Michael Jordan, il Dio del basket

Michael Jordan, il Dio del basket

Il 17 febbraio 1963 nasceva a New York la più grande icona NBA. Ha cambiato la storia dei Chicago Bulls e segnato un'epoca della pallacanestro: è semplicemente il migliore di sempre

Filippo Morsillo/Edipress

17.02.2023 ( Aggiornata il 17.02.2023 07:49 )

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"Voglio giocare per la North Carolina". Swish. "Voglio giocare in una squadra che vincerà il titolo". Swish. "E poi voglio giocare nell’NBA". Swish. "E dopo aver fatto tutto questo voglio giocare a baseball come te, papà". Swish. "A baseball? Ecco, quello sì che è uno sport. E dopo aver provato anche quello che altro vuoi fare? Volare?".

Questa conversazione è l'incipit di uno dei film animati più iconici, se non il più iconico, di sempre: Space Jam. Probabilmente, però, quel dialogo tra il piccolo Michael e James R. Jordan Senior è realmente esistito. Sì, perché quel bambino ha già chiaro cosa avrebbe fatto nella sua vita: diventare il numero uno. Ma la strada per il successo è lunga e impervia. Bisogna soffrire, mettersi in discussione e superare i propri limiti.

Sofferenza e delusioni, così nacque il mito di Michael Jordan

Al terzo anno di liceo, Michael viene escluso dalla prima squadra dei Laney High School Buccaneers. Coach Herring gli preferisce Harvest Leroy Smith Jr. Il motivo? L'altezza. "Se ci si arrende una volta diventa un’abitudine. Mai arrendersi!" Per questo, al posto di accettare l'esclusione, "Peanut" (così veniva chiamato, data la forma a nocciolina della sua testa) inizia a lavorare ancora più duramente, fino ad essere finalmente convocato in prima squadra e, soprattutto, considerato il più promettente liceale d'America.

Ogni college lo vorrebbe in squadra: lui resta vicino casa. Sceglie di giocare per l'University of North Carolina (essendo cresciuto a Wilmington), guidata dal leggendario Dean Smith. La carriera, quella che tutti conoscono, di Michael Jordan inizia qui: esattamente il 29 marzo 1982, quando nella finale NCAA contro Georgetown segna il canestro decisivo che vale il titolo.

È esattamente ciò che succederà dal 1984, anno in cui metterà piede in NBA, fino alla fine della sua carriera. Palla in mano a MJ e partita, praticamente sempre, decisa dal 23. Ma per arrivare ad essere His Airness, ovvero Sua Altezza Aerea, prima di diventare il GOAT (Greatest Of All Time), però, Jordan deve soffrire. Viene scelto dai Chicago Bulls, una squadra a dir poco mediocre. Praticamente da solo, nell'anno da rookie, porta la franchigia ai playoff. Fino all'arrivo di validi compagni di squadra (Scottie Pippen in primis) e di un coach che capisca esattamente come inquadrarlo e come farlo convivere con il resto del roster (Phil Jackson), i Bulls non riescono mai ad arrivare in fondo.

"Nella mia vita ho sbagliato più di novemila tiri, ho perso quasi trecento partite, ventisei volte i miei compagni mi hanno affidato il tiro decisivo e l'ho sbagliato. Ho fallito molte volte. Ed è per questo che alla fine ho vinto tutto". A partire dagli "inutili" 63 punti al Boston Garden in faccia a Larry Bird, che a fine partita ammetterà: "Penso sia semplicemente Dio travestito da Michael Jordan". Fino alla duplice sconfitta in finale di Eastern Conference contro i maledetti Detroit Pistons nel 1989 e nel 1990. Un inizio di carriera colmo di sofferenza e traguardi mai raggiunti. La chiave del successo è il fallimento. Il fallimento costruisce muscoli, determinazione e sogni.

Come si diventa Michael Jordan, il migliore di sempre

Inutile parlare di ciò che ha vinto. I numeri lo offendono. Non sono i sei titoli ottenuti in sei finali (intervallati dalla parentesi da giocatore di baseball dopo la tragica scomparsa del padre), i due ori olimpici o i cinque MVP della regular season, a rendere enorme Michael Jordan. Ma la sua competitività, la sua fame di vittoria, la sua spinta al sacrificio, la sua leadership. MJ non ha mai chiesto a nessun compagno di squadra di fare qualcosa che lui non avrebbe fatto. In allenamento come in partita, si deve dare tutto. Si deve morire sul parquet. La sua grandezza nella capacità di superare i propri limiti, di trasformare ogni singola difficoltà a proprio vantaggio così da avere uno stimolo in più per vincere.

Non c'è discussione. È il più grande di sempre su entrambi i lati del campo. Miglior difensore e miglior attaccante della lega per tutto il periodo in cui ha giocato. Un felino, capace di graffiare e ruggire nel momento esatto in cui la partita lo richiedeva. "The Shot" contro Cleveland, quello contro Utah nell'ultima partita in maglia Bulls alle Finals 1998, the "Flu Game", tutte le sue grandi prestazioni sono passate dal duro lavoro, dall'ossessione di vincere, di voler essere sempre l'uomo da battere.

Michael Jordan non è la forza del talento che prevale. È la voglia di regalare a tutti, ad ogni singolo spettatore che magari ha fatto gli straordinari per permettersi di essere in tribuna con il figlio e vederlo giocare, un pezzo di magia. Se c'è qualcuno lì fuori che ha sacrificato se stesso per assistere ai suoi fadeaway, alle sue schiacciate, ai suoi lay-up, anche se sta sfidando la squadra meno competitiva, lui darà sempre il 100%. Questo è Michael Jordan. O meglio, è solo una piccola parte dell'immensità di Michael Jordan.

Libri, serie tv, aneddoti, numeri, titoli, chi più ne ha più ne metta. Michael Jeffrey Jordan è quel giocatore che ha reso globale il basket, è quello sportivo che ha raggiunto ogni angolo del mondo. È, semplicemente, il migliore di sempre.

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