        Due artisti del pallone che fu; geni che udite udite, non hanno mai vestito la maglia della Nazionale: Vincenzo D&rsquo;Amico ed Evaristo Beccalossi. Sono i fantasisti di due scudetti operai: D&rsquo;Amico con la Lazio del &rsquo;74 timonata da Tommaso Maestrelli, venuto dal nulla e accolto con scetticismo, in grado di tramutare i &ldquo;clan&rdquo; interni dello spogliatoio in un gruppo vincente; Beccalossi con l&rsquo;Inter nel 1980, guidata dal Sergente di ferro Eugenio Bersellini, capace di surclassare una Juve pi&ugrave; attrezzata e in procinto di fare man bassa di trofei in Italia e in Europa negli anni a venire.  D&rsquo;Amico &Egrave; ancora un teenager Vincenzino quando Maestrelli lo lancia nel &rsquo;72: debutta non ancora 18enne all&rsquo;Olimpico contro il Modena, schierato in attacco al fianco di Chinaglia e Massa. &Egrave; proprio l&rsquo;addio di Peppiniello &ndash; trasferitosi all&rsquo;Inter &ndash; a lasciargli il posto in squadra. Vincenzino per&ograve; &egrave; sfortunato: si rompe il ginocchio ed &egrave; costretto a saltare l&rsquo;intero campionato alle porte. Sarebbe stato il suo primo in Serie A. Si rifar&agrave; diventando il Golden Boy del primo scudetto. Equilibratore di fantasia nel tridente di Maestrelli; lasciato fuori dalle faide interne al gruppo &ndash; sotto l&rsquo;ala protettiva del capitano Pino Wilson, delegato di controllarlo anche a tavola &ndash;, il ragazzino venuto da Latina scoppia in lacrime quando segna la prima rete in Serie A (su assist di tacco di Chinaglia) e ritrova il gol nel giorno pi&ugrave; importante, quello del derby di ritorno, pareggiando la sfida che Long John infiamma indicando la Sud. Una stracittadina passata alla storia che proietta la Lazio a +4 sulla Juve avvicinandola al tricolore. Uno scudetto che arriver&agrave; un mese e mezzo pi&ugrave; tardi, del quale Vincenzo D&rsquo;Amico rimarr&agrave; per sempre &ldquo;faccia pulita&rdquo; in mezzo ai volti dei vari bad boys che giocavano nella turbolenta Roma degli anni &rsquo;70.  Beccalossi Gli stessi anni in cui emerge calcisticamente il classe &rsquo;56 (due primavere in meno di D&rsquo;Amico) Evaristo Beccalossi. Un trequartista geniale che sboccia nel torneo 1976, nella sua Brescia in Serie B. L&rsquo;Inter lo acquista solo nel &rsquo;78, un anno dopo aver prelevato, sempre dalle Rondinelle, il suo grande amico Spillo Altobelli. A Milano Beccalossi diventer&agrave; un&rsquo;icona: un po&rsquo; per il modo di giocare, un po&rsquo; per il modo di essere. "Non ero un guerriero, mi allenavo poco, accendevo spesso e volentieri una Marlborina. Bersellini tent&ograve; di raddrizzarmi, ma fu tutto inutile". Il Becca &egrave; cos&igrave;, prendere o lasciare. E per i tifosi Bauscia i trucchi mostrati in campo hanno sempre prevalso sulla discontinuit&agrave; emersa nella carriera del fantasista bresciano. Genio e sregolatezza, come quando nel 1979-80 stende il Milan con una doppietta di destro: delizioso il primo tocco al volo; facile facile il secondo. &Egrave; quella la prestazione che ispira la celeberrima frase &ldquo;Sono Evaristo, scusate se insisto&rdquo;: "Merito del mio grande amico Beppe Viola. Dopo quel derby uscendo dallo stadio sent&igrave; un tifoso che diceva quella frase. La ripet&eacute; in televisione e da allora...".  Rigori e bandiere Evaristo insiste anche il 15 settembre &rsquo;82, Coppa Coppe, Inter-Slovan Bratislava: "Ero il primo rigorista, arrivo l&igrave; e sbaglio. Pazienza, succede. Dopodich&eacute;, secondo rigore. La regola era ferrea: se il rigorista principale sbaglia, tocca al secondo. Mi giro e vedo il secondo rigorista che corricchia all&rsquo;indietro verso centrocampo e capisco l&rsquo;antifona". Due rigori sbagliati resi ancora pi&ugrave; popolari a teatro dal comico Paolo Rossi, che li inser&igrave; nel suo show, prima di &ldquo;cantarne le gesta&rdquo; anche nella trasmissione &ldquo;Su la testa&rdquo;, andata in onda su Rai 3 nel &rsquo;92. Come il Becca &ndash; che in carriera ne ha comunque realizzati 17 sbagliandone solo 3 &ndash; anche D&rsquo;Amico si presentava spesso dagli 11 metri (14 segnati, 3 falliti). Si prendeva le responsabilit&agrave; Vincenzino: ceduto controvoglia al Toro e tornato in fretta e furia per mantenere a galla una Lazio vicina al baratro, orfana di Giordano, Wilson e Manfredonia. La sua fiamma biancoceleste in campo resta accesa fino al 1986, quando lascer&agrave;, forse tramandando qualcosa ai ragazzi che scriveranno l&rsquo;impresa del -9. Come dicevamo, una carriera ad alti livelli senza Nazionale. Rimpianto per D&rsquo;Amico, che da giovane ha vestito l&rsquo;azzurro dell&rsquo;Italia B, dell&rsquo;U-18, dell&rsquo;U-23 e di quella militare. Ancora pi&ugrave; grande il rammarico per Evaristo, che negli anni &rsquo;80 &egrave; addirittura salito di livello, sfiorando la finale di Coppa Campioni 1981, giocando un campionato 1981- 82 da urlo e agitando proteste popolari quando Bearzot lo escluse dal Mundial. Beccalossi rappresenta una delle ultime maglie di lana nerazzurre con su cucito il numero 10, quasi un&rsquo;icona pop; D&rsquo;Amico con quella faccia d&rsquo;angelo non poteva finire all&rsquo;inferno, cos&igrave; come la sua amata Lazio alla quale ha dedicato una vita. Regista offensivo, mancino, dribblomane &ndash; o Driblossi, come lo chiamava Brera &ndash; e meno faticatore Beccalossi; destro, schierato prevalentemente in fascia, terribile nello stretto e abile crossatore D&rsquo;Amico. Diversi in campo e fuori, entrambi romantici interpreti del calcio che fu.        

Vincenzino ed Evaristo, calciatori fantastici, adorati dai loro tifosi, non sono per&ograve; mai riusciti a giocare con la maglia della Nazionale italiana

Lazio-Inter: gli anni d'oro di D'Amico e Beccalossi

        &laquo;Alla Lazio sono arrivato nel miglior momento della mia carriera. Ho giocato solo un anno nella Capitale, ma &egrave; stata un&rsquo;esperienza straordinaria che mi ha permesso di crescere e di portare a casa un trofeo, che a Roma mancava da tanti anni. All&rsquo;Inter, invece, sono arrivato a fine carriera e dopo un problema fisico. Sono state due esperienze completamente diverse&raquo;. Una stagione in maglia biancoceleste, due con l&rsquo;Inter. Vladimir Jugovic ha scritto pagine importanti nella storia del calcio italiano e internazionale. Ha vinto scudetti, coppe nazionali e internazionali. Alla Stella Rossa come alla Sampdoria e la Juventus fino alla Lazio. Il suo nome &egrave; accostato alle vittorie pi&ugrave; importanti dei club in cui ha militato. Ha battuto il rigore decisivo che permise alla Juventus di Lippi di portare a casa una Champions League, nella finalissima contro l&rsquo;Ajax. Arrivato nella Capitale l&rsquo;estate del 1997, si &egrave; subito catapultato nell&rsquo;ambiente biancoceleste, contribuendo a far partire quel processo di crescita che ha portato la Lazio di Eriksson e Mancini (con i quali aveva gi&agrave; lavorato e vinto alla Sampdoria) a trionfare in Italia e in Europa. Con il club romano ha giocato solo 42 partite, ma gli sono bastate per entrare nel cuore dei tifosi, che non l&rsquo;hanno mai dimenticato. Ancora oggi il suo nome &egrave; spesso menzionato nelle formazioni che ricordano i migliori calciatori che hanno vestito la maglia della Lazio. &laquo;Mi chiamavano &ldquo;Mezzasquadra Jugovic&rdquo;. Non &egrave; poco. Ho cercato di portare a Roma la mia esperienza e la mia qualit&agrave; e devo dire che &egrave; stata una stagione molto importante. Abbiamo giocato due finali, portato a casa una Coppa Italia e vinto quattro derby. &Egrave; stato molto bello e gratificante&raquo;. La sua Lazio era una squadra che stava crescendo e che nel giro di pochi anni avrebbe lottato e portato a casa lo scudetto. &laquo;Abbiamo iniziato un ciclo vincente. La squadra era in crescita, ma non ancora pronta per lottare su tre fronti. A un certo punto eravamo in corsa per tutto, ma alla lunga abbiamo pagato una rosa non pronta per certi livelli. Abbiamo vinto una Coppa Italia battendo allo stadio Olimpico il Milan di Capello, ma abbiamo perso la finale di Coppa Uefa contro l&rsquo;Inter e non siamo riusciti a dare continuit&agrave; ai risultati in campionato, dove abbiamo perso troppi punti nel finale. Siamo arrivati stanchi e con qualche problema. Purtroppo non eravamo ancora pronti per lottare su tre fronti&raquo;. Ma quella Lazio &egrave; tornata, dopo 24 anni a riaprire la bacheca. Cosa ricorda di quella finale di Coppa Italia, vinta con il Milan? &laquo;L&rsquo;ultimo trofeo fu lo scudetto del 1974. A distanza di anni mi resta la soddisfazione di aver contribuito a quelle vittorie. Sono arrivato a Roma e subito, al primo anno, siamo tornati a vincere e a lottare per portare a casa trofei. &Egrave; stato bello pensare di aver contribuito a questo processo di crescita&raquo;. Lei ha segnato il rigore decisivo in una finale di Champions League. Segnarne uno in una finale di Coppa Italia sar&agrave; stato molto pi&ugrave; semplice. &laquo;No, non &egrave; cos&igrave;. Quando scendi in campo, soprattutto in gare che valgono un trofeo, hai una grande responsabilit&agrave;. Non sei solo. Non giochi per te. Ma per tutti i tifosi che sono allo stadio e che ti guardano in tv. Per tutti quelli che aspettano di poter festeggiare una vittoria. Ecco perch&eacute; mi piace pensare che quel rigore (quello del momentaneo 2-1 nella finale di ritorno, ndr) non l&rsquo;ho battuto da solo. Insieme a me c&rsquo;erano tutti i tifosi a spingerlo in rete&raquo;. Una sola stagione nella Capitale: due finali e una coppa in bacheca. &laquo;Per me vincere era una cosa normale. Ho avuto la fortuna e la bravura di portare a casa un titolo in quasi tutte le squadre in cui ho militato. Era il mio obiettivo. La mia missione. Io volevo vincere sempre e con chiunque. Riuscirci con quattro squadre diverse, molte di queste poi non abituate a lottare costantemente per un trofeo, non &egrave; come vincere un titolo con il Real Madrid. Regala molte pi&ugrave; gratificazioni. &Egrave; una delle soddisfazioni pi&ugrave; grandi della mia carriera&raquo;. Una settimana dopo il successo in Coppa Italia, arriva la finale di Coppa Uefa. La sua Lazio viene nettamente battuta dall&rsquo;Inter. Cosa successe? &laquo;Siamo arrivati alla fine della stagione senza benzina. Le rose delle squadre di oggi, soprattutto quelle che lottano per portare a casa i trofei, sono extra large e ricche di calciatori. Ogni societ&agrave; di livello ha due o tre squadre. Noi, in quella stagione, non eravamo ancora pronti. Siamo arrivati alla finale di Parigi stanchi, in difficolt&agrave; e con qualche assenza. In pi&ugrave; la vittoria della Coppa Italia ci aveva anche un po&rsquo; rilassato. A Roma &egrave; cos&igrave;. Quando vinci rischi di staccare un po&rsquo; la spina. Loro erano forti, avevano Ronaldo ed erano molto pi&ugrave; concentrati di noi. Peccato perch&egrave; in campionato li avevamo battuti nettamente. Nelle stagioni successive la Lazio si organizz&ograve; e complet&ograve; la rosa&raquo;. Senza Vladimir Jugovic, per&ograve;. &laquo;Tutta colpa di Bobo Vieri (ride, ndr). Mi chiamava ogni giorno per raggiungerlo all&rsquo;Atletico Madrid. Lui e Sacchi. Vuoi sapere come fin&igrave;? Mi corteggiarono tantissimo, mi convinsero, poi quando io arrivai a Madrid, Vieri venne alla Lazio e Sacchi si dimise dopo poche settimane. Quella stagione fu negativa. Mi infortunai, non venni curato bene e i problemi continuarono per tutto il campionato. Anche la stagione successiva, quando passai all&rsquo;Inter, potevo dare di pi&ugrave;, ma non stavo benissimo e le cose non andarono come avrei voluto&raquo;. Nella stagione alla Lazio ci furono anche le quattro vittorie consecutive nei derby. &laquo;Ero in un momento magico, forse al top della mia carriera. Sono riuscito a trasferire alla squadra la mia esperienza e abbiamo ottenuto risultati eccezionali. Segnai in almeno due stracittadine. Vincere contro la Roma di Totti quattro volte di fila non &egrave; una cosa di poco conto. E tutti i tifosi lo sanno. Anche per questo io, insieme ai miei compagni, siamo ricordati con affetto. Eravamo un bel gruppo. C&rsquo;era Mancini, un grandissimo giocatore, Signori, Casiraghi, Nesta che stava crescendo, Favalli, Negro, Rambaudi, Boksic. Una squadra forte, che ha saputo lasciare il segno&raquo;. &nbsp;       

&laquo;Mi chiamavano &ldquo;Mezzasquadra&rdquo;, ho cercato di portare qualit&agrave; ed esperienza. Vincere in biancoceleste &egrave; stato bellissimo!&raquo;&nbsp; Poi l&rsquo;esperienza in nerazzurro: &laquo;Potevo dare di pi&ugrave;&raquo;

Jugovic: «Alla Lazio ero al top, all’Inter potevo fare di più»

        Che domenica il 5 maggio 2002! &Egrave; l&rsquo;ultima giornata di un campionato equilibrato che porta sul filo di lana tre squadre nel giro di due punti: l&rsquo;Inter con 69, la Juventus con 68 e la Roma con 67. Tutto &egrave; ancora possibile anche se i favori del pronostico vanno alla squadra nerazzurra, attesa da una partita in trasferta all&rsquo;Olimpico dove il pubblico sar&agrave; tutto dalla sua parte. Gi&agrave;, perch&eacute; i tifosi della Lazio sarebbero felici di una eventuale vittoria di Ronaldo e compagni per obblighi di ospitalit&agrave; dettati dal gemellaggio coi colleghi interisti e per lo smacco che l&rsquo;affermazione arrecherebbe a Juventus e Roma, in competizione coi nerazzurri in una situazione di classifica che, all&rsquo;ultima giornata di campionato, non si vedeva da tempo. Crollo Inter e le lacrime di Ronaldo La Lazio, poi, &egrave; costretta ad affrontare la partita in condizioni sfavorevoli: Crespo e Claudio Lopez sono infortunati, Liverani &egrave; squalificato mentre Zaccheroni &egrave;, di fatto, alla sua ultima panchina biancoceleste. Di contro l&rsquo;Inter ha tutti gli stimoli necessari per imporsi, a livello collettivo (non vince il titolo da tredici anni) e individuale: Hector Cuper, l&rsquo;allenatore, vuole dimostrare di non essere un perdente di successo, dopo essere uscito sconfitto da tutte le finali a partita unica disputate fino a quel momento. Mentre il Fenomeno Ronaldo, dopo il bruttissimo infortunio subito all&rsquo;Olimpico due anni prima proprio contro la Lazio, vuole cancellare quel ricordo legato allo stadio romano con un&rsquo;affermazione importante. Il calcio, per&ograve;, &egrave; sport talvolta imprevedibile, nemico dell&rsquo;ovvio, portato a flirtare con le insondabili profondit&agrave; delle emozioni. Forse &egrave; per questo che Lazio-Inter, nel suo dipanarsi, decide di seguire un copione surreale nell&rsquo;avvicendarsi di gol ed errori che portano l&rsquo;Inter a essere campione d&rsquo;Italia per venti, effimeri minuti: quelli che passano tra il gol del 2-1 segnato di testa da Di Biagio e il pareggio firmato da un effervescente Poborski, gi&agrave; autore della prima rete laziale. L&rsquo;intervallo non rigenera le energie degli uomini di Cuper, evidentemente sommersi dall&rsquo;ansia di una vittoria che non arriva facile come doveva. Cos&igrave;, contro tutti i pronostici, &egrave; la squadra di Zaccheroni a dilagare: il terzo gol del &ldquo;Cholo&rdquo; Simeone e il sigillo finale di Simone Inzaghi affondano definitivamente un sogno che la Milano nerazzurra coltiva da tredici anni. Dal polverone dell&rsquo;Olimpico escono le lacrime inconsolabili di Ronaldo e Materazzi, le recriminazioni offuscate di Moratti (&ldquo;I miei giocatori sono dei poveri cristi, ma spero che i nostri avversari abbiano vinto per se stessi e non per conto di altri&rdquo; dichiara in un caldo dopo partita) e, soprattutto, il trionfo della Juventus, che mette in bacheca il suo ventiseiesimo scudetto.        

Il 5 maggio 2002, nell'ultima giornata di campionato, biancocelesti e nerazzurri si affrontarono all'Olimpico. L'attuale tecnico della Lazio segn&ograve; il gol del definitivo 4-2 che tolse alla squadra di Cuper uno scudetto che sembrava gi&agrave; vinto

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