Petruzzi: "Zurigo, la Roma, la difesa a 3, Mazzone"

Petruzzi: "Zurigo, la Roma, la difesa a 3, Mazzone"

Il difensore giallorosso era tra i titolari nella trasferta svizzera del 1998: «Ricordo il freddo e quel pari che ci qualificò ai quarti Uefa»

Paolo Valenti/Edipress

30.11.2023 ( Aggiornata il 30.11.2023 15:12 )

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Fabio Petruzzi è stato uno dei protagonisti della Roma degli anni Novanta. Cresciuto nelle giovanili giallorosse, lasciò la Capitale proprio nella stagione in cui la squadra conquistò il suo terzo scudetto. Difensore centrale dotato di ottimi fondamentali, era capace di impostare il gioco sia nelle difese con stopper e libero che in quelle schierate in linea, come testimonia l’uguale apprezzamento che gli riconobbero allenatori diversi come Mazzone e Zeman. In questa intervista racconta le esperienze vissute in quegli anni proprio partendo dall’ultima partita che giocò in Coppa Uefa l’8 dicembre 1998 a Zurigo.    

Fabio, quel match contro lo Zurigo in trasferta finì 2-2 e qualificò la Roma ai quarti di finale. Ricordi che clima c’era allo stadio?

«Faceva freddissimo! Mi viene in mente che noi avevamo la maglia nera a maniche lunghe. Ricordo che loro avevano un attaccante molto bravo, Bartlett, che fece una doppietta».

Lo Zurigo ebbe un rigore a favore causato da un tuo intervento su Di Jorio. Come andò quell’azione?

«Sinceramente mi chiedi troppo, non me lo ricordo! Ho in mente il risultato e il loro attaccante bravo ma del mio rigore niente! Ci sono molte partite delle quali non ricordo nulla. Del resto sono passati tanti anni…».

In quella partita Aldair, per l’assenza di Cafu, fu costretto a giocare a destra. Come approcciava quel ruolo il brasiliano?

«In quel periodo Aldair giocò diverse partite a destra. Si diceva che avendo degli esterni difensivi un po’ più puri avremmo potuto prendere meno gol. Non lo so, sicuramente Cafu e Candela erano due fenomeni che spingevano molto e questo a volte poteva portare a rimanere due contro due o uno contro uno. Quanto a Pluto, anche quello non me lo ricordo bene ma non mi sembra che fosse tanto contento di giocare terzino…».

Nello spogliatoio chi era il leader di quella squadra?

«Guarda, innanzitutto c’è da dire che eravamo un grande gruppo fatto di grandi calciatori ma non c’era un leader assoluto. Totti eccelleva per le qualità tecniche e in campo faceva già la differenza, Di Biagio aveva molta personalità, Aldair era un campione del mondo».

Per assonanza, dopo Bartlett mi viene da pensare a Bartelt, che era arrivato quell’anno a Trigoria: fece qualche giocata incredibile ma alla fine non lasciò il segno. Mi sai dire che calciatore era?

«Era un giocatore particolare: magari dal punto di vista tecnico non era straordinario ma riusciva a fare delle giocate in mezzo a due-tre avversari clamorose. Era capace di uscire a duecento all’ora da situazioni difficili che non ti saresti mai aspettato. Tipo l’azione che fece contro la Fiorentina quell’anno, che ci permise di ribaltare il risultato».

Quella sera a Zurigo ricorrevano sedici anni esatti da una partita di Coppa Uefa memorabile: Roma-Colonia 2-0. Hai qualche ricordo particolare di quel match?

«In quella partita io facevo il raccattapalle, ero un ragazzino. Era un’emozione unica vedere da vicino i miei campioni, soprattutto Di Bartolomei: per me Agostino è stato il più grande di tutti. Ricordo quanto ho esultato al gran gol di Falcao, col tiro dopo lo stop di petto. Peraltro io stavo proprio sotto la Curva Sud quando Paulo corse lì dopo aver segnato. Venne con tutti i compagni: belle emozioni».

Nel 1998-99 la Roma non riuscì ad andare oltre i quarti di finale, fermata dall’Atletico Madrid in una partita in cui l’arbitro venne fortemente contestato. Secondo te quella squadra aveva il potenziale per arrivare in finale?

«Sì, quella squadra era forte. Faceva un bel calcio e aveva preso consapevolezza di quello che si doveva fare in campo: andava a giocarsela ovunque. Poi è vero che rischiavamo anche di perdere con chiunque perché potevamo incappare in brutte giornate. Però anche quando mancavano giocatori importanti, i compagni che li sostituivano facevano sempre una grande prestazione».

Il modo di giocare che aveva quella Roma, che non faceva calcoli e giocava sempre all’attacco, era adatto per affrontare le competizioni europee?

«Direi di sì. Prendi, ad esempio, la partita in trasferta col Leeds (Leeds-Roma 0-0, 3 novembre 1998, ndr): rimanemmo in dieci per l’espulsione di Wome ma non subimmo un tiro in porta. Era una squadra che quando doveva stare più accorta lo sapeva fare».

A Zurigo fu la tua ultima partita in Coppa Uefa. Qualche rimpianto?

«No, non ho rimpianti. Io ho indossato la maglia della Roma e ho giocato con grandi calciatori. Da piccolo andavo allo stadio e sentivo l’inno di Lando Fiorini, non vedevo l’ora di entrare all’Olimpico e godere di quelle immagini meravigliose: il prato verde, la Curva Sud. Io ho toccato con un dito tutto questo: cosa posso volere di più? Solo aver calcato quel manto erboso che vedevo da bambino per me è stato un sogno. Ho vissuto emozioni che rimarranno sempre dentro di me, come quando passavo sotto quella curva prima di un derby e sentivo il cuore battere a duecento all’ora che mi faceva temere di avere un infarto. Certo, mi sarebbe piaciuto vincere qualcosa. Non ho vinto il campionato da calciatore perché nel 2001 ero andato via, però l’ho vinto da tifoso».

Come si troverebbe Fabio Petruzzi nella Roma di oggi?

«Non lo so, oggi il calcio è cambiato. Gradivo molto giocare a uno, due tocchi, dare palla avanti, forse perché fino a diciotto anni ero stato un centrocampista centrale: mi piaceva impostare dal basso. Con Mazzone già facevamo la difesa a tre: io stavo centrale con Aldair e Lanna ai lati. Quindi sì, penso che mi potrei trovare abbastanza bene con la costruzione del basso che si pratica oggi. Anche se, ti dico la verità, per me si eccede con questa impostazione: il rischio che si possa perdere palla è superiore alla possibilità di eludere la pressione. E poi, anche quando ci riesci, non è detto che arrivi a creare una situazione di gioco pericolosa, perché comunque stai a settanta metri dalla porta avversaria. Mentre se perdo palla vicino alla mia porta sicuramente devo subirne una».

Come vedi la stagione europea della Roma di Mourinho? Può arrivare a Dublino per riscattare Budapest?

«Ce lo auguriamo anche se quest’anno è un po’ più difficile. Intanto c’è il Liverpool. E poi dalla Champions potrebbero scendere un po’ di “carri armati”. Già se prendi il girone del Milan, una tra loro, PSG, Borussia o Newcastle scenderà in Europa League. È dura ma va detto che Mourinho è un tecnico da competizione. La Roma è una squadra che quando va in trasferta non fa giocare l’avversario mentre in casa, davanti a 65.000 persone che ti spingono, si trasforma e dà qualcosa in più».    

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