        Il sorteggio che ha messo di fronte i campioni d&rsquo;Italia in carica del Milan e quelli in pectore del Napoli per i quarti di finale di Champions League ha riaperto un file archiviato da troppo tempo. La storia dei derby italiani in Europa affonda le sue origini negli anni &rsquo;80 con le prime inedite sfide fratricide, diventate nei magnifici anni &rsquo;90 addirittura una felice ricorrenza, celebrata fino ai primi anni del 2000 nei quali dominavamo il continente calcistico, un attimo prima che si esaurisse il filone d&rsquo;oro della nostra Serie A. Una storia lunga 30 anni che vale la pena ripercorrere riavvolgendo il nastro di queste sfide sempre sentite e particolari: dalle sette finali alle numerosissime semifinali, passando per pronostici rovesciati e sfide al veleno. Primo e ultimo derby italiano nelle coppe Stagione 1985-86, ai nastri di partenza della Coppa dei Campioni la Serie A si presenta con una rarissima combo di squadre, in un torneo aperto solamente alle vincitrici dei rispettivi campionati: c&rsquo;&egrave; il Verona dei miracoli di Osvaldo Bagnoli, fresco di uno scudetto storico, e c&rsquo;&egrave; la Juventus, ammessa di diritto dopo aver vinto tra le lacrime la sua prima coppa dalle grandi orecchie nella tragica notte dell&rsquo;Heysel con il Liverpool. Il primo derby italiano spunta dall&rsquo;urna gi&agrave; al secondo turno, con i bianconeri che eliminano i giallobl&ugrave;. L&rsquo;ultimo derby &egrave; invece datato 2014-15, un ottavo di finale di Europa League in cui la Fiorentina di Montella elimina la Roma di Rudi Garcia. Da Juventus-Fiorentina alla notte di Manchester: le sette finali tutte italiane La prima finale tra due squadre italiane arriva nel 1990 con Juventus e Fiorentina a giocarsi la Coppa Uefa, che prevedeva la finale con la formula dell&rsquo;andata e ritorno. Vinsero i bianconeri tra polemiche e veleni. La seconda arriva gi&agrave; l&rsquo;anno successivo in Supercoppa, se la giocano la Samp di Boskov e il Milan di Sacchi, che alza il trofeo. Nel 1991 sono Inter e Roma a giocarsi la Coppa Uefa, che prende la strada di Milano dopo due combattutissime sfide. Nel 1993 &egrave; il Parma a trionfare in Supercoppa nel doppio confronto con il Milan; Parma che nel 1995 si prende anche la Coppa Uefa battendo la Juventus. Il derby Uefa del &rsquo;98 vinto dall&rsquo;Inter sulla Lazio nella finale di Parigi verr&agrave; ricordato per l&rsquo;indimenticabile doppio passo di Ronaldo il Fenomeno su Marchegiani sotto lo sguardo attonito di Nesta. L&rsquo;ultima finale tra due italiane &egrave; anche la prima e unica in Champions League: nel maggio del 2003 al Teatro dei Sogni di Old Trafford il Milan supera la Juventus ai rigori con l&rsquo;iconico sguardo di Shevchenko prima di calciare il penalty decisivo che passa alla storia. Milan-Inter e i due derby di Champions League Nel racconto dei derby italiani in Europa c&rsquo;&egrave; anche la storia nella storia di Inter e Milan e delle due &ldquo;drammatiche&rdquo; stracittadine di Champions League, disputate fra il 2003 e il 2005, entrambe terminate con i rossoneri in festa e i nerazzurri nello sconforto. Nella prima occasione, Inter eliminata senza perdere, ma dall&rsquo;incredibile regola del gol in trasferta, decretato dal calendario, che lancia il Milan in finale. Due anni dopo &egrave; un quarto di finale di cui andare poco fieri: dopo il successo rossonero nel match d&rsquo;andata, il ritorno sar&agrave; ricordato come il &ldquo;derby della vergogna&rdquo;, con Dida bersagliato dalle torce lanciate dalla curva nerazzurra e l&rsquo;inevitabile sconfitta a tavolino. La notte magica del Napoli Nell&rsquo;unico derby italiano in Europa giocato dal Napoli, c&rsquo;&egrave; una notte magica che ancora fa tremare i polsi ai tifosi partenopei di una certa et&agrave;: &egrave; il 1989 e ai quarti di finale di Coppa Uefa il sorteggio ha detto Juventus. All&rsquo;andata a Torino finisce 2-0 per i bianconeri grazie al gol di Pasquale Bruno e all&rsquo;autorete di Corradini, ma al San Paolo gli azzurri la ribaltano con Maradona e Carnevale che trascinano la sfida ai supplementari e Renica che un attimo prima dei rigori firma il gol qualificazione accendendo Fuorigrotta. Il sogno infranto del Cagliari La Coppa Uefa 1993-94 regala la favola del Cagliari di Bruno Giorgi, che in un doppio derby ai quarti e in semifinale sfida le signore d&rsquo;Italia, fermandosi a un passo dalla clamorosa impresa. Approdati ai quarti di finale, i sardi pescano la Juventus, un sorteggio apparentemente proibitivo ma che alla fine non si rivela tale: Dely Vald&eacute;s punisce i bianconeri nel match di andata, Firicano e Lul&ugrave; Oliveira ribaltano il risultato nel ritorno di Torino e firmano l&rsquo;impresa. &Egrave; semifinale e l&rsquo;urna dice ancora derby, con l&rsquo;Inter di Bergkamp e Jonk. All&rsquo;andata in Sardegna il Cagliari rimonta due volte l&rsquo;Inter prima di far impazzire il Sant&rsquo;Elia con il 3-2 di Pancaro, ma al Meazza si arrende ai nerazzurri, uscendo dal doppio derby con un bilancio di 3 vittorie e una sconfitta. Il derby dimenticato Nel concludere il lungo viaggio attraverso i derby italiani in Europa, riemerge il ricordo di una sfida caduta nel dimenticatoio e che pure fa parte a pieno titolo della storia di queste sfide: la semifinale di Intertoto del 1998 tra il Bologna di Mazzone e la Samp di Spalletti, che vede trionfare gli emiliani, che poi vinceranno anche il trofeo conquistando la qualificazione alla Coppa Uefa.       

Verona-Juventus il primo, Fiorentina-Roma l&rsquo;ultimo: in mezzo sette finali tra Coppa Uefa, Supercoppa e Champions League. Tra i ricordi anche le imprese di Cagliari e Bologna

Milan-Inter, in Europa è più bello: la storia dei derby italiani nelle coppe

        Il suo nome appartiene alla storia. Non solo del calcio italiano, anche di quello mondiale. Gi&agrave;, perch&eacute; la notte dell&rsquo;11 luglio 1982 era tra i ragazzi forsennati di gioia che correvano per il Santiago Bernabeu di Madrid a celebrare la vittoria pi&ugrave; bella mai ottenuta dalla Nazionale italiana. Fulvio Collovati, classe 1957, proprio quell&rsquo;estate in cui raggiungeva l&rsquo;apice della carriera, era protagonista di uno dei trasferimenti pi&ugrave; discussi di un calciomercato che non faceva ancora girare soldi e calciatori con la fluidit&agrave; di oggi: passava dal Milan, squadra nella quale era cresciuto, di cui era tifoso e che era appena retrocesso in Serie B, all&rsquo;Inter. Una scelta non indolore, che pag&ograve; con molte critiche, che gli permise di conoscere dall&rsquo;interno la realt&agrave; di quelli che per anni erano stati i suoi avversari pi&ugrave; diretti. Chi meglio di lui, quindi, per parlare di Milan, Inter e del Derby della Madonnina? Fulvio, nel 1982 il Milan retrocesse e tu fosti costretto a lasciarlo perch&eacute; Bearzot ti disse che giocando in B avresti perso la Nazionale. Dovevi cambiare squadra. Ma perch&eacute; proprio l&rsquo;Inter, tu che dei rossoneri eri una bandiera? &ldquo;Il messaggio era chiaro. Avevo gi&agrave; fatto un anno nel quale giocavo il sabato con l&rsquo;Italia e la domenica in B col Milan. Ma un&rsquo;altra stagione cos&igrave;, ammesso e non concesso che la squadra fosse subito risalita in Serie A, avrebbe comportato il rischio di perdere l&rsquo;azzurro. Fu una scelta che condivisi con la mia famiglia e la Nazionale. Perch&eacute; proprio l&rsquo;Inter? Fu la societ&agrave; che mi cerc&ograve; con pi&ugrave; insistenza. Oggi i giocatori fanno valere la loro volont&agrave; ma all&rsquo;epoca era molto diverso. Mi avevano cercato anche la Fiorentina e la Juventus ma l&rsquo;Inter fu quella che mi volle con pi&ugrave; determinazione. Del resto all&rsquo;epoca decidevano le societ&agrave; e l&rsquo;Inter era una squadra di prestigio. Andai senza pormi grossi problemi&rdquo;.  A Baresi non venne fatto lo stesso discorso? &ldquo;Questo non lo so. E&rsquo; vero, anche Baresi era nel giro della Nazionale ma finch&eacute; ci fu Bearzot il titolare era Scirea&rdquo;. Come venisti accolto dall&rsquo;ambiente nerazzurro? &ldquo;Dalla tifoseria molto bene, non ci fu assolutamente scetticismo. Forse anche perch&eacute; gi&agrave; allora in casa Inter c&rsquo;era molta pi&ugrave; rivalit&agrave; con la Juventus che col Milan. In squadra, poi, avevo sei compagni di Nazionale che giocavano con me: i vari Oriali, Altobelli, Bergomi mi aiutarono ad integrarmi. Dall&rsquo;altra parte non fu cos&igrave;: lasciando il Milan fui considerato ingiustamente un traditore, nonostante avessi fatto anche la Serie B coi rossoneri&rdquo;.  Tu sei entrato nelle giovanili del Milan molto presto. In quegli anni credevi di riuscire ad arrivare in Serie A?? &ldquo;A tredici anni sei spensierato, nel Milan ogni anno ti ponevi l&rsquo;obiettivo di essere confermato. Questo, ovviamente, significava fare tutti i passaggi: allievi, juniores, primavera. Insomma, non pensi subito di diventare un giocatore. Anche perch&eacute; non &egrave; cos&igrave; scontato: devi avere le qualit&agrave;, il DNA, la voglia di allenarti e fare sacrifici. Io li ho fatti, in qualche maniera ho perso un po&rsquo; la mia adolescenza. Allenarsi col Milan non &egrave; come allenarsi con la squadretta sotto casa, devi farlo quasi tutti i giorni. E poi c&rsquo;era la scuola. Di conseguenza io non uscivo la sera coi miei amici&rdquo;.  Quali erano le tue caratteristiche tecniche? "Ero un difensore moderno gi&agrave; cinquanta anni fa, non lo dico con presunzione. Oggi si parla molto dei difensori che devono costruire dal basso, avere i piedi buoni, impostare pi&ugrave; che marcare. Io avevo la predisposizione per la costruzione perch&eacute; da ragazzino avevo giocato anche mezzala. Liedholm nel 1977 mi mise mediano per marcare Antognoni. Poi, non essendo velocissimo, sono andato a fare prima il terzino e poi lo stopper. Per&ograve; non mi scottava il pallone tra i piedi, anche se ovviamente non ero un fuoriclasse. Per cui cercavo di giocare con intelligenza, cercando di capire i tempi di gioco e andare sull&rsquo;anticipo&rdquo;. Oggi c&rsquo;&egrave; un difensore nel quale, almeno in parte, ti rivedi? &ldquo;Ti dico di no. Ma nello stesso modo in cui non c&rsquo;&egrave; un giocatore simile a Scirea. Oggi i difensori non sanno marcare bene perch&eacute; non gli viene insegnato, non gli spiegano la postura nell&rsquo;affrontare l&rsquo;avversario. Oggi c&rsquo;&egrave; il difensore veloce ma meno tecnico, oppure quello che, appunto, non sa marcare bene. Era un calcio diverso, non si pu&ograve; fare un paragone". Torniamo ai tuoi primi anni da professionista. Albertosi, Collovati, Maldera; De Vecchi, Bet, Baresi&hellip; quasi una litania sacra per i tifosi rossoneri. Che ricordi hai di quella formazione che cominciava cos&igrave;? &ldquo;Era una squadra che con me, Baresi e Maldera aveva una difesa giovanissima aiutata da due giocatori esperti come Bet e Albertosi. Un Milan che non aveva la punta da venti reti ma che mandava in gol tutti gli altri giocatori. Era una squadra che, al netto di Rivera, che per&ograve; era sul viale del tramonto, non possedeva campionissimi. Per&ograve; aveva un gioco di squadra che ci fece vincere lo scudetto&rdquo;.  6 novembre 1983, il tuo primo derby da ex fin&igrave; 2-0 per l&rsquo;Inter e tu segnasti la prima rete. Te lo ricordi? &ldquo;Certo che me lo ricordo! Fu un gol in mischia: alcuni dettero la rete a Serena perch&eacute; lui disse che il gol era suo ma la realt&agrave; era diversa, fui io a segnare&rdquo;.  I milanisti come ti accolsero? &ldquo;Puoi immaginarti. Ci furono degli striscioni per i quali mia moglie pianse. Purtroppo gli imbecilli e i deficienti sono sempre dietro l&rsquo;angolo: fui riempito di insulti dall&rsquo;inizio alla fine della partita. Per&ograve; mi tolsi la soddisfazione di vincere il derby&rdquo;. In quei frangenti non ci si riesce a isolare dal contesto, a lasciar correre? &ldquo;Non &egrave; possibile fregarsene degli insulti, per&ograve; alla fine prevale il fatto che tu sei un professionista e devi giocare&rdquo;. Nei derby giocati con l&rsquo;Inter, qualche ex compagno ti ha mai rinfacciato in campo la tua provenienza? &ldquo;No, assolutamente nessuno. Anche perch&eacute; il Milan era molto cambiato da quando io me n&rsquo;ero andato, i giocatori erano diversi&rdquo;. Cosa ti viene in mente se ti parlo di Mark Hateley? &ldquo;Un avversario leale che mi ha fatto un gran gol, che &egrave; diventato un manifesto della rabbia dei milanisti nei miei confronti. Una rete meravigliosa che pu&ograve; succedere di prendere quando giochi centinaia di partite in Serie A. Era un&rsquo;azione in cui noi stavamo uscendo, poi sulla sinistra perdemmo palla, Virdis la prese e io corsi all&rsquo;indietro mentre lui and&ograve; proprio incontro saltando cinquanta centimetri pi&ugrave; di me. Con Mark, poi, siamo diventati amici. Gli dico sempre che fece un gran gol".  Il derby che ricordi con pi&ugrave; piacere disputato col Milan e quello con l&rsquo;Inter. &ldquo;Con l&rsquo;Inter quello di cui abbiamo parlato prima, nel quale feci gol e mi presi gli insulti. Col Milan uno in cui vincemmo con un gol di Maldera. In quell&rsquo;occasione Liedholm tenne fuori Rivera. Ricordo che giocammo molto bene (12 novembre 1978, Milan-Inter 1-0, ndr)" E i due pi&ugrave; brutti? "Col Milan ci fu un derby che perdemmo 2-0, segn&ograve; Beccalossi su un cross da calcio d&rsquo;angolo (28 ottobre 1979, Inter-Milan 2-0, ndr). Con l&rsquo;Inter quello del gol di Hateley&rdquo;. In cosa sono diversi i tifosi di Inter e Milan? &ldquo;Considera che anche quando eravamo in B, col Milan c&rsquo;erano sempre ottantamila persone allo stadio. Il tifoso interista, quando la squadra perde, &egrave; un po&rsquo; pi&ugrave; critico".  Oltre che a Milano tu hai giocato il derby a Roma e a Genova. Cosa ha di unico la stracittadina milanese? &ldquo;Adesso non ti saprei dire perch&eacute; &egrave; cambiato tutto. Ma ai miei tempi San Siro era davvero la Scala del calcio. Ti mettevi in testa che era come andare a teatro: non potevi fallire. Se sbagliavi eri marchiato per tutta la vita. Oggi c&rsquo;&egrave; pi&ugrave; pazienza nell&rsquo;aspettare i giocatori. All&rsquo;epoca non ti veniva dato tempo: bastava fallire due partite e ti trovavi a giocare in una provinciale. Era questa la differenza che c&rsquo;era giocando nell&rsquo;Inter e nel Milan". C&rsquo;&egrave; qualche aneddoto di campo che ti &egrave; capitato in un derby e che vuoi raccontare? &ldquo;Quel derby vinto con gol di Maldera io marcavo Altobelli. Gli feci un falletto e lui da dietro mi dette una manata. Io esagerai un pochino per quella reazione, tanto che l&rsquo;arbitro Michelotti lo espulse. Quando diventammo compagni all&rsquo;Inter mi ricord&ograve; quell&rsquo;episodio: 'Non t&rsquo;ho neanche toccato, hai fatto una scena' mi diceva. Me l&rsquo;ha sempre rinfacciato! A volte in campo si diventa anche un po&rsquo; attori. Un altro aneddoto &egrave; legato al derby di ritorno sempre di quell&rsquo;anno, che pareggiammo 2-2 negli ultimi minuti dopo che eravamo sotto 2-0, al quale io non partecipai. Il motivo? All&rsquo;epoca facevo il militare, mi allenavo alla Cecchignola e il mercoled&igrave; facevamo delle partite. Bene, ricordo che prima di quel derby di ritorno giocammo contro il Colleferro su un campo in terra battuta: mi procurai una distorsione al ginocchio che mi tenne fuori un mese. Ero proprio demoralizzato&rdquo;.        

Nel 1982, anno in cui vinse il Mondiale, il difensore cambi&ograve; sponda del Naviglio suscitando polemiche. In questa intervista racconta le sue esperienze milanesi rivelando anche aneddoti inediti

Milan-Inter, i derby di Fulvio Collovati:”Se sbagliavi eri marchiato a vita”

La stracittadina milanese ha regalato spettacolo: 2 gol, un rigore sbagliato e tante occasioni per le due squadre. Alla fine Pioli e Inzaghi si portano a casa un punto per uno

Milan-Inter, il derby della Madonnina finisce in parità. Il film del campionato

        In due fanno trentasette scudetti ma, soprattutto, dieci Coppe dei Campioni o Champions League che dir si voglia: qua non ci interessa la distinzione fra vecchia e nuova dicitura del pi&ugrave; prestigioso alloro calcistico europeo; citare determinate cifre ci serve per far capire che nelle due anime di Milano, in ordine di nascita quella milanista e quella interista, si concentra il massimo del prestigio che il calcio italiano ha riscosso a livello continentale. E ogni volta che tornano a scambiarsi i gagliardetti, rossoneri e nerazzurri &egrave; come se con i tacchetti pizzicassero le corde della storia, quella che per il Milan inizia nel 1899, per l&rsquo;Inter nove anni dopo, come &ldquo;costola&rdquo; del Milan in un certo senso, perch&eacute; il club nerazzurro viene fondato da quarantaquattro milanisti dissidenti che vogliono opporre al Milan, da fuorusciti, una realt&agrave; di maggiore respiro, che possa guardare anche oltrefrontiera: l&rsquo;Internazionale Milano, per l&rsquo;appunto. Entrambi a strisce, col nero in comune e con gli altri colori che, seppur per mera casualit&agrave;, fanno pensare a quella divisione sociale, finanche sociologica, che a Milano il tifo per le due squadre ha riprodotto, incarnato, quindi proposto in salsa calcistica.&nbsp; Due squadre, una citt&agrave;, due mondi diversi Parliamo di quando le realt&agrave; industriali in Italia erano concentrate esclusivamente nel triangolo Genova &ndash; Torino &ndash; Milano, con quest&rsquo;ultima a fungere da locomotiva e a contenere al suo interno quella che sarebbe stata la ruvida e arcigna dialettica tra imprenditori e salariati, tra una borghesia sempre pi&ugrave; agiata e un ceto operaio sempre pi&ugrave; coeso, cosciente, rivendicativo in materia di diritti. Ecco perch&eacute; al Milan, perlomeno fino a tutti gli anni settanta, donava un rosso proletario, a completare le strisce verticali della divisa, mentre l&rsquo;azzurro dell&rsquo;Inter ben rappresentava l&rsquo;agiata e un po&rsquo; spocchiosa intransigenza dei &ldquo;cumenda&rdquo;. Allora, proprio in questa nostra epoca in cui si fa quasi tutti parte di un indistinto terziario, a Milano come altrove, &egrave; suggestivo rievocare quel confronto tra chi poteva permettersi di andare allo stadio perlomeno con la Gilera e chi non aveva altra possibilit&agrave; che quella di salire sul tranvai. Ed ecco allora, restituita per qualche riga agli antichi fasti, la dicotomia netta tra &ldquo;bauscia&rdquo;, con quella u che la pronuncia meneghina dilata fino a un mezzo ululato, e i &ldquo;casciav&igrave;t&rdquo;, con quella i accentata che tronca perentoria la parola, come fosse la sirena d&rsquo;una fabbrica. Notoriamente interista il bauscia, piccolo o alto borghese che sia, tendente alle spacconate, vagamente millantatore e comunque almeno un poco arrogante, in virt&ugrave; della sua agiatezza. Non &egrave; un caso che l&rsquo;etimologia del termine abbia qualcosa a che fare con la saliva: il bauscia interista &egrave;, per tradizione, uno che straparla, che non &egrave; capace di frenare la propria ostentazione. Casciav&igrave;t &egrave; un termine che di per s&eacute; nemmeno necessita di traduzione, tanto evidente &egrave; il riferimento al cacciavite, attrezzo identificativo di una fascia di popolazione dedita al lavoro manuale, in catena di montaggio oppure in officina, sempre alle dipendenze di un padrone &ndash; interista, manco a dirlo &ndash; del quale lamentarsi. I quartieri bene di una Milano da bere, come quella del celeberrimo spot anni ottanta che pubblicizzava il pi&ugrave; noto amaro cittadino, opposta alle case di ringhiera dalle cui finestre, a ogni sveglia mattutina, la nebbia dell&rsquo;alba appariva pi&ugrave; spessa e lattiginosa che in centro.&nbsp; I grandi campioni che hanno scritto la storia del derby E a incarnare la dicotomia, a darle volti e caviglie, il meglio del calcio italiano e straniero passato in Italia dalle origini a oggi; spesso a contendersi la vetta, come nel campionato in corso, o come in quell&rsquo;epoca aurea per entrambi i club, una delle tante, a met&agrave; tra anni ottanta e novanta, con il fantasmagorico trio olandese dei milanisti, Gullit, Rijkaard e Van Basten opposti a quei tre tedeschi interisti tosti come ghisa: Matthaus, Brehme, Klinsmann. Due nazionalit&agrave; che si amano ancora meno di bauscia e casciav&igrave;t, a pensarci bene. Avrete capito che la gelida scansione delle statistiche ve la risparmiamo, in questo nostro racconto; pu&ograve; per&ograve; avere senso evocare quei numeri che traducono la grandezza della sfida, a braccetto con quei nomi che andrebbero tramandati alle pi&ugrave; recenti generazioni di tifosi. Chiedi chi &egrave; Saul Malatrasi, per esempio, che &egrave; stato l&rsquo;unico a vincere scudetto, Coppa dei Campioni e Intercontinentale con entrambe le maglie, nella stessa citt&agrave;. Chiedi dei tredici secondi che impieg&ograve; Sandro Mazzola per sbloccare il derby del 24 febbraio 1963, portando in vantaggio l&rsquo;Inter, o delle quattro reti in un solo derby messe a segno da Jos&egrave; Altafini per il Milan il 27 marzo del 1960. Chiedi delle 56 volte in cui questa gara ha avuto nella distinta ufficiale il nome di Paolo Maldini, che &egrave; un sinonimo di Milan, in una calcistica era geologica; o delle 47 di Javier Zanetti e delle 44 di Beppe Bergomi, pi&ugrave; cari a ogni interista di parecchi congiunti. E poi prova a pensare cosa voglia dire segnare 14 gol contro l&rsquo;Inter, spalmandoli dal 1999 al 2006, come in quegli anni ha saputo fare Shevchenko, che alla fine ha superato i 13 di Giuseppe Meazza, dei quali 12 messi a segno da interista, uno da milanista. Appena sotto di loro, Nordahl e Nyers, milanista e interista, con 11 a testa. Ancora un gradino sotto, ma con possibilit&agrave; di sorpasso in canna, Zlatan Ibrahimovic, che la firma sul derby l&rsquo;ha messa 10 volte, 8 da milanista e due da interista. Non &egrave; mai stata soltanto una questione cittadina, visti i protagonisti di ogni decennio e l&rsquo;impatto sull&rsquo;intera storia della nostra Serie A. Ha saputo per&ograve; essere, all&rsquo;occorrenza, una questione di famiglia, letteralmente: basta pensare a tutte le stracittadine che, senza esclusione di colpi, hanno vissuto da opposte barricate Franco e Beppe Baresi, 39 derby per il primo con la casacca del Milan, 33 per il secondo con quella dell&rsquo;Inter, in pi&ugrave; di un&rsquo;occasione entrambi capitani, sempre dimenticandosi di essere fratelli quando c&rsquo;era da trascorrere quei novanta minuti sull&rsquo;una e l&rsquo;altra sponda del Ticino. E potremmo andare all&rsquo;infinito, perch&eacute; infiniti sono gli aneddoti legati a Milan &ndash; Inter, o a &ldquo;l&rsquo;Inter &ndash; Milan&rdquo;, come cantava l&rsquo;interista Celentano in una canzone in cui si innamorava di una bella mora milanista notata da una gradinata all&rsquo;altra. Per&ograve; lasciateci finire raccontando come tutto ebbe inizio, anche perch&eacute; non fu a Milano e nemmeno in Italia, per la verit&agrave;: Inter e Milan si affrontarono per la prima volta il&nbsp; 18 ottobre del 1908 a Chiasso, in Svizzera, per la Coppa che portava il nome della cittadina. E non poteva esserci luogo pi&ugrave; azzeccato, col senno di poi, perch&eacute; da quel momento in poi il derby di Milano ha sempre fatto tanto, tanto rumore.&nbsp;        

La rivalit&agrave; della stracittadina affonda le sue radici nelle differenze sociali del secolo scorso. In campo &egrave; una storia scritta da grandissimi campioni

Milan-Inter, il derby dei "bauscia" e dei "caciavìt"

L'ingaggio di Roberto Mancini da parte dell'Inter si ripagher&agrave; da solo, non per i risultati che dipenderanno da una diversa qualit&agrave; media della squadra (traduzione: mettere sul piatto 30 milioni veri a giugno, qualcosa gi&agrave; a gennaio) o per il confronto con Mazzarri che rimane un ottimo allenatore e senz'altro pi&ugrave; addentro ai meccanismi del calcio rispetto a giornalisti e tifosi, ma perch&eacute; il pupillo di Paolo Mantovani ha risvegliato con la sola sua presenza un notevole entusiasmo non solo nel mondo nerazzurro ma anche in quello degli avversari. Diversamente due squadre al punto pi&ugrave; basso del loro ultimo quarto di secolo non avrebbero riempito San Siro per un derby in cui ci si giocava il settimo posto, con almeno 15 dei 22 in campo che solo 4 anni fa non sarebbero riusciti nemmeno ad accedere alla panchina (e non solo perch&eacute; ci stavano 7 giocatori invece degli odierni e assurdi 12). Tatticamente Mancini ha cambiato la difesa, passata a 4, rischiando come &egrave; ovvio di vedersi ogni tanto un attaccante solo davanti ad Handanovic (nel derby &egrave; successo soltanto con El Shaarawy, domenica contro la Roma degli esterni che tagliano sar&agrave; un'altra faccenda) ma dando equilibrio a tutto il resto, investendo su un Kovacic che &egrave; stato fra i peggiori in campo in entrambe le posizioni (trequartista e quarto di sinistra) in cui ha giocato. Meglio riposta la fiducia in Guarin, meno ordinato ma con pi&ugrave; colpi, ma il contesto &egrave; lo stesso in cui si muoveva Mazzarri e quindi al momento su Mancini si possono fare soltanto discorsi mediatici anche se in questo senso il suo potere dipende dalla storia personale e non dall'azionariato dei vari media: se &egrave; tornato all'Inter dopo tre scudetti vinti, non sar&agrave; per arrivare nono, a meno che nei 4 milioni netti annui non sia compreso un indennizzo contro la caduta di immagine. Inzaghi la sua luna di miele con il pubblico del Milan non l'ha ancora finita, ma essendo l&igrave; da 5 mesi si giocava quindi molto di pi&ugrave;, logica la paura folle che ha trasmesso alla sua squadra, che ha pareggiato negli episodi importanti ma ha subito il palleggio di un'Inter che non aveva ingaggiato per l'occasione Iniesta e Xavi. Fa quello che pu&ograve;, navigando a vista e cercando di non sconfessare le scelte di Galliani: diversamente Essien e Torres non sarebbero partiti titolari in una partita del genere. Le scelte davvero sue, come Rami sulla destra, si sono rivelate buone e quando rientrer&agrave; Montolivo l'Europa League sar&agrave; sicura. E quindi? Il terzo posto da preliminare in Champions League, che sia Galliani che Thohir ritengono imprescindibile per un certo tipo di mercato (non sar&agrave; sfuggito ai lettori pi&ugrave; attenti il numero di giornalisti trasformatisi in alfieri del fair play finanziario, dopo decenni passati a invocare Pel&eacute; o Cruijff e che ancora in tempi recenti invitavano a raggirare l'UEFA con i tarocchi immobiliari alla Real Madrid o le sponsorizzazioni alla PSG), per le due squadre milanesi pu&ograve; essere giusto un sogno e soltanto se il Napoli si suicider&agrave; come &egrave; accaduto con il Cagliari. Certo che a parlare di quinti posti si vende di meno, ma anche con l'inganno sistematico alla lunga si vende di meno.  Twitter @StefanoOlivari

Il potere mediatico di Mancini

La tessera del tifoso &egrave; stata un fallimento, perch&eacute; a tre anni dalla sua introduzione (ministro dell'Interno era Maroni, presidente del Consiglio Berlusconi) i reati connessi al calcio sono s&igrave; diminuti, ma il numero degli spettatori della serie A &egrave; crollato. Un po' come ridurre il numero degli stupri evirando tutta la popolazione maschile. Una volta tanto non spariamo cifre a caso: la media spettatori per partita nella serie A 2008-09 era di 25.779, quella del campionato scorso di 23.214. A casa nostra significa meno 11% in sole tre stagioni. Se lo scopo era quello di cacciare gli ultras dagli stadi, vendendo meglio il fantomatico 'prodotto calcio' alle altrettanto fantomatiche famiglie con grande potenziale d'acquisto, ecco, questo scopo non &egrave; stato raggiunto. Negli stadi italiani, con poche eccezioni, sono rimasti quasi solo gli ultras. Il paradosso &egrave; che adesso nella serie A italiana si pu&ograve; comprare tranquillamente un biglietto senza avere la tessera del tifoso, aspettando la finestra della vendita libera, anche in partite come Milan-Inter. Da ieri si possono acquistare con la semplice carta di identit&agrave;, ce ne sono ancora in giro migliaia (qualcuno dice ventimila), senza bisogno della carta Cuore Rossonero. Domanda di un tifoso con un minimo di cervello: ma se anche senza la tessera del tifoso posso comprare il biglietto per Milan-Inter, perch&eacute; mai dovrei farmi schedare? Alla fine dagli stadi sono stati cancellati quelli che decidono di andarci all'ultimo momento, che condividono un abbonamento con un amico (il quale evidentemente ha un altro nome), che non vogliono perdere tempo in banca e in generale che non vogliono programmare tutta la propria esistenza in base al calendario calcistico. Pioggia di editoriali con i tifosi che disertano gli stadi (per il Milan minimo storico, nell'era Berlusconi, di abbonati, per l'Inter met&agrave; stadio vuoto in una partita interessante come quella con la Fiorentina), come se fosse un delitto snobbare De Jong e Alvarez, ma nessuna critica nei confronti di chi, con la connivenza delle stesse societ&agrave; (che preferiscono i soldi sicuri e fissi delle televisioni a quelli incerti della gente che ragiona con il proprio cervello), ha reso gli stadi sempre pi&ugrave; vuoti. Infatti la risposta dei grandi cementificatori e dei loro media &egrave; unanime: nuovi stadi, ovviamente molto pi&ugrave; piccoli perch&egrave; il calcio interessa a meno gente, edificabilit&agrave; delle aree circostanti, indotto commerciale che ripaghi del crollo dell'incasso al botteghino (del resto il botteghino non esiste pi&ugrave;). E quindi? Il responsabile marketing alle vongole, intervistato da chi di dovere, spiegher&agrave; che con tante Allianz Arena tutto cambier&agrave;.  Twitter @StefanoOlivari

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Milan-Inter senza tessera