Il "tempo di Fritz Walter" tra Kaiserslautern, guerra e Germania Ovest

Il "tempo di Fritz Walter" tra Kaiserslautern, guerra e Germania Ovest

A lui è intitolato lo Stadio dei Diavoli Rossi, unica squadra per la quale ha militato. Dopo la prigionia tornò a giocare portando i tedeschi sul tetto del mondo nel 1954

Alessio Abbruzzese/Edipress

16.06.2022 11:52

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Quando dici Fritz Walter dici Kaiserslautern, ma in senso più ampio quando dici Fritz Walter dici Germania. Il calciatore tedesco è stato senza alcun dubbio l’icona del Fussball, con molta probabilità più e molto prima di Muller e Beckenbauer, anche se in maniera diversa. Perché per quanto possa sembrare incredibile, il giocatore più celebre della storia del calcio in Germania non ha mai vestito la maglia né del Bayern Monaco, né dell’ Amburgo, né del Gladbach e neppure del Borussia Dortmund. Non per limiti tecnici, ne ebbe la possibilità eccome, ma perché decise di rimanere per tutta la carriera a casa sua, nel Palatinato, dove nacque, crebbe e giocò a calcio per tutta la vita, sempre indossando la maglia dei Diavoli Rossi. Quella di Fritz Walter è una lunga avventura che percorre diverse tappe del secolo scorso, vivendone e superandone i momenti più tragici e quelli più felici. Un’avventura che parla soprattutto di calcio, ma non solo. 

“Il tempo di Fritz”

La vita di Fritz è una di quelle subito destinate ad incrociare il calcio: il papà è un inserviente del Kaiserslautern e il giovanissimo Friedrich (vero nome di battesimo di Walter) entra nelle giovanili del club ad appena 8 anni. Ci rimarrà per tutta la vita. Che sia un calciatore eccezionale risulta evidente sin da subito: centrocampista offensivo con il vizio del gol, esordisce in prima squadra a soli 17 anni, a 20 inizia la sua avventura in nazionale e il lungo sodalizio con il Ct Sepp Herberger. Non potrebbe andare meglio per Fritz, che nella prima partita con la maglia della Germania firma addirittura una tripletta, quando l’ombra della guerra si impadronisce dell’Europa e della vita di milioni di giovani. Quella del calciatore del Palatinato non farà eccezione. I primi anni di conflitto, quelli in cui la Wehrmacht sembra riuscire a stravincere la guerra senza particolari intoppi, i calciatori della nazionale tedesca li vivono da privilegiati: sono tutti stanziati in Germania, lontani dal fronte, pronti per giocare ad ogni chiamata del Ct. Scendono in campo principalmente contro squadre con cui la Germania non è in guerra, riuscendo a rimanere in patria e ad allenarsi regolarmente. Nel 1942, con l’inasprirsi del conflitto, lo Stato Maggiore decide di dare fondo a tutte le risorse umane, e anche i calciatori vengono chiamati realmente alle armi. Fritz finisce in Sardegna, dove accade un fatto che gli condizionerà per sempre la vita: sull’isola contrae la malaria, guarisce ma rimarrà comunque insofferente al caldo e a giocare sotto il sole. In futuro infatti tutti imparareranno che il ragazzo dà il meglio di sé quando la pioggia scende copiosa e il campo è pesante, quando appunto c’è il “Fritz Walter-Wetter”, il "tempo di Fritz Walter".

Fritz Walter tra guerra e prigionia

Dopo qualche tempo viene spedito in Bassa Sassonia, a Jever, nei ranghi di una squadriglia di caccia della Luftwaffe. Fritz non ha nessuna esperienza di volo ovviamente, e rimane interdetto e confuso dall’assegnazione. L’arcano è presto svelato: lo ha voluto con se il Colonnello Graf, amico di Herberger e grandissimo appassionato di calcio. Non può farsi scappare Fritz, gli serve come fiore all’occhiello della squadra di calcio che ha tirato su, e che si cimenta ogni tanto in qualche partita amichevole. La situazione per il giovane centrocampista rimane serena fino al 29 maggio del 1944: le sorti della guerra sono ormai cambiate radicalmente, gli Alleati bombardano Jever, Graf rimane ferito gravemente e la base aerea viene abbandonata in fretta e furia per trovare riparo a Rennes. Dei dodici aerei partiti ne vengono buttati giù sette, quello su cui viaggia Fritz Walter viene colpito e riesce a salvarsi per il rotto della cuffia con un atterraggio di emergenza ad Orleans. Friedrich sopravvive miracolosamente, ma da quel giorno non salirà mai più su un aereo. Un anno dopo, a guerra praticamente terminata, finisce in un campo di prigionia americano come migliaia di altri giovani tedeschi, poi a Sighetu Marmatiei, in Romania, in attesa di essere smistato per i gulag siberiani. Una volta arrivati nelle fredde steppe dell’estremo nord, l’aspettativa di vita di un prigioniero è di circa cinque anni, e se si torna non lo si fa mai come prima. Questo Fritz lo sa bene, lo sanno bene anche gli dei del calcio che volgono ancora una volta lo sguardo verso il ragazzo cresciuto a sud della Renania: la sera prima dell’appello che lo condannerebbe alla partenza in Russia, due guardie carcerarie bivaccano calciando distrattamente un pallone. Fritz si mette a palleggiare con loro, ben presto si uniscono altri e nello spiazzo antistante l’ospedale militare parte una sorta di partita amichevole tra guardie e prigionieri. Quando tutti si rendono conto che quel giovane bruno di capelli ha una marcia in più sono curiosi: Fritz esce allo scoperto e dice di giocare con la nazionale tedesca. Alcuni lo riconoscono: “Ma si è lui, quello che fece due gol all’Ungheria quella volta a Budapest”. Parlano della partita tra i magiari e i tedeschi giocata il 3 maggio del 1942, in cui effettivamente Walter si rese protagonista di una prestazione maiuscola, segnando la rete del momentaneo vantaggio oltre a quella del 3-3. Alcuni carcerieri lo prendono a cuore e gli promettono che gli risparmieranno la Siberia, e così fanno: verso fine ottobre Fritz rientra a Kaiserslautern. Non la lascerà mai più.

La rinascita e la vittoria di Fritz Walter

Qui comincia inevitabilmente una nuova fase dalla vita del giovane calciatore: il dopoguerra è durissimo in tutta Europa, in Germania più che mai. Friedrich conosce una ragazza italiana, di Belluno, che parla molto bene anche il francese e lavora come interprete presso le truppe alleate di stanza nella città del Palatinato. Come per Kaiserslautern, decide di non lasciare mai più nemmeno lei. Pian piano anche il calcio ricomincia a decollare, Fritz gioca e segna con grandissima continuità e quando piove, e in Germania accade abbastanza spesso, si creano le condizioni climatiche del “tempo di Fritz” e non ce n’è davvero per nessuno. C’è “il tempo di Fritz” anche il 4 luglio del 1954 a Berna, in una delle partite più importanti della storia del calcio. Nella capitale svizzera si gioca l’atto finale del Mondiale tra la Germania Ovest e la Squadra d’Oro, la celeberrima e temibile nazionale ungherese. Nel girone di qualificazione i magiari hanno già incontrato i ragazzi di Herberger rifilandogli ben otto gol. Puskas e compagni sono fenomenali, ma ad onor del vero i tedeschi si presentarono a quella sfida con una formazione rimaneggiata. In quella piovosa serata di Berna il Ct si affida a Fritz, ma la partita inizia malissimo: dopo appena 8 minuti i magiari sono avanti di due gol, firmati da Puskas e Czibor. La reazione tedesca non si fa attendere e i ragazzi di Herberger accorciano subito le distanze con Morlock e al diciottesimo agguatano il pareggio con Rahn. Da lì in avanti la Squadra D’Oro inizia a spingere forte e assedia la porta tedesca, ma come succede spesso in questi casi è la squadra più in difficoltà a segnare: lo fa di nuovo Rahn a pochi minuti dalla fine, consegnando la Coppa Rimet nelle mani di Fritz Walter: la Germania Ovest è campione del mondo. Come dirà anni dopo quella sarà la seconda partita più importante della sua vita: la prima la giocò nel campo di Sighetu Marmatiei, in Romania, ormai quasi dieci anni prima.

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