Paolo Negro: "Che emozioni la mia Lazio. Il 14 maggio ci credevo!"

Paolo Negro: "Che emozioni la mia Lazio. Il 14 maggio ci credevo!"

L'ex difensore ripercorre la sua carriera: dalle origini fino all'epopea biancoceleste. "Quella mattina dissi a mia moglie, 'esistono i miracoli'. Il resto è storia”

Alessio Abbruzzese/Edipress

16.04.2022 ( Aggiornata il 16.04.2022 08:59 )

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Paolo Negro ha scritto, nell’arco dei dodici anni passati a Roma, le pagine più belle e vincenti della storia della Lazio. Cresciuto a Brescia, prima di esordire in Serie A a Bologna ancora giovanissimo, ha legato indissolubilmente il suo nome ai colori biancocelesti. A fine carriera si è tolto diverse soddisfazioni anche con la maglia del Siena. Lo abbiamo raggiunto in occasione dei suoi 50 anni per ripercorrere insieme le tappe della sua grande carriera.

Sei stato, oltre che un grande centrale, anche terzino destro. Eppure da giovanissimo hai iniziato attaccante, come è avvenuta questa trasformazione?

“Sì, è vero. Da ragazzino giocavo come attaccante, a Brescia. Poi verso i 17 anni quasi per caso cambiammo e iniziammo a giocare a zona e provarono a indietreggiarmi, schierandomi difensore centrale. Si resero conto che ero bravo, di lì a un anno giocavo in Serie A”.

Chi era il tuo idolo da bambino? Ci racconti come nasce il Paolo Negro calciatore?

“Il calcio per me è sempre stato tutto. Ho foto da piccolissimo, dove a malapena camminavo, già con il pallone in mano. Dei grandi calciatori che vedevo da bambino su tutti mi colpiva l’eleganza e la classe di Platini, un giocatore davvero eccezionale”.

Restando alle origini, ci racconti qualcosa della stagione del tuo esordio con il Bologna?

“Sono arrivato a Bologna direttamente dalla primavera del Brescia, e mi sono ritrovato ad appena 18 anni catapultato nella realtà di una prima squadra in Serie A. Inizialmente Scoglio mi fece esordire in assoluto tra i professionisti in Coppa Uefa, ma a dire il vero non giocai tantissimo. Fu con Radice che iniziai a giocare con continuità, guadagnai i galloni da titolare e così iniziai la mia carriera da calciatore”.

Poi tornasti a Brescia, la squadra in cui sei cresciuto, e arrivò anche il tuo primo gol in Serie A.

“Sì, sono tornato a Brescia con Lucescu, in una stagione sfortunata che ci ha visto retrocedere in B. Io segnai il mio primo gol, contro la Samp di Mancini. Fu un bel gol, di testa, come molti di quelli che ho fatto in carriera, e ci valse la vittoria che ci portò allo spareggio. Era contro l’Udinese, a Bologna, ma purtroppo lo saltai per squalifica”.

A proposito di gol, con Lazio e Siena ne hai segnati parecchi, a quale o a quali di questi sei più legato?

“Con la Lazio in particolare ne ho segnati tanti. Quello che ricordo con maggior piacere è quello in Champions League alla Dinamo Kiev, che è stato il primo nella competizione per la Lazio allo Stadio Olimpico. Fu un gran bel gol, anche quello di testa pochi minuti dopo il vantaggio degli ucraini su un rigore diciamo dubbio”.  

Dino Zoff, Zdenek Zeman e Sven-Göran Eriksson, tre grandi allenatori dal gioco diverso. Con quale ti sei trovato meglio? Ricordi un episodio particolare legato a loro? 

“Essendo un ex attaccante mi trovavo molto bene con Zeman, quando giocavo terzino con lui mi divertivo tantissimo, ero sempre nella metà campo avversaria, mi diceva in continuazione di spingere. Col boemo infatti ho vissuto il momento migliore della mia carriera dal punto di vista realizzativo. Per quanto riguarda l’aneddoto, ricordo con estremo piacere quando segnai al 90’ il gol vittoria di Lazio-Fiorentina e negli spogliatoi Zoff mi ringraziò baciandomi in fronte (ride n.d.i.). Per me fu un momento unico, vedere un idolo come Zoff, un uomo tutto d’un pezzo, che si complimentava con me in quel modo: mi lasciò senza parole”.

Raccontaci di come vivevate il gruppo nel periodo della Lazio… Con quali compagni hai legato di più?

“C’era uno splendido feeling con tutti, ma avevo un rapporto più stretto con Favalli, siamo arrivati che eravamo ragazzini e siamo cresciuti insieme sia come calciatori che come uomini. Ci conoscemmo in Under 21 con la Nazionale e poi ci ritrovammo a Roma, passando insieme più di dieci anni. Anche con Guerino Gottardi avevo un ottimo rapporto, sono stati anni indimenticabili”.

Ancora oggi detieni il record di presenze in competizioni internazionali con la maglia della Lazio (64). Qual è il momento europeo che ricordi con più piacere?

“Senza dubbio la Supercoppa Europea. Quella di Montecarlo è stata una notte davvero magica, vincemmo contro gli invincibili del Manchester United grazie al gol di Salas. È stata senza dubbio una delle emozioni più grandi della mia carriera”.

Domanda d’obbligo. 14 maggio 2000, uno degli scudetti più pazzi di sempre. Ci racconti come hai vissuto quella giornata e quei minuti di attesa negli spogliatoi dopo il fischio finale di Lazio-Reggina?

“Io in quei concitati momenti facevo compulsivamente il tragitto tra gli spogliatoi e la palestra nella pancia dell’Olimpico. Non so quante volte ho fatto avanti e indietro, ma credo di aver percorso più chilometri in quel momento che durante la partita (ride n.d.i.). Poi quando arrivò la fine della partita a Perugia impazzimmo di gioia”. 

Voi ci credevate prima della partita? 

“Io, devo essere sincero, ci credevo davvero. Quella mattina dissi a mia moglie di portare la macchina fotografica, le dissi che credevo nei miracoli. Il resto è storia”.

Molti degli elementi di quella grande formazione che vinse lo scudetto nel 2000, come te tra l’altro, sono oggi allenatori. Te lo saresti mai aspettato?

“A dire il vero sì, quella era una squadra di allenatori in campo, tutti giocatori di un’intelligenza fuori dal comune”.

Con l’arrivo della presidenza Lotito è terminata la tua avventura in biancoceleste, fu un caso o ci furono attriti tra te e il nuovo patron?

“Io ero il capitano di quella squadra, quindi nel bene o nel male, quello che parlava con il presidente e riportava i problemi. Evidentemente a lui magari qualcosa non andò giù, perché mi ritrovai fuori dal progetto dall’oggi al domani. In ogni caso io non rimpiango nulla, rifarei tutto esattamente come ho fatto, in maniera trasparente e chiara come la mia posizione imponeva”.

Dopo la Lazio hai concluso la carriera a Siena, città a cui sei ancora legato professionalmente. Squadra che ti ha permesso quella “rivincita personale”, con il gol segnato alla Roma.

“Nel calcio c’è sempre una possibilità per prendersi una rivincita. Fu una grande soddisfazione segnare sotto la sud quella volta con la maglia del Siena. Sai il calcio è una ruota che gira, e che forse ancora sta girando”.

Non tutti ricordano che hai vestito più volte anche la maglia della Nazionale maggiore, partecipando a Euro 2000. Che ricordo hai di quella sfortunata spedizione azzurra?

“Fu proprio una spedizione sfortunata. Io giocai contro la Svezia e vincemmo per 2-1. Purtroppo venimmo beffati in finale da quell’assurda regola del Golden Gol. Fu un vero peccato perché eravamo davvero a un passo dal vincerlo quell’Europeo”.  

Domanda d’obbligo visti gli innumerevoli campioni affrontati: chi sono i tre avversari che ti hanno messo più in difficoltà? E invece il compagno di squadra più forte?

“Sai, io ho giocato con e contro tantissimi campioni. In quell’epoca i calciatori fortissimi erano tanti. Quelli che ricordo maggiormente sono Maradona, Van Basten, Gullit e Ronaldo il Fenomeno. Lui era veramente impressionante. Per quanto riguarda i miei ex compagni farei un torto agli altri scegliendone uno solo. Quella Lazio era probabilmente la squadra più forte del mondo in quel momento: io e pochi altri eravamo operai, e tenevamo ben saldo un gruppo di campioni incredibili. Salas era fortissimo, Mancini un leader. E poi Veron, Nedved, Vieri, Boksic. Dietro eravamo un vero e proprio muro con difensori e portieri fortissimi. Era una squadra davvero stellare”.

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