Giuliano Taccola e la Roma: il filo del destino

Giuliano Taccola e la Roma: il filo del destino

Una storia che ancora non dà pace, nel pensiero soprattutto del calciatore, uomo, padre che non fu in un pomeriggio del 1969 durante una trasferta a Cagliari

Paolo Marcacci/Edipress

27.06.2023 23:01

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Il filo di un destino che all’inizio si dipana senza intoppi, che si svolge in crescendo, come il talento e l’impegno meritano. E sembra già scritta la storia, di gol di provincia che si fanno metropolitani; di campi di pozzolana che si tingono di un verde Serie A; di pacche sulla spalla in un bar di provincia tramutate in titoli di giornale. Poi, immaginate che quel filo il vento cominci a spostarlo, a farne grovigli sempre meno districabili, nel bel mezzo del suo srotolarsi verso una meritata gloria. Che in tanti ne calpestino i nodi formatisi nel frattempo: non per cattiveria ma per indifferenza, per incuria, per mancato rispetto nei confronti dell’individuo; per l’umanità accantonata a fronte di interessi meschini. E, alla fine, che tutti assistano ebeti e increduli al suo spezzarsi, senza che nessuno abbia nel frattempo fatto nulla per sciogliere quei nodi.

Taccola e la legge del gol

Storia di Giuliano Taccola da Uliveto Terme, provincia di Pisa, che oggi, 28 giugno 2023, compirebbe ottant’anni. Che non fece in tempo a vedere i ventisei e cinquantaquattro anni dopo, ancora non si dirada la nebbia dei perché. Ha detto qualcuno che chi fa gol da ragazzino farà gol anche da grande; chi segna regolarmente in Serie C segnerà regolarmente anche in Serie A. La storia di Giuliano sembra destinata a un crescendo simile, meritato di rete in rete, conquistato come il pane bianco che ci si può permettere dopo aver macinato la farina grezza di quello scuro. Corre i cento metri in undici secondi; segna regolarmente e caratterizza il destino delle squadre nelle quali milita: lo scopre Fulvio Bernardini quando milita nel Savona, che con i suoi gol viene promosso in B nella primavera del 1966. L’anno dopo Taccola è al Genoa. A quel punto, c’è la Roma, che lo acquista per la stagione 1967-68. Una Roma ancora modesta tecnicamente, con Oronzo Pugliese alla guida, che Taccola galvanizza con i suoi gol, a cominciare dal primo, all’esordio a San Siro contro l’Inter, il 24 settembre del ‘67.

La Roma di Taccola in grande spolvero

La Roma nelle prime giornate è un fuoco di paglia d’alta classifica, sarà decima a fine stagione. Ma i gol di Taccola, dieci in campionato, saranno una costante e soprattutto sembrano costituire la pietra di posa per la stagione successiva, quando alla guida del club giallorosso arriva Helenio Herrera. Taccola agisce in attacco in coppia con Peirò, sulla trequarti Cordova e Salvori, Fabio Capello centromediano a imbastire la manovra. Al giro di boa delle festività natalizie, Taccola si ritrova ad aver segnato sette gol in undici partite; in odore di Nazionale maggiore, con somme importanti guadagnate grazie ai premi partita, politica abituale nel calcio italiano dell’epoca, che fanno comodo a un ragazzo che ha già due bambini e una moglie, la giovanissima Marzia. Poi, che succede? Perché il filo s’ingarbuglia fino a spezzarsi?

Il malessere che frena il sogno

A quel punto, la storia di un uomo esce dal campo per entrare in una serie di studi medici; la ospitano cartelle cliniche, forse manipolate nel tempo, e non più i resoconti dei quotidiani del lunedì. Stanchezza e febbre, una brutta tonsillite che necessita di un intervento; l’emersione di un problema cardiaco mai ben accertato e bollato frettolosamente come “soffio d’atleta”. Debolezza e febbre, ancora di più, tra gennaio e febbraio del 1969. Un riposo assoluto da osservare secondo le prescrizioni, precetto mai rispettato in realtà, perché Taccola torna subito ad allenarsi, anche se ogni sera è febbricitante. Giuliano serve alla squadra anche se è sottopeso di quattro o cinque chilogrammi. E poi "Niente partita, niente dinero" è la regola ratificata dal Mago Herrera, ossia i premi vanno a chi scende in campo. Realtà contrattuali imparagonabili a quelle odierne, anche ad alti livelli. Sì, ma che succede? Domanda destinata a rimanere senza una risposta definitiva, ancora oggi. Oggi che Marzia Nannipieri è una donna quasi anziana, consumatasi nella ricerca di giustizia quantomeno per la memoria del marito, visto che un destino reciso nessuno lo potrà più riallacciare. Lo deve all’infanzia dei due figli che prese un corso diverso, da un certo momento in poi, a una vita che da agiata passò repentinamente a uno status di rinuncia e sacrificio. Alla prima morte misteriosa del calcio italiano e alla prima tragedia dimenticata, o ricordata solo dai romanisti di una certa età, se preferite.

Le cure e la fine del sogno

Qualcosa la dobbiamo a Giuliano Taccola pure noi, che scriviamo anche per risarcire, a volte. Più che di colpe, per il calcio italiano di fine anni Sessanta è più giusto parlare di ignoranza, di calciatori non considerati del tutto atleti e utilizzati come polli da batteria; di medici impegnati a tutelare la prestazione, più che la salute, a loro volta tormentati da allenatori che vogliono i “cavalli” migliori in pista a ogni costo. Si parla di iniezioni “prodigiose”, di pillole di ricostituenti delle quali è bene che i calciatori non ricordino nemmeno il nome. Si parla, ma a distanza di tempo, perché all’epoca e bene non parlare. Il 2 marzo del ‘69, in un periodo in cui la febbre serale non gli dà tregua, Taccola scende in campo per un’ora a Genova contro la Sampdoria, prima di infortunarsi al malleolo. Sarà la sua ultima presenza su un terreno di gioco. Convocato per Cagliari-Roma del 16 marzo 1969 allo stadio “Amsicora”, dove non c’è nemmeno un dispositivo per l’ossigeno, Taccola non se la sentirebbe di andare. Convinto a fatica, durante gli allenamenti di rifinitura evidenzia un affaticamento tale da indurre persino Herrera ad arrendersi. La Roma impone lo 0-0 a un Cagliari già molto forte, che nella stagione successiva vincerà uno storico scudetto. Giuliano Taccola scende negli spogliatoi assieme a Ciccio Cordova per complimentarsi con i compagni. Beve un’aranciata, si sente male. Molto male, da subito. Il medico sociale della Roma Massimo Visalli, chiede aiuto al collega del Cagliari Frongia. "Gli fecero tre iniezioni, poi chiusero gli spogliatoi e cercarono di ripulirli. Ci fu il tentativo disperato di salvarlo anche da parte di un giornalista e di un professore ISEF che stavano lì. Gli fecero la respirazione bocca a bocca. Queste persone non sono mai state interrogate. Anche questo è un altro mistero da chiarire", ricorda Marzia. Insufficienza respiratoria, cuore troppo sotto pressione con un’infezione polmonare in corso: cause di per sé banali e ancora oggi non del tutto chiarire, che si sarebbero potute gestire semplicemente con il riposo e il tempo dovuto agli accertamenti, quel tempo che il calendario nemmeno all’epoca concedeva a un calciatore, con l’aggravante di una medicina sportiva ancora approssimativa. Giuliano Taccola muore così, in uno spogliatoio del vecchio stadio di Cagliari, il 16 marzo del 1969, sotto gli occhi dei compagni, i quali in un certo senso debbono sentirsi abbandonati e potenzialmente soli, ognuno di loro in cuor suo, quasi quanto quel calciatore più fragile e sfortunato rispetto a loro, quando si sentono dire da Helenio Herrera: "Andiamo via, ormai è morto e non possiamo fare più niente. Mercoledì abbiamo un’altra partita".

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