Gianluca Signorini: c'era solo un capitano

Gianluca Signorini: c'era solo un capitano

Lo storico numero sei del Genoa se ne andava il 6 novembre di 20 anni fa, ritagliandosi per sempre un posto tra le leggende del Grifone. Nessuno ha più vestito la sua maglia, ritirata dal club dopo la sua morte

Paolo Marcacci/Edipress

06.11.2022 12:45

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Il ruolo del libero era già, quando ancora si poteva usare questa definizione, un ruolo a suo modo residuale: al libero toccava il compito di sbrogliare ciò che restava dell’azione offensiva avversaria; molto spesso la parte più pericolosa, se l’attaccante era riuscito ad arrivare dalle sue parti. Di conseguenza, non era libero per niente: a lui toccava risolvere ciò che ad altri non era riuscito; i marcatori avevano il loro punto di riferimento, ovvero la punta da prendere in consegna; il libero doveva essere punto di riferimento lui per gli altri, anche quanto a supervisione della disposizione offensiva. Per questo bisognava starlo a sentire; per questo il libero adoperava la voce, tanto più degli altri, quasi quanto il portiere. Però sulla solitudine del portiere si sono spesi fiumi di versi e descrizioni romantiche, il libero è rimasto solo anche rispetto alla celebrazione letteraria. Forse per questo l’ultimo difensore ha urlato sempre un poco più degli altri; forse per questo è stato spesso lui il capitano. Perché la squadra è una nave, l’equipaggio ti ascolta, si aspetta sempre l’ultimo giro di timone utile, sotto forma di rinvio verso gli spalti, per evitare lo scoglio di uno svantaggio. 

Gianluca Signorini è stato tutte e tre le cose, a pensarci bene, per disposizione della natura: un libero, un capitano, un uomo nato quasi di mare, come tutti i pisani che annusano l’aria e sentono la Marina a un tiro di desiderio, di nostalgia o di bestemmia. Diventato marinaio ad honorem a Genova, dove di lui si è spesa la miglior parte, dove tutto ciò che poteva capitare nell’area di rigore che doveva proteggere serviva già a insegnargli che ci sarebbe sempre potuto essere un pallone che sarebbe rimbalzato troppo in alto per poi spiovergli alle spalle, come le cose del destino che non ti avvisano, che ti fanno sentire in fuorigioco dopo una vita trascorsa salendo per farci finire gli altri. 

Pisa un cerchio, con la traiettoria circolare percorsa dalla partenza al ritorno, dell’esordio ragazzino in C1 al ritorno che il cerchio chiudeva, quando a quella maglia era successo di tutto e più di un topo aveva abbandonato la nave. Tante stazioni di posta durante il viaggio, comprese Parma e Roma giallorossa, passando addirittura per Livorno, dove ogni pisano si guarda allo specchio e si vede capovolto. Poi la maglia del Genoa, la casa non solo calcistica dove a un certo punto Gianluca sente quasi di essere nato, col suo profilo stretto come lo sguardo quando si spinge a scrutare dentro l’ombra dei carruggi, dove il sole non riesce a bussare agli stanzìni delle bagasce e il calore della focaccia si copre dello stesso sale che incartapecorisce le reti una volta svuotate; dove De André espiava la colpa d’essere nato ricco. 

Pisani e genovesi si erano uccisi a vicenda, con Livorno sempre a far da crocevia del destino, nel tredicesimo secolo: odiandosi per sempre da allora in poi, riavvicinandosi in nome e per merito di una maglia numero sei, che oggi il Genoa custodisce e preserva dalle striature di erba e di fango, da un calcio distratto per il quale si è sempre tutti di passaggio, un po’ come i marinai. Il Capitano era di un’altra pasta, per questo aveva gettato l’ancora invitando il popolo rossoblù a partire per il suo viaggio più esaltante dell’era moderna, senza paura delle rotte continentali, senza abbassare lo sguardo davanti agli equipaggi più ricchi di un’Europa meritata e quasi conquistata. Il suo Genoa parla di 234 presenze bagnate da cinque reti ma nessun almanacco potrà mai tradurre il rispetto di un popolo che consegna le chiavi del suo modo di essere a un condottiero venuto da fuori e nato una seconda volta all’ombra del Grifone; un legame assoluto al punto tale da contagiare anche gli avversari nella sospensione dell’insulto idiota, nel rispetto di ciò che è sacro anche se messo a fuoco dalla barricata opposta. 

Quando il Capitano si è ammalato, per ogni fibra muscolare che lasciava il porto del suo controllo, sempre più si è aggrappato alla sua lucidità: la stessa con la quale aveva comandato la contraerea nella notte di Anfield, quando il rossoblù aveva cancellato a domicilio il rosso del Liverpool, la medesima della scelta di tempo per il colpo di testa di quel gol alla Sampdoria nel derby di ritorno del 1992. Con l’anima ancora salda si fece spingere da sua figlia a salutare la gradinata, l’ultima volta, dopo aver trovato le parole da affidare al vento che continuamente mescola gli umori del mare e quelli dello stadio, in un va e vieni di speranze, interrogativi, sogni di gloria, frustrazioni, sentimenti sempre pieni come il legno delle chiglie quando si gonfia di salsedine, un po’ come è sempre stata la storia del Genoa: “Vorrei alzarmi e correre con voi, ma non posso. Vorrei urlare con voi tifosi canti di gioia, ma non posso. Vorrei che questo fosse un sogno, dal quale svegliarmi magari felice, ma non lo è. Vorrei che la mia vita riprendesse da dove si è fermata. Vorrei dirvi grazie, per tutte le manifestazioni di affetto, che mi avete dimostrato. Voglio ringraziarvi per aver aderito al mio appello di solidarietà. Voglio ringraziare chi ha reso possibile tutto questo, i miei vecchi compagni, i mister e voi tifosi, con i quali ho trascorso sette splendidi anni indimenticabili. Vi voglio bene”. 

C’era solo un Capitano, di conseguenza ci sarà per sempre: per ogni cosa che potrà capitare al Genoa, nel tempo che verrà, di umiliante o di grandioso, ci sarà sempre quella maglia numero sei, che il tempo non sfilaccia più, che nessuno mai potrà strappare: vessillo da agitare al vento delle conquiste che saranno, mantello sotto il quale ripararsi dalla tramontana delle delusioni.

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