Alberto Piccinini, vita di un mediano che divenne impiegato

Alberto Piccinini, vita di un mediano che divenne impiegato

Vinse due scudetti con la Juventus e fu uno dei protagonisti del “Vianema” di Gipo Viani ai tempi della Salernitana. Il papà del noto giornalista Sandro nasceva il 25 gennaio 1923

Loreanzo Stillitano/Edipress

25.01.2023 ( Aggiornata il 25.01.2023 15:45 )

  • Link copiato

C'era una volta un numero 9 che marcava il centravanti avversario. A fine carriera trovò poi un posto nella filiale romana della FIAT e così, integrando i relativi risparmi con lo stipendio come un impiegato qualsiasi, mise su famiglia. Ebbe due figli: Stefano e Sandro (sì: “'cccezionale! proprio lui!”). Che strana storia è questa?

Ottimo mediano della Juventus due volte Campione d'Italia nei primi anni '50, Alberto Piccinini è entrato nella storia del calcio italiano passando dalla porta principale. Ma pure da quella di servizio. Fu quel geniaccio di Gipo Viani, capomastro degli artigiani del calcio italiano, a farcelo entrare di soppiatto quando i due lavoravano per la Salernitana.

Piccinini, lo stopper mascherato da bomber

Capiamo il senso per cui un giocatore schierato con il numero 9 dovesse marcare il centravanti avversario. Due parole: Metodo e Sistema. Il Metodo era il prudente e camaleontico gioco a zona tipico delle squadre italiane nel primo dopoguerra. I ritmi vertiginosi e le marcature a uomo del secondo, proveniente dalla Gran Bretagna, dopo il 1945 erano oramai di moda anche in Italia. Gipo Viani, artigiano del pallone diabolico e maudit, prese il meglio dalle due idee e schierò una Salernitana da combattimento. Per salvare la pelle - non ci riuscirà per un soffio - Davide doveva sempre dar battaglia a Golia. Un trucchetto fra tanti consisteva nel dare la maglia numero 9 al mediano Piccinini. Per due ragioni. Mandare in tilt l'ottuso sistema di marcature a uomo del Sistema: il numero 5 doveva seguire il 9 avversario ovunque andasse... ma se questi non stazionava in attacco, che fare? Non solo. Quando erano gli avversari ad avanzare Piccinini francobollava la boa avversaria, permettendo così al compagno centromediano di arretrare in difesa. Questi, oppure un terzino, potevano essere liberi di spazzare l'area senza compiti fissi di marcatura. Quel furbacchione di Gipo brevettò la formula con il di nome “Vianema”. Ma tanti come lui, dentro e fuori l'Italia, stavano sperimentando il cosiddetto Catenaccio.

Alberto Piccini e le vittorie alla Juventus

Alberto Piccinini è stato uno dei migliori giocatori italiani a cavallo tra gli anni '40 e '50. Nato a Roma nel 1923 (“in mezzo a campo Testaccio”), cresciuto nelle giovanili della sua squadra del cuore non ebbe tuttavia mai la possibilità di debuttare con i grandi. Scaricato alla Salernitana, il giovane Alberto ebbe la fortuna di incontrare Gipo. Si meritò dunque la chiamata del Palermo sempre nella massima serie. Poi il salto in alto. A Torino l'industrial casa degli Agnelli, più accorta di quella reale dei Savoia, voleva rinverdire i fasti juventini degli anni '30. Lontano oramai riecheggiava il mito dei cinque Scudetti di Madama... Il rampollo Giovanni Agnelli ne soffriva. Vincere era l'unica cosa davvero importante! Fatto solenne giuramento, Gianni diventò sire e prese le redini della zebra di famiglia. Complice una tragica botta del destino, che disintegrò l'invincibile Grande Torino sulla collina di Superga, nel 1950 la Juventus di Jesse Carver s'appropriò subito del tricolore. Piccinini era il meccanico della potente macchina (100 gol in 38 gare: “la Juve più spettacolare di sempre” secondo Boniperti) messa a punto dall'inglese. A seconda dell'equilibrio garantito dal centrocampista romano, e dall'altro mediano Mari, la motonave imbarcava acqua come nel clamoroso 1-7 contro il rampante Milan oppure la sparava violentemente sull'avversario. Praest, Boniperti e Hansen pensavano ai gol.

Due anni dopo ecco il bis, superato l'interregno del primo Milan “Gre-No-Li” (Gren, Nordahl e Liedholm). Lo zoccolo duro della Juventus era più o meno lo stesso del recente passato. Diverso invece lo stile di gioco. Salutato Carver, nel 1952 i bianconeri celebravano il nono scudetto con la leggenda danubiana Sarosi in panchina, fautore di un calcio meno ossessivo e più elegante di quello del predecessore inglese. Questi sono stati “gli anni più belli della mia vita - confesserà anni dopo Piccinini - ho giocato in bianconero 104 partite: due Scudetti e solo nove sconfitte”.

Era mio padre

Per il centrocampista, che indossò in quegli anni pure la maglia azzurra, fu l'apogeo. Poi iniziò il declino. La scelta di lasciare la Juve per il Milan a posteriori fu sbagliata. Un solo difficile anno in rossonero, quindi il ritorno a Palermo a 31 anni. Ecco il crack: Piccinini si ruppe il ginocchio. “Fine della carriera e fine dei ricchi anche se non ricchissimi guadagni”, ricordava sconsolato l'impiegato della FIAT, poco dopo il ritiro. Piccinini smise di giocare a ridosso degli anni del “miracolo economico”. Di lì a breve anche in Italia sarebbe montata la panna della società dei consumi. Il calcio, partecipando alla grande abbuffata, da rito sacro sarebbe divenuto allora sempre più un semplice spettacolo. Il gioco irriverente somigliava oramai a un'industria burocratizzata.

Sandro Piccinini, noto giornalista sportivo e secondogenito di Alberto, qualche anno fa ricordava come il padre si fosse sempre rammaricato di aver lasciato la Juventus per accettare i milioni del Milan. “Se ne pentirà Alberto”, gli disse Gianni Agnelli, che lo congedò non pareggiando l'offerta dei rossoneri. Lo riabbraccerà con riconoscenza alla FIAT al termine della carriera. Alla Juventus, i soldi un tempo avevano un valore diverso rispetto a quello che gli viene dato oggi.

Condividi

  • Link copiato

Commenti