Wimbledon 1975: il trionfo di Arthur Ashe

Wimbledon 1975: il trionfo di Arthur Ashe

Il tennista di colore sconfigge Jimmy Connors in una finale tutta americana: una vittoria di enorme significato per l'epoca

Redazione Edipress

5 luglio 2019

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Il trionfo dell’intelligenza sulla forza. Una vittoria che ha fatto di un grande uomo, un grande campione. Arthur Ashe è cresciuto nell’America segregata in cui i neri potevano al massimo diventare giardinieri nei country club per bianchi. È pacifista, vicino a Martin Luther King, con un fratello che torna per due volte al fronte in Vietnam per permettergli di continuare la carriera. È il primo nero ad aver giocato a Johannesburg, nel Sudafrica dell'apartheid. Quando sfida Jimmy Connors nella cattedrale dei gesti bianchi, nella finale di Wimbledon, Nelson Mandela chiede una radio nel carcere di Robben Island per ascoltare la partita. È il 5 luglio 1975. Sta per iniziare la prima finale tutta americana a Wimbledon dal 1947. Una partita che nessuno potrà mai dimenticare.

Il confronto di stili e di personalità è totale. Lo sintetizza Joel Drucker nel suo memorabile “Jimmy Connors mi ha salvato la vita”. Ashe, racchetta di legno è stile pacato, è "Pete Seeger che canta(va) sommessamente 'This land is your land' accompagnato dalle chitarre acustiche. Connors era elettrico, un Bob Dylan che arriva al Newport Folk Festival (non lontano dalla Hall of Fame del tennis), collega la sua chitarra all’amplificatore e grida: 'How does it feel, to be on your own?'".

I due non si sopportano. Connors lo detesta soprattutto perché l'anno prima, da presidente dell'ATP, gli ha impedito di iscriversi al Roland Garros nel ’74 e gli ha così impedito di lottare per completare il Grande Slam. Connors era infatti iscritto al World Team Tennis, circuito americano a squadre miste: in una stagione di conflitto fra diverse organizzazioni, l'ATP ha stabilito di escludere dal Roland Garros i tennisti che decidono di farne parte.

Mamma Gloria e nonna Bertha crescono Connors con un'idea chiara: se vinci puoi permetterti tutto. Vincere vuol dire soprattutto fargliela vedere agli snob in bianco. Un senso di rivalsa proletaria per cui non esistono alleati, solo avversari: come ci si sente a contare solo su se stessi? Entra sul Centrale con un maglione Sergio Tacchini, con la cerniera sul davanti e i colori della bandiera italiana. Due settimane prima del torneo ha fatto causa a Ashe che, in una lettera all'ATP, l'aveva descritto come “insolente, arrogante, per niente patriottico”. Gli chiede 3 milioni di dollari (dopo il torneo la causa, insieme a un'altra all'ATP, verrà ritirata). Una partita di tennis è una foresta di simboli. Ashe lo sa e lo sfida. Entra sul Centrale con la felpa della nazionale di Coppa Davis, blu con vistosa scritta rossa “U.S.A.”. Più chiaro di così non avrebbe potuto essere.

Prima di calpestare i fili d'erba della cattedrale del tennis, attraversano la porta sormontata dai versi immortali di If, la poesia che Rudyard Kipling ha voluto dedicare a suo figlio: "If you can meet with Triumph and Disaster / And treat those two impostors just the same" (Se sai affrontare il Trionfo e la Rovina / E trattare questi due impostori allo stesso modo). Solo così, continua, diventerai un uomo.

Ashe le ha percorse tutte le strade per poter essere chiamato uomo. Nel torneo ha eliminato Bjorn Borg nei quarti e Tony Roche in semifinale. Ha passato la sera prima della finale con gli amici di sempre. C'è il suo manager Donald Dell, che ha reso Stan Smith famoso soprattutto per un paio di scarpe, ci sono il capitano di Coppa Davis Dennis Ralston, Eric Van Dillen, Marty Riessen e Charlie Pasarell, che gli suggerisce di cambiare, reinventare lo stile di gioco. Facile a dirsi prima della partita più importante della carriera. Passano la serata a sviscerare il gioco di Connors. Gli piace aprirsi il campo in diagonale, ma su una palla bassa l'approccio di dritto non è così efficace. Ashe sviluppa il piano: servire esterno, poi giocare basso e centrale, senza peso, senza ritmo.

Connors è in finale senza aver perso un set. Non è più fidanzato con Chris Evert: l'anno prima avevano vinto entrambi il titolo e “l'accoppiata dei piccioncini” aveva fatto impazzire tifosi e tabloid. Ma ha un segreto, di quelli da non dire. Durante il match di primo turno contro John Lloyd (futuro marito di Chris Evert), si è procurato un’infiammazione ai muscoli tibiali e uno strappo all’inguine. Il suo manager Bill Riordan, che Ashe detesta anche più di Connors, lo accompagna tutti i giorni alla sede del Chelsea per un ciclo di elettroterapia. La mattina della finale, il medico gli suggerisce addirittura di non giocare per non peggiorare le cose. Come l'abbia presa, possiamo solo immaginarlo.

Ashe racconterà anni dopo di essere sceso in campo sicuro di vincere. Al terzo game è già teatro. Connors mette lungo uno smash, il giudice di linea la chiama buona, l'arbitro però assegna il punto ad Ashe: 2-1. Da lì al 6-1 il passo è breve. "Come on, Connors" gli grida qualcuno nel primo set. "Ci sto provando, diamine" gli risponde. Ma non basta. In meno di tre quarti d'ora Ashe è avanti 6-1 6-1. "Non doveva andare così. Non dovrei essere in vantaggio di due set così presto - racconterà di aver pensato -. Non posso crederci".

Due set persi non sono sufficienti per abbattere la fiducia, la convinzione nei propri mezzi di un campione. Ashe poi devia dal piano che l’ha portato a maturare quel vantaggio e Jimbo si rimette in partita. Vince il terzo set e allunga 3-0 al quarto. Serve per portarsi 4-1, ma Ashe ha in mente l'ultimo colpo di scena. Torna a obbedire senza deviazioni creative alla strategia attentamente elaborata al tavolo del Westbury Hotel. Aumenta la percentuale di prime a costo di sacrificare la potenza, anche perché le palline che si usano a Wimbledon viaggiano di più nell'aria e Connors si appoggia meglio su una palla pesante e veloce.

Il controbreak del 3-2 rimette Ashe al centro della scena. In cammino verso il titolo, per la gloria, per la storia. Nell'ultimo game sul Centrale scende un'aura di inevitabilità. Per chiudere, gli basta il primo dei due match point: servizio a uscire e comoda volée di dritto. "Vincendo cinque degli ultimi sei game, emergendo con ispirazione e fiducia, Ashe ha completato una delle più straordinarie sorprese dell’era Open, superando Connors 6-1 6-1 5-7 6-4 con la prestazione più energicamente persuasiva della sua carriera", scrive Steve Flink nel suo libro che racconta le migliori partite di tennis di tutti i tempi.

Ashe si fa artefice di un progetto. La cerimonia di premiazione è gelida, i due nemmeno si guardano. "Sei sorpreso di aver vinto così facilmente? - chiedono ad Ashe -. Se sei un buon giocatore, non ti devi stupire se vinci senza difficoltà". Sottolinea poi che "il 70% degli errori di Connors sono arrivati con colpi finiti a metà rete. Non ha sbagliato in lunghezza. Per me vuol dire che ha avuto paura".

"Ma quale paura - commenta Jimbo -, gioco da troppo tempo perché mi succeda una cosa del genere. Per sconfiggermi un giocatore deve dare il massimo. Deve battermi lui, io non gli do una mano. E Ashe mi ha battuto. Oggi rimarca". È un momento storico. "Molte persone hanno continuato a dirmi che si ricordano esattamente cosa facevano quando hanno sentito per la prima volta che Ashe aveva vinto Wimbledon" dirà Dell negli anni Ottanta.

“Sm-Ashe-D” titola il giorno dopo il Telegraph. "Ashe ha firmato una delle più straordinarie vittorie tattiche che si siano viste a Wimbledon negli ultimi anni - scrive per il quotidiano britannico Henry Raven -. Ha astutamente contenuto Connors, consentendogli solo raramente di giocare alla velocità che predilige, variando il ritmo, usando il lob come mai prima e insistendo velenosamente con lo slice contro il rovescio mancino del più giovane avversario. (…) È stata una vittoria d'intelletto". Il trionfo dell'intelligenza sulla forza. La vittoria che ha trasformato un grande uomo in un grande campione.

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