Ousmane Dabo, intervista al doppio ex di Lazio e Atalanta

Ousmane Dabo, intervista al doppio ex di Lazio e Atalanta

L'ex centrocampista ricorda le esperienze vissute a Bergamo e nella Capitale: "La Dea mi ha dato fiducia, ma quei trofei in biancoceleste..."

Paolo Colantoni/Edipress

11.02.2023 ( Aggiornata il 11.02.2023 15:33 )

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Due stagioni a Bergamo con la maglia dell’Atalanta, sei a Roma, vestendo i colori biancocelesti. Ousmane Dabo è legato a doppio filo ai due club. A Bergamo ha vissuto la prima, vera stagione da protagonista in Serie A, diventando leader del centrocampo nerazzurro; con la Lazio ha vinto tre trofei, ha giocato in Champions League e si è tolto la soddisfazione di segnare il rigore decisivo in una finale di Coppa Italia, accostando per sempre il suo nome a quello del club biancoceleste. "È una bella soddisfazione – dichiara – sapere a distanza di tanti anni di essere ricordato con affetto, fa piacere. Lo vedo ogni volta che vengo a Roma e dai messaggi che mi arrivano sui social. I tifosi della Lazio sono sempre stati molto vicini a me". Dabo è arrivato in Italia giovanissimo, poco più che ventenne, scoperto dall’Inter. I nerazzurri lo fanno esordire, poi lo mandano in giro per fare esperienza: Vicenza, Parma, il Monaco. L’estate del 2001, entra in scena l’Atalanta. "È stata la prima squadra che mi ha permesso di trovare stabilità. Prima dell’esperienza a Bergamo giravo di club in club: un anno, sei mesi, senza riuscire a giocare con continuità. L’Atalanta invece mi ha dato fiducia".

Che squadra era la sua Atalanta?

"Era una buona squadra, guidata da Vavassori. Un mix di giovani e calciatori di esperienza. C’era Luciano Zauri, che poi è venuto con me alla Lazio e tanti buoni elementi: Doni, Sala, Comandini, Rossini. Un bel gruppo, con giocatori di livello".

Cosa ricorda di quell’esperienza?

"Che ho segnato con regolarità: se non ricordo male il secondo anno feci addirittura quattro gol in campionato. Purtroppo però ho chiuso la mia esperienza a Bergamo con una grande delusione".

Quale?

"La retrocessione in Serie B. Perdemmo lo spareggio con la Reggina. Di quell’anno ho ricordi contrastanti, perché credo sia stata in assoluto la mia migliore stagione in Serie A, ma aver chiuso con la retrocessione è stato un duro colpo".

L’estate del 2003 arriva la Lazio.

"La buona stagione all’Atalanta mi ha permesso di tornare, dopo l’esperienza all’Inter, in una squadra di livello. Sono arrivato a Roma e c’erano campioni come Stam, Mihajlovic, Claudio Lopez, Peruzzi e Mancini come allenatore. Un altro mondo. Ma la cosa che mi colpì subito fu la compattezza della squadra. Giocatori che ancora oggi sento e che mi fa piacere rivedere: Giannichedda, Corradi, Fiore, Fernando Couto, Liverani. Siamo riusciti a formare un gruppo unito".

In un periodo difficile.

"La società era in crisi. C’era il piano Baraldi, gli stipendi non arrivavano. Ma la squadra era affiatata e grazie a quel gruppo così forte, siamo riusciti ad andare avanti. Il lavoro di Mancini è stato fondamentale. Lui era molto esigente in campo, bravissimo tatticamente e con i calciatori seppe legare subito: con molti di loro era stato anche compagno di squadra. Con Sinisa, Negro, Favalli aveva condiviso lo spogliatoio da giocatore e riuscì a ottenere il massimo da tutti".

Nel 2004 vincete la Coppa Italia nella doppia finale con la Juve.

"Una grande vittoria, emozionante. Poi però, a distanza di poche settimane, cambia tutto. Una nuova società, con l’arrivo di Lotito, tanti giocatori che vanno via".

Lei era uno dei pochi a far parte del ritiro in Giappone, con Caso allenatore.

"Eravamo pochissimi: nove giocatori e tanti Primavera. C’era grande incertezza, ma io nella mia testa non ho mai pensato di andare via. Mi sentivo bene a Roma e volevo far parte del nuovo progetto".

La svolta, anche per lei, è arrivata con Delio Rossi.

"Non fu facile. All’inizio il presidente voleva mandarmi via, per questioni contrattuali. Non giocai tutto l’Intertoto, con la squadra che venne eliminata dal Marsiglia. Ma volevo rimanere a tutti i costi; mi sono messo a lavorare tanto e ho trovato spazio. Alla fine sono diventato titolare, giocando con Liverani. C’erano anche Firmani e Mudingayi. Facemmo un’ottima stagione".

Lascia la Lazio, l’estate del 2006 per andare al Manchester City, ma torna dopo un anno e mezzo.

"In Inghilterra non andò bene. Tornai alla Lazio in un periodo in cui la squadra era in difficoltà e, probabilmente, serviva una figura come la mia per ritrovare un po’ di equilibrio nello spogliatoio. Ho lavorato tanto per far ritrovare serenità nel gruppo".

E lascia il segno, segnando il gol decisivo nella finale di Coppa Italia 2008-09 contro la Sampdoria.

"Una pressione incredibile. Io non volevo calciarlo quel rigore. Anzi, ti dirò di più: alla fine dei supplementari volevo uscire, perché avevo i crampi. Il mister però si oppose e quasi mi costrinse a calciare (ride, ndr). Altrimenti erano rimasti solo i difensori. Ma camminando verso il dischetto sentivo che avrei fatto gol. Era il mio destino: ero tornato a Roma per regalare ai tifosi un trofeo".

In realtà ne ha vinto un altro.

"La Supercoppa italiana. Siamo stati l’unica squadra a battere l’Inter del Triplete di Mourinho. Loro erano fortissimi, ma eravamo a inizio stagione e non stavano benissimo. Una grande vittoria, seppur inaspettata. Il mio regalo d’addio, perché l’ultima stagione ho avuto tanti problemi fisici. Ma è stato bello chiudere salutando tutti i tifosi della Lazio che mi hanno sempre voluto bene".

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