Ernst Happel: il calcio fino alla fine

Ernst Happel: il calcio fino alla fine

Eccellente calciatore prima, leggendario allenatore poi, uno dei più grandi di sempre. Vinse due Coppe dei Campioni con Feyenoord e Amburgo. Ha dedicato la sua vita al calcio, fino all'ultimo: ci lasciava il 14 novembre del 1992

Paolo Marcacci/Edipress

14.11.2022 ( Aggiornata il 14.11.2022 16:20 )

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Senza alcun problema al tallone, Achille batteva i calci di rigore senza rincorsa. Era con quel soprannome mitologico che i tifosi del Rapid Vienna avevano ribattezzato Ernst Happel, superbo difensore centrale quanto a prestanza fisica, con una qualità tecnica nel palleggio che all’epoca, nell’immediato Dopoguerra, ne faceva già un grandissimo regista difensivo, definizione che a quel tempo equivaleva più o meno a quella di marziano. Achille, peraltro, quello dell’Iliade, non avrebbe mai dato il suo nome a uno stadio.

Classe 1925, la sua storia da calciatore sposa i destini del Rapid Vienna, in un decennio, quello degli anni cinquanta, in cui la scuola calcistica austriaca ancora faceva parte dell’eccellenza europea. Con il Mondiale svedese del 1958 concluse di fatto le sue cinquantuno partite in nazionale: aveva già fatto cose che sarebbero rimaste nella storia, ma una volta divenuto allenatore se la sarebbe presa, la storia.

Le vittorie al Feyenoord e al Bruges

Un passaggio dirigenziale come direttore sportivo al Rapid, poi l’inizio dell’avventura da tecnico, sbocciata in Olanda sulla panchina del Den Haag, in quella che sarebbe diventata la sua patria d’elezione. Qualcosa di più di un tirocinio, vista la vittoria della coppa nazionale del 1968, battendo l’Ajax in finale. Un Ajax già fortissimo, che stava per prendersi l’Europa. Ma prima dei Lancieri di Amsterdam, un’altra olandese sarebbe salita sul trono continentale: il Feyenoord, vincitore della Coppa dei Campioni nel 1970. A guidarlo in panchina era nel frattempo arrivato lui, Ernst Happel, portatore di un calcio fatto di intensità, schieramento a zona in difesa, pressing asfissiante e un livello di corsa futuribile. Come a dire che se non ci fosse stato Ernst Happel prima, avrebbe tardato ad affermarsi uno come Rinus Michels, il demiurgo dell’Ajax di Cruijff. Ma in quegli stessi anni Happel aveva già cambiato di nuovo aria, accettando la guida - e la sfida - del Bruges, in Belgio, dove i suoi metodi diventano il paradigma della più ferrea disciplina: memorabile resta l’episodio del periodo vicino alle feste di Natale del 1975, quando prima di salire sull’aereo per la partita di Coppa UEFA con la Roma, fece sostenere ai suoi un allenamento alle sette del mattino.

Il Mondiale del 1978 con l'Olanda

Due finali, una UEFA e una di Coppa dei Campioni, entrambi perse contro il Liverpool. Subito dopo, la panchina dell’Olanda per il Mondiale argentino del 1978: una nazionale senza Cruijff, per motivi mai del tutto chiariti; ugualmente fortissima come quella di Michels nella Coppa del Mondo del 1974, ma in modo diverso: più spartana tatticamente, con un atletismo finalizzato a un tipo di football più conservativo rispetto a quello dell’Arancia Meccanica; in grado comunque di raggiungere la finale contro l’Argentina padrona di casa e spinta anche dal vento della dittatura, di cogliere un palo con Rensenbrink quasi allo scadere del tempo regolamentare, di tirarla fino ai supplementari.

La seconda Coppa dei Campioni con l'Amburgo e gli ultimi anni

L’inizio degli anni ottanta lo trova intento a far grande l’Amburgo, Campione di Germania nel 1982 e nel 1983, quando vince anche la Coppa dei Campioni nella finale di Atene contro la Juventus, con il gol di Felix Magath. Il prosieguo del decennio lo vede far ritorno in Austria per fare grandi cose, ancora una volta grandi cose, stavolta con il Tirol di Innsbruck.
Il suo corpo era rimasto monumentale, possente, quasi gladiatorio; anche per questo negli anni era riuscito a ottenere rispetto da generazioni e generazioni di calciatori che erano passati sotto la sua guida tecnica: per il timore che incuteva quando la sua ombra si proiettava, lunga e spessa, sulla parete sopra il muro dov’era sistemata la panca dello spogliatoio. Di qualsiasi spogliatoio, a qualsiasi latitudine.

Aveva intenzione di conoscerne chissà quante altre, tante quante le sfide che aveva il gusto di accettare. Ma il tempo cominciò a scarseggiargli di colpo, dentro la clessidra; svanirono troppo rapidamente i granelli così come i chilogrammi che improvvisamente gli fuggivano via dal giro vita: ne aveva persi più di cinquanta, in un tempo innaturale, all’inizio del 1990. Una diagnosi spietata: tumore allo stomaco. Ogni altro individuo, o quasi, penserebbe soltanto a riposare, a gestire i giorni che restano. Lui accettò, all’inizio del 1990, a furor di popolo e di governo, la Nazionale austriaca: con il volto un tempo quadrato da lanzichenecco e ora scheletrico, con il corpo divenuto filiforme dentro la tuta d’ordinanza, parlava di programmi e di rinascita del football del suo paese, che non era mai stato ridotto peggio di così e quando lo diceva sembrava che al contempo stesse parlando di sé.

Il 14 novembre del 1992, a soli sessantasette anni, Ernst Happel vedeva scadere il proprio tempo, dopo aver vinto ovunque fosse stato, rivincendo all’occorrenza. Troppo presto si fece mancare la vita; il calcio mai, fino all’ultimo.

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