Chierico, una carriera a metà tra artista e artigiano

Chierico, una carriera a metà tra artista e artigiano

Dapprima fantasista a ridosso delle punte e successivamente convertito all’ala, per avere successo dovette lasciare Roma prima di tornarci per vincere lo scudetto

Paolo Valenti/Edipress

28.03.2024 07:01

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Nemo propheta in patria. Sembrava essere questo il destino di uno dei calciatori che, nell’album delle figurine, sul finire degli anni Settanta faceva bella mostra di sé con la maglia nerazzurra dell’Inter e una chioma rossa che ne rendeva inconfondibile l’immagine. Già, perché Odoacre Chierico, romano della Garbatella, per inseguire il grande sogno di diventare calciatore aveva dovuto lasciare la propria città e approdare a Milano, negli anni in cui la metropoli lombarda si stava ristrutturando per riprendersi il primato di capitale del calcio italiano, in quel decennio usurpatogli dalla Torino degli Agnelli e di Pianelli.

Gli inizi con l’Inter

Spesso i percorsi della vita somigliano alle circonvoluzioni imprevedibili delle foglie che, cadendo dagli alberi, vengono spinte dal vento a planare nei punti più impensati. Ci si fa un pensiero ricordando il giorno dell’esordio in Serie A del diciottenne Odoacre, che il 26 febbraio 1978 fa il suo primo passo nella massima divisione all’Olimpico contro la Lazio. Un momento importante, indossando quella maglia numero dieci che nel club nerazzurro porta il peso della storia del calcio, per lui che, romano e romanista, si ritrova a entrare ufficialmente nel calcio professionistico nella sua città in una sorta di derby personale (che tra l’altro perde 1-0). È la prima di una manciata di presenze (nelle due stagioni disputate con l’Inter alla fine saranno 27, spalmate tra Serie A, Coppa Italia e Coppa delle Coppe, competizione in cui Chierico segna anche un gol) nelle quali, evidentemente, non riesce a convincere l’ambiente nerazzurro di essere un giocatore già pronto a dare un contributo importante per andare a vincere lo scudetto. Il talento c’è ma, come si diceva all’epoca, è un calciatore che deve ancora farsi le ossa.

Alla corte di Anconetani

Così il nerazzurro rimane il suo colore ma la maglia pesa un po’ meno: nel 1979-80 il ragazzo della Garbatella si trasferisce a Pisa. Con la squadra di Anconetani riesce finalmente a esprimersi appieno, dimostrando anche una capacità realizzativa che ne completa il profilo di trequartista dalle spiccate doti tecniche. Dei sei gol della stagione 1980-81 ce n’è uno particolarmente significativo: quello messo a segno il 24 maggio 1981 a San Siro contro il Milan, che permette al Pisa di ottenere l’unica vittoria della sua storia contro i rossoneri. Un altro derby personale nella carriera di Odoacre, dopo quello dell’esordio in Serie A, questa volta con un esito favorevole. Un momento da cerchietto rosso, evidentemente non l’unico di quell’annata se il Barone Liedholm chiede di poterlo avere a disposizione nella sua Roma che, dopo l’episodio del “gol di Turone”, vuole riprovare a strappare lo scudetto dalle maglie della Juventus.

Il ritorno a Roma

Così, nell’estate del 1981, Chierico torna nella sua città d’origine. Le aspettative sono alte, per lui e per la squadra. Potrebbe essere lui una delle poche eccezioni alla regola che nessuno è profeta in patria: appena ventiduenne, ma già con quattro stagioni da professionista alle spalle, “quest'altr'anno giocherà con la maglia numero sette”, come canterà De Gregori appena pochi mesi dopo quel rientro nella Capitale. Liedholm, per mettere la sua qualità a disposizione dell’impianto di gioco giallorosso, che prevede due ali molto larghe pronte a crossare dentro l’area per servire Roberto Pruzzo, lo sistema sulla fascia destra per sfruttarne la capacità di saltare l’uomo e creare superiorità numerica. La stagione, però, non è esplosiva come tanti auspicavano. Già a marzo la Roma è tagliata fuori dalla corsa per lo scudetto e Chierico non riesce a convincere pienamente critica e pubblico, tanto che l’anno seguente, pur contribuendo alla vittoria dello scudetto della società di Dino Viola, non è più titolare, complice anche il cambio di modulo per il quale opta il Barone, che prevede la rinuncia a una delle due ali a vantaggio di una seconda punta da affiancare al bomber di Crocefieschi. La sua classe ha comunque modo di esprimersi nella trasferta di Torino contro i bianconeri, quando il “roscio”, come viene affettuosamente chiamato dai tifosi, segna il gol del provvisorio vantaggio. Il Comunale, evidentemente, è uno stadio dal quale riesce a trarre ispirazione, visto che l’anno seguente, sempre contro la Juventus, si rende protagonista di un’azione da raccontare ai nipoti quando, proprio allo scadere, supera con un pallonetto Platini e mette in mezzo all’area un pallone sul quale Pruzzo, in rovesciata, batte Tacconi e raggiunge il pareggio. Quella è l’annata della Coppa dei Campioni, dal cui calice amaro è costretto a bere anche Chierico, subentrato a Pruzzo nella finale contro il Liverpool e designato ultimo tiratore di un rigore che non batterà mai, sfumato tra errori e lacrime che non troveranno mai conforto.

Gli ultimi anni

L’arrivo di Eriksson non gli apre ulteriori opportunità. Con il giovane allenatore svedese Odoacre non si impone e per trovare spazi più consoni a un calciatore nel pieno della carriera si trasferisce a Udine, dove recupera un ruolo più centrale ma è anche costretto a retrocedere in Serie B nel 1987. Per tornare in Serie A indosserà ancora maglie bianconere: dapprima quella del Cesena (1988-89) e poi quella dell’Ascoli (1989-90) prima di chiudere con Barletta e Gubbio una carriera a metà tra artista e artigiano.

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