Cervone: “Rimpianti mai. Quando giro per Roma la gente mi ringrazia”

Cervone: “Rimpianti mai. Quando giro per Roma la gente mi ringrazia”

L'ex numero 1 si racconta in occasione dei suoi 60 anni: "È la vera gioia che provo tutt’oggi. Solo chi ha giocato lì, può capire la bellezza di indossare quella maglia"

Massimiliano Lucchetti/Edipress

16.11.2022 ( Aggiornata il 16.11.2022 00:00 )

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Nato il 16 novembre 1962, il gigante di Brusciano, paese in provincia di Napoli, cresce nella Juve Stabia, per poi passare ad Avellino. Dopo alcuni anni nella serie cadetta, approda al grande calcio, prima con l’Hellas Verona e poi all’ombra del Colosseo diventando un baluardo molto stimato dalla tifoseria giallorossa, nonostante una serrata concorrenza in ogni stagione. Sebbene non abbia mai vestito la divisa della Nazionale, rimane un estremo difensore icona degli anni ’90.

Ad Avellino, incontri sulla tua strada Stefano Tacconi. Eravate entrambi molto giovani, che rapporto era il vostro?

"Un buon rapporto, lui stava già diventando un grande portiere e io ero il giovane che lo ammirava. Con me si è sempre dimostrato una persona stupenda; ho solamente ottimi ricordi, di quell’anno. Ne approfitto per fargli i miei più sinceri auguri di pronta guarigione".

Disputi un’ottima annata a Catanzaro – la tua prima esperienza da titolare - (1983-84), che ricordi hai?

"A inizio anno ero titolare in A con l’Avellino, successivamente il presidente venne arrestato e i nuovi proprietari volevano un portiere esperto e così avvenne lo scambio con Zaninelli. In B feci bene, ma purtroppo non bastò per raggiungere la salvezza".

Tre stagioni a Genova, sponda rossoblù. Nel 1985-86 vieni nominato miglior portiere del campionato cadetto. È stata una delle tue migliori stagioni?

"Tre stagioni molto buone, con la ciliegina del riconoscimento individuale che hai nominato tu. Anche in questo caso c’erano tre promozioni e noi sfiorammo solamente il paradiso della A".

Dopo un ulteriore torneo in B con il Parma, finalmente hai la possibilità di dimostrare il tuo valore in A con la maglia del Verona. Ci racconti le tue emozioni?

"Un ambiente ideale per fare bene. Ti dico la verità, le pressioni non hanno mai fatto parte del mio essere, giocai sempre molto tranquillo; dopo alcune giornate avevo già parlato con i dirigenti della Roma, per l’anno successivo".

Eccoci finalmente a Roma. Nel 1989 disputi una grande stagione, si parla di te anche come candidato per il ruolo di terzo portiere a Italia ’90, poi il grave infortunio al ginocchio. Hai mai pensato per un momento di mollare?

"Assolutamente no, da giovane ne ebbi uno molto più grave: ero tranquillo di poter riprendere il percorso da dove l’avevo lasciato. Ho sempre avuto 'fame', volevo arrivare e ci sono riuscito".

Il tuo destino in quegli anni si è spesso incrociato con Angelo Peruzzi, altro grande numero uno italiano, ma la Roma fece la sua scelta e fosti tu. Quanta gioia hai provato?

"In realtà ci incontrammo poco. Lui giocò all’inizio del 1990-91, quando io ero infortunato, poi alla fine dell’anno lui andò alla Juve e io rimasi a Roma. Posso dire che in quel poco che ci allenammo assieme, spiccavano le sue grandi qualità fisiche".

Gli inizi degli anni ’90 ti videro grande protagonista, insieme alla tua squadra. La vittoria della Coppa Italia e le finali di Supercoppa e Coppa Uefa. Che magica alchimia si creò in quegli anni?

"Ho sempre giocato in formazioni di qualità, ma soprattutto di grande carattere; purtroppo, all’epoca in Italia c’erano dei veri e propri squadroni: il Milan degli olandesi, l’Inter dei tedeschi, il Napoli di Maradona, la Samp delle meraviglie e la Juve che è sempre lì".

Molti portieri hanno provato a portarti via il posto: Zinetti, Pazzagli, Lorieri, Sterchele, ma nessuno di loro ci riuscì. Si può affermare che la tua forza mentale sia stato un tratto distintivo, nella tua vita calcistica?

"Qui apro una parentesi, non è che mi provavano a portare via il posto, avevano l’autostrada spianata. Io alla fine di ogni annata mi trovavo il contratto rinnovato e poi venivo messo fuori squadra fino a gennaio, quando erano costretti a reintegrarmi poiché le prove fornite dagli estremi difensori non erano sufficienti. Non mi chiedere il perché di questa cosa, poiché ancora oggi me lo chiedo anche io".

Nei tuoi otto anni di Roma, quale è il compagno con il quale hai legato di più?

"Sebino Nela che conoscevo già, all’inizio della mia avventura romana, fu determinante per farmi sentire parte integrante del gruppo".

C’è un allenatore a cui devi di più nella tua carriera?

"Ho sempre avuto la fortuna di lavorare con persone eccezionali, a partire da Gino Merlo, poi Pietro Carmignani, Ugo Rosin, Negrisolo a Roma e per finire con quello che secondo me è stato il più bravo di tutti e che se avessi conosciuto qualche anno prima, forse avrei potuto fare ancora meglio: Luciano Bartolini a Ravenna".

Chiudi la carriera a Ravenna in B, dove dimostri ancora di essere un ottimo estremo difensore. È stata una tua scelta quella di smettere?

"Avevo già smesso dopo l’esperienza di Brescia, che non mi ha lasciato dei buoni ricordi. Poi mi chiama il Ravenna per far crescere Alessio Sarti, ma alla fine giocai di più io, ma la scelta era ormai presa".

Oggi a distanza di tanti anni, Giovanni Cervone ha più gioie o rimpianti?

"Rimpianti mai. La vera gioia che provo tutt’oggi è che quando giro per le strade di Roma, la gente mi riconosce e mi ringrazia per quello che ho fatto nella Capitale. Solo chi ha giocato lì, può capire la bellezza di indossare quella maglia".

Ringraziando Giovanni, faccio una mia considerazione personale, chi lo ha sempre descritto come una persona poco umile e scorbutica si sbaglia di grosso, è stato un vero piacere per le pagine de Il Cuoio raccontare la sua storia.

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