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Maggio 1989, manca poco ai nerazzurri per vincere lo scudetto, ma fra loro e la gloria c'è di mezzo il Napoli di Maradona e Careca. Ma la risolve Matthaeus
Il 28 maggio è il giorno di Inter-Napoli, trentesima giornata del campionato 1988-89. La fuoriserie di Trapattoni ha sette punti di vantaggio su Maradona e compagni, ha appena annichilito il Bologna “champagne” di Maifredi con un tremendo 0-6 in trasferta e con la feroce ineluttabilità di una Panzerdivisionen si prepara a sventolare a San Siro le bandiere con lo scudetto numero tredici. Numero associato alla sommossa di Lucifero, ma a Cusano Milanino, a casa Trap, non ne vogliono sentir parlare.
I tifosi non vedono l'ora di festeggiare in faccia alla squadra che, per tutta la stagione, ha provato con poca fortuna a dar fastidio all'Inter, ma davanti ci sono novanta minuti da giocare e due punti da conquistare. Ai fini dello Scudetto, vincere, pareggiare o perdere non dovrebbe fare troppa differenza, ma strozzare l'urlo in gola ai settantamila e oltre che hanno riempito San Siro in ogni suo più remoto pertugio sarebbe pura cattiveria. E chi – fuori da Napoli, ovviamente – interpreta meglio il ruolo del villain se non Maradona?
“Per tanto tempo ho creduto che non sarei mai riuscito a vincere niente, sembrava che ci fosse una maledizione contro di noi” raccontava Bergomi, già “zio”, campione del Mondo e capitano ad appena venticinque anni.
In estate, ceduti i compassati Passarella e Scifo, sono arrivati Ramón Díaz, Berti, Bianchi e soprattutto la nuova anima teutonica della squadra, Brehme e Lothar Herbert Matthaeus. Come benzina sul fuoco delle ambizioni trapattoniane.
Definito da Maradona in una delle sue tante autobiografie “Il miglior avversario che abbia avuto in tutta la mia carriera” Matthaeus è un centrocampista fisico, “di gamba” diremmo oggi, ma alla potenza impressionante della sua muscolatura d'acciaio unisce una grande tecnica di base, soprattutto quando si tratta di concludere dalla distanza.
Se domandi a un'interista bambino che in quegli anni lo ha visto giocare, ciò che impressionava di più era la forza poderosa che imprimeva al pallone, soprattutto nei calci da fermo, di cui era specialista assoluto. Tiri secchi e sotto la traversa che travolgevano il portiere come cannonate.
Si sa che coi tedeschi le metafore bellico/calcistiche vanno per la maggiore, ma il fisico compatto di Matthäus, il suo travolgere gli avversari come un cingolato e quella capacità di calciare in modo improvviso e pulitissimo, con il cuoio che smetteva di roteare e procedeva dritto per dritto come un missile, hanno attirato su di lui ogni tipo di accostamento guerrafondaio. Perché esimersi?
Così Lothar, come Lotario I re d'Italia medievale, arriva in serie A con già tre Meisterschale con il Bayern in bacheca e subito si mette in testa la corona di migliore di tutti. Non in Vaticano al cospetto del papa ma a San Siro, di fronte a un popolo nerazzurro che hanno scoperto in lui un generale senza incertezze. Ciò che serviva per abbattere quei limiti, smorzare quei tremori che troppe volte avevano impedito alla squadra di tornare alla vittoria nei nove anni passati dall'ultimo scudetto. Con una grande certezza, dichiarata ai quattro venti dal diretto interessato a fine partita: “Un campionato in Italia ne vale tre in Germania”.
A San Siro, in quell'assolato pomeriggio di fine maggio, con le ruspe che stanno costruendo il terzo anello a riposo dietro alle teste dei tifosi in curva, il Napoli sembra avere poche chance di farcela in mezzo alla marea nerazzurra, da cui spuntava qua e là qualche tricolore nero, giallo e rosso. Ma non si deve mai dare Maradona per sconfitto.
Trapattoni freme, incapace di stare fermo in panchina, ma la sua Inter ha capito da un po' che è l'anno giusto, quello che non si dimentica. Ormai manca pochissimo al settimo scudetto della sua carriera, il primo della sua nuova vita da ex juventino. Careca e Maradona, però, hanno deciso di rovinare la festa.
L'attaccante brasiliano prima ci prova con un destro potente che obbliga Zenga a una grande parata, poi dopo un incrocio scheggiato da Díaz che fa urlare i tifosi alla maledizione, stoppa di petto un passaggio di Alemão e con “un tiro bomba”, stavolta sono parole di Franco Zuccalà, segna il gol che nessuno o quasi dei presenti allo stadio voleva vedere. La festa scudetto è compromessa?
Nel secondo tempo l'Inter entra e si riscuote subito, così al quarto minuto un gran tiro di Berti deviato da Fusi supera Giuliani mettendo la partita in parità. Dovrebbe essere il preambolo alla rimonta, ma la gara continua a non sbloccarsi. Ci vorrebbe qualcosa di forte, molto più rinvigorente dei caffè Borghetti che sugli spalti si consumano a manciate, nonostante il clima caldissimo.
Quando avanza Maradona, l'Inter rincula e quando tira Careca ogni volta è un brivido e un suo sinistro va a sbattere sul palo alla sinistra di Zenga. Suonano le trombette, si consumano unghie per la tensione, poi arriva re Lothar con la specialità della casa.
Sei minuti al termine, punizione dal limite per l'Inter. Sette napoletani in barriera più due guastatori interisti. Maradona che a fatica prova a togliersi un bruscolino da un occhio e si allontana tallonato da Berti. Sai mai che la palla gli capiti tra i piedi e decida di trasvolare il campo per il gol beffa.
Matthaeus è lì, piantato sulle gambe, Terminator robotico più di Schwarzenegger. Rincorsa lunga come sempre, il corpo si accartoccia per prepararsi a esplodere al momento del tiro, tanto violento che lo fa sobbalzare. La palla schizza rasoterra come un tracciante e fulmina il portiere all'angolino alla sua destra. È gol.
Ancora Bergomi, nel post partita, a interpretare il sentimento di tutti gli interisti: “Quando è entrato il pallone di Matthaeus sono scoppiato in lacrime, è il giorno più bello della mia vita”. Ancora il numero dieci della Germania Ovest: “Io gol decisivo, ma io no più bravo degli altri. Tutti bravi, io molto happy adesso”.
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