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Bruscolotti racconta momenti inediti di Napoli-Inter: «Mi ricordo ancora quel gol vincente nel 1974 su punizione di Esposito. E dopo i grandi duelli con Muraro e Beccalossi, ecco Rummenigge. Non ho mai avuto timori, i tifosi sempre decisivi»
Giuseppe Bruscolotti, classe 1951, è stato bandiera del Napoli a cavallo degli anni Settanta e Ottanta. Tra i protagonisti dello scudetto del 1987, tre anni prima aveva accolto Maradona per inseguire quel sogno che diventò realtà. In questa intervista spazia a tutto campo tra il Napoli di oggi e, soprattutto, quello dei suoi tempi.
Giuseppe, Napoli-Inter sembra essere il big match della verità per il campionato ma forse lo è ancora di più per il Napoli. Lei come lo vede?
«Per la verità credo che sia una partita che non può essere ancora decisiva anche se, ovviamente, può dare tanto sia al Napoli che all’Inter, visto che le gare diminuiscono e un eventuale distacco accusato adesso è più difficile da colmare successivamente».
Come giudica fin qui il campionato delle due squadre?
«Il Napoli sta rispettando i programmi che si erano dati società e allenatore: quest’anno la cosa importante è rientrare in Europa. Vincere lo scudetto è un altro discorso. Per l’Inter la situazione è completamente diversa: loro devono vincere lo scudetto, sono partiti per questo. Hanno un organico allestito sia per il campionato che per la Coppa per cui, come potenziale, sicuramente l’Inter è superiore. Ma è anche vero che il Napoli dovrebbe trarre beneficio dal fatto che gli sia rimasto un solo obiettivo».
Da giocatore ha disputato molti Napoli-Inter. Qual è il primo che le viene in mente?
«Una partita giocata con Vinicio che dette la vittoria al Napoli 2-1 (17 febbraio 1974, nda). Io feci il gol decisivo su una punizione di Esposito dalla trequarti: arrivai in corsa dall’altra parte ed entrai in porta insieme al pallone e a Bordon (ride, nda)».
Un ricordo poco piacevole legato ai suoi incontri contro i nerazzurri?
«Le partite che giocavamo a Milano: non ce ne andava bene una! Per un motivo o per l’altro perdevamo spesso. A Napoli, invece, qualche risultato l’abbiamo fatto».
Chi è stato l’avversario nerazzurro che ha patito di più?
«Grazie a Dio, grossi errori non me li ricordo. Ci può essere stata qualche prestazione non al top ma più o meno sono state comunque sufficienti. Ci sono stati bei duelli sia con Muraro che con Beccalossi, visto che a volte non giocavo sulla punta avversaria ma sul trequartista. Ricordo anche le partite contro Rummenigge. Bei giocatori!».
Avevate una sorta di timore reverenziale quando i Mazzola e i Facchetti venivano al San Paolo?
«Timore no, almeno da parte mia. Massimo rispetto sì ma se subentra il timore allora si è giocatori di un’altra categoria. Il calcio è un gioco che va preso col massimo impegno e la massima concentrazione: con queste qualità gli avversari si affrontano diversamente».
A proposito di San Paolo: è realmente il dodicesimo uomo in campo?
«Assolutamente sì, soprattutto in queste partite di cartello. Una volta ancora di più, perché da quando ci sono i posti numerati, l’affluenza sugli spalti si è ridotta. Quando arrivavano squadre come l’Inter si doveva parlare anche di novanta, centomila spettatori presenti».
Il tifoso del Napoli oggi è diverso da quello degli anni Settanta-Ottanta?
«No, l’affetto e l’amore verso la squadra sono sempre gli stessi. Seguono il Napoli dappertutto e lo seguiranno, sempre che non glielo proibiscano… Quest’anno sono state vietate otto trasferte, a me sembra che la bilancia penda solo da una parte. Così non va bene, si entra nella discriminazione. Ma questo è un discorso molto delicato. I napoletani sanno vivere, e chi non sa vivere deve essere gestito dagli organi competenti. Ma non si può penalizzare un’intera città che ha sempre dato tantissimo al calcio col suo modo di vivere le partite».
A Napoli lei ha avuto molti allenatori. Chi è quello che ha saputo dare di più alla squadra?
«Direi Vinicio. Con lui negli anni Settanta ci giocavamo il primato con la Juventus. Era un Napoli che, a livello di gioco, somigliava alla famosa Olanda. All’inizio ci fu molto scetticismo ma poi arrivò tanto divertimento durante il campionato. Fu una bella novità».
Ce n’è stato uno che aveva qualche tratto in comune con Conte?
«Per il modo di presentarsi direi sempre Vinicio. Aveva un carattere molto forte, pane al pane e vino al vino. Quando hai di fronte personaggi del genere, che dicono quello che pensano, è la cosa migliore. Si assumono le responsabilità, nel bene e nel male».
Ha mai avuto l’opportunità di lasciare Napoli?
«Sì, verso la fine degli anni Settanta. Mi volevano sia il Milan che l’Inter. E poi la Roma. Spesso c’era dietro Liedholm: andava a Milano e mi voleva, scendeva a Roma e mi voleva ugualmente. Capitava che quando ci incontravamo nel sottopassaggio prima delle partite, col suo accento particolare, mi dicesse: “Ma cosa devo fare per averti nella mia squadra?”. Io lo ringraziavo per la stima ma alla fine, a quei tempi, erano le società che decidevano. Diciamo che, Juventus a parte, di grandi squadre che mi volevano ce n’erano».
Come visse i rumors precedenti all’acquisto di Maradona? Credeva che potesse venire a Napoli?
«La voce cominciò ad arrivare da Pierpaolo Marino, che era amico di Cyterszpiler, l’agente di Maradona. La fonte era molto credibile e quindi la notizia che Diego potesse lasciare Barcellona prese piede. Cominciata la trattativa, ci abbiamo sperato fino alla fine. Juliano e il dirigente dell’epoca Celentano furono grandi, non mollarono mai. La gente deve molto a loro».
Da capitano, le è mai capitato di rimproverare Maradona?
«Rimproverare quello che era il calcio… (ride, nda). Lui ha addirittura detto da Fabio Fazio che io gli ho insegnato a giocare… Dopo quell’affermazione lo chiamai per ringraziarlo ma gli dissi anche che era andato un pochino oltre la realtà. Al massimo gli avrò insegnato a evitare qualche calcetto».
Come marcavi Diego in allenamento?
«Lì era tutto uno scherzo. Io lo prendevo in giro e gli dicevo che in quel momento eravamo avversari e io non facevo distinzione tra allenamento e partita: quindi, lo avrei trattato come un qualunque avversario. Perciò non doveva farsi venire in mente di fare giochini e giochetti perché poi lo sapeva come mi sarei comportato… Chiaramente era tutto uno scherzo: figuriamoci se potevo menare Maradona! Uscito dal campo, avrebbero menato me!».
Vuole ricordare qualche bell’episodio che riguarda il suo rapporto con Diego?
«Lui non dimenticò mai il gesto che feci di cedergli la fascia da capitano: ogni volta che ci vedevamo mi mostrava riconoscenza per quello. Il giorno della vittoria dello scudetto, nello spogliatoio mi chiamò e davanti a tutti disse: “Ecco qui il vero capitano”. Sono cose che rimangono dentro per tutta la vita. E poi un gesto di affetto. Una volta, in uno scontro di gioco, mi ero contuso alla testa e il medico si era raccomandato con mia moglie affinché facesse il possibile per tenermi sveglio durante la notte, perché quel tipo di infortuni non si sa come possono evolvere. Era meglio rimanere vigili. Bene, quella notte all’una e trenta suonò il campanello: era Diego. Mi disse: “Stronzo, pensavi che non sarei venuto a trovarti?”. Aveva una grande umanità».
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