa è stato una cosa non logica dal punto di vista tecnico. Invece è risultato uno dei giocatori più importanti all’interno dello spogliatoio. Era un portiere dalle straordinarie qualità tecniche, ma anche dalle eccezionali qualità umane, fece tantissimo per noi: portò simpatia, allegria e qualità, oltre che un notevole impulso nelle casse della Parmalat (per via della sponsorizzazione in Brasile architettata dietro l’operazione, ndr.). Comunque tutti i calciatori che abbiamo preso si adattavano al tipo di gioco che avevo in mente e Pastorello sapeva le qualità di cui avevo bisogno, certamente li visionavo anch’io, ma era lui a sceglierli. A parte nel caso di Asprilla, che giocava molto lontano. Ricordo che ricevevo le telefonate nel cuore della notte in cui mi veniva riferito di questo fenomeno e mi fidai. Fu così anche con Brolin, con Couto e soprattutto con Grun, giocatore che avevo visionato e che si è poi rivelato fondamentale per noi, diede un grande apporto a quel Parma che arrivò in cima all’Europa”.

C’è il segno proprio di Asprilla nella stagione 1992-93, decisivo nel cammino in Coppa Coppe e autore di un gol storico a San Siro che interruppe la striscia record del Milan degli Invincibili. Ci racconta qualcosa di questo talento un po’ sopra le righe? 

“Era un pazzo bello, era un pazzo importante, non in senso negativo. Giocatore molto estroso, ragazzo molto allegro e vivace: aveva una forza incredibile e una tecnica straordinaria. Per noi risultò una sorpresa, arrivò che era un ragazzino, poi col tempo è migliorato e ci ha dato grandi soddisfazioni. Per parlare di Asprilla servirebbero 8 giorni di fila. Ho di lui dei ricordi straordinari, degli esempi importanti, qualcuno anche in negativo sia chiaro. Era un po’ indisciplinato, ma con noi ha sempre avuto un atteggiamento corretto specialmente nei primi tempi: molto leale e simpatico, molto vivo. Poi nel tempo ha perso un po’ di 'educazione' e si è 'ribellato' a certe cose, ma tra di noi c’è sempre stato un rapporto importante e genuino. Ancora oggi ogni tanto ci sentiamo, l’ultima volta due mesi fa: mi ha chiamato, doveva venire a trovarmi qui nella mia nuova attività di viticoltore, ma poi ha avuto degli impegni. Mi ha promesso comunque che tornerà presto”.

Perché un Pallone d’Oro come Stoichkov bucò in Italia?

“Quando arrivò da noi aveva la pancia piena, era a fine carriera. Facemmo un errore, io non lo volevo, mi è stato imposto per ragioni economiche ed è stato l’inizio della fine. Nonostante ciò, devo dire che come persona si è rivelato un ragazzo straordinario: il suo comportamento è stato di una correttezza unica. Come calciatore non era più lo Stoichkov di Barcellona, inoltre guadagnava molto più degli altri: questo è stato un segnale negativo che la società ha dato alla squadra”.

Domanda d’obbligo, lei fece debuttare in A Pippo Inzaghi, ma soprattutto, a sorpresa, Gigi Buffon: come avvenne quell’intuizione?

“Su Gigi si sono raccontate tante storie. Si era fatto male il primo portiere (Luca Bucci, ndr), avrebbe dovuto giocare Alessandro Nista: la difficoltà che ebbi fu, appunto, far capire a Nista la situazione. Buffon lo avevamo chiamato tra i grandi per fare il secondo portiere, ma durante gli allenamenti di quella settimana non riuscimmo a fargli gol. Mi avvicinai al preparatore dei portieri, che era Enzo Di Palma, e gli chiesi: ‘Enzo, ma tu stai vedendo quello che sto vedendo io?’ E lui ripose: ‘Nevio, questo è un fenomeno, ma come facciamo a far giocare contro il Milan un ragazzino di 17 anni?’ Era il mercoledì, poi Gigi continuò così il giovedì, il venerdì e il sabato. A quel punto decisi di rischiarlo. Per me se son fenomeni a 15 anni, vanno in campo anche a 15 anni. Chiesi a Gigi: 'se ti faccio giocare cosa mi dici?' Lui rispose: 'Mister che problemi ci sono?'. Era già sicuro di sè e fece una partita straordinaria contro il Milan. Ho rischiato un po’, ma ho avuto ragione. L’anno dopo me ne andai e lui continuò nella sua straordinaria carriera: è stato uno dei portieri più forti di sempre, lo dimostra ancora oggi a 44 anni! Poi io sarò sempre un po’ di parte, perché l’ho lanciato e sono legato a quell’esordio in maniera importante”.

Borussia Dortmund, Besiktas, Shakhtar Donetsk e Spartak Mosca. Quattro esperienze all’estero: cosa le hanno lasciato a livello calcistico e culturale?

“Ho allenato in Ucraina – dove purtroppo in questo momento sta succedendo quello che vediamo – e per la prima volta nella storia abbiamo sconfitto la Dinamo Kiev vincendo il campionato. Era una Dinamo fortissima allenata dal Colonnello Lobanovs'kyj, che da tanti anni era dominatrice del campionato ucraino. Dal punto di vista culturale quella russa è stata un’esperienza magnifica. Viverla come l’ho vissuta io poi… calcisticamente non tanto, fu una stagione molto turbolenta, ma da allenatore dello Spartak mi erano concessi dei privilegi. Mi vennero aperte le porte di tutti i musei e di tutte le bellezze della città, ho visto cose che un normale turista non può vedere. In Germania fu più facile perché padroneggio la lingua tedesca. In Turchia l’esperienza calcistica fu da dimenticare, ma anche lì dal punto di vista culturale… Istanbul è una città che merita un plauso perché ha una bellezza strutturale incredibile”.

Quando e come decise di intraprendere l’attività che porta avanti oggi lasciando definitivamente la panchina?

“Da sempre nei miei momenti di pausa dal calcio, sia quando giocavo che quando allenavo, mi rifugio qui nella mia azienda agricola. Allora era piccola, oggi si è un po’ ingrandita. Stiamo aprendo una cantina bellissima – un recupero di una stalla in un vecchio fienile, che mio figlio architetto è riuscito a riprendere in maniera straordinaria -, vedrà la luce nei prossimi giorni con i primi ospiti che verranno ad assaggiare i nostri vini naturali e biologici. Non mi sono mai stancato di questa attività, la stiamo portando avanti con i miei due figli e mi auguro che possa avere un futuro non solo italiano ma anche europeo”.

 

 

 

 

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