Picchio De Sisti, l’architetto che disegnò calcio tra Roma e Firenze

Picchio De Sisti, l’architetto che disegnò calcio tra Roma e Firenze

Cresciuto nel vivaio giallorosso, con la Fiorentina arrivò allo scudetto nel 1969. Fu tra i protagonisti dell’Italia di Valcareggi, con cui vinse l’Europeo e giocò la finale a Messico ’70

Paolo Valenti/Edipress

13.03.2023 ( Aggiornata il 13.03.2023 15:22 )

  • Link copiato

C’era anche lui tra i ragazzi che festeggiavano in uno stadio Olimpico incendiato dalla gioia della vittoria del primo trofeo che la Nazionale otteneva nel dopoguerra. Picchio De Sisti, al secolo Giancarlo, non sapeva che quello era il primo atto di un biennio (1968-70) nel quale la sua luminosa carriera avrebbe attraversato il momento migliore. Protagonista nella vittoriosa finale contro la Jugoslavia che portò all’Italia il suo primo titolo Europeo, nella stagione successiva De Sisti fu tra gli artefici del secondo scudetto della Fiorentina che, in quegli anni di cambiamento, portava la rivoluzione nelle gerarchie del calcio italiano. Nel 1970 fece parte della spedizione mondiale in Messico, imprescindibile per il CT Valcareggi che, perennemente in bilico nella scelta tra Mazzola e Rivera, a De Sisti non rinunciò mai per via della sua abilità nel dare equilibrio a una squadra che senza di lui avrebbe rischiato di rimanere spezzata in due.

Picchio De Sisti e gli inizi con la Roma 

Era questo, dal punto di vista tecnico, il tratto distintivo di Picchio: saper ragionare, assemblare gli elementi del gioco resi disponibili dai compagni in un progetto funzionale in grado di portare la squadra all’ottimizzazione del rendimento. Aveva una capacità di domare il pallone mai fine a se stessa che usava come mezzo per progettare azioni e gestire tempi di gioco. Un’arte che aveva appreso da Juan Alberto Schiaffino durante gli allenamenti dei primi anni Sessanta, quando De Sisti aveva realizzato il sogno di una famiglia tutta romanista esordendo in Serie A con la maglia giallorossa. Prodotto del vivaio, era entrato nelle giovanili grazie a un provino che gli aveva procurato un amico del padre. Fu subito Picchio per via della similitudine delle sue movenze a quelle di una trottola di legno, che in romanesco viene appunto chiamata così. Il percorso a braccetto con la Roma è un sogno a occhi aperti: la vittoria della Coppa Italia nel 1964 (quando De Sisti, a ventuno anni, è ormai titolare della squadra) più che la Coppa delle Fiere del 1961, quando il ragazzo fa solo parte della rosa, sono il presagio della sua carriera. Che però, con la squadra del cuore, si interrompe bruscamente nell’estate del 1965, quando le casse della Roma (nihil sub sole novum) sono più aride del deserto del Mojave. È la stagione della penosa colletta del Sistina e per finanziare la società è necessario vendere i migliori giocatori. De Sisti è tra questi e la sua cessione alla Fiorentina (la prima squadra alla quale fece gol in Serie A l’11 marzo 1962) è cosa fatta per tanti milioni più Benaglia.

I nove anni a Firenze e lo scudetto del 1969

 All’inizio ci rimane male. Il suo mondo affettivo è legatissimo alla Capitale: genitori, fidanzata, amici, squadra amata. Ma Firenze, dopo avergli fatto i ponti d’oro, lo coccola come un re. È la Fiorentina ‘jèjè’, quella frizzante costruita sulla voglia di emergere dei giovani che nel 1969 vince lo scudetto. È la squadra esuberante di Merlo, Amarildo e Chiarugi. Ma è anche la compagine nella quale spicca la personalità sobria e cristallina di De Sisti, allenatore delegato in campo: “Faccia lei, De Sisti” gli concedeva il tecnico Pesaola quando lui non riusciva a intervenire in prima persona. Trasparente nel portare il suo carattere anche in campo, Picchio era votato, per città di nascita e d’adozione, alla visione creativa del gioco. L’armonia e la bellezza delle piazze e delle chiese romane e fiorentine gli avevano fatto respirare la forza dell’equilibrio e la potenza delle geometrie. In una concezione artistica del calcio, De Sisti era Brunelleschi più che Botticelli, struttura architettonica più che dipinto estatico. Varcata la soglia dei trent’anni, Firenze avrebbe potuto essere la sua ultima magione. Se non fosse stato per l’arrivo di Gigi Radice, col quale Picchio ebbe un rapporto infelice che lo spinse, al termine della stagione 1973-74, a chiedere la cessione.

Il ritorno nella Capitale

Certi amori fanno giri immensi e poi ritornano. Così, dopo aver sciacquato i panni in Arno, De Sisti decise di tornare a Roma nonostante le lusinghe dell’Inter. Lo aspettava Liedholm per dargli in mano le chiavi della squadra e utilizzarlo come un Falcão ante litteram. Coi giallorossi spende le ultime cinque stagioni del suo cammino professionale, facendo in tempo a intravedere l’evoluzione del calcio che sarebbe arrivata. Nel 1979 Liedholm, all’alba del suo secondo mandato sulla panchina della Roma, gli chiese di non ritirarsi. Ma Picchio capì che lo scudetto che il presidente Viola già preconizzava per lui era solo una terra promessa: così rimase fermo nella sua decisione. Del Barone, però, accolse il suggerimento di studiare da allenatore, diplomandosi a Coverciano e guidando la Fiorentina al doloroso secondo posto del 1981-82, miglior risultato di una carriera da tecnico frenata da qualità umane sempre meno di moda nel mondo del calcio: rispetto, educazione e voglia di lavorare senza proclami.

Condividi

  • Link copiato

Commenti