Kim Vilfort, l’eroe della Danimarca campione d’Europa

Kim Vilfort, l’eroe della Danimarca campione d’Europa

Nella nazionale che vinse Euro '92 spiccava la figura di questo centrocampista tuttofare, che durante la manifestazione fu costretto ad affrontare il dramma della figlia in lotta tra la vita e la morte

Paolo Valenti/Edipress

15.11.2022 ( Aggiornata il 15.11.2022 10:31 )

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La narrazione comune, che sia giornalistica o del tifoso estasiato dalla vittoria, è solita appellare come eroi quei calciatori che hanno ottenuto una grande conquista con la loro nazionale. Si fa così un rimando implicito alle epopee patriottiche di chi ha contribuito, con le azioni, il sangue e talvolta la vita, a costruire la grandezza del proprio Paese. Riferimenti enfatici, talvolta fuori luogo, ma appropriati se rivolti al centrocampista danese Kim Vilfort, campione d’Europa con la Danimarca nel 1992, elemento fondamentale di quella squadra che, ritrovatasi di sorpresa al gran ballo dei campionati europei, sovvertì ogni pronostico eliminando in semifinale l’Olanda, detentrice del trofeo, e battendo in finale la Germania campione del mondo.

La favola danese

Quella vittoria venne definita una favola, giocando con il facile riferimento alle opere di Hans Christian Andersen, scrittore danese del XIX secolo diventato celebre per le sue fiabe. E in effetti lo fu: per premesse, svolgimento e conclusione. Per la felicità che seppe regalare alla nazione e la simpatia con cui fu accolta altrove. Ma in quella favola uno dei protagonisti fu costretto a vivere il suo ruolo convivendo con l’incubo più grande che un uomo può essere costretto a fronteggiare: quello di perdere un figlio. Nella fattispecie, in realtà, una bambina. Ma andiamo con ordine.
Il 30 maggio 1992 la risoluzione numero 757 dell’Onu stabilì che, per via della guerra esplosa in Jugolavia, tutte le rappresentative sportive della ormai ex federazione venissero escluse dai tornei internazionali con effetto immediato. Inclusa quella calcistica, che aveva acquisito sul campo il diritto a partecipare agli Europei di Svezia che si sarebbero tenuti dal 10 al 26 giugno. La Danimarca, seconda nel girone di qualificazione, venne ripescata e inserita nel tabellone della competizione. Un’occasione che Kim Vilfort, all’epoca centrocampista del Brøndby e della nazionale, più che un’opportunità vide come un serio problema da gestire. Già, perché lui aveva una figlia di otto anni, Line, malata di leucemia e nel pieno di un periodo di cure che la costringeva a stare spesso in ospedale. Come si poteva lasciarla in un momento così cruciale? In che modo sarebbe stato possibile concentrarsi solo sulle cose di campo, allenarsi, provare a vincere le partite mettendo da parte il pensiero di lei, del rischio che correva la sua giovane vita?

Scelta difficile

Vilfort è un omone alto un metro e novanta di quasi trent’anni che deve prendere una decisione difficilissima. Ha bisogno di parlarne, di confrontarsi con gli altri protagonisti di una vicenda che avrebbe fatto volentieri a meno di affrontare. Sarebbe stato bello potersi concentrare solo sugli stratagemmi da adottare per battere Svezia, Francia e Inghilterra, le avversarie del girone. Ma il destino non glielo stava concedendo: l’aveva preso e sbattuto con le spalle al muro senza che lui potesse evitare di compiere una scelta così drammatica. Parlò con i medici e col selezionatore Richard Møller Nielsen: i primi lo rassicurarono dicendogli che le cure della figlia stavano andando bene; il secondo gli dette tutto il suo appoggio morale, promettendogli che gli avrebbe fatto approfittare della vicinanza geografica tra Svezia e Danimarca ogni volta che avrebbe voluto. Kim trovò così il coraggio di unirsi ai suoi compagni per intraprendere quella che sarebbe diventata, calcisticamente parlando, l’avventura più esaltante della sua carriera.

Talvolta ci si illude di essere padroni della propria vita, di avere il controllo di quel che ci accade o che potrebbe succedere. La realtà, però, contraddice spesso questo assunto, facendoci apparire come marionette coi fili tirati da un burattinaio che sembra ubriaco per l’insensatezza delle trame che costringe a recitare. Vilfort se ne accorge dopo le prime due partite del girone (Danimarca-Inghilterra 0-0 e Svezia-Danimarca 1-0) quando i medici gli comunicano che Line sta peggiorando. In queste condizioni, Kim vuole stare vicino alla sua bambina. L’allenatore comprenderà, i compagni capiranno se decide di tornare a casa per starle accanto, poterla abbracciare, farle sentire il suo calore di padre per infonderle forza e fiducia. Nella partita che la Danimarca vince contro la Francia, Vilfort non c’è perché è tornato da sua figlia. E quel torneo, che forse anche lui pensava che non sarebbe durato più di tre partite, vede la sua nazionale approdare in semifinale.

La spinta di Line

Lui non ci pensa a tornare con la squadra: il suo posto è nella sua città, nell’ospedale dove Line combatte una partita in inferiorità numerica che non le impedisce di chiedere al papà di ripresentarsi in Svezia, riunirsi ai compagni e tornare vincitore. Solo lei avrebbe potuto convincerlo a partire ancora. Così Kim fa di nuovo le valigie e, una volta in campo, tiene lontani i pensieri più bui che turbano le giornate assolate di quell’Europeo che sta seguendo uno sviluppo illogico. Per lui e i compagni, dalla roulette dei rigori esce ancora una vittoria. La Danimarca è in finale: un’altra partita, un nuovo tormento davanti alla solita scelta tra tornare a casa per stare con Line e contribuire a quello che sarebbe un risultato storico per il calcio del suo Paese. Nessuno si permette di dare suggerimenti a Vilfort, di chiedergli qualcosa. Solo sua figlia può farlo. Ed è lei a ripetere lo schema che era già stato vincente in semifinale. Vai papà: voglio vederti giocare, voglio riabbracciarti vincitore. Per ripartire ci vogliono coraggio, adrenalina e tanto amore: quello capace di espandersi dalla figlia ai compagni e a tutto un popolo che sta vivendo un sogno del quale anche lui si alimenta per sopravvivere a un incubo. L’eroe danese raggiunge nuovamente la squadra e vince ancora, stavolta senza passare per i rigori. La sorte gli lascia in dote un gol ancor più pesante di quello realizzato nella sequenza dei penalty che ha eliminato l’Olanda: il gol che chiude l’Europeo, il 2-0 che sigilla la favola della nazionale più sorprendente di sempre. Un gol fatto di forza, resistenza e tecnica, le qualità irrinunciabili che Vilfort dimostrava ogni volta che giocava, mettendo da parte i suoi pensieri più cupi, le sue angustie di genitore, esprimendo quella mentalità indomita alla quale ogni allenatore ricorreva schierandolo in mezzo al campo. Che vittoria per Kim: un’oasi di felicità in mezzo a un mare di tormenti. Una gioia da condividere con Line, che ha visto suo padre primeggiare da lontano, in una stanza d’ospedale dove, grazie a quel trionfo, la luce della speranza è riuscita a entrare con insolito vigore.

La vittoria e il dolore

Purtroppo non tutte le favole finiscono tra i sorrisi. Line Vilfort si spegnerà poche settimane dopo l’affermazione della Danimarca in Svezia. Per il papà, poliedrico centrocampista del Brøndby che parteciperà anche agli Europei del 1996 in Inghilterra, l’estate del 1992 resterà inesorabilmente segnata da quel connubio doloroso tra vittoria e speranza che non ebbe un lieto fine. Ma che gli permetterà di essere considerato un eroe senza il timore di scivolare nell’enfasi stucchevole di una retorica di basso livello.

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