Enrique Guaita, il "Corsaro nero"

Enrique Guaita, il "Corsaro nero"

Cannoniere di punta della Roma degli anni '30, i suoi 28 gol nella Serie A 1934-35 rappresentano ancora oggi un record nei tornei a 16 squadre. Da oriundo, si laureò campione del mondo con l'Italia nel '34. Ma rimase famoso per una clamorosa fuga dalla Capitale... 

Redazione Edipress

15.07.2019 15:11

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Sono giorni convulsi a Roma. È il 19 settembre 1935, i giornali italiani continuano a insistere sulla questione d'Etiopia, sulla campagna militare che Mussolini sta programmando per risolverla. Tre calciatori della Roma, tre oriundi, sudamericani naturalizzati, hanno sostenuto la visita di leva. Sono Enrique Guaita, Alessandro Scopelli e Andrea Stagnaro. Guaita il giorno prima ha ottenuto un ritocco dell'ingaggio, diecimila lire al mese quando ne bastavano mille per trovare tutta la felicità. Sono preoccupati, si fanno lasciare al consolato argentino per una consulenza. A Roma non li vedranno più. Scappano su una Dilambda verso la Liguria, poi prendono un treno per Ventimiglia, passano il confine in Francia e si imbarcano per il Sudamerica.

Finiscono così i tre anni a Roma di Guaita, campione del mondo nel 1934, un attaccante che in poco tempo è riuscito come pochi a stravolgere il calcio italiano. Figlio di un calciatore non andato oltre un posto da riserva al Racing Avellaneda, inizia nell'Estudiantes. Segna tre gol al debutto, nel 4-4 contro l'Independiente del 12 aprile 1928. Sono “studenti”, questo significa letteralmente il nome, ma nel 1931 li chiamano Professori. L'Estudiantes ha un quintetto d'attacco tra i migliori di sempre: Miguel Angel Lauri (la Flecha de Oro), Alejandro Scopelli (el Conejo), Alberto Zozaya (Don Padilla), Manuel Nolo Ferreira (el Piloto Olímpico) e Enrique Guaita (el Indio) in quella stagione segnano 104 gol.

L'Indio, soprannome che gli deriva dalla pelle olivastra, è anche un gentleman, un altro dei suoi appellativi. Si racconta che, in una partita contro il San Lorenzo, abbia confessato all'arbitro di aver segnato con la mano e l'abbia convinto ad annullare il gol. Arriva a Roma nel 1933 grazie a Nicolas Lombardo, generoso centrocampista argentino che dopo tre stagioni in giallorosso si trasforma in una sorta di procuratore ante litteram e parte per l'Argentina per portare nuovi talenti al presidente Renato Sacerdoti, detto “il banchiere di Testaccio”. A marzo si sparge la voce che stia per tornare con Spinetto del Velez Sarsfield e Zanelli del River Plate. Ma sono dei diversivi. Il 19 aprile scrive una lettera al Littoriale e annuncia l'acquisto di Scopelli, Guaita e Stagnaro: sono i migliori sudamericani nel ruolo di mezzo destro, ala sinistra e centromediano. Guaita è un'ala robusta, dal calcio essenziale e meno teatrale. È considerato l'erede di Orsi, anche lui oriundo passato alla Juventus. Arrivano il 19 aprile alla stazione Termini, accolti dall'allenatore Lajos Kovacs, da Vincenzo Biancone e da Sacerdoti. Poi tutti, mogli comprese, a scattare foto alla fontana dell'Esedra, nella vicina piazza della Repubblica.

Debuttano in un'amichevole a Testaccio un mese e mezzo dopo. La Roma vince 4-3 sul Bayern, ma Guaita è il meno brillante dei nuovi acquisti. Ci mette poco, però, a farsi amare. Segna due gol alla Fiorentina a settembre e di fatto non smetterà più. Vittorio Pozzo non può ignorare le sue qualità. Nonostante abbia alle spalle due presenze nella nazionale argentina, lo convoca per Italia-Austria a Torino l'11 febbraio 1934. Dopo 28 minuti, siamo sotto 3-0. È proprio Guaita a guidare la reazione: si procura un rigore che poi trasforma e completa la doppietta su assist di Cesarini, il bomber degli ultimi minuti. L'Austria vince 4-2, Guaita è il nuovo idolo della Nazionale.

Due mesi dopo, è il 15 aprile del 1934, la Roma gioca in maglia nera contro il Genova (si chiamò così dal 1929 al 1945 in nome dell'autarchia del regime). Guaita si sposta al centro per l'infortunio di Balilla Lombardi e segna una tripletta. Poi, il 26 aprile, ne realizza quattro (di cui tre in cinque minuti) al Filadelfia contro il Torino. È per prestazioni come questa che a settembre, quando il Littoriale bandirà un concorso per scegliergli un soprannome, vincerà la proposta di Omero Renzi: Guaita diventa, e per sempre resterà, il “Corsaro nero”.

Pozzo lo convoca per i Mondiali in casa nel 1934. È lui a segnare la rete che piega il “Wunderteam” austriaco e vale la finale. Sarà sempre Guaita a fornire a Schiavio il pallone del 2-1 alla Cecoslovacchia. Il pallone che rende l'Italia campione del mondo per la prima volta nella sua storia. Qui, un’idea geniale di Pozzo nel finale della gara contro la Cecoslovacchia, col risultato fermo sulla parità, produce lo spostamento tra l’affaticato centravanti Schiavio e l’ala Guaita, che dopo pochi minuti riceve da Ferraris IV, lascia sul posto un avversario e porge la sfera all’accorrente Schiavio, abile a infilare da una decina di metri il gol del successo: 2-1. Guaita, scriverà Pozzo dopo la sua morte sul “Calcio e ciclismo illustrato”, "era un ambidestro di valore e sotto a rete era un opportunista della più bell’acqua: aveva il fiuto dell’occasione da rete, e sull’occasione stessa egli, colla sua notevolissima punta di velocità e col gran coraggio che lo contraddistingueva, piombava come un falco".

C'è nella sconfitta diventata leggendaria dei “leoni di Highbury” contro l'Inghilterra il 14 novembre 1934. Ha una contusione, si aggrega all'ultimo alla Roma in trasferta sul campo dell'Ambrosiana (il nome con cui allora si chiamava l'Inter) e firma il gol della vittoria. L'allenatore Barbesino lo sposta centravanti e Guaita segna 28 gol, un record rimasto imbattuto nei campionati a sedici squadre.

La Roma sogna lo scudetto del 1936 ma la fuga in Argentina rovina i piani della squadra che comunque chiuderà al secondo posto. Fa in tempo anche a indossare di nuovo la maglia della Nazionale, gioca le due partite decisive che permettono all'Albiceleste di vincere la Copa America del 1937. Il 9 aprile 1939, contro il San Lorenzo, gioca la sua ultima partita nel campionato argentino, per l'Estudiantes. Viene nominato direttore del carcere di Bahia Bianca, verrà licenziato e morirà di tumore, povero e dimenticato, nel maggio del 1959. Il suo pronipote, Leandro, come lui ha iniziato all'Estudiantes e come lui ha cercato fortuna in Italia e ha festeggiato nel 2018 la promozione in Serie C del Potenza. Una storia di famiglia alla ricerca di quella felicità che dentro uno stadio diventa speciale.

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