Storie Mondiali: Moacir Barbosa, maledetto per sempre

Storie Mondiali: Moacir Barbosa, maledetto per sempre

Numero 1 del Brasile nel Mondiale del '50, votato miglior portiere dell'edizione; pluricampione in patria col Vasco da Gama: ha convissuto per tutta la vita con i fantasmi del Maracanazo

Paolo Marcacci/Edipress

24.11.2022 ( Aggiornata il 24.11.2022 15:41 )

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Il 16 luglio del 1950 Moacir Barbosa, ginocchiere chiare e guanti scuri, entra al Maracaná come un re, assieme a dieci compagni, con la fanfara, non per via di metafora; con le danzatrici e con un muro di folla in preda a un festeggiamento compulsivo, che non può contemplare l’attesa, che considera il risultato soltanto una variabile numerica smarrita all’interno della cifra dei presenti allo stadio. Lo stadio, già, in cui la folla deborda come la polpa di un frutto tropicale maturo che sta già lacerando la buccia. Come undici prigionieri dipinti di celeste pallido, Schiaffino e gli altri giocatori dell’Uruguay entrano con lo sguardo in alto e poi attorno: più o meno quattrocentomila occhi fissano il loro ingresso a capo chino da vittime sacrificali. In mezzo c’è questo ultimo atto che una finale non è: si tratta “soltanto” dell’ultima partita del girone, come prevede la formula del Mondiale 1950. Un ostacolo alto come una siepe, perché al Brasile è sufficiente anche il pareggio, anche se la nazionale di casa giocare per pareggiare non sa, non vuole e secondo la sua gente non deve.

Mondiali 1950: Uruguay-Brasile

Il primo tempo Ademir, Zizinho e compagni lo trascorrono nella metà campo della Celeste, con una lunga sequela di fraseggi che sembrano brindisi di benvenuto in attesa che arrivi la vivanda del gol brasiliano. Intermezzo, più che intervallo, di canti e balli sulle tribune per poi assistere alla rete di Friaça, dopo due giri di lancetta dell’orologio con incisa la scritta “Campeão do mundo” che la federazione ha già inviato come regalo a ogni componente della Nazionale. Fioriscono nuvole fragorose di mortaretti che borbottano in ogni spicchio del Maracaná. La festa, già avviata da giorni, a quel punto rompe gli argini, come se avesse già la fine dell’evento da celebrare. L’euforia non accusa altro che qualche istante di incredulità, quando Schiaffino sputa il pareggio dell’Uruguay sotto la traversa. Quel fremito d’inquietudine che si deposita sulla folla è percepibile, apparentemente, quanto il pulviscolo che viene investito da uno spiraglio di luce. Come quel varco che, con sempre maggiore insistenza, Alcides Ghiggia tenta di ricavarsi sul lato sinistro della metà campo brasiliana, ai danni di Bigode, che arranca nel tentativo di arginarlo. Anche perché il Brasile continua a macinare gioco per segnare, come se non potesse concedersi di ragionare con palla e risultato; come se non volesse mancare di rispetto alla più primordiale delle sue anime.

Il Maracanazo

Ghiggia si presenta una volta ancora su quella porzione di campo, al minuto 79. Sembra puntare in mezzo, perché nel cuore dell’area sono già presenti tanti dei suoi. Barbosa fa la cosa giusta, ancora una volta, perché si sposta verso il centro della porta, con gli occhi che cercano Schiaffino e gli altri celesti piovuti lì nei pressi. Ghiggia probabilmente fa la cosa sbagliata, una perlomeno: o sbaglia il passaggio verso il centro dell’area, oppure non carica a dovere il tiro sul primo palo, colpendo troppo debolmente la sfera. Di chi è la colpa allora? È del calcio stesso, la più ingannevole delle puttane: sguscia tra il palo e lo scarpino sinistro di Barbosa, che giurerà di non aver mai avvertito il fremito della rete, la palla. Con quel passo di lato e quel palo lasciato orfano l’uomo è come se avesse triturato sotto i tacchetti tutto il destino a cui avrebbe avuto diritto.

Barbosa, il portiere "nero" maledetto per sempre

E allora era solo una frase poetica o una sentenza quella con cui Eduardo Galeano diceva che “con una sola papera il portiere rovina una partita o perde un campionato, e allora il pubblico dimentica immediatamente tutte le prodezze e lo condanna alla disgrazia eterna. La maledizione lo perseguiterà fino alla fine dei suoi giorni?”. Quando calcia via la sfera dal fondo del sacco non può sapere che l’espressione che ha in viso sarà quella con la quale lo riconosceranno per sempre. Ricordandosi e ricordandogli, a quel punto, anche il colore della sua pelle: quella del Brasile che sarebbe una terra senza razzismo è una mistificazione ancora oggi, figurarsi all’inizio degli anni cinquanta. O qualche anno prima, quando Barbosa era soltanto una promessa del Vasco da Gama e in quel salone da barbiere gli dissero che non avrebbero sfiorato la testa a un nero nemmeno per tutto l’oro del mondo.

Al fischio finale, l’impensabile diviene cronaca, col presagio di stare già diventando storia. Gli infarti sugli spalti, il proclamato lutto nazionale, l’ondata dei suicidi incredibile e credibile al contempo. Al pari dei componenti della banda che non possiede lo spartito dell’inno uruguaiano, è spaesato il capitano della Celeste Varela quando gli consegnano la Coppa. Il portiere con le ginocchiere bianche e i guanti di pelle scura, che ancora crede che sarà considerato uno dei colpevoli, non può sapere che verranno perdonati Ademir e Zizinho anche se non hanno segnato, o Bigode che non ha mai preso Ghiggia. Non può sapere che qualche decennio dopo, in un supermercato, sentirà una signora raccontare alla sua nipotina: “Quello è l’uomo che ha fatto piangere tutto il Brasile”. Non può pensare che Carlos Alberto Parreira, il CT dei verdeoro al Mondiale del ‘94, farà in modo di non farlo entrare in ritiro, salvo poi giustificarsi dicendo di averlo fatto per non metterlo in imbarazzo.
Devi affrontare l’odio di un Paese intero, ma non sei un politico corrotto e nemmeno un criminale. Però hai fatto piangere più gente dell’uno e dell’altro. Forse è per questo che il popolo salva sempre Barabba: per poter sacrificare sull’altare dell’odio chi non sa come difendersi.
Forse è vero che la vita di un individuo dipende dai passi che compie; non necessariamente in avanti, perché altrimenti sarebbe più semplice, più lineare il destino. A lui ne sarebbe bastato uno di lato, col piede mancino, compiendo il gesto teoricamente sbagliato, praticamente giusto. Son tutti saggi, dopo. Quel “dopo” può durare per mezzo secolo, come una cicatrice che col suo tratto levigato e rosaceo rammenta sempre a tutti che esistono un prima e un dopo rispetto a qualcosa; che quello che si era non si potrà più essere: perché è cambiato per sempre lo sguardo altrui e alla fine, quando resta davanti solo lo specchio, te ne convinci tu stesso, come se di fronte non ci fosse più quello che vedevi prima; come se il sorriso fosse una portata troppo proibitiva da indicare nel menu dei giorni che verranno.Aveva vinto molto, col Vasco, prima di quel Mondiale del ‘50; tornerà a vincere dopo; sarà anche giudicato miglior portiere di quella edizione della Coppa Rimet, ma è come se tutto ciò facesse parte di un universo parallelo in cui ogni uomo viene giudicato per quello che vale realmente, non per quello che gli altri da un giorno in poi lo obbligano a incarnare a vita. Tutti gli altri, nel suo caso. Quelli che avrebbero scordato, alla lunga, persino i delitti di un assassino o le malefatte di un politico. Per un passo di troppo lontano da quel legno.
Quando quei pali, quadrati, li sostituirono con quelli tondi, vollero regalarglieli, quasi come una specie di risarcimento, o una beffa sottile a rammentargli l’onta. Chissà. Sta di fatto che lui se li portò a casa e decise di bruciarli affinché alimentassero la brace per un churrasco. Chissà che sapore doveva avere quell’arrosto. Forse soltanto meno amaro della sentenza con cui, qualche mese prima di salutare quel mondo che gli era sfuggito mezzo secolo prima, nell’aprile del 2000 Moacir Barbosa Nascimento rileggeva tutta la sua esistenza dal 16 luglio del ‘50 in poi: “In Brasile la pena massima è di trent'anni, ma io sto pagandone cinquanta per un crimine mai commesso”.

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