Walter Casagrande: una vita tra gol, democrazia e veleni dell’anima

Walter Casagrande: una vita tra gol, democrazia e veleni dell’anima

Dopo l’esperienza nel Corinthians di Socrates, l’attaccante brasiliano giocò anche in Italia con Ascoli e Torino. La droga per lui fu sempre un problema, acuitosi dopo il ritiro

Paolo Valenti/Edipress

15.04.2023 ( Aggiornata il 15.04.2023 09:06 )

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Ci sono uomini che basta guardarli in faccia per capire che sono diversi. Per niente facili, uomini così poco allineati: li cantava così Ivano Fossati. Quelli che lo comprendi dall’aspetto che dentro hanno mille contorsioni: capelli lunghi, barba incolta anche se davvero rada, abbigliamento casual ai limiti del trasandato e un sorriso bonario che trasmette la parte luminosa di un’anima piena di vuoti che talvolta nella solitudine si riempiono di veleno. Un profilo che calava come un guanto su Walter Casagrande, centravanti brasiliano cresciuto nel Corinthians che per sei anni ebbe modo di giocare anche in Italia. Lungagnone di 191 centimetri che, più che nell’altezza, aveva nella tecnica individuale il suo miglior pregio e che sin da giovane pagò pesanti tributi a una fragilità della volontà che in campo non esibiva.

Casagrande il Mundial '82 sfumato: cosa accadde

Già a 19 anni, infatti, avrebbe potuto dare un’accelerazione importante alla sua carriera partecipando al Mundial di Spagna, quello che il Brasile non riuscì a vincere arenandosi sulla forza dell’Italia e l’inconsistenza di Serginho. Se ci fosse stato Casagrande al suo posto, chissà… Ma il ragazzone di San Paolo era già inciampato in qualche grammo di cocaina. Lui sostenne di essere stato incastrato, fatto sta che le porte della Seleção per lui si aprirono solo tre anni più tardi, il tempo giusto per entrare nella lista dei convocati del Mondiale messicano che glorificò Maradona. E sugli altipiani centroamericani si fermò la sua esperienza con la nazionale. Ma quella vetrina fu probabilmente decisiva per consentirgli di trovare un ingaggio in Europa perché il Porto lo mise sotto contratto. Fu una stagione martoriata dagli infortuni: pochi spiccioli di minuti in campo, una tibia fratturata e una panchina dorata dalla quale, il 27 maggio 1987, poté ammirare i suoi compagni vincere la Coppa dei Campioni.

L'approdo all’Ascoli di Rozzi

In quegli anni la Serie A è il campionato più bello del mondo e andarci a giocare diventa un vanto anche se si indossa la maglia di una squadra provinciale. Così Casagrande non ha problemi a firmare il contratto che gli propone Costantino Rozzi. Ad Ascoli si trova subito bene. Per lui, che con Socrates è stato tra i protagonisti dell’esperienza della Democrazia Corinthiana, l’ambizione sfrenata non è una direttrice sulla quale muovere i passi della vita. “La città era piccola e stupenda. Sono stato benissimo, ai piedi delle montagne e vicino alle spiagge” dirà del capoluogo piceno ricordando quegli anni. I giocatori ne rimangono stupiti: si aspettano un top player con i vizi delle primedonne e si ritrovano un compagno che gira la città con una Croma usata. Gioca coi calzettoni abbassati come in quegli anni il regolamento permette e come si conviene ai giocatori che accarezzano il pallone. È un centravanti ad ampio spettro che viene incontro e va in profondità, si allarga e rientra, colpisce di testa e cerca il dai e vai. Sa dribblare e tirare, due fondamentali che combina alla perfezione quando va al limite dell’area a calciare le punizioni, avvolgenti come sanno esserlo tipicamente quelle dei suoi migliori compatrioti. Il legame con la città è talmente forte che anche quando l’Ascoli retrocede chiede al presidente Rozzi di restare, firmando un contratto a rendimento che aumenta l’ingaggio in funzione degli obiettivi raggiunti. Roba d’altri tempi che sarebbe necessaria anche nel calcio multimilionario e indebitato di oggi. I bianconeri tornano immediatamente in Serie A e Casagrande vince la classifica dei cannonieri.  

Il passaggio al Torino e gli anni in granata

Nel 1991 inizia una nuova avventura al Torino. Qualcosa che sa di epico in una squadra che sul campo esprime i valori atavici di un club che con agonismo, senso di appartenenza e antagonismo proletario fonde i suoi tratti distintivi con quelli dell’allenatore, Emiliano Mondonico. È il Toro dei Pasquale Bruno e degli Annoni, dei Benedetti e dei Policano, dei Fusi e dei Sottil. Ma è anche la compagine dei Cravero, dei Lentini, dei Vazquez e degli Scifo, oltre che di un ancor acerbo Bobo Vieri. È, soprattutto, un collettivo nel quale Casagrande porta il suo impegno democratico e la sua tecnica signorile, contributi essenziali a una stagione che culmina col terzo posto in campionato e, soprattutto, una finale di Coppa Uefa ottenuta a scapito del Real Madrid (al quale Casagrande segna un gol decisivo al Bernabeu), perduta senza subire l’onta della sconfitta, raffigurata nel suo esito infingardo dall’immagine del Mondo che urla la sua rabbia con una sedia levata contro il cielo. Sarà solo la Coppa Italia del 1992-93 a lenire in parte quel rammarico che nella storia granata profuma di epopea, come i due gol che Casagrande inflisse alla Juventus la stagione precedente, in un derby che lo rese un dannato contrattempo per due spettatori d’eccezione: Gianni Agnelli e Henry Kissinger.

Walter Casagrande e i problemi con la droga

Quando Walter lascia l’Italia per tornare in Brasile, la fine della carriera è una questione di tre anni e briciole di partite. Non è più calciatore, non ne ha nemmeno così bisogno: sa usare il cervello, sa declinarsi in altri contesti. Si interessa di politica, ama il rock e il teatro, ha proprietà di linguaggio che sa sciorinare per esprimere idee non convenzionali. Eppure certe mancanze interiori non riesce a riempirle se non con la droga. Dall’hashish alla coca fino ad arrivare all’eroina, Walter non è mai riuscito a negarsi nulla, nemmeno quando l’età più matura e la famiglia potevano aiutarlo a compiere scelte diverse. Arriva a perdere la moglie e quasi la vita dopo più di un’overdose e un infarto. Un’esistenza calpestata, quasi buttata via e alfine salvata grazie a una tempra fisica fuori dal comune e a una capacità di redenzione messa ogni giorno alla prova. Se è vero, come annotava Renato Zero, che un drogato è soltanto un malato di nostalgia, Casagrande è stato un poeta maledetto che l’ha espressa fin quasi allo struggimento finale. Anche se in campo le sue liriche parlavano di felicità. 

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