Massimo Tarantino: dalla Serie A anni ’90 ai settori giovanili

Massimo Tarantino: dalla Serie A anni ’90 ai settori giovanili

In occasione del suo 50esimo compleanno, l’ex difensore di Napoli, Inter e Bologna ci ha rilasciato un’intervista esclusiva in cui ripercorre la sua importante carriera

Jacopo Pascone/Edipress

20.05.2021 12:51

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Massimo Tarantino, 203 presenze nella fantastica Serie A degli anni ’90, divise tra Napoli, Bologna e Como, con una sfortunata parentesi all’Inter. Terzino sinistro, ha giocato anche come centrale, confrontandosi con decine di campioni assoluti. Da 10 anni si occupa dello sviluppo dei settori giovanili, che ha curato prima a Bologna e poi a Roma. In occasione dei suoi 50 anni – è nato a Palermo il 20 maggio 1971 – ci ha rilasciato un’intervista esclusiva.

 

Massimo Tarantino e il calcio, una questione di famiglia…

«Mio padre ha fatto tanti anni di Serie B, arrivando a giocare in A con il Venezia e transitando di passaggio anche alla Roma. Ha iniziato lui la tradizione di famiglia e poi noi (quattro fratelli maschi) abbiamo tutti sviluppato questa grande passione per il calcio. I miei due fratelli più grandi hanno giocato una vita. Il maggiore ha passato diversi anni a Palermo, tanti campionati di Serie C senza purtroppo mai riuscire a fare il salto. L’altro ha giocato una vita tra i dilettanti, cosa che ha fatto poi anche il più piccolo. Una famiglia di amanti dello sport, che aldilà dei livelli raggiunti ha dedicato una vita al calcio».

 

Come ci si sente da figlio d’arte?

«Non è mai facile il compito del figlio d’arte, che spesso si ritrova a “combattere” con i paragoni, ma con piacere vedo che negli ultimi anni in tantissimi stanno facendo bene. Penso che sia una grandissima soddisfazione poter continuare la tradizione: oltre che per i ragazzi che giocano, soprattutto per i papà. Io lo vedevo negli occhi di mio padre: le rare volte in cui tornavo a casa per salutare i miei percepivo il suo sguardo fiero».

 

È vero che eri un grande tifoso dell’Inter?

«Sono nato e cresciuto a Palermo ma seguivo l’Inter con grande affetto: la domenica andavo a giocare nei campi o nei cortili e con la radiolina ascoltavo le partite. Con il pallone tra i piedi sognavo in nerazzurro. Poi il professionismo mi ha spostato l’attenzione sulle squadre per le quali ho giocato. Cinque anni a Napoli e altrettanti al Bologna, fino ad avere la fortuna di toccare il cielo con un dito approdando, appunto, all’Inter (nel 1996 ndi). Un sogno realizzato, ma che purtroppo ha avuto un rovescio della medaglia: non ho potuto vivere quell’esperienza da calciatore come avrei voluto a causa di un infortunio che mi ha tenuto lontano dai campi da gioco. Nel mercato invernale di novembre andai in prestito al Bologna per cercare di rimettermi in pista. Feci talmente bene, che i rossoblù decisero di tenermi».

 

Cosa ti resta di quella sfortunata avventura in nerazzurro?

«Dell’esperienza in nerazzurro mi resta il piacere e la bellissima sensazione di aver fatto parte di un grande club per un anno e mezzo. Un’emozione comunque unica, perché legata a qualcosa che sognavo da bambino. Anche se le esperienze vissute sul campo con Bologna e Napoli sono state straordinarie».

Nella Serie A degli anni ’90 giocavano tantissimi campioni. Tu hai avuto la possibilità di dividere lo spogliatoio con gente come Maradona, Zola, Careca, Ronaldo, Baggio, Signori… chi di loro ti ha impressionato di più in allenamento?

«Sono stato fortunato ad aver avuto la possibilità di giocare insieme a tantissimi calciatori straordinari. Quello che mi ha impressionato di più è stato Maradona. Allenarsi insieme a Maradona è unico: puoi ammirare tutti i giorni qualcosa che è impossibile da replicare, uno spettacolo costante. L’altro che mi ha emozionato vedere da vicino è stato Ronaldo. Lui, come Maradona, anche se con caratteristiche diverse, era imprevedibile. Ogni volta che prendeva il pallone non sapevi mai cosa sarebbe potuto accadere. Era in grado di giocare la palla più semplice del mondo o di scartare tutti dalla sua area e arrivare in porta. Ogni volta che partiva ti chiedevi cosa sarebbe successo, era imprevedibile: credo che questa sia una delle cose più affascinanti del calcio. Pensavi a tre soluzioni possibili, lui ti tirava fuori la quarta. Dicevi da qui non può più uscire… lui usciva! A livello emozionale Maradona e Ronaldo sono stati quelli che mi hanno dato quella sensazione unica di poter uscire sempre fuori dagli schemi».

 

Stessa cosa vale per gli allenatori. Bigon, Ranieri, Lippi, Boskov, Guidolin, Mazzone… Chi ti ha dato di più?

«Ognuno di loro mi ha trasmesso qualcosa. L’allenatore a cui lego il primo passo importante e che devo ringraziare è sicuramente Claudio Ranieri. Quando ero a Napoli è stato lui a darmi continuità. Avevo 19 anni e giocai pochissimo nel girone d’andata, quando Ranieri mi disse: “Devi avere pazienza: il giorno che inizierai a giocare non uscirai più”. Giocai una partita di Coppa Italia contro la Roma e da quel momento mi ritrovai a giocare titolare in Serie A nel Napoli. Da lì è iniziata la mia avventura a un livello importante. È stata una delle prime persone che ha creduto in me. Mentre l'allenatore che mi ha dato la prima vera opportunità è stato Bruno Pace al Catania in Serie C nel 1988. Non c’erano le regole di oggi che impongono la presenza di giovani. I miei compagni avevano tutti 32-33 anni, io ne avevo 17 e giocavo titolare davanti a 20mila persone. Bruno Pace ha rischiato lanciando un ragazzino in Serie C, mentre Ranieri mi ha dato l’opportunità nel grande calcio. Un altro allenatore a cui devo tantissimo è stato Boskov. In un momento delicato della mia carriera, stagione in cui non avevo fatto benissimo, arrivò a campionato in corso. Non so cosa sia successo, fatto sta che mi diede quella forza e quella fiducia che hanno portando le mie prestazioni a un livello talmente alto (probabilmente il massimo livello che ho vissuto come sportivo) tanto da farmi acquistare dall’Inter. Stessa cosa che fece Ulivieri, allenatore particolare ma con cui mi trovai benissimo: dopo la mia sfortunata esperienza all’Inter, nonostante venissi da un anno fermo, mi diede la possibilità di giocare con continuità, preparandomi per una stagione fantastica vissuta poi con Mazzone, quando vincemmo l’Intertoto, giocammo un campionato bellissimo e raggiungemmo le semifinali di Coppa Uefa e Coppa Italia». 

 

Qualche rimpianto sul fronte allenatori?

«Mi è dispiaciuto non vivere pienamente Lippi, perché nel suo anno mi ruppi i legamenti del ginocchio e saltai tutta la stagione. Stagione in cui il Napoli fece benissimo».

 

Tanti campioni come compagni, tanti grandi allenatori, ma anche avversari temibilissimi. Chi ti ha messo più in difficoltà?

«Ho marcato calciatori straordinari. Negli anni da stopper il calciatore che mi ha messo più in difficoltà è stato Van Basten. Era forse il giocatore più completo: struttura fisica incredibile, bravo di testa, di destro, di sinistro. Faceva tutto a un livello altissimo. Anche Vialli aveva una forza fisica impressionante, non stava mai fermo. Potevi aver fatto ’89 minuti della partita perfetta, ti distraevi un attimo e prendevi gol. Finivi la partita che eri cotto: ti avevano bruciato tutte le energie. Quando invece mi sono spostato terzino sinistro (c’era carenza di terzini e Ottavio Bianchi mi provò lì sfruttando la mia corsa), belli i duelli con Cafu, Di Livio, Conçeicao, col velocissimo Attilio Lombardo…. c’erano tanti campioni: ogni domenica era una sfida contro uno di loro».

 

Che ricordi hai della tua seconda parte di carriera?

«Dopo Bologna è iniziata un po’ la mia fase discendente. Ho vissuto qualche disavventura a Como… Ricordo con grande piacere l’anno passato a Trieste dove trovai il mio amico Attilio Tesser in panchina. Era stato mio compagno di squadra a Catania e me lo ritrovai in panchina a Trieste. Mi è piaciuto tantissimo poter giocare per lui e poter aiutare una squadra molto giovane da “allenatore in campo”. Poi feci un anno a Pavia e dovetti smettere perché a 35 anni ero logorato dai tantissimi infortuni avuti in carriera».

 

Come è nata la tua seconda vita?

«Ho iniziato con il ruolo di ds in Serie C, in seguito ho fatto il team manager per la prima squadra del Bologna – esperienza che mi ha arricchito dandomi la possibilità di capire quanto sia difficile l’organizzazione di una squadra di Serie A –, per poi iniziare il percorso nel settore giovanile specializzandomi in quel ruolo. Ruolo che ho ricoperto per tre anni al Bologna e per sette alla Roma. 10 anni stupendi vissuti in un contesto che mi piace molto».

 

Quali sono gli obiettivi di Massimi Tarantino?

«Mi piacerebbe cercare di capire qual è in Italia la difficoltà più grande che hanno i nostri giovani per essere competitivi rispetto ai quelli europei; cosa possiamo fare per rendergli il percorso migliore. Perché in Italia non abbiamo carenza di talenti, ma non li coltiviamo nel modo giusto. I talenti c’erano 50 anni fa e nascono adesso. I nostri settori giovanili sono pieni di talento, soltanto che non riusciamo ad offrirgli un percorso adeguato. Non c’è carenza di talento, ma di percorso formativo e di sviluppo».

 

Darboe, l’ultimo dei tanti gioiellini usciti dal settore giovanile della Roma, arrivò quando tu eri ancora a Trigoria…

«Ci portarono questo ragazzetto che secondo loro aveva talento, viveva in una struttura di Rieti. Quando è arrivato a Trigoria ad allenarsi un paio di giorni, io e tutto lo staff restammo entusiasti. Era sottopeso, ma aveva una capacità di interpretare il gioco affascinante. Da quel momento abbiamo iniziato a integrarlo nelle nostre squadre e con le scuole per metterlo nelle condizioni migliori. Lui ha lavorato tantissimo e oggi sta raccogliendo i frutti».

 

 

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