Roma, quando si avverò il sogno di Viola

Roma, quando si avverò il sogno di Viola

L'8 maggio del 1983 i giallorossi vincevano il loro secondo storico scudetto guidati dal "Barone" Nils Liedholm

Paolo Marcacci/Edipress

06.05.2023 ( Aggiornata il 06.05.2023 10:58 )

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Al Genoa padrone di casa - si fa per dire visto l'esodo di massa dei tifosi della Roma - basta un punto per la salvezza aritmetica; lo stesso che manca alla Roma per laurearsi Campione d'Italia. La Roma di tante anime, tutte diversamente dominanti, profili caratteriali a volte non facili da tenere assieme, ma straordinariamente cooperanti per “giungere in porto col vessillo” come aveva profetizzato il timoniere dal cipiglio severo, ovvero Capitan Agostino Di Bartolomei, al termine della gara vinta all’Olimpico contro l’Avellino. La Roma del Presidente Dino Viola, colui che aveva instillato nella storia del club il “germe” di una sorte diversa da quella che i tifosi giallorossi avevano sempre supposto e persino accettato preventivamente per il futuro del club; la Roma di Nils Liedholm, condottiero apparentemente placido e serafico, in realtà granitico nel carisma e nell’autorevolezza con la quale guidava il gruppo; la Roma di Paulo Roberto Falcao, corsa neoclassica ed esultanza regale che sfiorava il cielo, senso euclideo e tempi di gioco degni di von Karajan; la Roma di Bruno Conti, Campione del Mondo e nel mondo campione, mancino fertile per ogni latitudine; la Roma potente come Nela ed esperta come Maldera, geometra come Prohaska e invalicabile come Vierchowod; la Roma perpetua nel moto di Ancelotti e baffuta sotto rete per ogni gol di Pruzzo.

La festa scudetto della Roma

La festa, com'è ovvio, comincia già prima della gara. Dopo il fischio d'inizio, la squadra capitolina comincia a cercare la sicurezza definitiva del vantaggio; il goal arriva con Pruzzo, di testa, su assist proprio di Di Bartolomei. Ancora una volta, impressionano la pulizia della giocata, la precisione, i giri contati del pallone: gli argomenti di fronte a cui, come sempre, debbono arrendersi quelli che tacciano Agostino di essere un giocatore troppo lento e compassato. Di Bartolomei in quell'azione, nata da un tentativo di Conti direttamente da calcio d'angolo, finta il passaggio rasoterra alla sua sinistra, manda a vuoto mezza retroguardia genoana e poi con la visuale sgombra "apre" una traiettoria che sembra disegnata da un goniometro. Lo stacco e la torsione del bomber di Crocefieschi fanno il resto, Silvano Martina non può che raccogliere la sfera in fondo al sacco. Il Genoa pareggerà con Fiorini, estendendo i festeggiamenti a tutto lo stadio. Dopo il fischio finale, l'invasione, lo spogliarello forzato a cui i neo campioni sono obbligati sul terreno di gioco, nello spogliatoio è il delirio: Conti innaffia tutti con lo champagne, Nela può concedersi una sigaretta, Ancelotti e Tancredi non smettono di abbracciarsi, si canta e si urla. Sempre Galeazzi, l'uomo ovunque della Rai di allora, si accomoda con Di Bartolomei da una parte per chiedere proprio a lui - non solo in quanto capitano ma anche in quanto Agostino - di "tirare una linea", stilare un bilancio dopo il grandissimo, storico traguardo appena raggiunto. "Ago", con ancora indosso l'accappatoio umido, con il sopracciglio arcuato e l'espressione assorta, nel parlare fissa un punto imprecisato: lì convergono la soddisfazione per un titolo impensabile fino a qualche anno prima e la consapevolezza della grandezza non episodica raggiunta dalla Roma, dell'autorevolezza delle sue ambizioni. Senza uscire dalla sua naturale compostezza, con il solito, inusuale - per il calcio italiano dell'epoca - linguaggio forbito, il capitano lascia comunque trapelare un grandissimo orgoglio. È un figlio di Roma - una Roma autentica la sua, verace ma aliena dai luoghi comuni che fanno cliché e cartolina - che ha appena collocato il giallo e il rosso sul gradino più alto del podio. E allora, forse, senza neanche il bisogno di rifletterci più di tanto, quella che rompe un digiuno che sembrava eterno è soprattutto la Roma di Agostino Di Bartolomei, che c’era già prima della grandezza e ci sarebbe stato comunque. Suo, un po’ più che di ogni altro, l’istante di quel fischio finale quarant’anni fa; per lo stesso motivo, dopo quattro decenni è il suo nome il primo che viene in mente: a chi scrive, come a chi legge.

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